martedì 30 dicembre 2008

30 dicembre 2008 - Visita al Medizinisches Zentrum di Bad Ragaz (Svizzera)

Se a qualcuno fosse sfuggito il mio stato di impercettibile, leggerissima agitazione... Ora non posso proprio più nascondermi. Ho appena tentato, convulsamente, di infilare la tessera bancomat in una fessura in cui in realtà non si deve inserire alcunché: da lì esce il biglietto del parcheggio, che si ottiene premendo l'apposito, evidentissimo, pulsante, cinque centimetri più a sinistra. Me lo fa notare, non so se commosso o terrorizzato da questa squilibrata alla guida di una Corsa con targa italiana, il gentilissimo signore proprietario dell'auto che segue, all'ingresso del garage sotterraneo. Cominciamo bene, non c'è che dire. E che caspita me ne devo fare, di 'sto biglietto? Bah, non importa, me ne preoccuperò più tardi.
Parcheggio l'auto lasciando per miracolo illese le colleghe accanto: meno male, perché, da queste parti, credo che un pomellino dello specchietto retrovisore di una qualsiasi delle macchinine parcheggiate qui dentro valga più di tutta la mia Opel e di me stessa medesima, messe insieme. Non mi basterebbero dieci anni di lavori forzati per ripagare i danni! Indi, sforzo sovrumano per raccattare tutto quel che mi serve senza perdere o dimenticare qualche pezzo. Ho le mani che tremano ed il neurone ormai bruciato, completamente in tilt: mi domando come ho fatto a guidare per quasi cinquecento km fino qui ed arrivare incolume, lasciando per giunta incolumi anche gli sventurati che ho incrociato lungo la mia via.

Già il primo impatto con il Medizinisches Zentrum, visto da fuori, mette soggezione: è un complesso enorme, dall'aspetto molto lussuoso, a cui sono annessi un Casino, un hotel a venticinque stelle, un centro termale. Insomma, uno di quei posti in cui io mi faccio alta due centimetri, mi sento un pesce fuor d'acqua, anzi peggio, un pesce tirato fuori dall'acqua ed asciugato con il phon. Carico la borsetta ed il borsone con tutto l'occorrente: abbigliamento da bici, scarpe comprese, ed un paio di pedali Campagnolo. Mi è stato detto di portarli... Obbedisco.

E mò qual'è l'uscita giusta da questo antro? Imbocco una porta a vetri che dà su una scala; salgo al piano superiore, più spaesata ed intimorita che mai. Ho le gambe che fanno giacomo giacomo su per gli scalini: nemmeno fossi avviata al patibolo! Accanto al pianerottolo, il bancone di una reception e, dietro, una stragnocca bionda con camicia bianca e gilet nero: cavoli, ma questo è un centro medico, o qui si danno appuntamenti d'altro genere? Ah no, presto spiegato il qui pro quo... Do una rapida occhiata all'interno della sala; quel che vedo attraverso la porta è una slot machine, davanti alla quale sta seduta, di profilo rispetto a me, un'altra bionda da capogiro, con due chilometri di gambe incrociate e calze a rete da pesca a strascico. Ecco, diciamo che io, in jeans, scarpe da ginnastica e maglia da bici, con una borsa in una mano ed il sacco Venice Marathon in spalla, qui dentro faccio la mia porca figura, ma tant'è... Che son finita nel posto sbagliato, l'ho capito, ma dov'è che devo andare? Figuraccia per figuraccia, mi rivolgo alla signorina della reception, che mi indica, in perfetto inglese, la retta via.

Il centro medico si trova in un edificio a parte, ben più sobrio. Un corridoio ampio e luminoso, impiegate gentili e, cosa incredibile per chi arriva dall'Italia, con perfetta conoscenza dell'inglese. Mi accomodo in una sala d'attesa, visto che sono in anticipo; mi chiameranno quando sarà il momento. Bene, così ho il tempo di darmi una calmata e sforzarmi di pensare che sono qui semplicemente per una banalissima visita medica sportiva, niente di più: già, ma è difficile credere che sia una cosa banale, se per arrivare fin qui ho oltrepassato un confine ed un colle alpino. Inganno l'attesa sfogliando i giornali a disposizione sul tavolino: mi accontento di guardare le figure, perché il tedesco è lingua ostica! Rigorosamente riviste a tema sportivo; se solo capissi cosa c'è scritto, devono essere interessantissime!

Pochi minuti ed ecco che arriva una ragazza, giovane, avrà la mia età o forse meno: molto gentile e carina, mi invita a seguirla. Mi chiede se so già cosa mi attenda: no, non ne ho idea; sono qui per le insistenze di un amico; sia fatta di me la vostra volontà.

Oltrepassiamo una porta a vetri su cui campeggia la scritta "Swiss Medical Center", che già mi mette in imbarazzo: non faccio altro che chiedermi cosa c'entro, io, qui dentro. Una sala attrezzi: una bici, alcuni tapis roulant, altri marchingegni di cui non immagino proprio il funzionamento. Tutto pulitissimo, ordinato, luminoso, con la luce che entra dalle finestre, il riverbero della neve sulle montagne talmente vicine che sembrano appena lì fuori, sul terrazzo. L'infermiera fa di tutto per mettermi a mio agio, scherzando e chiedendomi di me, da dove vengo, cosa faccio nella vita.

