mercoledì 30 luglio 2008

Sabato 26 e domenica 27 luglio 2008: sulle strade della Race Across The Alps. Primo giorno.

Un'ora di coda in tangenziale a Milano: non c'è che dire, questo fine settimana non comincia sotto i migliori auspici. Tutt'altro. Dobbiamo essere a Tovo S.Agata entro le 23, sono le 20 passate e tutto lascia presagire che ci toccherà star qui ancora un po'. Ivano frigge, e friggo anch'io che pure credo d'essere abituata più di lui alle lunghe trasferte in auto per andare a pedalare. Beh, c'è da dire che la mia Opel non ha l'autoradio, ma, con Ivano come passeggero, non ne sento proprio la mancanza.
Scampanellìo del telefonino, arriva un messaggio: "Certo che i Milanesi son proprio sfigati"; è Michelangelo, perso pure lui da qualche parte in questo mare di asfalto e lamiere e facce a metà tra esasperazione e rassegnazione. Non abbiamo potuto concentrare tre persone e tre bici su una sola auto; il povero Mik così è rimasto da solo. Sfigati, sì, stavo proprio commentando questo fatto: mi fa rabbrividire il pensiero di chi si sorbisce questo immane caos ogni santo giorno lavorativo della propria esistenza, code e rallentamenti all'andata, rallentamenti e code al ritorno, ma è vita? Non pensavo di incappare in un pasticcio del genere, il venerdì sera... Altrimenti, tempo perso per tempo perso, sarei passata da Piacenza!
Poi qualcosa si muove, avanziamo pian piano, direzione Venezia. Ovviamente non ho con me un atlante, ma mi par di ricordare vagamente che sia la strada giusta, almeno per esclusione: Como-Chiasso no, Tangenziale Ovest no, ergo Venezia deve essere giusto. Lo dico anche a Mik, con fare convintissimo; poi però mi vien da pensare, "Speriamo bene...". Ivano è titubante ma... Dovrà ricredersi! Usciamo a Cinisello Balsamo, poi da lì abbiamo ancora una mezza eternità di strada, verso Sondrio e poi da lì a Tirano e Tovo. Arriviamo a destinazione, all'Hotel Franca di Tovo, che son quasi le 23.30: scopriamo con sollievo che il titolare ci ha aspettati davvero. Tempo di parcheggiare la Opel, alla mia solita fantasiosa maniera (leggi, come occupare più posti possibile con una sola auto), ed ecco che arriva anche Mik: la coda ha annullato la mezz'oretta e più di vantaggio che Ivano ed io avevamo alla partenza. Porca paletta, non c'è niente da fare, 'sto ragazzo mi umilia anche in auto, non solo in bici!

Tutti a nanna, che domani la sveglia sarà impietosa. Ed anche il giro: Tovo, Mortirolo da Mazzo, rientro a Tovo, Tirano, Passo Bernina, La Punt, Passo Albula, Davos, Passo Flüela.
Ivano ed io la puntiamo presto assai, la sveglia, alle quattro e mezza, per essere in bici un'ora dopo. Mik ha già decretato che non ci pensa manco, e che partirà ben più tardi, in compagnia di Alex e Mario. Già, domani la faccenda sarà complicata: Alex e Mario partiranno da Edolo, saliranno all'Aprica, poi da lì a Tirano e Tovo, dove raccatteranno anche Mik, tra le 6.30 e le 7, per salire al Mortirolo; Claudio partirà sempre da Edolo ma per salire al Mortirolo da Monno. Ivano ed io, a quel punto, avremo già portato le nostre ruote sul colle, anzi, saremo già di ritorno verso Tovo. Io sono clamorosamente lenta rispetto al resto del gruppo; tutto ciò che posso fare, per non rallentare troppo la marcia degli altri, è partire prima, molto prima.

Non è il trillo antipatico del cellulare a svegliarmi, ma Ivano che è già operativo: meno male, una volta tanto un risveglio dolce, non di quelli che fan perdere due mesi di vita. Ci prepariamo alla svelta ed in silenzio, mentre Mik continua ostinato il suo letargo, scomparendo sotto le coperte. Quasi quasi non valeva nemmeno la pena di mettersi a nanna! Colazione, come sempre, molto equilibrata, a base di focaccia con gorgonzola e stracchino, una roba che digerirò più o meno in tempo per l'uscita ciclistica che farò fra due settimane, e succo di frutta fresco, una genialata a cui ha pensato Ivano, stracciando i gioielli di famiglia al povero albergatore, la sera prima, per ottenere la disponibilità del frigorifero del bar.

Per la prima salita, decidiamo di lasciare gli zaini in auto: tanto, ripasseremo di qua tra non molto. Detto, fatto: poco prima delle 5.30 siamo in sella. Tengo d'occhio il cielo: non è limpido, anzi; le nuvole che vedo non hanno affatto l'aspetto rassicurante. Però, mi sforzo di non pensarci: tanto, non cambia nulla, proprio nulla; il giro s'ha da fare e si farà!
E' proprio vero che la compagnia giusta può spianare anche le pendenze più cattive. Con Ivano succede proprio così: si chiacchiera, si ride, si litiga e intanto si va su senza troppo pensare alle rampe, ai tornanti feroci, alle gambe che un po' lamentano la partenza a freddo. Anzi, sembra quasi che le pendenze famigerate di questo colle, per oggi, si siano trasferite in vacanza altrove. E poi, a quest'ora mattutina, di traffico ce n'è ben poco, quasi nulla.
Uno dei tanti pregi di Ivano (uè non montarti la testa, mi raccomando, altrimenti estraggo la lista dei tuoi lati detestabili!) è di essere un narratore eccellente: quando parte col racconto di una storia, ti cattura e non ti lascia più scampo; tu non te ne accorgi nemmeno e sei già scivolato via in un altro mondo. E la storia può nascere in qualsiasi momento, da qualsiasi particolare, quello che tu, mente molto meno eclettica, non degneresti nemmeno di attenzione. Passiamo accanto ad un gruppo di minuscole casette in pietra, ce n'è una che all'interno avrà si e no un vano o due: "Che fortuna", penso io, "a far le pulizie in una casa così, ci si mette mezz'ora e via!". Lui no, lui ricorda invece un vecchio film per ragazzi, in cui un omino entra in una casetta che dall'esterno appare proprio come questa: piccola, piccolissima. Ma all'interno, oltre la porta d'ingresso, ci sono tre porte: l'omino apre prima quella di sinistra, oltre la quale compare una gigantesca piscina olimpionica; poi quella di destra, che nasconde un enorme stadio di calcio; poi quella centrale, che conduce all'abitazione vera e propria. L'indomani, l'inquadratura torna ad essere quella "da fuori": l'omino si chiude la porta della casetta che, vista così, continua ad essere la stessa minuscola del giorno prima. Bellissima immagine, e intanto io faccio almeno tre chilometri senza accorgermene!
Passiamo il tornante dedicato a Pantani, dove Ivano si ferma a far qualche foto. E poi l'inevitabile diatriba, io pro Pantani lui anti Pantani, io a favore dei ciclisti sempre e comunque, lui carnefice dei ciclisti dopati, e poi la storia di Ben Johnson, e gli animi si scaldano come le nostre schiene sotto i primi raggi più decisi del sole mattutino. Cavoli, ho bel di arrabbiarmi, ma non è facile contrastare l'abilità dialettica di quest'elemento pericoloso che mi viaggia al fianco! Riesce sempre, il dannato, a dir le cose in modo tale che sembra avere inevitabilmente ragione... Anche se io penso che non sia così! Uff, basta, mi arrendo, tanto ciascuno resta della propria idea, alla fine. E poi, soprattutto, siamo in cima, quindi bando alle ciance: tocca scendere!

Ivano va in esplorazione della discesa su Grosio. Io sento Alex al telefono; lui, Mario e Mik hanno percorso appena qualche km. Decido di scendere per la stessa strada da cui sono salita, nonostante il mio terrore delle pendenze, per incrociare la banda: infatti, parecchio più giù, mi trovo davanti Mik che sale con un'andatura impressionante e, nel contempo, con il suo stile inconfondibile, composto, che non lascia trapelare il minimo segno di fatica. Se non fosse che non sono in grado di staccare entrambe le mani dal manubrio, e che comunque sono in discesa e potrei fare una brutta fine, mi lancerei in un fragoroso applauso! E' talmente emozionante, per chi ama la salita, vedere un ciclista andar su così, che non riesco a trattenere l'entusiasmo; dopo il tornante, infatti, incrocio Alex all'inseguimento e gli strillo, "Ha un vantaggio mostruoso, non lo prendi più!!!". Mica male, come incoraggiamento...

Torno a Tovo ed all'auto, dove, poco dopo, arriva anche Ivano. Mezz'oretta di pausa, con tanto di caffè all'hotel dove abbiamo dormito la scorsa notte, prima di caricarci i bagagli a spalle e ripartire, destinazione Bernina. Scambio due chiacchiere con il titolare dell'albergo: mi racconta di due turisti francesi che sono stati da lui di recente, impegnati nella traversata dell'intero arco alpino a piedi. Che meraviglia! Mi rassicura anche sulle previsioni meteo; pare che oggi il cielo sarà velato, ma non cattivo. Speriamo.

Chiudo l'auto, si parte. Ho in spalla uno zaino che è il solito macigno: e dire che stavolta ho proprio cercato di essere parca con l'equipaggiamento... Guardo Ivano che ha fatto stare tutto nelle tasche e nella borsa a tracolla da tenere sulla schiena; boh, mistero della fede, io non so come sia possibile. Ho la giacca impermeabile, guanti invernali, un abito leggero per la sera ed i sandali, le luci con pile di ricambio – si sa mai che capiti di far notte – il telo termico, una giacca invernale, tanto tanto cibo, forse troppo, chissà. Diciamo, il minimo indispensabile per essere tranquilla. Guai se mai dovessi fare un viaggio di due settimane!

Ci leviamo alla svelta dal traffico di Tirano e passiamo indenni la dogana svizzera: già, perché Ivano ha i documenti scaduti, il furbacchione! Però a quanto pare i ciclisti non interessano agli austeri gendarmi. Mi armo di pazienza e cautela: è pur vero che questa salita è tutto fuorché temibile, per le pendenze, ma non bisogna dimenticare che tocca fare più o meno 30 km per arrivare fino in cima. In una parola, è logorante! Già, rifletto su questa innegabile verità, ignara di quanto logorata arriverò ad essere, molto prima di quanto immagini!
... e qui viene il bello... Costeggiamo il lago, poi riprendiamo la marcia in leggera salita. Nei dintorni di Poschiavo, in mezzo alla carreggiata stradale passano i binari del famoso trenino rosso: sono paralleli alla direzione di marcia in certi punti, attraversano la strada in diagonale in altri. Quale migliore occasione per movimentare un po' questa piatta giornata? Detto fatto, non me la lascio scappare. C'è un punto in cui i binari sono paralleli al marciapiede; per evitare di restare in centro strada, io devo per forza attraversarli e poi viaggiare tra binario e marciapiede. Mi allargo un po' verso sinistra, tipo curva di un TIR; assumo posa plastica in piedi sui pedali e punto decisa i binari per attraversarli di sbieco: oplà, le ruote si infilano entrambe nel secondo binario ed io prendo il volo. Incredibile, però, quante cose si riesca a pensare in quel rapidissimo momento in cui si precipita. Probabilmente non lo formulo con le parole, il pensiero, ma come concetto, sì, molto molto nitido: sento la bici che si pianta, mi dico "Ripara la testa!" e in un attimo atterro rovinosamente, metà sul marciapiede, con lo spigolo sotto l'ascella destra, metà sulla carreggiata. Testa salva, ma un dolore fortissimo al fianco ed al ginocchio che mi leva il fiato. Resto lì un secondo che mi pare un'eternità, con gli occhi chiusi, a respirare forte come se questo potesse aiutarmi ad alleviare il male; poi mi rotolo lentamente sul fianco sinitro, e nel frattempo intorno cresce il brusio, passi svelti, mani che si avvicinano, voci concitate accanto a me. Non so se sia più lo spavento o più la rabbia per la mia inestimabile idiozia: ecco, adesso ho rovinato il giro, magari anche la bici, ho rovinato tutto, a me ed agli altri. Mi volto, pur nella confusione, a cercare il conforto della presenza di Ivano; lo vedo accorrere e già mi sento un po' più sollevata. La gamba destra fa un male feroce, ma se non altro la muovo; è la mia prima preoccupazione, il femore, il ginocchio. Cerco di mettermi a sedere, ma la testa, che pure non ha nemmeno sfiorato il suolo, gira vorticosa. Mi sdraio appoggiandomi allo zaino, mentre Ivano gioca al piccolo chirurgo per levarmi i sassolini dalle ferite della mano sinistra: che dolore! Chiedo della bici, sta bene, è intera, meno male. Punto con ansia la strada, ho paura di veder spuntare da un attimo all'altro il resto della comitiva: se mi vedono qui sdraiata a terra, si prendono un coccolone secco tutti quanti! No, no, adesso basta; ok, la mia cretinata quotidiana l'ho fatta, adesso però bisogna sbrigarsi, ripartire, senza tante storie. Intera sono intera; spaventata anche, ma è proprio per questo che devo tirarmi su subito. Non provo nemmeno a scoprire il fianco su cui sono atterrata; qualsiasi cosa sia successo, lo vedrò stasera, in albergo.
Ivano vuole essere sicuro che io sia in grado di stare in piedi; se riparto, in questo istante, lo devo a lui: non solo e non tanto alla sua pur preziosissima assistenza materiale, quanto alla sua semplice presenza, alla premura con cui mi segue da qui in poi, senza farmi pesare la sua preoccupazione, ma sempre chiedendomi come va, come sto, se ho male. Sarà la più banale delle espressioni, ma a lui s'adatta perfettamente: è un burbero dal cuore d'oro, è una persona di cui ti puoi fidare nel momento del bisogno.

Continuo la salita, pian piano, pesta e dolorante e taciturna, un po' per gli acciacchi un po' per lo spavento che ancora non mi ha del tutto abbandonata. E penso a quel che suole dire una mia collega, "Nulla accade per caso". Io sono molto scettica, di solito, di fronte all'idea di voler trovare a tutti i costi un nesso tra cose che apparentemente non hanno legame; però stavolta non posso fare a meno di pensare ad un fatto accaduto nell'estate 2004 e che, all'epoca, ho vissuto come il peggior dramma possibile. All'improvviso, uno spostamento d'aria spazza via il pensiero: è Mik che ci ha raggiunti e va via in fuga verso il Bernina. Dietro di lui, Alex, Mario e Claudio, che invece rallentano l'andatura e scambiano quattro parole.
Che fatica, ragazzi. La gamba destra chiede pietà, il polso patisce la botta presa a braccio teso e non ne vuol sapere di stare sul manubrio; come cavolo faccio io a stare in bici oggi e domani? In più, la chiappa lesa assume le dimensioni e l'aspetto di una mezza noce di cocco. Complimenti Gian, sei proprio ben piazzata! Ma non c'è storia né scusa, bisogna andare avanti. Ogni tanto alzo gli occhi, il Bernina è lassù. Ormai ricordo a memoria metro dopo metro di questo stradone; un ristorante sulla destra, qualche tornante, un tratto dritto quasi pianeggiante che passa in mezzo ad un gruppo di case. La casa sulla cui facciata è scritto "S'oggi seren non è, diman seren sarà; se non sarà seren, si rasserenerà": già, vediamo pure di crederci, perché altrimenti sono dolori!

Il gruppo si sfilaccia; resto come al solito molto indietro, con il paziente Ivano a farmi da tutore, a distrarmi con i suoi racconti, questa è la volta della profia di francese alle medie, la classica zitellona inacidita. Sto soffrendo tantissimo, penso si veda: botta a parte, il Bernina mi fa sempre questo effetto. Poi, come se non bastasse, c'è un traffico dannato. Ma dico io, un povero ciclista non può nemmeno viaggiare a zig zag in mezzo alla strada, che subito qualcuno ha da ridire!
Alla dogana verso Livigno, so che manca poco. Ancora qualche tornante. L'ultimo km scorre in compagnia di Alex e Mario che sono scesi un po' per recuperarmi: ci separiamo sulla cima; Ivano, Mik, Claudio ed io proseguiamo in direzione Albula, mentre Alex e Mario tornano verso Livigno.
A me non importa molto della vetta, non ci tengo ad indugiare lì. Del resto, ogni salita salita perde qualsiasi interesse nel momento stesso in cui finisce; l'unica cosa da fare è andarne a cercare un'altra.
Parto in discesa, come al solito cerco di prendere un po' di vantaggio, di alleviare un po' ai miei compagni di viaggio la pena di aspettarmi in eterno sulla prossima cima. Questa non è una discesa, però: è quasi un lungo falsopiano, impone di pedalare per lunghi tratti, fin giù alla rotonda nei pressi di Pontresina. Qui mi devo fermare, un po' per levare la giacca, ma soprattutto per mangiare qualcosa: la fame mi sta tormentando. Di certo è un effetto solo psicologico, ma non c'è niente da fare, sento che braccia e gambe diventano "molli", sento la debolezza che mi assale. Apro il sacchetto della frutta secca, lo sbrano per metà. Ananas, prugne, melone, fichi, banane, cocco, tutto a pezzettini rinsecchiti e dolcissimi: che bontà!

Conclusa la breve pausa, mi avvio verso La Punt, non senza un po' di titubanza: che strano che il resto del branco non mi abbia ancora raggiunta; speriamo che sia tutto OK, la sfiga oggi dovrebbe aver già avuto il suo tributo, se si accontenta. Per fortuna, poco dopo, eccoli qui. Ivano ed io ci fermiamo ad una fontanella in paese: pieno alle borracce e, per me, una bella lavata alle mani mezze martoriate nella caduta, una sciacquata alla faccia appiccicaticcia di sudore, un po' di sollievo. Poi si riparte, destinazione Albula Pass.

Questa salita non fa paura: l'ho già percorsa due volte, e due volte ho avuto la sensazione che fosse finita in un attimo. Infatti è proprio così: la pendenza è severa nei primi km, che tagliano i prati e salgono a tornanti; poi però in un attimo si arriva a vedere il colle, si rilassano i garretti, si giunge al lungo rettilineo della cima, quasi senza accorgersene. Il tempo sembra voler tenere: ci sono qua e là un po' di nuvole, ma il sole pare ancora avere il comando della situazione.
Tutto vero, sulla carta non sto percorrendo un'ascesa temibile: però lo zaino comincia a farsi sentire, insieme allo sconforto che sempre mi prende un po', quando pedalo in compagnia. E' inevitabile; se sono da sola, so che non causo fastidio a nessuno, non rallento nessuno, e riesco io stessa ad essre soddisfatta del modo in cui salgo, a non sentire quasi la fatica. Però, se so che in cima c'è già qualcuno che mi aspetta, ne patisco; la preoccupazione si traduce in fiacca, doloretti che spuntano da ogni dove, sindrome di "Ma chi diavolo me l'ha fatto fare".
Quando arrivo davanti al bar/rifugio in cima, trovo i miei tre colleghi spaparanzati sul prato a godersi il calduccio ed a far merenda. Come sempre, però, non ne approfitto: mi infilo la giacca e giù in discesa. Orrenda, la discesa dell'Albula, per lo stato dell'asfalto: su in alto, pare di scendere sulle montagne russe, tant'è gibbosa la strada; più in basso, poi, ci sono crepe e buche talmente grandi che, se ci caschi dentro, non ti trovano più. Ovviamente, data la mia proverbiale maestria in discesa, tutto ciò mi rende felice: arrivo al fondo dopo due ere geologiche e mezza!