Prima tappa, la bilancia: tasto dolente... Poi l'altezza e la circonferenza vita. Il prelievo di sangue, questo no, proprio non me lo sarei aspettato: aiuto, l'ago... Mi stendo sul lettino, chiudo gli occhi per non vedere e non svenire; questa ragazza però ha la mano fatata; non sento quasi nulla. L'elettrocardiogramma, la misura della massa grassa: intorno a me, un gran viavai di strumenti, ventose, fialette, fogli di carta. Non oso chiedere più di tanto; faccio il burattino e resto lì in attesa degli eventi. Mi sembra che il tempo scorra con una lentezza estenuante.
Mi tocca poi il terzo grado: cosa ho mangiato oggi e quando; come mi sono allenata nei giorni scorsi; quali sono le mie consuetudini alimentari e sportive: diciamo che, per essere riuscita a far storcere il naso ad una ragazza della Svizzera tedesca, ben sapendo che razza di ignominie siano in grado di ingurgitare da quelle parti, devo proprio essere un caso patologico!

Poi, è la volta della prova pratica. Consegno i pedali alla ragazza, che, con mio grande stupore ed ammirazione, in pochi secondi svita quelli già presenti sulla pseudo-bici piazzata in mezzo alla sala e li sostituisce con i miei: fantastico, io non ho ancora imparato adesso, a momenti!
Salgo sulla bici, regolo la sella; devo pedalare, per un quarto d'ora circa, quasi senza sentire alcuno sforzo, solo per riscaldare i muscoli. Resto un po' da sola e, pedalando, mi guardo intorno; pavimento lucido in parquet, muri bianchi tappezzati di foto di ciclisti con i controcavoli, sciatori, maratoneti. Passa ogni tanto qualche infermiere, qualche altro candidato alla visita medica; dal corridoio giungono spezzoni di dialogo in ogni lingua, tedesco, inglese, persino italiano. Continuo a sentirmi un pop' sospesa, fuori dal mondo, come se in realtà non fossi qui ma fuori dalla finestra, a guardare me stessa appollaiata su una finta e scomodissima bici.

L'infermiera, di lì a poco, ritorna spingendo un tavolo con sopra un macchinario indecifrabile. Mi spiega quel che si farà adesso. Dovrò pedalare tra le 70 e le 80 pedalate al minuto, leggendo il numeretto che compare su un piccolo schermo davanti a me; la resistenza della bici aumenterà ogni tre minuti, finché sarò in grado di spingere i pedali; in più, ogni tre minuti, uno dei miei polpastrelli sarà spietatamente sforacchiato per estrarne una minima quantità di sangue che verrà inserito nel minaccioso marchingegno. In più, accanto a me c'è un cartellone con alcuni numeri, da 0 a 20, abbinati ad un livello di difficoltà: facile, meno facile, duro, molto duro, ecc; in ciascuna fase dell'esame, devo dire dove mi trovo in questa scala, secondo me.

Si parte. Prima fase, prima sforacchiatura. L'infermiera maneccia fialette sottilissime, quasi come capelli. Seconda fase, altra sforacchiatura, anzi no: strizzatura del dito già sforacchiato! Terza fase, il gioco comincia a farsi duro, io a grondare come una fontana, pure sforzandomi di dissimulare la fatica; avanti così, fino a quando i pedali diventano talmente duri che, per quanto mi contorca e spinga giù le gambe, non c'è più verso di muoverli. Fine... Ancora una decina di minuti di pedalata senza resistenza, poi sono libera; posso andare a far la doccia e poi attendere il Dr Hoppe.

Anche il locale delle docce è tirato a lucido come uno specchio. Ho l'aspetto disfatto; mi ricompongo: una bella doccia calda è l'ideale per farmi passare un po' la tensione. Torno poi alla sala d'attesa; poco dopo, faccio finalmente la conoscenza del dottore. So che di un medico si dovrebbero valutare tante altre cose, ma la prima che mi salta agli occhi è che si tratta di un gran bell'uomo, dal tipico aspetto tedesco, fisico asciutto, occhi chiari, sorriso aperto e simpatico. Meno male, almeno mi sento un po' più a mio agio.

Seduti ad un tavolino, abbiamo sotto il naso una moltitudine di fogli, numeri, grafici. Il Dr Hoppe scorre e commenta i risultati; già alle prime righe, mi fa saltare sulla sedia: "Your weight is OK for me". Eeeeeh? Chestaiaddì? Stai scherzando? 61,5 kg per 1,67 di altezza ed una collezione di cazziatoni da parte dei medici da cui ogni anno vado a far la visita sportiva... E qui mi sento dire che va bene? Pare proprio di sì... Il dottore mi spiega che, per il tipo di corse che interessa a me, cioè le prove su distanze lunghissime, essere molto magri non è affatto la strategia più produttiva, anzi. La buona riuscita delle imprese dipende anche dal fatto di portarsi appresso una certa quantità di riserve. Il Dr Hoppe si alza, passa nell'altra stanza, ne ritorna con in mano una cartolina che ritrae l'ultraciclista Dani Wyss lungo uno degli interminabili immensi rettilinei della Race Across America: mi fa notare come la sua struttura fisica sia ben diversa da quella dei classici ciclisti manichino, magri al punto da sembrare quasi malati. Si parla di prove molto diverse; in una corsa da 5000 km, come la RAAM, l'energia non deriva solo da ciò che si mangia in gara, tutt'altro.
Mi si allarga il cuore: ed io che avevo già visto il barattolo della Nutella volare via con le alucce e dirmi addio... Non tutto è perduto! Il peso non deve scendere, cosa potrei chiedere di più dalla vita? Ho una percentuale di grasso, 26,5%, che credo sia più o meno come quella del gorgonzola... Ma da questo istante smetto di preoccuparmene!