Altra sosta ad una meravigliosa fontana, poi alcuni km di saliscendi sotto la cappa di calore del fondovalle, e da lì attacchiamo la breve risalita che porta verso Davos. Una decina di km, forse meno, con quella pendenza odiosa che sembra che non salga ma su cui non si va avanti, e il caldo e la fame. Già, io a questo punto ho le visioni, le solite immancabili visioni di Coca Cola e yogurt. Al posto dei prati lindi, verdi e pettinati, vedo distese di gelato al cioccolato, frutta e schiuma di Coca! Non mi par vero di entrare in uno dei paeselli lungo la strada e vedere Claudio e Mik in attesa sotto l'insegna di un supermercato... Ma quanto li adoro, questi due, da uno a dieci? Non ci avrei sperato nemmeno per un momento, che mi fosse concessa questa tregua...
Ci precipitiamo alla ricerca di bibite e pappatoria, usciamo con ogni ben di Dio, non prima però che Ivano replichi al "Guten Morgen" della commessa con un sonoro "Salutam'assòreta" che quasi mi fa precipitare dagli scalini dell'uscita per le risate! Coca Cola, succo di frutta, bevanda di latte ed Ovomaltina – cosa che in Svizzera piace molto, e pure a me! - Mars o tarocco di Mars, merendine varie, chi più ne ha più ne metta.

Rinfrancata nel corpo e nello spirito, riparto un po' prima degli altri. Mentre salgo, mi accorgo dell'assurdità di quel che ho fatto: ho bramato per millemila km la Coca Cola, poi alla fine ne ho bevuta un sorso e me la son dimenticata. Incredibile, l'effetto placebo all'ennesima potenza: mi basta vedere la bottiglia, per placare la sete!

Il gruppo mi riprende ben prima della cima; Mik e Claudio mi sorpassano uno a destra l'altro a sinistra, suscitando in me un certo quale istinto omicida, ma di omicidio particolarmente efferato,. mentre Ivano... Beh lasciamo perdere, censura, però se solo quella zampa l'avesse appoggiata appena più a destra, sarebbe stato calciato a fondovalle senza ammenda, come reazione al dolore! Già, io me ne son quasi dimenticata, ma la chiappa è sempre gonfia, anzi, sempre di più! Non oso pensare all'ululato che lancerò stasera quando dovrò scollare i pantaloni dalla ferita...

La breve discesa si conclude dentro il tunnel gelido, ma gelido davvero: sono circa 2 km a temperatura siberiana, che già si avverte con una folata di tramontana pochi metri prima dell'ingresso. Ottimo invito a mulinare i pedali il più possibile, anche se non è facile, perché la pendenza tende a salire. Odiosamente!
Fuori dal tunnel trovo il solito Ivano che ha pietà di me e mi aspetta. Da qui a Davos c'è una decina di km di falsopiano: è un tratto che ricordo con terrore per averci sofferto moltissimo in entrambe le edizioni della RATA. Oggi no, non voglio soffrire: andrò piano quanto basta, pazienza. Anche se i nuvoloni che si stanno addensando proprio in direzione del nostro ultimo colle mi danno da pensare... Ma che posso fare? Nulla, se non sperare nella clemenza di Giove Pluvio ancora per qualche ora. Si procede chiacchierando: è sempre Ivano che dà lo spunto. Una volta è il racconto di un curioso colloquio in piemontese con un Giapponese a cui qualcuno aveva rubato dei bagagli. Un'altra volta è l'amico che non vuol più andare in Svizzera, impressionato dall'ordine, dalla pulizia, talmente esagerati che il poveretto si sente timoroso all'idea di toccare qualsiasi cosa. E l'ubriaco in Germania... Quasi quasi vorrei avere con me il lettore Mp3, registrare tutte queste cose, perché so che un giorno svaniranno dalla mia memoria e le rimpiangerò. La compagnia di Ivano è un po' come quella di un libro, solo che il libro prima o poi finisce; la sua narrazione, invece, no, non finisce, non annoia, mai.

A Davos ci buttiamo nel traffico cittadino. Giriamo a destra perché è di lì che son passata con la RATA, ma ben presto una deviazione ci riporta verso il centro del paese: è in corso una maratona! Ne vediamo gli ultimi baluardi in arrivo. Riceviamo poi un messaggio da Mik e Claudio: "Andiamo giù a cercare l'albergo". La logica conclusione è che siano già parecchio avanti a noi: meno male, almeno posso trascinarmi e languire lungo la salita del Flüela senza il patema di dover scollinare in fretta. Ed è proprio quel che faccio: agonizzo per tutta l'ascesa o quasi. Ormai sono le cinque del pomeriggio, pedalo già da parecchie ore; gli acciacchi si stanno pian piano risvegliando, la stanchezza la fa da padrone. Mi sforzo di concentrarmi, di risparmiare tutto il risparmiabile, di convincermi che tanto fin su devo andarci comunque. I nuvoloni sono ormai una preoccupante certezza: ecco, ci manca solo di prendere il temporale, così sono proprio contenta.
Ivano ora tace. Lo so, è colpa mia; tace perché ha capito che sono stanca, incavolata nera, insofferente, in una parola, in piena crisi. Vorrei fingere che non sia così, ma non ci riesco; questa è una crisi, di gambe e di testa, e come tale la devo trattare e risolvere, da sola. Mi chiudo nel mio mugugnoso silenzio e faccio scorrere i km sotto di me.
All'improvviso, voci alle mie spalle: sono Claudio e Mik! Ma come... Non erano avanti? Presto spiegato l'arcano: ci hanno attesi a Davos, ma, a causa della deviazione, ci hanno persi di vista. Ripartono, andranno subito giù verso Zernez a cercare una sistemazione per la notte. Intanto abbiamo raggiunto il punto in cui la valle si apre in mezzo ai prati. Cielo livido, vento, la pioggia non tarderà. Scruto in alto: nonostante sia la terza volta che passo di qui, la seconda in poco più di un mese, non riesco proprio a ricordare dove finisca esattamente la salita. Mi pare di vedere una strada lassù, ancora molto molto più in alto, contro il pendio a destra: ma non è possibile, lassù la quota dev'essere ben più di 2.300 m, e poi le auto che mi sorpassano qui non vanno fino là!
In effetti, questa volta la cima arriva ben prima di quanto mi aspetti. Comincia a piovere: Ivano ed io ci ripariamo sotto lo spiovente del tetto del rifugio, per vestirci, poi giù in discesa. Ormai non ho più forma umana: ho paura, anzi puro terrore, anche se è evidente che qui il grosso del temporale è già passato, a giudicare dalle pozze lungo la strada; l'asfalto è quasi asciutto, anzi, più giù è proprio asciutto alla perfezione, ma io non riesco più a contrastare la sensazione di paura, mancanza di equilibrio e di lucidità. Freno all'inverosimile: Ivano mi sorpassa ma ha la pietà di non insultarmi; forse ha percepito lo stato in cui sono.

Arrivo a Susch, a fine discesa, e non posso nascondere la mia gioia alla notizia che Mik e Claudio han trovato posto per la notte proprio lì, all'Hotel Flüela. Chiudiamo con circa 190 km e 5.300 m di dislivello. La mia sofferenza è finita! Pazienza se il cielo è ancora livido e minaccioso; ci penseremo domani. Scopro con sollievo che non sono ancora le sette e mezza; riusciremo a fare doccia, cena e persino un buon numero di ore di nanna.
Ci dividiamo le camere, Mik e Claudio da una parte, Ivano ed io dall'altra. Chiedo solo una doccia, nient'altro che una doccia: mi tocca raggiungere un compromesso tra la temperatura dell'acqua – io che adoro la doccia rovente in ogni stagione – ed il bruciore tremendo delle ferite, su cui devo trovare il coraggio di passare un bel po' di sapone. Cavoli quanto fanno male, per essere delle banali abrasioni!
Concludiamo la giornata a cena, serviti da una matrona che è svizzera almeno tanto quanto io sono svedese, chiacchierando del più e del meno: i miei compagni d'avventura si lanciano sui pizzoccheri; io, caso più unico che raro, su una pizza che per una volta non è Margherita bensì Tre Formaggi. E Coca Cola, e birra rubata ad Ivano: lo sapevo già che non mi piace!

L'ultima operazione della giornata, il pagamento della cena e della camera, ci pone di fronte a difficoltà insormontabili per i nostri cervelli ormai in deficit cronico di ossigeno: dopo esserci messi d'impegno per incasinare il più possibile i conti tra noi, rinunciamo a far quadrare il bilancio e ci ritiriamo ciascuno sotto il proprio meraviglioso piumone. Domani è un altro giorno, speriamo senza binari!!!

martedì 22 luglio 2008

Giro del Monviso - 20 luglio 2008

Ma per quanti km ci toccherà scarpinare oggi? Chi dice 53, chi 40, chi 38, insomma, siamo qui in partenza a Pian del Re e nessuno di noi tre – Roberto, Matteo ed io – ha la più pallida idea della lunghezza dell'itinerario che andremo a percorrere oggi. Pazienza, non importa: sono le cinque del mattino e c'è una luna splendida che fa capolino da dietro la vetta del Monviso. Il cielo è limpido, solo qualche nuvola qua e là a macchiare il cielo ancora nero della notte, anche se verso est si vede già qualche sfumatura di azzurro. Non fa nemmeno troppo freddo: e dire che siamo a quota 2000! Ci prepariamo con calma. Per me, pasta di Fissan sui piedi in quantità industriale, due paia di calze ed infine le scarpe, che, a dispetto di qualsiasi nefasta previsione, continuano a resistere nonostante i km ed i maltrattamenti. Guai a chi parla male dei prodotti di Decathlon, per giunta comprati in saldo! Matteo fa fuori la pastasciutta, Roberto sistema scarponi e bastoncini; nel giro di una decina di minuti, siamo pronti, si parte. Frontali accese, anche se quasi non servono più, e spirito allegro, anche troppo: qualcosa mi dice che gli abitanti delle tende e dei camper sistemati lì vicino al parcheggio non siano troppo entusiasti del nostro passaggio... Il giro del Monviso in una sola tappa ha inizio!



Roberto rintraccia, solo lui sa come, il sentiero che sale sulla sinistra del Pian del Re, verso il Rifugio Quintino Sella. Ci avviamo di gran carriera, godendoci lo spettacolo dell'alba in un cielo limpidissimo, da una parte, ed il maestoso Monviso, imponente, dall'altra. Che meraviglia... Roberto fa da Cicerone: credo che di quella montagna conosca ogni sassolino, che ci sia già salito in cima per ogni possibile ed immaginabile via. E mica solo il Monviso... Una per una, le conosce tutte, le vette qui intorno! Nella mia abissale ignoranza, non posso che ascoltare e camminare, mentre Matteo si informa sulle condizioni di una possibile ascesa lungo la via normale: chissà che tra un po' non torni da queste parti, stavolta per andare lassù! Per carità, io mi accontento di ammirare da sotto i paretoni, mentre cerco di stare dietro a Robi che è partito come un missile. L'avvio del sentiero è l'ideale per me che, in partenza, faccio sempre una gran fatica ad entrare "a regime": non troppo ripido, non particolarmente difficile, con qualche tratto in piano e poi un lungo tragitto su pietraia. Ci voltiamo verso valle, sta spuntando il sole, che meraviglia; il colore del Monviso cambia a seconda della luce, prima grigio, poi di un rosa che tinge prima la vetta e poi via via tutta la montagna, fin giù. E' d'obbligo qualche foto!

Dal sentiero si vede la strada asfaltata che congiunge Crissolo e Pian del Re e, lungo la strada, i fari di un'auto che sta salendo. Che sia Mik? Uhm, sì, potrebbe... Già, la gita in realtà prevede quattro partecipanti, non tre; solo che il quarto è l'essere più refrattario alla sveglia che io abbia mai conosciuto: di partire con noi alle cinque non ne ha proprio voluto sapere; ha sentenziato che sarebbe partito con suo comodo, tanto poi ci avrebbe ripresi. Ahimè, verissimo, ci riprenderà in fretta! E qui l'invidia strisciante che mi rode sta già dando i suoi frutti: propongo a Matteo di procurare un po' di vernice bianca e rossa e spennellare le rocce in giro per la pietraia, in modo da rendere ardua l'impresa di chi voglia trovare la giusta traccia... Più sadico di me, Matteo aveva del resto già pensato di partire per il giro al contrario, molto lentamente, senza ovviamente informare di questo il nostro pigerrimo compagno di viaggio! Povero Mik, mi sa che gli fischiano le orecchie, e non è colpa della quota...

Tra una risata e l'altra, quasi non mi accorgo di essere ormai nei pressi del rifugio. Ho tribolato un po' sulla pietraia, per colpa della mia cronica instabilità, ma gambe e fiato stanno benissimo. Robi, che si lamentava tanto di non essere allenato, ha fatto una gran galoppata fin qui: del resto, lui la montagna ce l'ha nel DNA e non saranno certo quei mesi di stop, a cui ha dovuto suo malgrado rassegnarsi, a creargli problemi. Al Lago Grande di Viso, ecco che spunta il rifugio: mentre Robi e Matteo si fermano per qualche foto, io tiro dritto verso la struttura, dove mi sembra di intravedere un certo movimento. Poi sento dei passi veloci avvicinarsi alle mie spalle, di corsa: "E allora, siete ancora qui?". Eccolo qua, il quarto elemento... Pazzesco! Se penso che noi tre siamo arrivati al rifugio in un'ora e tre quarti, quindi tutto fuorché piano, e lui è partito mezz'ora abbondante dopo... Un fulmine! Ed è qui, fresco come una rosa, mannaggia a lui!



Al rifugio, ancora qualche foto al mare di nuvole che copre la pianura, poi via, in marcia, verso il Passo San Chiaffredo. Anche qui, niente pendenze estreme; si chiacchiera, più che altro si sghignazza alla grande, in fila indiana dietro a Roberto che fa sempre da apripista, con passo invidiabile: mamma mia, spero solo di reggere fino alla fine! Per ora sto benissimo, ma non devo dimenticare che sto viaggiando insieme a tre elementi pericolosi, molto ma molto più allenati e resistenti di me!

Piccola deviazione e dieci minuti di pausa al Bivacco Bertoglio. Che bella struttura! Confesso che mi piacerebbe passare qui una notte, qui o in un qualsiasi bivacco dove potermi svegliare a metà della notte ed ammirare la miriade di stelle che dalla pianura non si possono nemmeno immaginare. Chi sbafa panini, chi la pastasciutta, chi scatta fotografie: da una parte, fermarmi durante un'escursione mi dà un po' fastidio, visto che mi riesce molto meglio mantenere un'andatura magari non troppo veloce ma costante; però, dall'altra, questi brevi momenti di relax sono piacevolissimi, creano una specie di complicità nel gruppo... Peccato solo che, guardando nella direzione che dobbiamo seguire noi, si veda una distesa di nuvoloni scuri che non lasciano presagire proprio nulla di buono: la coltre è compatta ed il vento tira proprio verso di noi. Ahi ahi... Mi sa che oggi la prendiamo, la pioggia.



Ci attende una lunga discesa, fino al congiungimento con il sentiero che va al Rifugio Vallanta: un calvario, per me che in discesa sono proprio una rovina. Il primo tratto, ripido e su pietraia, è un disastro: scendo esasperatamente piano, come sempre inciampo un passo sì a l'altro pure. Robi e Matteo restano nei paraggi, a farmi da custodi, mentre Mik schizza via come una biglia impazzita: pochi minuti e sparisce alla vista. Intanto i nuvoloni si avvicinano veloci. Finalmente, dopo la pietraia, ci attende un pianoro: proprio lì, comodamente seduto su una pietra, c'è Mik fermo in paziente attesa. Ci buttiamo attraverso uno splendido bosco, ricco di pini che devono avere alle spalle una storia davvero infinita: ce n'è uno, enorme, con un tronco che le braccia aperte di Robi non bastano a cingere per metà.
Cadono le prime gocce, mentre scendiamo un po' più spediti verso il fondovalle: finalmente il mio calvario sta per finire... O no? Cavoli, il sentiero si conclude con un torrente da attraversare passando sopra ad un'asse di legno... Panico!!! Per un attimo guardo giù, sperando di scorgere una possibilità di passaggio sulle rocce in mezzo alla corrente, ma no, niente... Mi tocca proprio passare di lì! Mi sforzo di mettere coraggio, salgo sull'asse, ma a metà mi prende il terrore! Mi sforzo di buttarla sul ridere, ma il capogiro è già in agguato; lo so, sono a meno di due metri di altezza, ma ho paura... Poi, con due balzi arrivo, tra l'ilarità generale, all'altra sponda del torrente. Mi ci vorranno dieci minuti buoni per calmare il batticuore.

Il cielo ormai non ha più pazienza; pochi minuti di risalita ed ecco i primi goccioloni. Ed anche i guai: Roberto ha un gran male alla gamba sinistra; è costretto, suo malgrado, a rallentare il passo. Il sentiero copre un lungo tratto facile, talvolta in piano, fino al rifugio; dopo qualche incertezza, pioggia ed asciutto, alla fine le nuvole prendono la chiara decisione di buttar giù acqua a secchi. Mik e Matteo ci stanno aspettando; li spedisco al Vallanta, in modo che possano evitare di finire alluvionati, almeno loro che ce la fanno ad andar forte, e rimango insieme a Roberto, incurante del fatto che lui mi esorti ad andar via. A parte il fatto che non è che io abbia tutta 'sta forza per scappare, non ci penso nemmeno, a lasciarlo da solo! E' vero, Robi non ha certo bisogno di aiuto, tantomeno da me che sono la prima ad andare in crisi nei momenti di difficoltà; se la caverebbe senza dubbio, e poi il rifugio è lassù, sulla destra, si vede già da un po'. Però, a parti invertite, lui non mi mollerebbe di certo... E, per esperienza, quando si è nei guai, grandi e piccoli, è sempre d'aiuto sapere che c'è qualcuno vicino!