Anche il cuoricino, con 52 battiti al minuto, a riposo, dopo la sveglia alle 4 del mattino e cinquecento chilometri di auto, va bene così.

Pendo dalle labbra del medico quando attacca a spiegarmi tutta la storia delle "fasi" dei battiti cardiaci, le soglie aerobica ed anaerobica, ecc. Uno dei tanti fogli sparsi sulla scrivania riporta un grafico che mette in relazione il battito cardiaco, in ordinata, e la misura di una grandezza che si chiama "lattato", in ordinata: ben lungi da me l'idea di lanciarmi in spiegazioni scientifiche, né di tentare di riportare le parole che ho sentito; però, in sostanza, quel che dovrei riuscire a fare è "appiattire" questa curva che ora tende a puntare un po' troppo verso l'alto. Se ho ben capito, detto in parole miserrime, si tratta di abituare i muscoli a lavorare più a lungo, riducendo su di essi i danni della fatica.

Di tanto in tanto mi distraggo, come a scuola; mentre il dottore parla, io mi perdo per un momento a correre dietro ai mille sogni assurdi ciclistici che mi coltivo, quasi che già questo solo colloquio potesse servire a rendermeli più accessibili.

Un primo consiglio, a grandi linee, con riferimento al battito cardiaco ed a una delle tante tabelline che compaiono sui fogli che stiamo guardando, è quello di svolgere un 50-60% del mio allenamento restando al di sotto dei 151 battiti, un 20-30% tra i 151 ed i 188, un 10-20% al di sopra dei 188. Devo ancora capire come fare a superare i 188, visto che, quelle poche volte che ho indossato la fascia del cardio per correre a piedi, pur lanciandomi a tutta velocità su per il cavalcavia, arrivo al massimo a 178, poi le gambe ed il fiato cedono; idem sui rulli, a 180 battiti non arrivo mai; è evidente che durante il test in qualche modo ci sono arrivata, ma a rischio di defungere!

In ogni caso, adesso non è un problema. Come fare, non sarò io a doverlo decidere. I risultati del mio test passeranno, sempre grazie all'amico che mi ha trascinata fin qui, nelle mani di un preparatore d'eccezione, ultraciclista anche lui con un elenco di prestigiose vittorie lungo così; sarà poi lui a dirmi cosa devo fare. Se...

...perché è ovvio che ci sia anche un "se". Sono stata catapultata in una situazione di cui solo adesso, qui, comincio a rendermi conto; sembra proprio sia una cosa seria. Provare, per una stagione, a fare le cose per bene; non più scorrazzare in bici, ma allenarmi nel senso serio del termine, secondo i consigli di qualcuno che ha ben presente quale sia il tipo di ciclismo che piace a me. E che consigli!
Solo che io non ne sono così convinta; non penso affatto di avere le qualità per combinare qualcosa di buono, né di essere davvero in grado di seguire un serio programma di preparazione, conoscendo la mia testa matta. E' una grande occasione, costerà soldini, tempo e fatica; devo cercare di non buttare tutto all'aria.

Una stretta di mano, un bel sorriso, il Dr Hoppe mi augura buon viaggio: ci si rivedrà ad aprile o a maggio. Ora la parola passa ad Andrea Clavadetscher, sarà lui a dirmi come comportarmi d'ora in poi. A me non resta che prendere una bella camomilla e prepararmi con pazienza all'attesa.

venerdì 26 dicembre 2008

26 dicembre 2008 - Il freddo mi segue... Anche in Riviera!

Persiane che sbattono, rumore di oggetti che rotolano per la strada, un ululato che arriva da chissà dove: apro mezzo occhio, metto a fuoco le cifre giganti e luminose sul comodino – l'ho voluta così la sveglia, a prova di talpa! L'una e mezza, più o meno. Ieri sera, cioè poche ore fa, la sera era limpida e stellata; ora soffia un vento cattivo che non promette niente di buono. Bah. Me ne preoccuperò quando suonerà la sveglia; mi restano ben due ore e mezza di nanna.

Al trillo, alle quattro in punto, una volta tanto schizzo giù dal letto senza protestare: mi precipito alla finestra... E quel che vedo è uno spettacolo desolante, buono forse per i poeti, ma non certo per i ciclisti. La luce giallognola del lampione illumina fiocchi grossi, che scendono pigri, lenti, prendendosi tutto il tempo necessario ed anche di più. Mi pare evidente, a lor signori non importa un fico secco, che io fra qualche ora abbia appuntamento a Sestri per pedalare nelle Cinque Terre! La strada è già bianca, coperta da uno strato che, a quanto riesco a vedere, pare spesso ed asciutto: proprio quella neve polverosa che fa presa e non molla facilmente l'osso.

Lascio la tendina, a metà tra lo scornato e l'inferocito. Che si fa? Beh, che domande. Non sono proprio disposta a lasciarmi rovinare un'altra giornata per colpa di questa stramaledettissima neve, che sarà anche la gioia degli sciatori e degli amanti dell'atmosfera natalizia, ma a me proprio non va giù. Mannaggia. Ed io che ho anche comprato gli elettrodomestici a basso consumo... No, anzi, la prossima volta compro i più inefficienti che trovo, voglio inquinare, voglio l'effetto serra ed il surriscaldamento del pianeta! Questa, però, può essere una buona soluzione a lungo termine... Ma, visto che qui il tempo stringe, conviene restare un po' più sul pratico. Mi ingozzo con due panini al formaggio come colazione; approfitto del fatto che l'auto con le gomme termiche, una delle enne Opel Corsa di famiglia, oggi non servirà a nessuno; ci carico velocemente bici e bagagli e poco dopo le quattro e mezza sono fuori dal cortile.

Dopotutto, non ho ricevuto alcun messaggio da Luca: probabilmente anche lui ha deciso di partire lo stesso, incurante del meteo; se l'ha deciso lui, che tra noi due è indubbiamente l'unico portatore sano di buonsenso... Sono in una botte di ferro.

Già raggiungere il casello autostradale, a due chilometri da casa, è una bella scommessa. Tutt'intorno il deserto; in movimento ci sono solo io. Il cartellone luminoso al casello dice "Per Savona: neve fino al bivio A6-A10"; credo significhi neve fino a Savona. Beh, non è che la cosa mi stupisca, anzi. Ma non importa. Ritiro il biglietto e via nella bolgia. Scorgo nello specchietto retrovisore un lampeggiante giallo, probabilmente un mezzo spartineve; davanti, solo un muro di buio e fiocchi di neve fittissimi. Vedo a malapena il guard rail, per pochi metri; non ho idea dei confini delle corsie, ormai nascosti da uno strato di nevischio. Nessuna traccia di passaggio di auto, perlomeno, non recentemente.
Radio a palla, per stemperare un po' la tensione; tanto qui basta andar dritto, e speriamo che a nessuno venga in mente di fare una passeggiata notturna in mezzo alla carreggiata. Non potrei proprio vederlo.

Nel corso di un fitto scambio di messaggi sul telefonino con altri nottambuli come me, ciclisti e no, apprendo della decisione di Luca di rinunciare: come dargli torto; in effetti, per raggiungere l'autostrada, a lui toccano un bel po' di km tra le colline, che non credo siano così piacevoli e romantici adesso. Mi spiace perdere la compagnia, ma pazienza: tiro dritto, prima o poi arriverò. Il viaggio di tanto in tanto rallenta ancora, se possibile, perché tocca restare al seguito degli spartineve, che occupano la carreggiata in modo tale da impedire il sorpasso da parte delle auto. E' evidente che una ragione logica ci deve essere, per questo: la ignoro, ma resto comunque in coda, a debita distanza, viaggiando ai trenta all'ora ed approfittandone per riposare un po' gli occhi, allucinati dal continuo sforzo per indovinare la strada in mezzo alla bufera. Mi torna in mente un viaggio di qualche settimana fa: molto più breve, da Carmagnola a Cuneo e ritorno, centoventi km in tutto, ma macinati sotto una nevicata già fittissima all'andata e ben peggiore al ritorno; e, sopratutto, percorsi su strada statale, ai trenta-quaranta all'ora e con la Opel che uso di solito, senza gomme termiche ma in compenso con gomme parecchio assai lise. Se sono sopravvissuta quella volta lì, ce la posso fare anche oggi!

Man mano che mi avvicino all'Appennino, il turbinio dei fiocchi aumenta, fomentato da un vento violento che già qui tende a deviare la traiettoria dell'auto. Figuriamoci cosa troverò in Riviera! Dietro a me, alcuni veicoli fedelmente al seguito: quasi quasi mi sento orgogliosa al pensiero di fare da apripista, e responsabile, anche; farò il possibile per non trascinarli tutti in mezzo ai campi o giù da un viadotto!

La neve mi accompagna proprio fino a Savona, al bivio tra le direzioni di Genova e di Ventimiglia. Una volta tanto, il rilevatore di velocità non protesta: sotto i quaranta ci sono già! E le ciminiere della centrale di Vado, o qualcuno le ha tirate giù, o proprio non le ho viste. Chissà come farò a tornare a casa: in ogni caso, me ne preoccuperò quando sarà il momento. Non adesso.
Ora è pioggia scrosciante e vento forte. Va bè, andiamo già meglio. Mi dispiace che Matteo sia già in bici da chissà quanto tempo; starà ibernando... Se solo ieri sera avessi immaginato di trovarmi di fronte ad una situazione simile, avrei puntato la sveglia un'ora prima; ma chi avrebbe potuto prevederlo, con tutte quelle stelle?

Finalmente un po' di luce. Credo che questo viaggio mi sia costato terribili zampe di gallina, tanto ho dovuto aguzzare la vista per trovare la retta via. Sembra incredibile, eppure, man mano che mi sposto verso est, il meteo sembra migliorare: certo, una bella giornata è un'altra cosa, però pare proprio che abbia smesso di piovere. E dire che ormai sto viaggiando per inerzia, perché non avrebbe senso rinunciare ora che sono qui, ma non avevo proprio più alcuna speranza di poter saltare in sella oggi. Invece, forse forse...