Man mano che ci avviciniamo al rifugio, la pioggia si fa più intensa ed accompagnata da forti raffiche di vento. Che goduria per le mie gambe ignude... Bella idiozia ho fatto, a fidarmi delle previsioni meteo e non portare nemmeno un paio di pantaloni lunghi! Confesso che comincio ad essere seriamente preoccupata: ma tanto ormai non c'è molta scelta; per tornare alle auto bisogna per forza proseguire! Per fortuna, al rifugio trovo chi mi fa passare i pensieri cupi... Proprio all'ingresso del locale, sotto la tettoia, c'è un meraviglioso enorme San Bernardo, che, se non è un quintale di peso, ci si avvicina molto. Ovviamente non posso trattenermi dal buttarmi addosso a lui e seppellirlo sotto una valanga di coccole, che il bestione pare gradire molto: saprò poi a sera, da mia sorella, che il cucciolone si chiama Beethoven. Ha delle zampone grosse come la mia mano ed un tartufone nero lucido... Un po' mi sopporta, poi si scoccia, si alza e va ad imboscarsi altrove, dove spera che io non possa raggiungerlo.
Siamo titubanti: entriamo a prendere qualcosa di caldo, oppure approfittiamo del fatto che sembra stia un po' spiovendo e ci ributtiamo in marcia? Alla fine scegliamo la seconda opzione. Ci vestiamo un po' meglio: io aggiungo, sotto la giacca impermeabile, una felpa. Di già che ho i pantaloni cortissimi, almeno cerco di non prender freddo al tronco!

Via, adiòs Beethoven, si riparte! Insieme a noi, lascia il rifugio un gruppo di altri tre escursionisti, che però ci lasciamo rapidamente alle spalle. Matteo e Mik spariscono subito; spero che mettano buonsenso e, una volta in cima, filino via diretti al Refuge Monviso. Robi ed io restiamo un po' più indietro. Continua a piovere, anche se il diluvio s'è un po' attenuato. Deve avere un gran male alla gamba, Roberto, ma non molla mai; pian piano, vien su anche lui, fino al Colle di Vallanta, che arriva molto prima di quanto mi aspettassi. E qui la sorpresa: appena prima del colle, c'è Matteo che ci aspetta. Ha già percorso un tratto di discesa, ma poi, preoccupato per i nevai, è tornato su ad attenderci. Da una parte mi spiace che stia prendendo un sacco di freddo per "colpa" mia... Dall'altra, però, non posso fare a meno di sorridere e ringraziarlo di cuore, anche se ciò che vorrei dire resta incastrato in gola, senza trovar la strada per uscire. E' un momento, solo un breve momento che però non dimenticherò tanto presto: ancora una volta, Matteo dimostra qui la sua grande superiorità non solo fisica e di allenamento, ma nell'altruismo e nel senso di responsabilità. Non so se riesco esattamente a spiegare ciò che intendo dire, ma, insomma, anziché filare via ed andarsi a riparare e riscaldare un po' al rifugio, s'è preso la briga di aggiungere dislivello, tornare su a raccattare me e Roberto, poi scortarci lungo tutto il tratto di discesa sui nevai, preoccupandosi delle nostre difficoltà, il male alla gamba per Roberto, la cronica incapacità e mancanza di equilibrio per me, facendoci strada senza mai far pesare il suo aiuto. Tra un nevaio e l'altro, mi vien da pensare che, se fossi qui da sola, avrei a quest'ora una paura nera, anche se immotivata; invece, con Matteo e Roberto, mi sento in una botte di ferro. L'importanza di avere vicino persone di cui mi fido: e non capita spesso, dato il mio carattere, che mi fidi ciecamente di qualcuno!

Con la discesa, si conclude anche la breve tregua concessa dalla pioggia. Qualche timido raggio di sole ci aveva illusi: ogni sprazzo di sereno viene rapidamente chiuso dalla cappa di nuvoloni grigi, e giù altra acqua. Finito il tratto rischioso, Matteo accelera e va al rifugio; io attendo Roberto, che poverello ha perso il poncho e deve rifarsi un bel pezzo di salita per andarlo a recuperare. Quando siamo ad una decina di minuti dal rifugio, si aprono le cateratte del cielo: così, alla soglia del Refuge Monviso arriviamo dinuovo completamente zuppi! Beh, almeno i nostri due compari l'hanno scampata. Facciamo una pausa con una cioccolata calda e provviste varie che abbiamo di scorta: maremma maialona, ma nemmeno la cioccolata san fare, 'sti Francesi! E' latte caldo con un po' di cacao... Vabbè, pazienza, non mi sento di lamentarmi più di tanto. Poco fa, mentre scarpinavo sotto il diluvio, ho cominciato a sentire brividi ovunque; l'importante adesso è avere tra le mani ed in gola qualcosa di caldo. Intanto, tra una battuta e l'altra, guardo fuori e vedo che, anche stavolta, il temporale sembra voler prendere un momento di respiro. Robi ed io ci droghiamo di antiinfiammatori: lui per la sua gamba, io per un dolore all'anca che rompe le scatole già da un po', anche se non crea grossi problemi, almeno per ora, alla camminata. Anzi, fa male ben più da ferma che quando mi muovo. Poi via verso l'ultima ascesa, le Traversette: da qui a su, circa 500 m di dislivello che i due missili della comitica si mangiano in meno di tre quarti d'ora. Robi ed io, come al solito, a ruota.



Il sentiero è bellissimo, un po' più ripido dei precedenti; sulla mia testa vedo solo una selva di piccole cime e non riesco a capire quale direzione toccherà prendere: all'improvviso, però, sulla destra, lassù in alto, compare una sella che deve per forza essere il colle; infatti, vedo, appena sotto, due puntini colorati che sono Mik e Matteo in dirittura d'arrivo. Manca poco ormai! E naturalmente riprende a diluviare, con l'accompagnamento di un ventaccio violento e gelido. Vedo però con piacere che Robi sta recuperando terreno: forse l'antiinfiammatorio ha fatto effetto!
Quando sono a pochi metri dall'impennata finale del sentiero, ecco Matteo che scende un po'. Constatiamo che nessuno dei due è riuscito ad individuare l'entrata del Buco di Viso... Ma io sento delle voci vicine, non siamo noi, quindi i casi sono due: o patisco strani effetti della quota... Oppure c'è altra gente qui nei paraggi, che non si vede! Infatti, un attimo dopo, dalla montagna spuntano due persone: ecco, bell'e scovato il Buco di Viso! Matteo e Robi decidono di passar da lì, mentre io preferisco raggiungere Mik sul colle, qualche decina di metri più in alto. A dire il vero, quando arrivo su, non lo vedo: boh, avrà iniziato la discesa; mi avvio anch'io. Invece no, si era solo imboscato per ripararsi dal gelo: eccolo dietro di me!
La prima parte della discesa mi fa davvero paura, anche se cerco, per un minimo di dignità, di dissimulare il terrore. Si vede il baratro da entrambi i lati del sentiero: devo fare uno sforzo per tenere gli occhi fissi sui miei piedi, altrimenti, se guardo giù, sento di perdere subito l'equilibrio. E qui non è proprio consigliabile!
Immancabilmente, Matteo giunge al recupero, salendo un po' dopo essere uscito dalla galleria. Mik fila via alla velocità della luce; io me la prendo, per forza, ben più calma, soprattutto nei punti in cui la discesa è più ripida: poco da fare, non sono proprio capace! Alla pioggia adesso si aggiunge la nebbia: incontriamo un gruppo di escursionisti che sale, non li invidio proprio per niente! Non posso dire d'essere stanca, tutt'altro, ma stufa di freddo e di pioggia, questo sì! Per fortuna, man mano che la pendenza si attenua, anche la tensione che mi son portata addosso finora si allevia. Pian del Re ormai è vicino, non manca molto: tre quarti d'ora, mezz'ora, pochi minuti... Verso il termine della discesa, Matteo parte e dà almeno un po' di sfogo alle gambe che da chissà quanto gli chiedevano di correre; il mio ritmo abituale di marcia non è certo il suo... Chissà quanto frigge ad andare così! Anche se non lo ammette. Ecco il parcheggio, ecco Mik che si è già cambiato e credo abbia già messo la muffa nell'attesa. Io sogno solo una cosa: il caldo della Multipla!!! Come al solito, sono stata imprevidente anche nel bagaglio di ricambio: ho portato una maglietta ma non una giacca. Meno male che ci pensa Robi, che mi presta un caldissimo pile! E non ho manco un paio di pantaloni di ricambio... Quindi mi tocca tenermi quelli fradici! Ma che testa di legno che sono. Pazienza: missione compiuta, ce l'abbiamo fatta, siamo più o meno integri dopo dodici ore in cammino – tempo netto, penso un po' meno di undici per me e Roberto. Si torna a casa, con la voglia, almeno per me, di riprovare un'altra volta, ora che so cosa mi aspetta, e vedere che tempo riuscirei a fare in una bella giornata di sole. La troverò, prima o poi, una giornata di sole?

[Le foto sono di Michelangelo!]

lunedì 21 luglio 2008

Gran Trail Valdigne - 12/13 luglio 2008

Fino a qualche giorno fa, non avevo ben realizzato il fatto che avrei dovuto affrontare 87 km e 5000 mt di dislivello in mezzo ai monti. Sono iscritta ormai da mesi, ma non ci ho mai seriamente pensato; le corse in bici hanno monopolizzato tutta la mia attenzione fino allo scorso fine settimana. Adesso però tocca preoccuparsi almeno un minimo: è venerdì sera ed io non ho ancora preparato nulla. In fretta e furia, mi collego al sito del trail per verificare l'elenco delle cose da avere obbligatoriamente nello zaino; altrettanto in fretta, raccatto il telo di sopravvivenza, la benda elastica, il fischietto, le pile, la bandana, ed è un miracolo che riesca a trovar tutto nel caos ignobile che regna a casa mia. Intanto metto sul fuoco in cucina un po' di pasta che mi servirà da colazione domani mattina, cioè tra poche ore. Ecco, il modo peggiore di avvicinarsi ad un trail che costerà una notte insonne in viaggio: dormire poco, troppo poco, le notti prima. Questa settimana mi sono svegliata tre volte alle quattro per strappare un paio d'ore di bici al mattino; stasera a letto alle 23; domattina sveglia alle 4...

...ma è meno traumatico di quel che pensassi. Ho disseminato tre sveglie per casa, per essere ben sicura di riuscire ad alzarmi, ma, al primo trillo della radiosveglia sul comodino, schizzo in piedi. Mangio le penne al pomodoro riscaldate, butto tutto il bagaglio in macchina, parto destinazione Courmayeur. E poi, in viaggio, ripasso tra me e me le componenti del mio equipaggiamento: operazione perfettamente inutile, visto che sarebbe comunque troppo tardi per rimediare, se anche avessi dimenticato qualcosa. Felpa e giacca Windstopper per la notte, giacca GoreTex per la pioggia, pantaloni impermeabili da sci, guanti invernali, fascia per le orecchie, bandana, guanti da cucina, luci e batterie di ricambio, documenti, pappatoria: ci sono i ristori, ma non mi fido; scoprirò poi che ho fatto bene! Panini al formaggio, frutta secca, gelatine di frutta, miele. Medicinali vari: per il mal di pancia, per il mal di gambe, per la febbre.

A Carmagnola il cielo non è così minaccioso, ma, avvicinandomi alla Val d'Aosta, vedo che la questione si fa sempre più spinosa: nuvole color del piombo, fulmini, infine pioggia, anzi diluvio. Pochi km e non piove più, poi ricomincia, e così via, fino a Courmayeur, dove arrivo dopo un'ora e cinquanta di viaggio. Il classico paesello per turisti: lindo e curato come una bomboniera, ma a me non piace per niente. La disposizione d'animo non è delle migliori: mi sa che prenderemo acqua per tutto il viaggio; questo non pare proprio un temporale passeggero, anzi. Raggiungo il centro sportivo con l'agitazione che cresce; c'è pochissima gente adesso in giro: la maggior parte degli atleti ha ritirato il pacco gara ieri, probabilmente. Qualche problemuccio c'è: la conferma di partecipazione che ho ricevuto via mail, mi ricordo, ma non ho stampato; il certificato medico che manca, eppure ricordo d'averlo inviato – ma sono tesserata Fidal, ce l'ho per forza!
Quattro passi in paese, poi torno in auto ed inizio i preparativi, sforzandomi di star calma e tranquilla per non dimenticare nulla di fondamentale. Pasta di Fissan a palate sui piedi prima di infilare due paia di calze; pieno alle borracce con acqua in cui ieri sera ho sciolto una buona dose di miele. Piove. Il movimento di atleti ed accompagnatori, nel parcheggio, si fa frenetico. Guardo con disappunto gli zaini altrui: sono piccolissimi, in confronto al mio che è enorme e pesa quanto un macigno! Di certo ne sanno più loro di me, che in questo sport sono novellina... Ma come fanno a mettere in quei microzainetti tutto l'occorrente per la notte? Mah, forse sono tutti fenomeni, la notte non la vedranno neppure, saranno di ritorno qui a Courmayeur stasera stessa, beati loro.
Infilo i pantaloni impermeabili sopra quelli lunghi da corsa, la giacca impermeabile e mi avvio verso la partenza, sotto la pioggia: dal parcheggio del centro sportivo al centro del paese, lo zaino già mi tortura le spalle. Cominciamo bene!

Mancano tre quarti d'ora al via; ci sono già parecchi concorrenti, nascosti però sotto i portici, gli spioventi dei tetti, i gazebo, insomma qualsiasi rifugio per evitare di essere già fradici al momento della partenza. Io mi siedo sui gradini d'ingresso di un negozio di sport e me ne sto un po' in disparte, anche se sono in mezzo alla folla. Mi sento un pesce fuor d'acqua, intorno a me tanti muscoli scolpiti, corpi magri e scattanti, volti sicuri e sorridenti nonostante la pioggia. Tantissimi indossano solo una maglietta e pantaloncini corti, stanno lì sotto l'acqua, quasi fossero impermeabili ed insensibili al freddo, con i loro minuscoli zainetti che contengono... Nulla, e cosa possono contenere, piccoli come sono? Non ho parole, mi domando come sia possibile anche solo pensare di poter partire così, privi di qualsiasi genere di equipaggiamento, o quasi. O forse quegli zainetti hanno il doppio fondo? Per fortuna, un po' mi consolo, quando incrocio, di tanto in tanto, qualche sguardo spaesato come immagino sia il mio. Accanto a me, un giovanotto robusto, in tenuta da gara, in compagnia di una donna, non so davvero dire se madre o moglie, che continua a far la menagramo; non appena il ragazzo si allontana, ecco che questa tizia attacca a parlar con altre menagramo par suo: "Non ha allenamento, non capisco cosa faccia qui, non è la sua gara, è troppo grosso e pesante, speriamo che si ritiri"... Le infilerei una scarpa in gola, se non mi servisse per correre! Ma guarda tu, invece di infondergli un po' di coraggio, di dargli un po' di conforto, a 'sto poverello...

Le nove e mezza, ormai la piccola piazza centrale è gremita di gente, atleti, familiari e semplici curiosi. Non ci credo... C'è anche l'immancabile giapu!!! Un Giapponese sorridente ed entusiasta, accompagnato da tre fanciulle, gasato come non mai, continua a saltellare da un angolo all'altro ed a fotografare tutto ma proprio tutto. Che personaggio, che viaggio s'è fatto per venire fin qui! E pensare che io abito a due ore di auto e non sono mai stata a Courmayeur.
La tensione sale. Mangio un panino, perché la pasta che ho mangiato alle quattro è ormai un ricordo sbiadito. Andiamo bene: non sono ancora partita ed ho già fame! Forse dovrei fare un po' di riscaldamento, come tanti altri, ma non mi va di muovermi dalla tana che mi sono scavata qui sugli scalini. Da qua posso osservare, rimanere un po' in disparte, come se fossi una spettatrice dietro uno schermo. Quanto trambusto intorno, eppure mi sembra che tutto ciò non mi riguardi. Come sempre in questi momenti, mi sento al posto sbagliato nel momento sbagliato, anzi, mi sento come se qualcuno mi avesse portata qui al via di un'avventura che non ho idea di cosa mi riserverà. Sì, in fondo, di questa corsa che sta per partire, io conosco solo due numeri, 87 per i km e 5000 circa per il dislivello, ma non so nulla circa i luoghi che attraverserò, i tipi di sentiero, le pendenze, la dislocazione dei soccorsi e dei ristori, nulla. Ho giusto guardato, di sfuggita, il numeretto che, sull'altimetria, corrisponde alla cima più alta: in base a quel numeretto lì, che poi è circa 2.600 m, ho scelto cosa mettere nello zaino. Troppa roba, è evidente, ci ho messo, come sempre, troppo carico che userò solo in minima parte, ma che mi massacrerà le spalle finché riuscirò a marciare. Pazienza: almeno ho la certezza che non patirò il freddo.

Come un automa, mi alzo e seguo la massa che sta pian piano aggregandosi in mezzo alla via. Mancano pochi minuti, continua a piovere. Lo speaker parla ancora, ma non ho prestato attenzione ad una sola parola, troppo occupata come sono a guardarmi intorno, guardare gli altri corridori e scrutare il loro bagaglio, alla ricerca di chissà quale segreto o semplice accorgimento da poter copiare la prossima volta che parteciperò ad un trail. E piove, senza sosta.

Quasi non mi accorgo del momento in cui si parte: l'avvio, con mia grandissima sorpresa, è molto soft. Mi aspettavo una partenza da pazzi, un branco multicolore impazzito in fuga: nulla di tutto ciò. Tra gli applausi degli spettatori, partiamo al passo, camminata svelta ma tranquilla; pochi accennano a correre, pochissimi. Sono senza parole, piacevolissimamente meravigliata: mi ero già preparata ad essere travolta ed abbandonata subito in mezzo al nulla, ma non è così. Il passo è sostenuto, ma per ora si sopporta, anche se, dal primo istante, è tutta una lotta tra me e me per trattenermi: "Piano, Gian, piano, che è dannatamente lunga...". Alzo il naso, vedo, sotto una cappa di nuvole, quella che credo sia la base del massiccio del Monte Bianco con il suo ghiacciaio; dico "credo" perché la mia ignoranza geografica è abissale, ma non è che si possa veder molto altro di qua... In un lampo, mi tornano in mente le immagini della vicenda narrata in un meraviglioso e tragico libro che ho letto tempo fa, "Naufragio sul Monte Bianco" di Yves Ballu, mi sembra quasi di poter vedere per un attimo lassù quei due poveri ragazzi, i resti dell'elicottero partito per soccorrerli ma precipitato lì vicino. Ne ho letti tanti, libri di vicende di montagna, scroccati dalla biblioteca di mia sorella Stefania, appassionata montanara; ma nessuno mi si è stampato in mente in modo indelebile come quello.