Il casello di Sestri Levante è quasi un miraggio. Non ne posso più di star seduta in auto. Come temevo, Matteo è lì, ibernato... Cavoli, mi dispiace. Anche se sono ancora un po' troppo scombussolata per far complimenti, lo invito a mettersi un po' in auto, mentre scarico la bici. Raffiche di vento mi investono appena scendo; le poche palme spelacchiate qui intorno si piegano tanto che sembrano strapparsi. L'angoscia che ho tenuto a bada finché ero al volante miprecipita addosso, tutta insieme, adesso: come diavolo faccio a star su in bici con un vento del genere? Mi sbatterà per terra prima che subito. Me le ricordo bene, le folate del Bracco: non è tanto che sono stata qui ed ho visto i sorci verdi su per quella salita.
Sistemo malamente le ruote, mentre mi domando se davvero sia il caso di partire. La risposta è una sola; ovvio, che è il caso; dopo tutto questo viaggio, dopo aver mobilitato sia Matteo che Emanuele, non posso certo tirarmi indietro. Se fossi sola, temo proprio che getterei la spugna; parto solo perché so di essere in compagnia di due persone certo più affidabili e dotate di autocontrollo di me.
Come volevasi dimostrare, vuoi per l'agitazione, vuoi per l'incapacità congenita, ho sistemato le ruote alla piffero di segugio; meno male che se ne accorge Matteo, altrimenti finirei lunga e distesa sull'asfalto alla prima pedalata. Il guaio è che persino lui fatica un po' a metter tutto a puntino: sarà meglio che io lo tenga presente, la prossima volta che smonto e rimonto il gioiellino nuovo. Già, perché oggi mi son presentata qui con la bici nuova, la "Ridley", come ormai affettuosamente la chiamo. Incredibile, quanto si faccia in fretta ad affezionarsi alla propria bici! Ti guarda con quegli occhioni così teneri che ti scioglie il cuore...

La squadra è al completo: oggi ho persino l'onore della compagnia dell'illustrissimo biomeccanico di Castano Primo, Emanuele: pardon, a Castano ci lavora, ma è ligure DOC. In tenuta da bici, ha davvero l'aspetto di un ciclista con i fiocchi: infatti, su per il Bracco, danza sulla bici con la leggerezza di un provetto scalatore, senza il minimo segno di fiatone o di fatica. Come al solito, io arranco in fase di avvio; mi ci vuole un po' per carburare. Ammesso e non concesso che io oggi arrivi, a carburare... La fatica è l'ultima delle mie preoccupazioni; mi terrorizza l'urlo del vento in mezzo al bosco, le foglie ed i pezzi di rami che schizzano sulla strada, la prossima curva dietro cui una raffica mi tenderà un agguato. Vorrei essere più loquace, eppure non riesco a spiccicare più di qualche monosillabo. C'è una luce livida, irreale; a volte sembra che un raggio di sole voglia far breccia tra le nuvole, ma è comunque una luce fredda. E' pur vero che siamo partiti da Sestri abbastanza presto, alle otto.
Il mare, si vede da qui, è increspato; le piante, sferzate dalle raffiche, si piegano, cigolano in modo sinistro.
Sono preoccupatissima: faccio fatica a tenere i nervi a posto; di certo sto esagerando, ma il mio equilibrio è già precario per natura ed il vento non mi aiuta. Anche Emanuele è scettico, lui per via del freddo: prima della fine della salita, ha già deciso che non intende proseguire e, di lì a poco, ci saluta. Mi spiace, perché tenevo molto all'idea di vederlo in azione; in più, la sua rinuncia è un altro duro colpo al mio spirito già poco combattivo di questa giornata. Resta Matteo, ovviamente: lui non si scomporrebbe nemmeno nel bel mezzo di un uragano... Come al solito, finisce per essere lui il sostegno a cui mi aggrappo per stare a galla, come la Kate Winslet al suo precario salvagente dopo il naufragio del Titanic; ormai ho perso il conto delle volte in cui son riuscita a combinare qualcosa di buono solo grazie alla fiducia in lui. Borbottando e lagnandomi, tiro dritto.

Un momento di puro terrore mi coglie all'inizio della prima discesa, verso Deiva Marina. Pochi metri prima di scollinare, il vento quasi mi butta a terra; inizio a scendere con la certezza di andare incontro a sorte infausta... E il vento si quieta. L'avevo già notato la volta scorsa in cui sono stata qui: questo tratto di strada è in qualche modo riparato dalla furia del tornado; riesco a scendere non dico bene, ma perlomeno in modo da limitare i danni. Con gran meraviglia di Matteo, che mi vede, per la prima volta, impugnare il manubrio ed i freni in presa bassa. Caccio un urlo ogni volta che mi sembra, e appena mi sembra, di sentire il vento che rinforza; ho i nervi a fior di pelle e le dita delle mani che si raffreddano sempre più, fino a diventare quasi insensibili. Non so cosa mi trattenga dal mettermi a piangere: forse il fatto che i tetti di Piazza non sono più così lontani. Però, alla mia paura fa da parafulmine il povero Matteo, che, nel vano tentativo di sdrammatizzare la situazione, si tira addosso gli strali della mia ira. Lo so, a mente fredda il mio comportamento è assurdo; però, in quei momenti, non posso proprio prendere in considerazione alcuna forma di ironia nei miei confronti... Sono in pericolo di vita, e questa è cosa serissima!