Il percorso comincia con un breve tratto su asfalto, per poi entrare nel bosco, con una salita subito secca ed impegnativa. Non vorrei, ma finisco come al solito per tirare troppo: ho un gruppo di tre corridori con poncho davanti a me; li ho presi come lepri, perché hanno tenuto finora un'andatura adatta a me, ma adesso fatico a star loro dietro. Mi ripeto che non devo esagerare, ma finisco subito, come sempre, in affanno, un po' perché all'inizio fatico sempre molto a "carburare", un po' per il timore di rallentare chi mi sta dietro, visto che il sentiero è molto stretto e rende ardui i sorpassi. Piove e piove, siamo appena partiti e già si cammina nel fango: un po' come il primo trail che ho provato l'anno scorso, Le Porte di Pietra... Ma non me l'aveva detto nessuno che i trail devono essere per forza tutti così!
Dal bosco si esce poi lungo un tratto di sentiero in costa, con saliscendi che danno un po' di respiro alle gambe già indurite dalla salita. Lo so, ho già esagerato, ma che potevo fare? Se già qui mi faccio lasciare indietro proprio da tutti, finisco proprio ultima! In teoria, me ne dovrei infischiare, perché so benissimo che pagherò questo sforzo; però, cerco di ingannarmi pensando che poi, in discesa, mi riprenderò un poco.
Il sentiero si impenna infine in un canale – spero di non aver usato un termine improprio, ma è ciò che mi sembra quest'ultimo tratto che precede il primo colle: lungo e molto duro, affrontato ancora in gruppo, e per fortuna che ogni tanto la coda si ferma per l'intasamento causato da qualcuno che, qualche posizione più avanti, ha problemi con la forte pendenza. Non sono la sola a tirare un sospiro di sollievo in questi istanti! E pazienza se ogni tanto rischio di beccarmi la punta di qualche bastoncino in faccia... Io non li uso, i bastoncini: forse sarebbe opportuno, visto anche il carico di zaino che mi sto portando appresso, ma in fondo preferisco aver le mani libere, vista la mia spiacevole abitudine di inciamparmi una volta sì e l'altra pure, ad ogni piè sospinto.
Mi accorgo con un po' di soddisfazione che dietro di me c'è ancora parecchia gente: beh, in salita me la cavicchio abbastanza; è in discesa, che sono dolori!

I primi 1.200 m di dislivello se ne vanno in un paio d'ore, tempo che impiego a sbucare ai 2.670 m del Colle Liconi, da cui si gode la vista di un meraviglioso lago. Ed è già un po' che ha smesso di piovere. Un breve tratto di falsopiano lungo il lago mi permette di mangiare un panino e di accorgermi, mio malgrado, che tanti avversari che avevo lasciato indietro stanno già recuperando terreno. Quando poi la discesa si fa seria, è il tracollo: mi passano tutti ma proprio tutti, saltando come camosci laddove io devo studiare con attenzione ogni singolo passo e, ciononostante, scivolo ed incespico di continuo. Provo a scendere un po' più spedita del solito: so che l'unico risultato che otterrò è di sfasciarmi le gambe, ma mi sento di far così adesso. Qualche raggio di sole, troppa grazia, permette di godersi un po' di panorama, anche se io davvero non riesco ad apprezzarlo, presa come sono dal mio percorso. Laggiù, nel pianoro, c'è il primo ristoro. Quando ci sono ormai vicina, mi passa il mitico Giapu, che sprizza felicità da tutti i pori; mi dice, in un buon italiano, che in salita è morto (anzi, moLto, dice proprio così!), ma in discesa va forte, ed è vero! Munito di macchina fotografica, si ferma di continuo ed immortala qualsiasi cosa.
Al banchetto del ristoro, acqua, the caldo ma soprattutto la mia adorata Coca Cola. Me ne scolo qualche bicchiere, poi mi levo la giacca impermeabile e l'appendo allo zaino perché asciughi un po'. Sempre sotto un bel sole, riprendo la marcia. Lunghi tratti di falsopiano e blanda salita, verso luoghi a cui proprio non sarei in grado di dare un nome, in parte su strada carrozzabile, in parte su sentiero; non c'è più la folla adesso: molti mi hanno passata in discesa e sono già avanti, lontani; altri mi sorpassano in questo tratto e scompaiono avanti. Purtroppo, la discesa ed il piano sono degli handicap per me, la prima perché proprio non son capace, il secondo perché non mi azzardo a correre, se so di avere ancora decine di km davanti, e quindi perdo terreno.
Al km 18, altro ristoro, questa volta con pappatoria: siamo a Planaval. Riempo la borraccia, mangio un po' di formaggio e di frutta secca, meno di quel che dovrei, ma proprio non riesco. I volontari sono, come sempre, gentilissimi e pieni di incoraggiamenti per tutti. Passo il chip sul lettore, è il controllo; poi mi avvio verso la seconda salita. Attraverso un lungo pianoro e cerco di capire come stanno le mie gambe; credo che la camminata tranquilla faccia loro bene, perché non si lamentano più di tanto. Certo che lo zaino pesa... Il sole scalda ancora la testa, per fortuna. La pendenza sale gradatamente, fino poi ad impennarsi lungo un'altra specie di canale: qui si sale con difficoltà; qualche volta uso le mani; però, commetto un'altra volta l'errore di lasciarmi prendere dall'entusiasmo per il fatto che i concorrenti partiti più o meno con me dal ristoro, qui, restano quasi tutti indietro. Mi sforzo di fare passi molto brevi e ravvicinati, anche se, come sempre, rischio di dare una nasata contro il sentiero ad ogni secondo: vedo lassù la fine dello strappo duro, sempre più vicina, stringo i denti e continuo a salite. Sarà la seconda cima? Boh, difficile dirlo, visto che non so a che quota mi trovo, né quanti km ho percorso sinora, e nemmeno a quanti km dal via si trovi quella cima. Di cui ovviamente ignoro anche il nome. Boh, mi dico, non importa. Tanto, se c'è ancora da salire, devo salire, altrimenti devo scendere, non ha importanza quanto e per dove.
La rampa finisce effettivamente nel punto che ho visto da sotto; segue un lunghissimo falsopiano su una strada carrozzabile, un po' di discesa fino al ristoro idrico di Tramail Les Ors, dove prendo un po' di the caldo. Poi la salita riprende, anche se sarà breve: la cima si vede, evidente, poco più in alto. Qui faccio conoscenza con un simpatico Cuneese, Isacco, anche lui ciclista prestato all'escursionismo, come me: non a caso indossa una maglia bianca a pois rossi!

La breve parentesi di sole sta per chiudersi, mi sa. Il cielo è diventato minacciosamente scuro ed il colore livido delle nubi sta mangiandosi pian piano tutto il blu. Nel giro di poco, il cielo è sparito; a dieci minuti dalla vetta, ecco il ritorno della pioggia. Tuoni, fulmini & fulminacci proprio mentre salgo sulla cima rocciosa di Punta Fetita. Confesso che ho paura: vedo intorno a me gente che non batte ciglio, si ferma lì in punta e con calma scava nello zaino, ma io ho solo voglia di filare giù il più in fretta possibile, via dal cuore del temporale. Non so se davvero i fulmini siano così minacciosi come si sente dire di solito, ma, nel dubbio, meglio sparire! Purtroppo, c'è ancora un lungo tratto di su e giù da percorrere sui prati: talvolta ho difficoltà ad individuare il tracciato segnato dalle bandierine, abbastanza distanti l'una dall'altra, soprattutto per colpa degli occhiali bagnati. Del resto, se li levassi, vedrei ancor meno! Un brivido mi percorre la schiena: e se qui venisse su la nebbia? Adiòs, non avrei più la minima idea della traccia da seguire!

Ahimè, la discesa vera arriva: da una parte è un sollievo, perché mi allontana dai fulmini, dall'altra però è un vero calvario: primo, per il fango che mi rende ancor più grama la vita già grama assai per me su questo terreno; secondo, perché questa discesa è lunga, lunghissima, interminabile. E qui mi piomba addosso, puntuale, lo sconforto. All'inizio, mi supera un po' di gente, schizzando via ad una velocità che io nemmeno posso immaginare, mentre io fatico a stare in piedi e scendo davvero a passo molto lento. Poi non arriva più nessuno: per un tempo che mi sembra infinito, scendo in totale solitudine, senza più vedere anima viva intorno a me. Ecco, lo sapevo, sono già sola, già ultima. Scendendo così, non arriverò mai in tempo al cancello di Morgex, mai, e poi comunque, se anche ci arrivassi, sarei l'ultima ultimissima... Continua a diluviare, fitto fitto, senza tregua. Scivolo nel fango, non riesco a fare presa, rischio di cadere ad ogni passo, e poi sono sola, delusa, demoralizzata. Non so quanto ancora mi attenda di discesa, non so quanti km ho già fatto, non so che ora sia, non so nulla: condizione, questa, che di norma mi permette di stare tranquilla e fare il mio passo senza preoccupazioni, ma che, in questo particolare momento, mi mette addosso ansia su ansia. All'improvviso, mi compaiono davanti i tetti in lose di una piccola borgata: si sentono delle voci; immensa sorpresa, è il ristoro di Charvaz. Che sollievo, quasi non ci credo. Proprio io, che di solito sono orso al punto tale da cercare, per quanto possibile, l'isolamento dai miei simili, mi scopro immensamente contenta di vedere finalmente qualche anima amica, dopo chissà quanto tempo, a me è parsa un'eternità. Coca Cola e the caldo, poi ancora discesa verso Morgex: mancano, da qui, circa 9 km. Scendo per altri 4 km circa: dalla vetta a La Salle, dove la strada torna orizzontale, mi sono sciroppata 1.600 m di dislivello in discesa! Ecco, m'è parso di vivere un incubo, ma effettivamente un motivo c'era...

Non sono ancora convinta di poter arrivare entro le 21 a Morgex, ma tiro avanti, al mio passo. Brevissima sosta al ristoro di La Salle, poi 5 km tutti in piano e leggera discesa verso Morgex, attraverso varie borgate. Penso e ripenso, guardo il cielo: ha smesso di piovere, si sta facendo sera; le nuvole però non promettono niente di buono. Mi sforzo di usare quei km tranquilli per calmarmi, cacciare via i pensieri negativi, riposare un po' le gambe, ma non ci riesco. Ho un solo chiodo in testa: e se stanotte il meteo continua a restare così? Che faccio? Purtroppo, nell'interminabile discesa che mi sono appena lasciata alle spalle, ho perso una quantità di tempo ignobile. A La Salle mi han detto che dietro di me ci sono ancora circa 50 persone: molte, però, mi stanno superando in questo tratto; le altre resteranno tagliate fuori dal cancello orario delle 21, quindi, in parole povere, finirò per essere davvero l'ultima o quasi. Che faccio? Mi ritiro a Morgex o vado su? Spunta anche un bellissimo arcobaleno sulla valle... Ma in me cresce la paura, anche se non so bene di che cosa. Non ho mai affrontato una notte su sentiero; se vado avanti, mi troverò presto al buio, con il maltempo, in quota. E probabilmente, anzi di certo, da sola. Un'incognita. Sì, vero, di notti in bici ne ho passate tante, ormai; però la bici da corsa va su strada; in caso di problemi, alla peggio si gira indietro, si torna a valle, magari molto piano ma si va; in caso di guai, ci si può sempre far recuperare, in casi estremi, da un'auto o – facciamo le corna – da un'ambulanza. E poi, insomma, la bici è ormai un prolungamento di me; non mi fa paura, non più, e comunque penso d'essere in grado di cavarmela più o meno sempre. Qui però è tutto diverso. Sono su sentiero; se capitasse che per la pioggia non vedo le bandierine, sbaglio strada, o, peggio, mi faccio male? E poi, si tratta di procedere nel fango per chissà quante ore, senza nemmeno veder bene; sono proprio sicura?

Mentre così ragiono, arrivo a Morgex e decido che è meglio chiudere qui, senza andare a caccia di guai. Sì sì, meglio ritirarsi qui, un posto comodo. Ho percorso 44 km in più di dieci ore, un disastro, non ha mica senso continuare. Però... E' più forte di me, ho deciso ma in realtà non ho deciso nulla; mi trovo al controllo, in un secondo devo scegliere se dire basta o tirare avanti: passo il chip sul sensore, mi fiondo nel tendone, sbrano un piatto di pasta perché ormai la fame è tanta, poi riparto. Sono le 20.45. Mi incammino lungo un sentiero pianeggiante, mi riprende la paura, più forte che mai. Il terrore di andare incontro a qualcosa che non so, non conosco e nemmeno immagino. Le gambe trottano bene, ma il cuore batte forte forte, e non per la fatica. Penso che sarebbe meglio lasciar perdere; più di una volta la tentazione di tornare giù a Morgex è fortissima, quasi mi fa girare i tacchi. Se continuo ancora, mi troverò a non poter più ridiscendere indietro, perché il punto di assistenza, dopo il cancello orario, chiuderà e verrà probabilmente smantellato. Chissà se potrò ancora ritirarmi più avanti, se ci sarà ancora la possibilità di essere caricati su qualche veicolo e riportati a Courmayeur? Qui, ahimé, la mia abitudine di viaggiare allo sbaraglio mi fa stare male, malissimo, ma è del tutto senza senso. Se solo sapessi un po' di più di questa corsa, sarei anche consapevole dei punti di "salvezza". Soprattutto, saprei che, al seguito dell'ultimo concorrente in gara, c'è sempre la "scopa", un corridore che fa parte dell'organizzazione e controlla che nessuno resti disperso. Infatti, salendo di buon passo verso Pre St Didier, incontro un atleta che corre spedito in senso contrario; mi chiede come va, rispondo sinceramente che ho una gran paura: "Tranquilla", mi dice, "vai su, non preoccuparti, ci sono sempre io dietro, seguo l'ultimo corridore". Questo incontro mi leva un peso enorme dal cuore... Sorrido, un po' più gasata, pur conservando tutti i miei dubbi che riguardano me stessa, le mie capacità di continuare in questa situazione. E piove, continua dannatamente a piovere.

Salita blanda e falsopiano, in breve raggiungo Pre St Didier, insieme ad altri due compagni di sventura, un signore che è angosciatissimo all'idea di non essere in tempo per il cancello orario delle 3.30 a La Thuile ed un Francese visibilmente provato dalla fatica. Per me, l'idea di giungere in tempo a La Thuile è ormai un miraggio: sono le 22.30 adesso; da qui a laggiù, dicono gli assistenti del controllo di Pre St Didier, ci sono cinque ore buone di marcia spedita. Già: ma per quanto io mi senta ancora abbastanza bene, si tratterebbe di coprire un percorso di 18 km ed un dislivello in salita di 1.300 m marciando nel fango che già mi sta rendendo la vita sempre più complicata, di notte e con un passaggio sotto la pioggia a quota 2.300 m. Per quanto mi sforzi di immaginarlo, non riesco a capire come potrei arrangiarmi. Chissà: magari sarebbe facilissimo, tutto tranquillo, nessun problema. O magari no...

A Pre St Didier mi dicono che c'è ancora possibilità di ritirarsi all'ostello di Arpy, 6 km e 600 m più in alto. Lì toccherà prendere la decisione definitiva. OK. Ho ancora una via di fuga: per quel che mi costa, tantovale provare. Mi metto in cammino di buon passo, lungo un sentiero abbastanza ripido che è ormai un pantano: per quanto mi sforzi, fatico a starci in piedi, a spingere. Soprattutto, ho enormi difficoltà di vista: è ormai buio; la frontale fa il suo onesto lavoro, ma gli occhiali sono bagnati. Vedo poco e male; peggio che mai se provo a toglierli, gli occhiali. Ho difficoltà ad individuare le bandierine. Il sentiero si innesta poi su una strada carrozzabile, che sale con pendenza più dolce. La pioggia, anziché mollare, si fa via via più intensa, spazzando via i miei ultimi dubbi.

Mi dispiace. Sto bene; certo, la stanchezza comincia a farsi sentire, ma non ho ancora male alle gambe, non ho freddo. Però non me la sento di andare ancora avanti. Davvero, non so cosa potrei fare se solo mi capitasse di avere un problema, sia esso fisico o di crisi, di paura;; inoltre, a quota 2.300 con questo tempo e nel mezzo della notte, rischio di gelare, sul serio! E se si mettesse a nevicare? Lo so, c'è la scopa, c'è l'assistenza, il soccorso: ma che senso ha, rischiare così tanto? Oltretutto, con la certezza che a La Thuile in tempo, con queste difficoltà, non arriverò mai? Non è da me fare questo genere di ragionamenti; di solito, io son quella che ci prova a tutti i costi; però, stavolta, è un rischio per me ed un bel problema anche per chi dovesse disgraziatamente venire a soccorrermi.
Dopo 5 km da Pre St Didier, trovo un gazebo con alcuni volontari, a cui chiedo quanto manca al punto in cui ci si può ritirare. Potrei anche fermarmi qui e farmi poi portar da loro a quel punto; ma no, non se ne parla, vado su con i miei piedi, tantopiù che manca un solo km. L'ultimo km che davvero abbatte anche il più piccolo dei dubbi rimasti. Il tracciato abbandona la carrozzabile e va su in mezzo al bosco lungo un sentiero che ormai è solo scivolosissimo ed appiccicoso fango: per quel misero km, impiego un'eternità, incespicando di continuo, senza neppure riuscire a veder bene dove metto i piedi, per colpa degli occhiali bagnati, o meglio, della mia miopia. Quando finalmente vedo la luce della camionetta dei volontari, che segnala la frazione ove c'è l'ostello che fa da ricovero per il punto di ristoro, quasi tiro un sospiro di sollievo. E' vero, sto gettando la spugna: ma proprio non riesco a rammaricarmene, sono stufa di pioggia, freddo, fango, cadute. Guardo con un po' di invidia ed ammirazione due concorrenti che si stanno avviando proprio adesso verso il Colle Croce, poi guardo la strada sotto i loro piedi, che va avanti e finisce inghiottita nel buio, e penso che no, per quello non sono ancora pronta. Non questa volta.

E' quasi mezzanotte quando entro all'ostello. Mi accolgono i sorrisi di conforto dei volontari e quelli tristi di altri compagni già fermi da qualche tempo. I complimenti di rito, "E' stata comunque un'impresa", qualcosa di caldo da bere, una maglia asciutta, una coperta. Poi, in attesa del furgoncino che caricherà noi anime dolenti e ci porterà a Courmayeur, arriva il Francese che era con me a Pre St Didier: ormai è matematico, non ce la farà mai ad arrivare a La Thuile, anche perché, riferisce la "scopa", sta procedendo con immensa fatica e si ferma ogni momento. Ciononostante, vuole a tutti i costi continuare, suscitando il comprensibile fastidio dei volontari presenti: c'è gente, lungo il percorso, che dovrà aspettarlo per un tempo indefinito; c'è la "scopa" che dovrà stargli dietro per nulla. Penso tra me e me, è più o meno quel che avrei causato io se avessi deciso di insistere. No, stavolta è meglio così. Son pur sempre 55 km e circa 3.000 m di dislivello in salita che metto in saccoccia, tutta esperienza che servirà per il futuro.

Il furgoncino mi scarica a Courmayeur, proprio di fronte alla mia auto, alle 2. Nonostante il sonno, decido di mettermi subito in autostrada: pochi km e son già ferma in autogrill per dormire un po', onde evitare un sicuro schianto. Pochi minuti, mi sveglio, provo a ripartire: la Opel però non ci pensa nemmeno, a riavviarsi... Che fare? Uhm... Non è che ci sia molta scelta: tantovale rimettersi a dormire e rinviare il problema di qualche ora, quando riaprirà l'autogrill. Magari un meccanico ci sarà... Così faccio, perché il sonno è tale che vince anche le preoccupazioni: in fondo, sono sveglia da quasi 24 ore e non è che me ne sia stata proprio in panciolle. Mi risveglio in preda ai brividi dopo un altro po': giro la chiave, stavolta è quella buona, si riparte. Il viaggio verso casa è abbastanza breve, meno di due ore, ma è uno sforzo immane per restare sveglia e più o meno vigile. Nulla possono due lattine di Red Bull. Passo la giornata ingloriosamente a dormire ed a vegetare come uno zombie: non molto onorevole, ma sono uno straccio...

domenica 13 luglio 2008

5 luglio 2008 - La Marmotte

Ci vado, non ci vado, ci vado? Sono stata titubante per tutta la settimana. Strano, non è da me anche la sola idea di rinunciare ad una granfondo, però quest'anno sono già stata un po' dappertutto ed ho provato avventure che mettono quasi un po' in ombra le tradizionali corse da un giorno. Non voglio essere presuntuosa, ma è un dato di fatto; adesso come adesso, finire una Marmotte, a meno di guasti meccanici o problemi di salute imprevedibili, non è più un'impresa; è un obiettivo sicuro per me. Forse per questo, ha perso un po' di quel fascino e di quel potere di attrazione che aveva fino a qualche anno fa.

Poi però il Galibier e l'Alpe d'Huez vincono qualsiasi incertezza. Bando agli indugi, si va. Infatti venerdì sera sono in campeggio, a pochi km da Le Bourg d'Oisans in direzione Grenoble, dopo aver ritirato il numero di gara su all'Alpe. Bellissimo, questo campeggio: piccolo, tranquillo, pulito, gestito da un personaggio che parla un perfetto inglese. Niente locali notturni rumorosi, niente schiamazzi di marmocchi. Uhm, troppo bello per essere vero, ci dev'essere qualcosa che non va! E non tardo a scoprirlo: grazie alla mia incrollabile abitudine di indossare pantaloni o gonne ascellari, mi ritrovo in un battibaleno preda di un esercito di zanzare Dracula. Porcaccia miseria, la prossima volta mi porto il DDT! E non è finita: presto scopro che, oltre alle zanzare, ad infestare il campeggio ci sono anche tanti, tantissimi lumaconi che non tardano a dedicarsi al free climbing sulla mia tenda!!! Nonostante la mia posizione di convinta animalista, in questi momenti avrei l'impulso di sterminare sistematicamente ogni forma di vita attorno alla mia piazzola...
Anche stavolta, come sempre, sono partita da casa in fretta e furia ed in modo del tutto disorganizzato. Un campeggiatore degno di questo nome viaggerebbe con pentole, pignatte, fornellino, un tappetino da mettere all'ingresso della tenda... Io niente, ho giusto la tenda ed il sacco a pelo, qualche pezzo di focaccia, qualche Muffin ed una bottiglia di Coca Cola comprati poco prima al supermercato. Come alimentazione pre gara non è il massimo, ma mi accontento... Non è ancora buio e sono già a nanna.

L'indomani la sveglia suona alle cinque e mezza. Ho dormito poco e male per via del freddo – portarmi un pigiama pesante sarebbe stata un'idea troppo intelligente perché potessi elaborarla io! Metto il naso fuori controvoglia: il cielo è chiaro, limpido; le cime dei monti sono già illuminate. Colazione veloce a Mars e Coca Cola, anche qui in pieno stile corridore. Poi scarico la bici e, per caso, butto l'occhio al copertone posteriore: la linea nera centrale, in un punto, fa una specie di "S"; passando le dita sui bordi della ruota, si sente un rigonfiamento. E questa roba che diavolo è? Ohibò... E' vero, adesso che ci penso, è già qualche giorno che ho l'impressione che la ruota posteriore "saltelli" un po', come quando si viaggia su asfalto irregolare. Ma è sempre così, quando ho un problema meccanico: mentre sono in giro, mi riprometto di arrivare a casa e controllare, ma il pensiero si dissolve irrimediabilmente non appena infilo la chiave nella serratura del cancello. E mo' che faccio? Cambio il copertoncino o lascio perdere? La mia pigrizia genetica fa sì che io scelga la seconda opzione. In fondo, ho fatto tanti km con la ruota in questa condizione; penso di poterne fare ancora 180!

Detto ciò, mi avvio verso Le Bourg d'Oisans con la mia ruota oscillante. Nelle griglie di partenza c'è già mezzo mondo: quelli che, come me, si sono iscritti all'ultimo secondo sono nell'ultimissimo settore, in fondo, derelitti. Mi trovo in griglia con Franco, Matteo, Claudio e Pietro: bene, visto che per noi la partenza sarà tra un paio di secoli, almeno si chiacchiera! Parlando del più e del meno, accenno alla condizione del mio copertoncino: la cosa suscita la profonda indignazione di Matteo, che, senza possibilità di replica, si mette lì, mi ruba la ruota e fa opera di meccanico. Io viaggio quasi sempre con un copertoncino di scorta, che prontamente viene piazzato al posto di quello danneggiato. L'operazione avviene sotto gli sguardi a metà tra l'interrogativo ed il divertito dei colleghi di griglia; anche se io sono lì con il cuore in gola per la paura di non fare in tempo, prima del via, scopro che Matteo è più veloce dei meccanici di Formula 1! In un battibaleno mi ritrovo con la ruota bell'e a posto, persino gonfia al punto giusto, cosa che difficilmente si ottiene con le pompette portatili. Anche se mi resta un timore di fondo: se il copertone s'era ridotto in quello stato, doveva esserci una ragione; secondo me, la sua sostituzione non risolve affatto il problema... Comunque, ormai son qui e non ci posso fare niente. La prossima volta mi farò furba e ci penserò prima. Forse...

L'attesa per il via è ancora eterna. Partono le prime griglie, partono quelle avanti a noi; quando tocca finalmente a noi, i primi saranno già sul Glandon! Bah: in altri tempi, avrei già dato di matto un po' di volte per l'impazienza, ma oggi proprio la cosa non mi tange. Quando finalmente arriva il momento del via, si parte come accade di solito in questa granfondo – e, in generale, a questo tipo di manifestazioni che non si svolgoni in Italia: calma e gesso, passo da gita turistica, nessuna esasperazione, nessuno che tenti di passar sulle orecchie a chi lo precede.
Cinque o sei km di pianura, poi si svolta a destra per il Glandon. Sono circa le otto, splende il sole, fa caldo. Due rampe per superare la prima diga, ancora un po' di saliscendi, poi inizia la vera e propria salita, poco più di 20 km alla vetta. Il Glandon non è un'ascesa difficile, tutt'altro; a tratti con pendenze cattive, pochi e brevi, alterna lunghi tratti in cui dà respiro. Come al solito, però, io fatico ad avviare il motore: dico a Pietro di andare su con il suo passo, mentre metto il rapportino da carro funebre e mi rassegno a soffrire. Benché fossi nell'ultima griglia, mi trovo in mezzo ad un mare di gente, ai ciclisti più strani, chi vestito ed equipaggiato da vero prò, chi sembra capitato lì per caso con bici improbabili ed altrettanto improbabile vestiario. C'è ancora il fiato per le chiacchiere, gente che discute in ogni lingua: è questo il bello della Marmotte!
Salgo piano fino al primo paese: da lì, la strada spiana e poi scende di un centinaio di metri fino al fiume, in un paesaggio che ogni volta mi impressiona per quant'è spettrale. Dal fiume, poi, una lunga rampa con pendenza sostenuta riporta su alla quota precedente: ogni volta c'è qualcuno che, all'attacco della risalita, è costretto a fermarsi perché s'è dimenticato di levare il padellone... Un po' di tappo, un po' di fiatone, poi si riparte con il ritmo di prima. Da qui in poi, la strada è ancora lunga, una decina di km, ma senza più strappi. Il caldo si sente sempre più: sto bevendo come una spugna! Vorrei anche mangiare, ma per ora non ci riesco; mi accontento di un po' di miele del sacchetto Ambrosoli. Sto faticando parecchio: anche qui, forse colpa della stanchezza accumulata nelle varie avventure delle settimane scorse; son passati sei giorni dalla Super Rando, ma mi sa che gli effetti si fanno ancora sentire! Poi c'è anche un po' di preoccupazione: la ruota posteriore, come pensavo, non è affatto a posto; qualcosa di strano ce l'ha. Ma non posso fare altro che pedalare, almeno per ora, e sperare che tenga.

Dopo la seconda diga, che si supera con alcuni tornanti, ed il tratto lungo il lago, breve discesa e poi ultimi 3 km prima della cima. Su al Glandon c'è folla di turisti e familiari al seguito dei ciclisti; applausi ed incoraggiamenti a volontà, per tutti! Trovo anche Pietro, che ha voluto aspettarmi: mi spiace che perda del tempo per me! E' andato davvero forte, mi ha staccata di diversi minuti.
Sul colle si crea un bell'ingorgo. Mi avvicino ai tavoli del ristoro dalla mia parte, a destra, per riempire la borraccia, ma le bottiglie sono tutte vuote: con un po' di stizza, rinuncio, troverò acqua giù in discesa. Riparto subito per evitare di perdere tempo; Pietro mi affianca e mi sorpassa. Appena un km dopo il colle, dopo un tornante, rilancio e subito sento un botto violentissimo: faccio appena in tempo ad abbassare gli occhi ed a vedere il copertoncino posteriore saltato via dalla ruota. La bici sbanda a destra e sinistra: non so per quale strano caso, visto che di norma non so a quale freno corrisponda ciascuna leva, riesco ad impugnare quella giusta, quella del freno anteriore, e con molta cautela tento di rallentare. Non è per merito mio ma solo per fortuna sfacciata che non sbatto una craniata per terra: la bici si ferma a pochi cm dal bordo strada, cioè da un bel salto da cui non sarei riemersa troppo bene. Lì per lì, ho l'impressione che il copertoncino si sia tagliato; mi assale lo sconforto, significherebbe la fine della mia gara. Poi guardo meglio, no, è integro. Non appena mi passa la tremarella per lo spavento, cerco di darmi una mossa e cambiare la camera d'aria: per fortuna ne ho due. Vedo gli altri concorrenti sfilarmi accanto a grappoli e mi sforzo di non farmi prendere dall'ansia: lo so, che finirò a fondovalle sola solissima, ma non c'è nulla da fare, inutile angosciarsi. Dai Gian, calma, è sempre solo una gara. Adesso cambi, gonfi e via. Non ho la pompetta con me, ma solo le bombolette, che tra l'altro, piccolo particolare irrilevante, non ho mai usato. Chissà come si fa? La necessità aguzza l'ingegno; inserisco la bomboletta nel "rubinetto" e quest'ultimo a contatto con la valvola della camera d'aria, apro la bomboletta e via, in un attimo la gomma è gonfia. O meglio, non è certo gonfia com'era in partenza, ma non mi fido ad aggiungere ancora pressione: non so che cavolo abbia 'sta ruota, ma non la vedo affatto bene!
Raccolgo le levette, mi metto addosso la camera d'aria come si faceva una volta, incrociata sulla schiena, e via. Peccato che 'sta maledetta ruota sia quanto mai instabile ed in curva scivoli a destra ed a manca: mi tocca scendere pianissimo, molto più di quanto la mia incapacità cronica mi porti a fare di norma. Vorrei controllarmi ed essere razionale, ma ho una rabbia addosso infinita... Intorno a me ci sono ormai gli ultimi baluardi della granfondo. Una cosa, però, non posso fare a meno di notare: è la quantità abnorme di ciclisti fermi a cambiar la camera d'aria a bordo strada, in particolare all'inizio della discesa, ma poi anche più avanti. Decisamente troppa gente, perché sia solo colpa del caso. Nessuno mi toglie dalla testa che su quella strada sia stato sparso qualcosa, puntine o chiodi o simili, "anti-ciclista". Anche se non mi fermo a controllare ed anche se, visto che siamo in Francia, sarebbe una forma di ostilità verso lo sport del tutto insolita.

Dopo un'eternità di tempo e mille difficoltà in ogni curva, giungo finalmente al termine della discesa. Mi attende il pezzo che temo di più, oltre venti km di piattume sullo stradone che conduce a St Michel de Maurienne, all'attacco del Telegraphe. Qui soffro come un cane, non riesco a tenere una ruota manco a morire, arranco, mi arrabbio, pian piano scivolo via da ogni gruppo a cui tenti di aggrapparmi. All'improvviso vedo Pietro che riparte da bordo strada: fantastico... Un raggio di luce in questo abisso di incavolatura! Ha forato anche lui. Ripartiamo insieme, io con più entusiasmo, confortata dalla presenza amica. St Michel finalmente arriva; nella piazza centrale, c'è un affollamento di ciclisti che approfittano dell'idrante per scacciare la calura. Ce n'è un altro più avanti, dove ci fermiamo anche noi prima di affrontare i 12 km della salita al Telegraphe. Sono solo 12, mai duri, ma molto regolari; non concedono un solo attimo di respiro. A questo s'aggiunge poi il caldo e, soprattutto, il traffico di auto che, per forza, vista la quantità di ciclisti, devono viaggiare pianissimo: che goduria quando una di esse sta proprio davanti a te, facendoti respirare il gas di scarico a pieni polmoni... Vabbè, se non altro la salita mi fa riprendere dallo shock del tratto di pianura. Viaggio in compagnia di Pietro; pian piano recuperiamo qualche posizione. Raggiungiamo un curioso personaggio con la divisa della mia squadra: è Manolo, un ciclista spagnolo molto entusiasta e chiacchierone. I cartelli chilometrici piazzati lì dall'organizzazione sono abbastanza sballati: ben più attendibili sono i cippi a bordo strada.

Arrivati in cima, dico a Pietro che è meglio non fermarsi qui ma raggiungere il ristoro a Valloire. Facciamo la breve discesa e poi un paio di km di risalita: Pietro è un po' in crisi, secondo me più psicologica che fisica; faccio del mio meglio per incoraggiarlo un po', anche se pure io, dal canto mio, non sono proprio fresca come un fiorellino di campo, anzi. Decido che ormai la speranza di fare un buon tempo è andata a farsi friggere: tantovale fare una buona pausa ristoratrice, con calma. Come dice Franco, a volte il tempo che sembra perso non è perso affatto... E poi ai ristori francesi c'è sempre quel formaggio adorabile, penso sia Camembert: non sarà proprio energia immediata, ma è buonissimo; me ne spazzolo un bel po' di fette! Anche Pietro fa il pieno. Lamenta i crampi, ma, duro come sempre, riparte. Saliamo pian piano, con calma: il tratto quasi dritto che arriva fino al tornante dei rifugi, a -8 km dalla cima, è sempre impietoso. Anche se, per fortuna, il cielo si sta coprendo: almeno ci salviamo dalla calura tremenda che di solito cuoce le teste in questo tratto. Speriamo solo che le nuvole non esagerino: a dire la verità, ho il serio timore che ci beccheremo il temporale prima della cima... Procediamo pian piano, in mezzo ad una processione di anime dolenti; Pietro continua a brontolare ma non molla mai. Affrontiamo con cautela i tornanti, che per me, dopo il lungo tratto quasi dritto, suonano sempre come una liberazione; poi, a – 4 km, la pendenza si attenua un po'. Ormai si vede la fine, lassù in alto: ci sono solo più le rampe degli ultimi 2 km, in particolare dell'ultimo, e poi è fatta. A circa un km e mezzo dalla vetta, Pietro si ferma un attimo e mi dice di proseguire; obbedisco, ma dall'alto controllo la situazione e mi metto tranquilla solo quando lo vedo ripartire. Ormai, conosco questa salita come le mie tasche; nemmeno l'ultimo km fa più paura. Arrivo in cima ed approfitto del ristoro, mentre aspetto che giunga su anche Pietro; non appena è su anche lui, io parto in discesa. Tanto, tra il fatto che lui scende come un pazzo furioso ed io devo usare mille cautele per via della mia paura e della mia ruota ballerina, mi riprenderà in un attimo.
Metto la giacca perché il cielo è coperto e quassù fa fresco; poi mi rassegno ai 7 km di terrore fino al Lautaret ed ai 30 e passa da incubo fino all'attacco dell'ultima salita, l'Alpe d'Huez. Un buon discesista, qui, può permettersi numeri da circo ed arrivare giù davvero a velocità impressionante; io invece ci metto una vita, scendo con la tensione, perdo tempo e bestemmio mentalmente in turco... Meno male che prima o poi anche quest'angoscia ha fine. Gli ultimi 15 km son tutti da pedalare: il lago, la leggera risalita, il tratto piatto fino alla rotonda. All'attacco dell'Alpe mi fermo ancora un attimo al ristoro, giusto il tempo di mangiare qualcosa e riempire la borraccia, poi via, verso una delle mie salite preferite in assoluto. Rampe e tornanti, tornanti e rampe: qui un po' di soddisfazioni me le tolgo, perché salgo ancora abbastanza bene laddove molti dei ciclisti che sono ancora qui a questo punto arrancano, vanno a zig zag, si fermano a bordo strada. Ma per me è facile, questa salita la adoro! Fa caldissimo come sempre, anche se ogni tanto qualche nuvola copre il sole. Ad un tratto mi affianca Matteo: è già arrivato su da un bel pezzo, mi ha vista mentre scendeva, torna su per qualche km per accompagnarmi, tanto lui non patisce... E' fresco come una rosa! Si chiacchiera, mi aggiorna sulle vicende degli altri, Franco e Claudio, anche loro già arrivati al traguardo da un po'. Poi, dopo un tornante, ecco Pietro seduto su un muretto: fantastico, temevo che si fosse fermato sul Lautaret come aveva annunciato, invece è lì! Sono contentissima di vederlo. Riparte, si aggrega a noi; piano piano, tutti e tre andiamo su. Incrociamo Franco in discesa. A – 4 km, dove c'è l'area picnic, approfittiamo dell'ultimo ristoro idrico e salutiamo Matteo che scende al campeggio; poi, tra un lamento e l'altro del buon Pietro che come sempre brontola ma è un osso duro, affrontiamo l'ultimo scoglio. Ancora qualche tornante, ma la pendenza qui è più umana e ormai la vetta è vicina. -3, -2, poi il drittone d'ingresso al paese, -1, ormai è fatta. Tagliamo il traguardo insieme, restituiamo il chip e via.