L'arrivo a Piazza è una manna dal cielo. Ho le dita inchiodate alle leve dei freni. A sinistra e via, si sale, almeno un po'. Ancora nel silenzio: vorrei romperlo, ma le parole mi muoiono in gola. Castagnola, Framura: la pendenza aiuta a scaldarsi un po', ma il vento non accenna a cessare, né il sole a squarciare le nubi. Poche anime in giro, un cagnone che trotta via per la sua strada, degnandoci appena appena di uno sguardo di sufficienza. Non so, oggi c'è qualcosa che non va: non sono per niente convinta di ciò che sto facendo. Continuo a patire freddo e paura. I problemi andrebbero affrontati man mano che si presentano; invece, non riesco a fare a meno di pensare a come evolverà la giornata, se mai il vento mollerà almeno un po' o se, al contrario, comincerà a piovere.

Discesa verso Levanto, lunga. Ho già deciso che arriverò fino a Levanto e tornerò indietro: viaggiare così non è un piacere, è una tortura! Perché accanirsi? Ormai è chiaro che non c'è speranza di miglioramento del tempo. Matteo non replica: in altre circostanze, mi avrebbe subito sgridata per la mia pusillanimità, ma mi sa che oggi ha capito anche lui che la situazione è grigia. Per me, s'intende. Il mare di Levanto è una meraviglia. Arriviamo in paese, prendiamo la direzione di Monterosso: già, mi sono lasciata convincere a proseguire ancora; del resto, è facile farsi persuadere di quello che in fondo in fondo già si vuole... E, per me, interrompere il giro così presto sarebbe stato uno smacco. "Vediamo com'è il vento sulla prossima salita": eccoci su verso Legnaro, altro bellissimo grumo di case di tutti i colori, affacciato sul mare. La salita è più severa di quanto ricordassi, o forse sarà la tensione, però è breve, spiana subito dopo il paese. Da questo punto, guardando poco giù, scorgiamo la frana che ha spaccato in due la piazzetta della borgata di Chiesa Nuova, in mezzo agli ulivi.

Al bivio per Monterosso, scendiamo giù al paese imboccando la strada di sinistra, più larga. Se non fosse per il vento, questa sarebbe l'occasione ideale per fare un po' di esercizio con la presa bassa... Invece, mi limito a tirare forsennatamente i freni, in attesa della prossima folata di vento in curva. Troppa grazia, c'è persino un po' di sole, ed un punto panoramico da cui si vedono tutte le Cinque Terre; o, almeno, si vedrebbero, se potessi guardare qualcos'altro che non sia la mia traiettoria. Ho visto un cartello che indicava pendenza 15%: sono un po' preoccupata... In discesa mi fa paura! Per fortuna, s'è trattato del solito caso di terrorismo.
Raggiungiamo il paese, una bellissima bomboniera. Dopo aver attentato alla vita di un buon numero di turisti ignari, malferma sul lastrico della via centrale, ignoro il semaforo rosso della galleria e mi ci infilo. E' un breve tunnel che collega le due parti del paese, spezzato da un costone di roccia; all'interno, tante piccole vetrine decorate e fregi sulla parete. Almeno qui, lungo la passeggiata, è d'obbligo una sosta per una foto: ho la macchina fotografica a portata di mano da quando siamo partiti, ma non mi sono fidata a tentare acrobazie, con questo vento.



Matteo ci prova, a convincermi a proseguire ancora, verso Vernazza, ma questa volta mi oppongo. Preferisco non allontanarmi troppo da Sestri: il tempo non è affatto così stabile; quel poco di sole va e viene, anzi va e basta; se si mettesse anche a piovere, sarei proprio panata, dovrebbero poi riportarmi all'auto con l'elicottero del Soccorso Alpino. Raggiungiamo un buon compromesso: si torna a Levanto, ma per una strada secondaria che passa in un luogo chiamato Monte Acereto.



Una salita bella ed impegnativa, ma non troppo, ci riporta su alla strada in costa; da lì a destra verso il Santuario di Soviore, lungo un tratto di falsopiano o poco più, che mi fa soffrire e faticare non poco. Passato il santuario, si svolta a sinistra lungo una stradina che subito dà l'idea di essere uno di quei luoghi dimenticati dal mondo: ci son delle buche tali, che se ci caschi dentro non ti trovano più! E aghi e pigne e rami, e persino qualche auto. La vista sul mare, da quassù, è ancora più spettacolare, se possibile. Non potrei certo fermarmi ogni cinque secondi, ma quanto sono belle queste pigne, ne vorrei riempire lo zaino!

All'improvviso, ci si para davanti un bel cagnone dal pelo lungo, sfumato di grigio e di nero: abbaia, accenna ad avvicinarsi, ma non riesce ad essere minaccioso, nemmeno volendo. Ci accompagna per un bel tratto: non sono certo i suoi denti a spaventarmi, quanto il timore di investirlo quando mi arriva tanto vicino. Mi fermo, gli porgo la mano, gli offro un pezzetto di barretta Enervit al cioccolato: rifiuta con schifo... Eh, bello mio, in effetti, come darti torto? Questa robaccia non è certo come la tua pappa!
Compaiono un paio di case sulla destra: ecco svelato il mistero della provenienza del cagnone. Come ci allontaniamo dal suo territorio, smette di seguirci; il suo potente vocione si spegne in lontananza.