L'indomani, mi sarebbe piaciuto partecipare alla cronoscalata dell'Alpe, la Grimpée. Però la mia ruota posteriore non è d'accordo. Già a sera, in campeggio, la trovo sgonfia; la rigonfio, ma l'indomani mattina è dinuovo a terra. Inutile che cambi la camera d'aria; è ormai evidente che c'è qualcosa che non va proprio nella ruota. Mi rassegno a tornare a casa con le pive nel sacco: egoisticamente, per fortuna, si scatena un temporalaccio appena finisco di impacchettare tenda, armi e bagagli. Così la rinuncia alla cronoscalata non mi dispiace nemmeno troppo! Domani ci sarà lavoro per il mio meccanico.

domenica 6 luglio 2008

Super Rando Fausto Coppi 2008: il commento di Ivano Vinai!

In anteprima esclusiva, esclusivissima, ecco qui di seguito l'articolo - resoconto - commento - riflessione - viaggio psichedelico di quel concentrato di sadismo che risponde al nome di Ivano ed al cognome di Vinai! Buona lettura!

“Non faccio fare ad altri cose che non sono in grado di fare io!”.
Come organizzatore/responsabile della S.R. il principio, per quanto nobile, non è pretenzioso verso altri organizzatori, magari ciclisti ma che non interpretano la bici in modo così radicale ed estremo. Anche per questo ero al via venerdì 27 Giugno alle 21:00 e non a dirigere l’orchestra comodamente seduto in qualche auto! Ciò detto, mai avrei creduto di trovare ben 142 aspiranti suicidi iscritti. Ma poi, le incessanti piogge di Maggio e Giugno hanno prodotto frane e modifiche forzose all’originale: 440 km e 11.300 m. di dislivello, trasformandolo dopo altri 4 cambi di tracciato in 510 km e 10.300 m. da scalare. Stesso tempo limite di percorrenza, 44 h. Molti hanno declinato l’invito adocchiando solo il kmtraggio ingrassato senza badare al dislivello più longilineo, errore tattico! Le vecchie pellacce divoratrici d’asfalto ben sanno che sulla durezza di un percorso il dislivello incide più dei km. Anche questa è “selezione naturale”, dato che è stato il motivo principale del defalcamento dai 142 iscritti ai 112 partenti, subito 30 in meno a ruote ancora ferme!
Il numero dei partenti è comunque elevato, e non mi sorprende come, specie nel ciclismo, sia valido il motto: “Tanto peggio, tanto meglio”. Ciò denota lo spirito d’avventura, il gusto della sfida, il volersi mettere alla prova, spirito questo sì fondamentale che muove le peggio/meglio intenzioni del tipico randonneur. Ma ci sta anche e non ultimo l’orgoglio personale, però quello vero, non da Bar Sport! Quello da lacrime al traguardo, orgoglio del tutto legittimo per chi porta a termine una prova di simile arditezza così come altre del genere. Meglio ancora quando poi questo è riconosciuto pubblicamente dall’esibire con fierezza, appunto, la “patacca” (perché il randonneur è pataccaro), nel nostro caso: la maglia di finisher, ciò che ti distingue davvero dalla massa. Il diplomino inquadrato sta in casa, non lo vede nessuno, ma la maglia è il feticcio pubblico dell’avvenuta conquista. La S.R. è una di quelle prove che “fanno pedigree”, da citare a piena voce e petto gonfio buona in ogni discussione biciclettara! Anche tra i randonneur, colleghi, mai avversari, la selezione vera c’è, ma come detto: naturale. C’è sempre chi non arriva fino in fondo, se è perché non ce la fai è perché non lo meriti e se non meriti è giusto non farcela. E’ un cane che si morde la coda, una specie di legge della giungla, ma è così, perché quando pedali sei solo, nessuno ti può aiutare, o ce la fai o rinunci. Barare si può, ma quasi nessuno lo fa (proprio nessuno non ci giurerei), dato che non si gareggia contro altri sarebbe come illudere se stessi, non ha alcun senso. Ed è così che al conto finale all’arrivo a Cuneo dai 112 mancano 21 ritirati più altri 6 fuori tempo. Molti di questi “respinti”, non tutti, sono solo vittime di se stessi: presuntuosi, semplici millantatori, o superficiali figli del… io ci provo! Una randonnée così dura non si “prova”, o si prepara e si porta a termine o si è bocciati senz’appello, non c’è scampo! Gli appartenenti a queste categorie pagano caro lo scotto nell’aver creduto o anche solo ipotizzato che; lento non è fatica. Non c’è di meglio che viverlo sulle proprie spalle per ricredersi e ripresentarsi nel 2010 più pronti, maturi e umili. Si pensi che tra l’esposizione a sole scalando l’Izoard o il Montgenevre, e le discese notturne della Bonette o del Sampeyre c’è un’escursione termica percepita di circa 50°, questa da compensare solo con un “fisico bestiale” continuando a pedalare! Basta questo dato per capire che la preparazione fisica va ben al di là dei km percorsi e che quindi la cialtroneria non paga!
86 vincitori, quindi, tutti in rigoroso ordine alfabetico, poiché chi fa capolino in Piazza Galimberti a Cuneo alle 16:59 di domenica, un minuto prima del tempo limite, è meritevole tanto quanto chi è arrivato alle 21:33 di sabato, anzi, chi giunge dopo si è sciroppato tutt’e due le notti sui pedali e non tra confortanti colline o pianure, ma tra salite alpine che, a un certo punto, paiono Cerberi dalle fauci spalancate pronte a fagocitare chiunque passi, figuriamoci il ciondolante spremuto ciclista sperso nell’oscurità!
La S.R. imponeva di scalare di fila: Lombarda, Bonette, Vars, Izoard, Montgenevre, Setriére, Ctta. di Paesana, Ctta. d’Isasca, Cle. di Sampeyre, La Piatta, tutto in un tiro, valicando per ben 6 volte oltre i 2000 m, con sole straziante di giorno, e due notti allucinate a macinare i pensieri sul perché si fosse lì in quel momento.
Ebbene, la miglior risposta non è un timido, perché no!
Ma un consapevole: perché sì!




Ivano Vinai
Ideatore – responsabile organizzativo – Finisher Super Randonnée



martedì 1 luglio 2008

Super Rando Fausto Coppi - 27, 28, 29 giugno 2008

Mezzo chilo di pasta in due, sbafato alla veloce venerdì nel tardo pomeriggio prima di partire in fretta e furia per Cuneo: comincia così, per Claudio e per me, l'avventura della Super Randonnée Fausto Coppi 2008.

Il percorso della Rando, in origine, prevedeva i colli Lombarda, Bonette, Vars, Izoard, Agnello, Sampeyre, Fauniera, più la Madonna del Colletto, 440 km per oltre 13.000 m di dislivello: perfetto per due appassionati di salite come noi. Pochissima pianura, il minimo indispensabile. Purtroppo, a causa dei disastri meteo di inizio giugno, gran parte delle strade che la Rando avrebbe dovuto percorrere sono state chiuse per frane & affini ed ancora oggi non sono praticabili. Così, l'inesauribile (e perversa) fantasia di Ivano Vinai, il boss della manifestazione, ha partorito una serie di itinerari alternativi; alla fine, il prediletto è stato quello che segue: Cuneo, colli Lombarda, Bonette, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere, poi giù a Pinerolo, Bricherasio, Bibiana, Bagnolo, Barge, Colletta di Barge o di Paesana che dir si voglia, Castellar, Pagno, Colletta di Isasca, Sampeyre, Colle di Sampeyre, Dronero, Montemale, La Piatta, Caraglio, Cuneo. 510 km, poco più di 10.000 m di dislivello: in teoria, meno duro del precedente, ma, per i miei gusti... Solo in teoria!

Claudio ed io arriviamo a Cuneo alle otto meno un quarto; ritiriamo i numeri di gara e poi prepariamo con attenzione tutto l'armamentario: luci, cibarie, indumenti da portare via. Sono titubante: lo porto, lo zaino, o no? Le previsioni meteo dicono che farà bello; non è il caso che mi scarrozzi l'abbigliamento invernale; potrei anche far stare tutto nel borsello sottosella e nella borsa da manubrio, oltre che nelle tasche della maglia. Uhm... Però così non mi sento troppo tranquilla. Non saprei dove mettere il copertone di ricambio... E non posso pensare di partire senza copertone di ricambio! E' una mia fissa... In qualche caso è già servito! Pensa e ripensa, alla fine opto per lo zaino. Cerco di smistare una parte del peso nel borsellone sottosella, preso nuovo per l'occasione: Ci metto due camere d'aria, le levette, un paio di gel, nonché l'indispensabile rotolo di papier de cul. Nello zaino, il copertoncino, la giacca GoreTex, i guanti invernali, il road book, i documenti, il telefono, più una quantità vergognosa di barrette, gel energetici e sacchettini di miele Ambrosoli. Cavoli, lo sapevo, ho dimenticato di fare i panini... Amen, troppo tardi, sarà per la prossima volta. Osservo Claudio per vedere come si prepara lui: chissà che non mi venga in mente qualcosa di fondamentale che ho dimenticato. Intanto, si avvicina un fotografo di Cicloturismo che chiede di poter fare qualche foto a noi due ed al mezzo: "Fate come se io non ci fossi"... Agli ordini!

Ci avviamo verso la piazza Galimberti, dove troviamo subito qualche volto noto: Franco, Graziano, Marco. E poi c'è Ivano, The Boss, che impugna il megafono e, con espressione truce, prende subito la parola per aggiungere un po' di terrore alla nostra preoccupazione. Non è cattivo, è che lo disegnano così! I controlli, i ristori, le minacce di morte tra atroci tormenti per chi osasse anche solo pensare di tagliare il percorso. Ok, vabbuò, vediamo di partire, che qui mi viene l'angoscia! Sono quasi le nove: ci raduniamo tutti sotto l'arco di partenza, attorniati dagli sguardi curiosi di tanti che ci osservano come bestie rare; flash di fotografi, motori che si accendono, pronti via. Adoro le partenze delle randonnée: tranquille, rilassate, come turisti in gita. In fondo, è quel che siamo: con un tempo massimo così generoso, 44 ore, possiamo permetterci di viaggiare pacifici.

Quasi non credo a quel che sta succedendo. Auto e moto di scorta tutelano il gruppone: dico, "Dopo Cuneo ci molleranno al nostro destino"... "Dopo Borgo ci molleranno al nostro destino"... Invece no, ci scortano ancora, Gaiola, Moiola, Demonte, fino a Vinadio! Si viaggia ad una velocità controllata che finalmente, per la prima volta da quando frequento il bel mondo delle GF e delle rando, è controllata sul serio! Se riesco persino io a non perdere le ruote del gruppo, vuol dire che stiamo procedendo ai 20-25 km/h, non di più. Un bacio in fronte a chi ha deciso ciò! La scorta ferma il traffico che arriva in senso contrario, con gran frastuono di clacson e sirene; passiamo noi, i matti della Super Randonnée, tutti fermi! E infatti i veicoli che arrivano dalla Valle Stura si accostano tutti a bordo strada, non so se per prudenza o per improvviso terrore alla vista di un esercito di pazzi furiosi! Però, un calore che non mi aspettavo: qualcuno si sporge e chiede da dove arriviamo, dove andiamo; qualche camionista suona e saluta divertito dai finestrini. In fondo, non è così grave il disagio che creiamo: un centinaio di ciclisti sfila via in fretta!

Riesco anche a scambiare quattro chiacchiere con i miei vicini di pedalata, cosa che mai e poi mai, di norma, su questo tracciato, riuscirei a fare se mi toccasse inseguire: il tratto tra Cuneo e Vinadio è un interminabile falsopiano che mi fiacca regolarmente le gambe e lo spirito. Per fortuna, se qualcuno resta indietro, la scorta se ne accorge ed adegua l'andatura al più lento, cioè a me; pazienza se il resto del mondo mi maledice: io a Vinadio arrivo bella fresca!
Ormai è notte, mi tocca accendere la luce anteriore, anche se finora ho viaggiato "a scrocco" delle luci altrui. A Vinadio c'è il primo punto di controllo, piazzato lì per impedire che qualcuno, alla partenza da Cuneo, se ne andasse alla chetichella a dormire e ripartisse l'indomani. Bisognava essere a Vinadio entro le ore 24: siamo perfettamente in tabella; ha appena fatto buio!

Timbro e riparto: uno dopo l'altro, alla spicciolata, ci avviamo verso la prima salita, la Lombarda. L'incrocio è presidiato più di una banca: svoltiamo in tutta sicurezza e via. Io metto subito il rapporto più morbido, 34x29: lo terrò per quasi tutta l'ascesa, con l'unica eccezione dei punti in cui la strada è piatta o quasi. So che, per la singola salita, è eccessivo: ma l'ordine è risparmiare la gamba, il più possibile. Mi attendono tante salite, tante ore, poco sonno. Fare il galletto qui, vuol dire pagarla carissima più avanti. Ormai mi conosco... Il gruppone lentamente si sgrana. Qualcuno si ferma alle prime fontanelle, molti mi sorpassano e vanno avanti. Io mi sforzo di girare le gambe molto ma molto più piano di quel che mi sentirei: non è facile, ma, concentrandomi, prendo il ritmo giusto. Scambio qualche parola qua e là, ma non ci tengo a far la salita in compagnia: a costo di risultare antipatica, in queste circostanze ho bisogno di solitudine, per impostare il passo giusto, per sentire il cuore che dopo lo sforzo iniziale si calma e batte piano, che quasi non si sente, per tirare su il naso e guardare il cielo, senza luna ma con una miriade di stelle come si vedono solo dalle montagne. La valle della Lombarda all'inizio è molto stretta, incassata; poi, pian piano che si sale, il tappeto di stelle è sempre più esteso, luminoso, bellissimo. Ed è suggestivo vedere tante lucine, su in alto, in successione, a disegnare la serpentina dei tornanti adesso che la strada non si può vedere. Mamma mia, c'è qualcuno che è già lassù... Fenomeni!
Sono contenta, ho cominciato bene, benché di solito la prima salita sia quella che patisco di più, Lo zaino pesa ma non troppo, la bici cigola come al solito ma non troppo. Attacco bottone con un ciclista reduce dalla Sicilia No Stop, che mi racconta le disavventure patite laggiù per il vento violentissimo e per il caldo: beh, anche qui il caldo non scherza! Siamo quasi a quota 2000, di notte, ed io sto salendo in maniche corte... Di tanto in tanto, un po' di vento porta un brivido sulla pelle, ma è solo un momento. Ci sono le auto dei corridori assistiti che salgono, c'è persino qualche auto che scende dalla Francia, a quest'ora!
Alla fine del tratto pianeggiante, circa a metà strada, volto lo sguardo verso il pianoro e mi sembra di vedere, nel buio, grosse chiazze chiare: ma sono massi o... No, non sono massi, sono mucche! Decine di mucche pigramente ronfanti sul prato, che ci guardano con occhio assonnato e dubbioso... Chissà cosa pensano di noi? E' un attimo, attraversiamo il ponte sul torrente e riprendiamo la salita, quella vera. Illustro al mio compagno di viaggio il tracciato: due o tre tornanti, brevissima discesa, poi bivio, poi 8 km alla cima, ma gli ultimi sono proprio facili. Ormai, qui, la mia bici potrebbe andar su da sola, tante sono le volte in cui ho calcato questa strada.
Dopo il bivio, ultimo tratto di salita nel bosco: guardo in basso, dall'altro lato della valle; ci sono ancora innumerevoli lucine che avanzano piano nella notte. Beh, Gian, non stai mica andando così male! Se hai ancora tutta questa gente dietro... Però non ti gasare, non fare fesserie, che qui non sei nemmeno all'inizio. Calma e gesso. Riprendo la salita e la chiacchiera, racconto ed ascolto racconti, mentre pian piano il gruppetto in cui mi trovo esce dal bosco, arriva ai laghetti ed al tratto finale, fatto di strappetti secchi e tratti in piano. Ecco, il colle è laggiù, dove ci sono tutte quelle luci che, credo, sono le auto al seguito. Incredibile... Siamo ormai alla quota del colle, oltre 2.300 m, e non fa ancora freddo. Per la discesa, però, meglio vestirsi, e bene, anche. Sono pur sempre 22 km in una valle profonda, incassata, in cui l'aria è spesso gelida anche di giorno. Indosso la giacca GoreTex ed i guanti invernali, approfittando delle luci di un'auto ferma; non metto né gambali né fascia per le orecchie, perché... Li ho dimenticati! Imbecille... Vabbuò, speriamo che non faccia troppo freddo. Giù in discesa: freni tiratissimi, molto peggio del solito, perché il buio mi toglie anche quel poco di senso dell'equilibrio che ho di norma. Mi sento tremendamente precaria sulla bici... Per fortuna, alla prima curva, si affianca un ciclista che mi chiede se io sia Giancarla, quella che ha fatto la RATA: sì, però ci ho partecipato, non l'ho finita... Anche lui, tempo fa, si è cimentato nell'avventura, con risultato decisamente più concreto del mio. Mi racconta qualche aneddoto, poi va. Io procedo a passo d'uomo fino a Isola 2000, dove poi la strada diventa ampia e facile: lì, lascio andare la bici appena un poco, pur titubante. E già il sonno fa la sua comparsa. No, non è possibile, porcaccia miseria, se ho già sonno qui, come faccio a resistere fino a domenica? Mi prende un misto di rabbia e preoccupazione. Mi sorpassa un ciclista con l'auto al seguito, che sta incollato a due dita dalla vettura e sfrutta la luce dei fari: non è lecito farsi scortare in discesa dalla propria auto di assistenza... Ma in fondo quella non è mica la mia! Peccato che, nel giro di trenta secondi, io sia già anni luce indietro... Mi sforzo di scacciare il sonno, provo a scuotere la testa, a contare ad alta voce, peggio, a cantare... E intanto guardo ansiosa i cartelli che indicano i km mancanti ad Isola. Impiego un'eternità, ma alla fine eccomi giù.

Sosta tecnica ai bagni pubblici: ormai potrei tracciare una mappa dettagliatissima dei servizi pubblici lungo i miei giri! Meglio di un GPS! Poi riparto e comincio a mangiare qualcosa, una barretta ed un gel. Mi attendono 15 odiosi km di falsopiano in salita fino a St Etienne de Tinée: coraggio Gian, s'ha da fare. Mi avvio, pian piano, sapendo che soffrirò, arrancherò, sbufferò come un vecchio catorcio e me ne devo fare una ragione. In preda al sonno, mi metto le cuffie nelle orecchie e via, musica a tutto volume: tanto son da sola, non devo fare conversazione. Km dopo km, l'agonia finisce abbastanza in fretta: tutto sommato, ho sofferto meno adesso, di quando percorro questo tratto durante il giorno! Sarà che è notte fonda, fa fresco, quasi non s'è traffico di auto. La rampa di St Etienne, la breve discesa nel paese, poi finalmente inizia lei, il mostro sacro, la Bonette!

La Bonette di notte... Se di giorno questa è una splendida salita, di notte è davvero impagabile. Anche qui, mi impongo un ritmo da carro funebre fin dal primissimo metro. Rapportino ed andatura appena sufficiente a tener la bici in piedi. Mangio un'altra barretta ed un po' di miele; per adesso, la salita basta a scacciare il sonno. E poi c'è sempre la musica a farmi compagnia. Per adesso, sono davvero sola: ormai i più veloci sono lontani; nelle retrovie restiamo in pochi. Però, qualcuno c'è, nei dintorni, poco avanti o poco dietro: vedo le auto al seguito che vanno e vengono, vedo le lucine poco avanti o poco indietro rispetto a me. Però non me ne curo, non sono in fuga né all'inseguimento, mi godo la strada che al buio sembra tutta nuova, tutta una sorpresa anche se l'avrò già percorsa mille e mille volte. Il bivio sul ponte, poi il ponte di ferro, poi Le Pra con la brevissima discesa, poi l'abitato di Bousieyas: nella piccola piazzetta, qualcuno approfitta delle sedie del bar per schiacciare un pisolino. Passate le case, mi sembra di vedere un cielo un po' meno nero: non è la luce del paese... E' proprio il primo accenno dell'alba! Sì, non c'è dubbio, guardando bene, si vedono i contorni delle cime che pian piano si staccano, nere, dallo sfondo del cielo. La strada ora sale a tornanti in mezzo ai prati; le lucine sono sempre meno evidenti; appena possibile, spengo la mia, per godermi questa strana atmosfera. Fa un po' più freddo adesso; mi fermo un attimo per indossare almeno il gilet, onde evitare di prendere aria sul petto ed alla gola, poi riprendo la marcia. Questo punto della salita mi è sempre indigesto: dopo quel che resta delle case di Camp de Fourches, mancano 7 km alla cima, 6 al colle per noi che arriviamo solo fin lì; però sono km insidiosi, duri, soprattutto interminabili, perché La Bonette si vede laggiù, pare di toccarla, e invece ad ogni curva si scopre un altro lunghissimo tratto di strada da percorrere, e poi un altro e un altro. Con pendenza, per giunta, irregolare. Affronto con rispetto religioso metro dopo metro, mangiando ancora un po' di miele. E' una bella scoperta, il sacchettino Ambrosoli con il tappino che si riavvita: ottimo il miele, praticissima la confezione. E intanto è l'alba: la punta tonda della Bonette è già rosa, pian piano la luce scende giù lungo il fianco pelato della montagna, luce limpida, violenta, preludio ad una splendida e calda giornata. Arrivo su appena prima rispetto a due compagni di viaggio; ci sono, ferme, le auto delle scorte personali, per chi si è concesso questo lusso. I piloti, dentro al calduccio, ronfano beati.
Mi maledico un'altra volta per aver dimenticato i gambali: mi attendono 24 km di discesa gelida! Ahimè, non posso farci nulla: parto e spero in bene. Purtroppo, né la soddisfazione per aver fatto una buona salita, né il freddo bastano a vincere il sonno, che arriva, subito, puntuale come la morte, fin dai primissimi km. Cavoli, stavolta è brutto davvero. Freno disperatamente, ma mi rendo conto che non riesco a mettere a fuoco la strada, le curve; non riesco, so che gli occhi vedono l'asfalto, ma è come se il cervello rispondesse in ritardo, o non rispondesse affatto. Per ben due volte devo correggere la traiettoria con un movimento di soprassalto... Gli occhi sono aperti, ma è come se per un attimo i comandi non arrivassero a destinazione. Mi fermo, d'emergenza, due minuti, chiudo gli occhi appoggiata ad una roccia e li riapro subito; proviamo, dai, ancora una volta. Rimonto in sella, altri due o tre km, ma non c'è proprio niente da fare, sto per addormentarmi. Addocchio una canaletta di scolo a bordo strada, sembra fatta apposta: appoggio la bici alla bell'e meglio, piazzo lo zaino a mo' di cuscino e mi sdraio lì. Piombo nel sonno, ma pochi minuti; nel frattempo, mi pare di sentir passare qualche bici, ma non so se sia sogno o realtà. Mi rialzo un po' rintronata e un po' congelata, raccatto i miei stracci e riparto: porcaccia miseria, proprio quel che volevo evitare l'ho dovuto fare, fermarmi nella discesa più fredda! Sono mezza ibernata quando arrivo a Jausiers, tant'è che non mi fermo per svestirmi. Percorro un paio di km verso La Condamine, poi levo la giacca e riparto. Nel paese, altra sosta per riempire le borracce alla fontana: incredibile, stanotte ho bevuto come una spugna! Fa caldo, c'è poco da fare... Altri due randonneurs a caccia di acqua seguono il mio esempio, mentre io riparto verso la terza salita, il Vars. Sono 16 km, i primi quasi pianeggianti fino a St Paul sur Ubaye: anche qui, un falsopiano che odio. Ci sono un paio di semafori piazzati lì per i lavori: ovviamente, li ignoro e tiro dritto, da buona italiana. Chi cappero vuoi che passi di qui a quest'ora del mattino?
Arrivano le prime titubanze, le gambe un po' stanche, soprattutto la sensazione di aver fame ma nessuna voglia di masticare. Ecco, ci risiamo, questo è un problema che mi porto dietro da un po', quest'anno. Proprio io che, di norma, quanto a mangiare sono paragonabile ad un cassonetto dell'immondizia, e più o meno come peso ci somiglio anche! E poi, altro problema ben peggiore, il piede. Il piede destro, che fa male nella parte inferiore, subito sotto l'alluce, e di lato, appena sotto il "mignolo". E' una settimana che fa male ogni volta che indosso le scarpe da bici: soprattutto in salita, quando pesto sul pedale, e peggio che mai in fuorisella, fa un male ignobile! Infatti adesso comincio a vedere le stelle... Cerco di cambiare posizione del piede, di spingere più sull'alluce, o decisamente più con il piede sinistro; il sollievo c'è ma è di breve durata. Calma Gian, niente panico: adesso arrivi su, con calma, ti fermi al ristoro mezz'oretta, mangi, ti rimpinzi e ti fai una busta di antiinfiammatorio. E vedrai che passa tutto.
La luce del primissimo mattino illumina la valle: peccato solo che ci sia un po' di foschia... Però è splendido, tutto qui è bellissimo, come sempre. Mi sento un po' a casa mia, in fondo queste sono le mie strade! Raggiungo un collega che sembra faticare un po'; lo incoraggio, lo aspetto rallentando un poco quando resta indietro: chiacchieriamo, mi dice che è di Udine, che si è fatto sei ore d'auto e che è contentissimo d'essere qui, come tutti del resto, almeno credo. Beh, no, a questo punto, forse, qualche pentito già c'è! Gli ultimi 5 km, quelli duri, passano in fretta tra un aneddoto e l'altro. Queste sono le pendenze su cui viaggio bene, senza patemi, senza fatica. Annuncio l'ultimo km, perché a bordo strada manca il cippo, che tempo fa avevo visto nei pressi di una casa a Fouillouse, poco lontano: mi sa che qualcuno se l'è fregato e che poi nessuno ha pensato a ripristinarlo! Pazienza, non ho bisogno di cartelli per sapere dove sono.

Arriviamo in cima, via verso il ristoro. Tocca fare qualche km in discesa; stavolta tiro i freni non per paura, non per sonno, ma per colpa del piede. Ogni buca è un dolore acutissimo, una smorfia sulla mia faccia; cerco di non reggere tutto il peso sul pedale destro, ma sono abituata a far così, se mi reggo sul sinistro mi sento del tutto sbilanciata e poco sicura. Panico... Non sono nemmeno a metà giro! Come diamine ci arrivo, alla fine?
Vars è tutto una buca, una canaletta, un tombino. Maledizione... Arrivo finalmente al ristoro, poggio la bici ma quasi non riesco a camminare. La vista di una tavola imbandita di ogni bene mi rincuora un po': mi impongo di fermarmi con calma e mangiare il più possibile. In realtà, vorrei riuscire ad ingurgitare molto di più, ma proprio la pancia rifiuta. Abbondo con la frutta secca, il pane e Nutella, il the, il caffè, qualche pezzo di formaggio; mi preparo due panini da portare via e metto nello zaino anche tre banane ed un po' di frutta secca, soprattutto ananas. Intanto mi guardo intorno e cerco di carpire le sensazioni degli altri presenti. Sono circa le nove e mezza; sento che sono numerosi i ciclisti che devono ancora arrivare qui. Qualcuno si riposa sulle sdraio al sole, qualcuno si aggira intorno al tavolo. I ragazzi che assistono il ristoro e segnano i timbri di passaggio sono cordiali e disponibilissimi: tutto ciò non può che mettere di buon umore!
Approfitto dei servizi pubblici anche qui: sempre meglio che fermarsi in mezzo alla natura, sarà anche romantico ma è imbarazzante... Ora che ho la pancia più o meno piena, metto una bustina di Nimesulide in un bicchiere d'acqua e mi auguro che sia sufficiente a lenire il dolore, poi riparto giù in discesa, gemendo e tirando giù santi ad ogni buca. Il piede è gonfio, lo sento che preme contro la parete della scarpa. Ma che ci posso fare? A furia di antiinfiammatori, si placherà! Poi ci penserò a casa...

Arrivo giù a Guillestre, il sole è già rabbioso. So che in questi 17 km fino al bivio per l'Izoard soffrirò in modo ignobile: Gian, poco da fare, ti tocca andare. Questa sarebbe anche una bella strada, lungo il torrente, tranquilla, ma io la odio con tutta me stessa, odio il falsopiano in salita che non mi fa andare avanti, odio anche questo caldo asfissiante, proprio io che sono una lucertola! Guardo con un po' di invidia gli immancabili appassionati di canoa che si preparano per la loro avventura: anch'io mi tufferei un po', se solo sapessi nuotare... Esaurisco un fretta le borracce appena riempite a Vars, ben prima di arrivare alla rampetta che precede il bivio per l'Izoard. E poi finalmente, ecco la storica salita. Affronto con un po' di preoccupazione i primi km fino ad Arvieux, cattivi e bollenti; non appena raggiungo il paese, penso a procurarmi la "prova del passaggio". Il regolamento richiede, qui, un controllo autogestito: non c'è nessuno che metta il timbro sulla carta di viaggio; siamo noi randonneurs a dover procurare una prova del nostro passaggio. Appoggio la bici al cartello del paese, scatto la foto: sul manubrio c'è il tagliandino "Super Randonnée", che mi hanno dato ieri a Cuneo; nessuno può dire che questa sia una foto scattata chissà quando! Anche se forse esagero con gli scrupoli... Non credo che i giudici che omologheranno la rando siano così severamente inquisitori!
Ad Arvieux butto la testa sotto la fontana e riempo le borracce, poi mi avvio verso il terribile drittone iniziale. Lo so, sto esagerando con le pause... Di norma, odio fermarmi spesso nei viaggi in bici; ma, questa volta, sto cercando di impormelo: il giro è troppo, troppo lungo per voler andare avanti a tutti i costi. Sbaglierò, ma credo che qualche istante di pausa in più possa solo portare beneficio, anche se la somma di tanti istanti significa tanto tempo perso.
Il sole è feroce su questo stradone: salgo, anche qui, piano, molto piano. Solo che adesso non è più una mia auto-costrizione: il fatto è che sono già proprio un po' cotta! La Chalp, poi Brunissard, dove faccio ancora, per massimo scrupolo, una foto. Poi basta, adesso voglio tirare dritto fino alla cima.
Come sempre, la mia fatica sull'Izoard finisce alla prima curva. Da lì, si entra nel bosco, iniziano i tornanti, mi sento molto meglio. Proprio nel curvone trovo compagnia di un altro randonneur, con cui arriverò fino alla cima: è di Giaveno, anche lui di casa da queste parti. In un attimo, tra una chiacchiera e l'altra, arriviamo alla maestosa Casse Deserte; brevissima discesa, poi ancora un paio di km e ci siamo. Con la coda dell'occhio, due tornanti sotto la cima, vedo un altro collega salire di gran carriera: cribbio che passo che ha! Beato lui che è ancora così fresco!

Quel collega lì mi raggiungerà in discesa: è Alan, un ragazzo di Cervia. In cima, chiudo il gilet, tiro su i manicotti e via, con la solita raffinata tecnica del paracarro, a freni tirati fin giù. A metà discesa mi raggiunge appunto Alan: ora ricordo, è il personaggio che un bel po' di mesi fa mi aveva scritto per chiedermi informazioni a proposito della Race Across The Alps. Ci presentiamo, mi dice che a Briançon vorrebbe fermarsi a mangiare qualcosa: lui propone un gelato, io rilancio con l'idea di un supermercato. Piacerebbe anche a me il gelato, ma non mi fido, non vorrei che qualcosa di freddo facesse il patatrac nel mio pancino già in stato precario...
Giriamo per il paese, dove Alan si orienta quasi fosse a casa sua: scoviamo la gelateria ma nemmeno un negozio di alimentari aperto. Ovvio, sono le due o giù di lì... Beh, per adesso mi mangio uno dei due panini che ho preso a Vars, più due banane, poi si vedrà. Ormai sono entrata in quella fase in cui qualsiasi cosa mangi viene polverizzata ed assimilata all'istante! Fa un caldo dannato qui, l'asfalto brucia sotto i piedi, vorrei levarmi più in fretta possibile. Ho il terrore del tratto che ci porterà all'attacco del Monginevro: sono pochi km, ma strada infernale, traffico caotico, caldo cattivo, infernale. Ho una sete boia, non vedo l'ora di mettere le zampe su una Coca Cola, è il mio unico sogno! Però, nel frattempo, mi accontento di arrivare alla fontana giù a lato della prima curva del passo. Alan sale bene, benissimo, si vede che ne ha ancora, e tanta, di forza; io mi arrabbio e mi agito, non riesco a stargli dietro, ho paura di rallentarlo, insomma, mi dispiace! Ma lui niente, nonostante io insista, non se ne va, anzi, rallenta per stare al mio passo, controlla che io ci sia. Mi sa che ha capito che sto precipitando nella crisi...
Alla fontana, una vera e propria cascata, riempiamo le borracce; nelle mie metto anche la polverina, credo maltodestrine, che ho trovato insieme al numero di gara nella borsa. C'è qui il fotografo di Cicloturismo che immortala il momento topico: mi pubblicheranno da qualche parte come emblema del doping imperante nel ciclismo amatoriale!
Mi bagno i capelli, poi via, riprendo la marcia affannosa, combattutissima tra la consapevolezza di dover risparmiare energie ed il dispiacere per il tempo che faccio perdere ad Alan. Il Monginevro, di per sé, non sarebbe una brutta salita, ma il traffico di auto e moto la rende davvero odiosa. E poi il caldo... E' evidente che qualcosa non va, per me, perché di norma amo le temperature torride; oggi invece proprio non riesco ad adattarmi. Mi sforzo di pensare che in fondo non sono certo l'unica che sta attraversando un momento di difficoltà; gli altri non saranno certo delle macchine insensibili, staranno male anche loro ogni tanto. E' normale! Sì, è normale, ma io intanto arranco ed Alan aspetta... Certo che, per essere così giovane sia come età anagrafica che come anzianità ciclistica, questo ragazzo ha una calma olimpica davvero invidiabile! Io avrei già voglia di fracassare la bici e mettermi ad urlare, lui invece nulla, non fa una piega, anzi, scherza, sorride, chiacchiera volentieri!
Raffiche di vento contrario ci accolgono negli ultimi 2 km prima della rotonda dove finisce la salita; faccio per imboccare la galleria, quando il mio compare mi avvisa che in bici non si può... Ubbidiente, giro dentro il paese ed inizio a scendere. Anche qui, basta il gilet, non fa per nulla freddo. Alan mi raggiunge poco dopo, mi sorpassa, ovviamente mi stacca, perché in discesa sono il solito inguardabile disastro. Per fortuna la strada è breve! A Cesana, abbiamo un solo ordine: trovare un negozio di alimentari! Abbiamo fame, io poi ho una disperata voglia di Coca Cola. Siamo fortunati, un negozietto c'è: e ci trovo persino uno yogurt, troppa grazia! Prendo un paio di ettari di grassissima pizza pomodoro e formaggio, ne addento qualche boccone, metto il resto nello zaino. Per la prima volta butto l'occhio alla bici di Alan: non l'avevo notato, ma è bella, tutta in carbonio, anche se, nella mia ignoranza, sono un po' diffidente all'idea di una bici in questo materiale. Poi, forse con il favore di questo momento di relax, butto l'altro occhio al proprietario della bici e penso che sì, anche lui non è affatto male, anzi!
Chiediamo lumi ad un indigeno sulla strada da prendere per salire a Sestriere via Sauze di Cesana: è facilissimo, più di quanto pensassimo. Io però questa salita la prendo proprio male. Un lunghissimo falsopiano iniziale, poi 7 km di strada drittissima sotto il sole, interrotti solo da uno o due tornanti; in poche parole, un'agonia! Anche qui, cerco di fare del mio meglio per non danneggiare il mio compagno di viaggio, ma non c'è niente da fare, lui è forte, è fresco, danza su quei pedali come se fosse appena partito! Io mi sento tremendamente idiota in questo momento, mi spiace farmi vedere così: non che di norma vada molto meglio, ma questo è proprio un disastro!
Ad inizio salita ci affianca un curioso personaggio in MTB, con qualche annetto sul groppone e qualche kg di troppo, ben sottolineato dalla salopette che indossa come unico indumento: ne nasce un cusioso discorso in piemontese tra un Piemontese evidentemente DOC ed un Romagnolo che comprende senza problemi, mentre io rido sotto i baffi, nonostante la sofferenza. Che comici, questi due!
Sono interminabili questi 7 km. Nonostante il caldo africano, ho spesso i brividi e la pelle d'oca. Ad un tratto incrociamo una colonna di Vespa, credo reduci da un raduno: il rumore delle motorette mi batte in testa, mi dà un fastidio tale che vorrei pestarli, questi fracassoni. Sono proprio cotta... Meno male che Sestriere alla fine arriva. Che bruttura, che orrore di posto. Mi sforzo di sorridere, rispondo alle domande incuriosite di chi ci vede arrivare alla fontana in centro del paese; un po' mi lusinga l'espressione allibita di chi ascolta il nostro racconto... Ma so che per me tutto questo è in forse, rischia di finire molto presto, perché le forze ormai se ne stanno andando.