La discesa è interminabile e, a tratti, per me critica, un po' per la pendenza, un po' per la strada sconnessa. E le mani congelano in fretta: avrei dovuto almeno indossare i sottoguanti, mannaggia. Vento e ancora vento, e Levanto là sotto sembra tanto lontana. Dosso, Groppo, i paesini scorrono via uno dopo l'altro; io sogno la cioccolata calda, da un po'. Non ho l'abitudine di fermarmi ai bar quando sono in bici, ma oggi ho disperatamente bisogno di qualcosa di caldo. Una tazza fumante che rinfranchi prima le dita e poi lo stomaco: fantastico... Quasi ignoro la meravigliosa vetrina di gelati che campeggia nel bel mezzo del locale. Magari tra cinque o sei mesi... Ci godiamo qualche minuto di calore e quiete, mentre il vento sferza la tenda di plastica del dehors, sembra quasi voglia strapparla via. Poi ci rituffiamo nella Siberia e riprendiamo la salita da Levanto, questa volta però con una deviazione. Presto lasciamo la strada principale per scendere a Bonassola, sul mare. Paesello bellissimo e completamente deserto: ma saranno vivi, qui? Tocco per la prima volta nella giornata la borraccia, che fin qui ho portato vuota: c'è una fontanella sulla piazza, bella ed ordinata come un salotto. Poi via, su per una salita cattivissima: subito, una rampa su cui fatico a tenere la ruota anteriore incollata alla strada; poi, ancora pendenze severe, anche se non più così estreme. Un tornante sopra l'altro, in mezzo alle case, agli sguardi interrogativi di qualche micio che si gode il pallido sole. Poi le case si diradano, restano solo gli alberi, torna il vento; la strada si addolcisce e mi permette di addentare un altro po' della barretta che sto centellinando. Ritrovo Matteo che torna indietro per un tratto, mangiando corbezzoli; io però perferisco la mia tradizionale alimentazione chimica.

Lasciamo questa suggestiva stradina, dove, nonostante un paio di denti in meno sulle corone posteriori di questa bici – ho il 34x27, non più il 34x29 – sono salita con una certa disinvoltura, sempre facendo le debite proporzioni con le mie possibilità. Percorriamo un tratto della strada principale, mentre Matteo soddisfa la mia curiosità su cosa sia il ciclocross: giusto perché sono mesi che sento parlare di ciclocross, sto viaggiando su una bici nata apposta per questa disciplina, ma non so proprio di che si tratti.
Intanto, il cielo si è velato del tutto. Lasciamo ancora una volta la strada principale, per imboccare, a destra, una salita blanda che ci porterà direttamente al Passo del Bracco. Meno male: temevo di dover ridiscendere a Piazza e sorbirmi in salita quell'orrenda noiosissima via che abbiamo percorso stamattina in discesa; e dire che Matteo me l'ha anche detto, a Monterosso, al momento di definire il resto dell'itinerario, che da Levanto avremmo abbreviato il rientro.
Inganniamo il freddo chiacchierando animatamente su uno degli argomenti preferiti dal mio collega: il cibo! E' ormai arcinoto che Matteo non metta piede, anzi pedale fuori casa senza una scorta alimentare tale, per quantità, peso e spazio occupato, da eguagliare il carico di una petroliera; pare uno di quei prototipi di veicolo che, allo stato di prima sperimentazione, non possono percorrere altro che distanze brevissime, se non con un'autobotte al seguito. Anch'io sono sempre stata un inceneritore, ma, da qualche tempo, mi sto sforzando, con un certo successo, di ridurre il carico: oggi me la sono cavata con una barretta ed una cioccolata calda; ho fame, vero, ma sono convinta che, entro un certo limite, si possa procedere anche con la fame, senza per forza andare in crisi. E' quello che sto sperimentando. Ovvio che, se si pensa ossessivamente e compulsivamente al cibo ed al timore di restarne senza, si finisce per tirarsela addosso, la crisi! Ma sono convinta che sia più che altro un effetto placebo...



Il freddo, invece, qui non è un effetto placebo. Ormai mi è entrato nelle ossa; pazienza i piedi gelati, ma le mani, quelle mi fanno paura: le dita sono insensibili... E c'è ancora un'intera discesa in cui devo averle ben salde sui freni! Né il senso di colpa, né la consapevolezza dei tanti km macinati in auto per venire fin qui mi convincono ad aggiungere ancora al giro la ciliegina sulla torta, cioè l'anello con discesa a Moneglia e risalita. Non ne posso davvero più di vento e di brividi. Matteo, mosso evidentemente a pietà, non tenta nemmeno più di farmi cambiare idea. Se non conoscessi il personaggio, potrei pensare che ne abbia abbastanza pure lui; conoscendolo, invece, so bene che potrebbe ancora fare, senza problema, l'anello, il bracciale, il collier e pure gli orecchini! Pazienza, voglio fortissimamente voglio l'auto, il riscaldamento al massimo. Non mi succede spesso di desiderare con tale ardore la conclusione di un giro in bici.
La discesa dal passo del Bracco è infinita e gelida; il vento non cessa, nemmeno ora, di ululare e schiaffeggiare gli alberi e noi. Però la vista di Sestri laggiù mi rincuora: in questo momento, per me è la città più bella del mondo!