Vorrei arrivare al punto sonno di Barge, per poter riposare un po' in condizioni civili... Ma, ora come ora, è un obiettivo lontanissimo, quasi irraggiungibile. Da qui a Pinerolo ci sono 50 km... Allucinante! Riparto quasi per inerzia, perché devo farlo; vado dietro ad Alan ma mi stacco continuamente, resto indietro. Il sonno più spietato che mai: non riesco a mettere a fuoco la strada; sbando più di una volta, le auto dietro che suonano e per fortuna mi riportano alla realtà, ma non c'è niente da fare, gli occhi vogliono chiudersi ancora. Sta facendo sera, sono sveglia da almeno 36 ore, è anche normale... Ma perché gli altri se la cavano così bene con il sonno, ed io no? In questa discesa, sono la disperazione di Alan. Già la strada del Sestriere è per me una delle più odiose; in più ci si mettono il traffico, la cotta, la prospettiva di altri interminabili km di pianura per arrivare da San Secondo a Barge. Sono stanca, stufa e scoraggiata.
Poi, a una decina di km da Pinerolo, ci sorpassa un ragazzo in MTB: affianca Alex, chiede lumi sulla nostra destinazione, resta molto ammirato quando scopre cosa stiamo combinando. Così, generosissimo, si offre di tirarci fino al bivio per San Secondo: si mette in testa e via, con quelle ruote spesse e rumorosissime, viaggia come una locomotiva, incredibile! Io ovviamente perdo mille volte la ruota, vuoi per il sonno, vuoi per la mia cronica incapacità di sfruttare la scia, vuoi perché quei due pazzi vanno come disperati ed io non reggo la loro andatura!
Al bivio, il ciclista in MTB si congeda: da una parte, peccato, perché anche lui è un gran bel vedere, biondo, occhi azzurri ed un bel fisico atletico – lo so lo so, non posso farci niente, sono sensibile su questo tema! -, dall'altra, però, meno male, altrimenti sarei stramazzata di fatica!

Alè Gian, l'ultimo sforzo. Ci sono 20 km o poco più, da qui a Barge. Tutti piatti o falsipiani, ok, ma ormai è sera, la calura feroce dovrebbe attenuarsi, vedrai che ce la fai. Alan rallenta il più possibile, mi incoraggia ancora e ancora, chiacchiera e mi fa chiacchierare. Si fa buio, accendiamo la luminaria; tra Bagnolo e Barge ci becchiamo anche il rimbrotto di una pattuglia di Carabinieri che ci intima di pedalare in fila e non affiancati... Mi trattengo a stento, ma ciò che penso in quell'istante non è cosa adatta ad essere riportata tra queste righe!

Troviamo a fatica il campo sportivo: cavoli, riusciamo a perderci anche in un mucchietto di case com'è l'abitato di Barge... Però alla fine ci arriviamo e scopriamo, con gran meraviglia, che accanto al palazzetto dello sport c'è anche un ristorante pizzeria, occupato per l'occasione da una mandria di ciclisti brutti, sporchi & cattivi ma soprattutto molto molto affamati!
Scendiamo nel locale dormitorio per farci timbrare la carta di viaggio. Si potrebbe anche fare una doccia: peccato che il locale docce sia monopolizzato dai maschietti e peccato che a me venga proibito l'accesso! Gli addetti all'assistenza si prodigano per prepararmi una branda: sono senza parole, tutte queste attenzioni sono eccezionali! Queste persone ci stanno mettendo anima e cuore, per la rando, per noi che ci sfiniamo sui pedali. Ma a me non serve nulla di particolare, dormirei anche sul pavimento!

Qui, la nota dolente, la sosta. Nei miei sogni, avrei voluto tentare di tirare dritto, non fermarmi a dormire nemmeno la seconda notte, arrivare a Cuneo prima della partenza della GF. Purtroppo, questi bei progetti sono già andati a rotoli, è evidente. Se non mi fermo qui, adesso, per un po', sarò costretta a fermarmi tra poco, all'addiaccio, ed al sonno si aggiungerà la fame, la stanchezza, l'angoscia di una sistemazione precaria. Mi costa molto, ammettere di dovermi fermare, ma a questo punto è l'unica speranza che ho per tentare di arrivare alla fine della rando. Proprio l'unica. Devo fermarmi, mangiare con calma, dormire qualche ora. Due ore, penso io; tre o quattro, suggerisce Alan, tranquillo. Tre o quattro? Ma non saranno troppe? Ma poi ce la faccio ad arrivare a Cuneo nel tempo massimo? A questo mio dubbio, lui si fa una grassa risata... Ma io non sono così sicura.
Mentre ritiro il cartellino e sistemo alcune cose nello zaino, Alan riemerge dalla doccia: gulp... Cough cough... Per poco non mi soffoco! Mi compare davanti vestito solo della salopette da bici bianca, porca paletta che visione! Mi fa più o meno l'effetto che credo possa fare una flebo di epo nelle vene di un ciclista. Ecco: diciamo che, da questo momento, l'idea di prendermi una bella pausa e sedermi a tavola mi è molto più simpatica di prima.
Approfittiamo del ristorante: pizza per me, pasta & porcate varie per Alan. Si chiacchiera, si mangia: la pizza è pessima ma pazienza, con la fame che ho va bene tutto. Anche se, in generale, fatico a mangiare, come se avessi lo stomaco chiuso. Scambiamo qualche parola anche con i nostri vicini tedeschi, che scuotono la testa sconcertati all'idea che qualcuno possa tirare dritto senza nemmeno mangiare o riposare un po'! E' vero, i primi saranno già sulla salita di Sampeyre a quest'ora, se non oltre... Beati loro!
Mentre sono a tavola, un altro mitico superciclista, Domenico, mi porge per ben due volte il suo cellulare: dall'altro capo ci sono prima Alfredo, poi Luca che mi chiedono notizie dell'avventura. In questo momento, guardate, sto proprio da Dio! E' un momento particolare, condiviso con persone che stanno vivendo la mia stessa fatica; tra le persone che fanno assistenza alla corsa qui c'è anche un protagonista dell'Iron Bike dell'anno scorso... Che onore!
Mi alzo, entro un attimo nella sala interna del ristorante, attacco bottone con alcuni altri pedalatori, tra cui The Boss. E' ora di nanna, son quasi le dieci. Sveglia alle due: mi congedo malvolentieri da quel portatore sano di sorriso da urlo e fisico statuario che è il mio compagno di viaggio e me ne vado in branda. Gian, piantala, non è il luogo né il momento, vedi di placare i bollenti spiriti. Zaino sotto i piedi per tenere alte le gambe, poi il buio. Coma profondo.
Mi risveglio ad un tratto sentendo trambusto: come un automa, mi affretto a mettere le mie cose nello zaino, affannatissima. Poi guardo la branda accanto, non è Alan che si sta muovendo: guardo il cellulare, ma porcaccia miseria, è solo mezzanotte, è qualcun altro che si sta avviando! No problem, ripiombo all'istante nel mio nulla eterno. Non credo d'aver mai avuto così disperatamente bisogno di dormire e di essermi mai goduta poche ore di sonno come in questa notte matta. Però alle due la sveglia è proprio la mia!

Cavoli... Ho già il soprassella in fiamme ancor prima di alzarmi. Mi sollevo a fatica, come se le ossa dovessero rompersi tutte da un attimo all'altro. Devo far piano, c'è gente che dorme qui intorno. Anche Alan schizza fuori: il ristorante sta chiudendo, le bici fuori sono rimaste poche. Eppure, ci dicono i responsabili del controllo, c'è ancora una quarantina di persone che mancano all'appello di Barge! Beh, meno male, mi consola, non sono proprio l'ultima.

Ci avviamo. La partenza per me è da incubo: come provo ad appoggiare il posteriore sulla sella, sono dolori da piangere. Male, bruciore, non riesco proprio a star seduta, ma nemmeno per idea! Ci provo, pianissimo, per gradi, mi rialzo, provo ancora... Faccio quasi tutta la Colletta di Paesana in fuorisella, ho quasi le lacrime agli occhi per il male. Ci passano un po' di auto; qualcuno lancia invettive sguaiate, mi sa che son belli pieni questi qua! Speriamo bene... Seguo Alan ma sono persa nel mio sconforto: le gambe girano bene, sì, ma tutto il resto fa male, la schiena, il posteriore, le braccia, le mani. Da Paesana a Pagno non ci passa più, la strada è eterna, prima un po' in discesa, poi tragicamente piatta; sto sempre peggio, continuo a rallentare, mi sforzo di pedalare di più ma continuo a staccarmi; Alan così è costretto anche lui alla mia stessa agonia. Mi dispiace, sono angosciata per me ma anche e soprattutto per lui, e poi questo buio, questa solitudine non aiutano, no. Passiamo Martiniana, passiamo Castellar, finalmente inizia la salita della Colletta di Isasca. Non mi sembra vero, la pianura fin qui mi ha prosciugato ogni forza. Confido che la salita mi aiuti a riprendermi, infatti un po' è così: sono stanchissima, ma non salgo poi così malaccio, anzi. Questa è una strada con pendenze di tutto rispetto, cattive; c'è un'afa tremenda, benché siano da poco passate le tre di notte: un termometro luminoso segna 22°C. Il mio angelo custode sale come un camoscio, come se non avesse peso, sempre con quella sua serafica tranquillità... Io arranco con l'angoscia di quei venti km che a fondovalle mi separeranno da Sampeyre. Ci sono altri compagni di sventura qui con noi sul Brondello. La discesa è un calvario, per me: ancora sonno, maledetto sonno. Ho dormito, ma evidentemente non abbastanza; mi si chiudono gli occhi anche mentre procediamo in pianura. Sempre più profondo il mio scoramento mentre viaggiamo verso Brossasco, poi Melle, poi Frassino. Vado sempre più piano, piano, mi sto spegnendo lentamente. Ho sonno, ho male, sono sfinita, non ce la faccio proprio più. Ecco, lo sapevo, l'ennesimo fiasco, l'ennesimo fallimento, l'ennesimo passo più lungo della gamba.
Basta, non ne posso più. A Frassino, nella piazzetta centrale, sgancio i pedali, raggiungo una panca e mi ci sdraio. Intimo ad Alan di proseguire, perché tanto io voglio solo dormire un po', poi mi ritiro, torno a casa, basta. Vai Alan, grazie di cuore, probabilmente non riesco nemmeno a dirtelo ma è quello che penso. Non c'è più niente da fare...
Dormo giusto un quarto d'ora, ho l'orologio del campanile sopra la testa. Sono lesei e un quarto; quasi non mi sono accorta che sia venuto giorno, e dire che è già chiaro da un po'! Poi mi siedo, mangio qualche boccone della pizza comprata ieri; intanto, arrivano lì altri due compagni che approfittano, pure loro, delle panche per dormire un po'. Mi rialzo intirizzita, prendo la bici, riparto come un automa: arriverò fino a Sampeyre, se riesco, poi mi ritiro. Non è umanamente possibile che io, in questo stato, riesca a salire i 1.300 m del Colle di Sampeyre. Non ho speranza. Guardo gli altri due, cerco di cogliere sui loro volti un segno di stanchezza, qualcosa che mi faccia pensare "Mal comune mezzo gaudio", ma nulla, non vedo nulla. La cotta è mia, solo mia.

Mi avvio penosamente lungo il falsopiano. E' ancora lunghissima, fino a Sampeyre, eterna. Ogni tanto sbando verso il centro strada, provo a rilanciare poi crollo pesantemente sulla sella; non ce la farò mai... Ecco, un'altra figuraccia, un'altra delusione, già mi immagino di dover raccontare che non ce l'ho fatta. Sto soffrendo da cani. Il guaio è che proprio, questa volta, non è solo il fisico a ribellarsi, è proprio la testa. Non ho più voglia, ecco, è questa l'espressione giusta: non ho più voglia di soffrire, di star male. Questo non è ciclismo, è massacro e basta, Gian, ma chi te lo fa fare?

Al bivio, giro per il colle. Non è che l'abbia deciso razionalmente; sono lì, semplicemente, devo andare. Riempo le borracce, mi avvio, con tutta la cautela possibile, su per la salita. Piano, pianissimo, in una logorante altalena di ottimismo e sconforto, sensazione di potercela fare e delusione per il ritmo che va calando. Però le curve passano, una via l'altra, arrivo al primo pianoro, al ristorante, poi ancora su, altre curve, potrei disegnarla ad occhi chiusi questa strada... Il vantaggio è che la pendenza è sempre molto regolare, mai eccessiva. Scruto il cielo, c'è nebbia sul colle, almeno così pare da qui sotto. Pare che voglia piovere... Però, man mano che scorrono i km, cresce la mia timida fiducia, cresce la voglia di farcela: a questo punto arriverò in cima comunque, con le unghie e con i denti, anche a piedi, se necessario! Salgo bene, persino mangiando gli ultimi due etti di pizza...

Incrocio le prime moto della Polizia e della sicurezza: stanno per arrivare, in senso contrario, i ciclisti della GF e MF Fausto Coppi. Già, purtroppo è previsto un incrocio di percorsi tra competizione e randonnée... Avanzo ancora alcuni km, mentre di tanto in tanto chiedo ai veicoli che incontro quanto manchi all'arrivo dei primi. Tengo occhi ed orecchie spalancatissimi: sono pronta a levarmi di mezzo quando scenderanno i primi missili, ma non ho nessuna intenzione di fermarmi, ci mancherebbe altro. L'unica cosa che voglio fortissimamente, adesso, è raggiungere la cima. Procedo guardinga più che mai: a circa 3 km dalla vetta, ecco arrivare giù i proiettili. Mamma mia che impressione, veder scendere chi sa scendere... Fenomenali, qualcosa che per me va oltre le leggi della fisica! C'è da dire che io di fisica non ho mai capito niente di niente, sarà per questo che non sono capace di andare in discesa... Passano i gruppi di testa, gli inseguitori, poi via via discesisti meno esasperati, volti e polpacci meno tirati, arrivano anche i kg di troppo, insomma, la corsa si sgrana. Intanto io vado su, un po' in bici, nei tratti in cui sono certa che chi scende mi vede da lontano, un po' a piedi con la bici per mano o in spalla, equilibrismo sui bordi dei ponticelli. La quantità di persone che mi saluta per nome, mi incoraggia, mi dà una voglia ed una forza che non speravo più di poter trovare oggi... L'urlo di entusiasmo di Lorenzo, in particolare, ha l'efftto di uno schiaffo violentissimo, mi mette il turbo: è proprio in quel momento lì che decido, "Oggi Gian ce la fai... Basta piagnistei, ce la fai!". Infatti arrivo su, al ristoro, dove mi accolgono con entusiasmo commovente, sia i volontari, sia i granfondisti che vedono la mia targa, Super Randonnée; addirittura, mi fanno spazio perché possa avvicinarmi al tavolo prima degli altri! Sono felice, incredibilmente felice, una gioia direttamente proporzionale a quanto ho sofferto fino a poco fa. Caffè, Coca Cola, un po' di frutta secca, poi via, in discesa, con somma cautela per evitare di scontrarmi con chi della corsa sta ancora salendo: anche qui, saluti, complimenti, scendo con un sorriso stampato in faccia che va da un orecchio all'altro!

Al rifugio La Sousto, altro controllo, poi giù verso Stroppo e la Valle Maira. Incontro gli ultimi della GF e MF, stravolti, stanchissimi, e provo un momento di solidarietà per quante volte anch'io mi sono trovata nella loro stessa condizione. Poi arrivo al fondovalle; mi impongo di affrontare con calma e serenità i 20 km che mi separano da Dronero e dall'ultima salita: c'è falsopiano , vento contro, la conosco bene questa valle ormai, mi fa sempre soffrire da cani quando scendo. Ma non oggi, oggi no. Siamo intorno a mezzogiorno, fa dannatamente caldo, ma ormai, Gian, è davvero fatta. Montemale è dura, certo, ma ti farai spaventare da quella, ora che hai quasi diecimila metri di dislivello da venerdì sera nelle gambe? No, certo che no.

Non ci avevo pensato: su per Montemale, incrocio un'altra volta il percorso della gara. Credo che queste siano le retrovie, a giudicare dal ritmo di salita. In preda all'entusiasmo, riesco addirittura a lasciare qualcuno indietro... Il sole picchia feroce, vado a zig zag in cerca dell'ombra degli alberi. Mi si affianca un ciclista, mi chiede "Sei un po' cotta?", rispondo "Eh sì un po'"... Lui guarda meglio il mio cartellino sul manubrio, ha un attacco di tosse, "Ritiro tutto, complimenti"... E' severa, questa salita, ma non mi frega: la conosco troppo bene. Arrivare su è un attimo, forse non sull'orologio ma nella mia testa e nelle mie gambe sì. Altra pausa al ristoro, bevo Coca Cola, caffè, succo di frutta; riesco a mangiare solo un po' di frutta secca, nonostante la fame boia, poi riparto, carica di complimenti ed incoraggiamenti. Ancora 2 km o poco più, poi la strada spiana, raggiunge le borgate, la chiesetta della Piatta. Gian, la fatica è finita, o quasi. Affronto a freni tirati la ripidissima discesa: a quanto pare, non sono l'unica che qui ha paura... Anche gli altri vanno pianissimo.

Ok Gian. Da adesso a Cuneo è un calvario, lo sai, ma hai ancora quattro ore. Prendila con calma, ormai è fatta davvero. Mi superano vari gruppi della corsa, mi invitano ad attaccarmi a ruota, ma io davvero non ne ho più la forza. Sto cercando di pedalare il più possibile in fuorisella, anche in pianura, perché il mio posteriore non ne può davvero più, è disfatto. Fa caldo, la strada scorre esasperatamente piano. Caraglio: da qui a Cuneo potrebbe essere breve... Invece no, il road book prevede un giro maledetto attraverso la pianura, Bernezzo, Cervasca, Vignolo, Borgo San Dalmazzo, lungo lo stesso itinerario della gara. Maledico in ogni lingua, tra me e me, colui che ha avuto questa pensata così sadica... Ma a che cavolo serve questo assurdo giro, cosa diamine aggiunge alla rando? Possibile che si debba essere sadici fino a questo punto? Non finisce più... Poi da Borgo tocca prendere la strada vecchia di Cuneo, ad un certo punto ho persino il dubbio di aver sbagliato strada... Poi l'interminabile viale degli Angeli, di cui non riesco proprio ad apprezzare la bellezza adesso, e infine... Piazza Galimberti. Non ci credo. Le forze mi bastano giusto per arrivare al tavolino del giudice: pochi minuti e mi ritrovo in mano la prestigiosissima maglia. Finisher. Una gioia da condividere con gli amici presenti: Luca e Matteo, che hanno corso la MF e che ho incrociato in discesa dal Sampeyre, e poi Claudio, eccezionale, che, alla sua prima esperienza di rando, ha concluso questa fatica indescrivibile nel tempo eccezionale di 33 ore, senza fermarsi a dormire, senza cedimenti, da vero grande ultraciclista. E che, poveretto, mi sta aspettando qui da stamattina alle sei!!!

L'avventura finisce con una doccia, un gelato... Ed il solo rammarico di non aver potuto più salutare e ringraziare Alan, Franco, Graziano e gli altri amici incontrati lungo la via.

Ho odiato questo percorso, ho sofferto l'impossibile, ho male ovunque ma... Mi prenoto fin da subito per l'edizione 2009!