Concludiamo la nostra rocambolesca avventura verso le quattro, con 112 km e circa 2.800 m sul groppone. E' vero che ho patito la temperatura siberiana anche qui, ma, nei paraggi di casa, oggi non mi sarei proprio mossa. Quindi, come si suol dire, è tutto grasso che cola. Ma l'avventura non è ancora finita: adesso si tratta di rimettersi al volante... E riaffrontare la Torino Savona! Per fortuna, la neve non cade più; la carreggiata è pulita. Ci si mette il sonno, l'effetto del caldo dopo una giornata al gelo, che mi costringe, dopo qualche pericoloso involontario cambio di corsia, a fermarmi a nanna mezz'oretta a Carcare in autogrill, onde evitare di compromettermi la stagione ciclistica 2009 e magari anche tutte le altre! Intorno alle sette, riabbraccio il mio Skipper e trovo, grazia insperata, qualche residuo degli esperimenti culinari con cui, di tanto in tanto, si diletta mia sorella. Adoro fare la cavia; ogni tanto, quando l'esperimento va storto, c'è il rovescio della medaglia... Ma stasera un piatto già caldo non può che farmi felice: provvederò ad incentivare questa passione!

giovedì 25 dicembre 2008

Natale 2008 - Anonimo podista

Ma guarda... Ed io che oggi pensavo proprio d'essere sola. Anzi, sono uscita, anche, per essere sola. Vestita di tutto punto per affrontare la pioggia: giacca e scarpe in GoreTex, pantaloni impermeabili, berretto, guanti, cuffiette. E niente occhiali, perché nessuno ha ancora inventato il tergicristallo per le lenti, o almeno, che so, una piccola grondaia: gli occhiali, con la pioggia, non servono a nulla. Se non altro, così, nature, qualcosa vedo: almeno, riesco a distinguere le sagome delle auto, quel tanto che basta a non incrociarne il cammino.
Quella che dalla finestra di casa sembrava pioggia, poi, non è pioggia affatto: sono chicchi finissimi di ghiaccio, non fiocchi di neve, no, minuscoli proiettili che pungono la faccia, unico spazio di pelle lasciato libero dalla mia tenuta simil-palombaro. Quelli che per un attimo mi fanno domandare "Ma chi me lo fa fare", sì, proprio a me che tanto mi scoccio quando a chiedermelo, con fare a metà tra l'ironia e la commiserazione, è qualcun altro.

Son proprio impronte, quelle che corrono qui accanto. Non sono le mie, quelle che ho stampato all'andata: no, quelle le ho viste per un po', dopo il giro di boa, ma poi si sono dissolte, coperte dalla neve. No no, queste qui sono altre. Chissà da quant'è che mi accompagnano? Non ci ho proprio fatto caso; stento a tener gli occhi aperti, i fiocchi, ora veri fiocchi come si deve, ci s'infilano malandrini. Corro in aperta campagna, tutt'intorno bianco, neve, nessun rumore, le cascine che so essere qui nei paraggi, avvolte nella nebbia – ma quanto di quel che vedo è nebbia, e quanto l'immagine sfocata ed incerta che giunge al mio unico neurone dai miei occhi un po' scassati di miope senza speranza? Persino i cani sembrano essere in ferie, quasi tutti, a parte uno, l'inflessibile guardiano dell'ultima cascina prima del mio punto di svolta e ritorno. Lui no, il bestione bianco c'è sempre; anzi oggi, in perfetto mimetismo con l'ambiente, avrebbe anche potuto tendermi un agguato... Ma non è stato un buono stratega; il suo vocione tuona già da due chilometri di distanza!
Orme grosse, di un gran piedone, e falcata lunghissima, impressionante. Orme lasciate da poco, che la neve non ha ancora riempito. Chissà chi, chissà dove? Lungo questa strada piatta e bianca che sembra tanto un'immensa pista di coca, e peccato che non abbia con me una cannuccia, chissà chi altro c'è a farmi compagnia. Chiunque sia, ormai è troppo lontano, mi sa, e con quella falcata lì, non lo acchiappo nemmeno se mi metto a piangere in cinese. Però inconsapevolmente seguo quella traccia, anche se ne resto un po' discosta, quasi per rispetto della sua bellezza, della precisione di quel passo che sembra disegnato così apposta, tanto è regolare. Anche se sarà la neve, presto, a colmare quel che resta del passaggio del misterioso podista.

Mi lascio guidare dalle orme, mentre penso a momenti e luoghi lontani anni luce da qui, passati e futuri, e lascio che il battito del cuore, ormai indifferente al ritmo sempre perfettamente uguale della corsa, acceleri all'improvviso mentre gli occhi vedono il sole che si abbassa alle mie spalle mentre risalgo la strada delle Gole del Verdon, gli ultimi tornanti prima dell'Umbrail Pass quando alle spalle ci son già nove salite e più di quattrocento km sui pedali, la panchina di Frassino quando son due notti che quasi non dormi e devi ancora salire al Colle di Sampeyre e poi a Montemale e chissà quant'è distante Cuneo e pensi che non ce la farai mai e tantovale buttarti a dormire qui e non pensarci più... Vedono una bellissima notte stellata a duemilaquattrocento metri di quota, a cercare di prendere almeno un po' di sonno in un giaciglio di fortuna in mezzo ad un prato, sotto un telo termico, un'altra splendida notte con la luce della luna che rischiara il Monte Bianco davanti a te, e tu tremi e batti i denti per il freddo ma non c'è proprio nessun altro luogo al mondo in cui vorresti trovarti adesso, sola. E poi tornano a veder le orme, sempre fedeli, sempre accanto, anche oltre al bivio, anche se, man mano che i chilometri scorrono, la strada si fa più soffice, i piedi affondano e tornano su come nella sabbia. Un po' a destra, un po' a sinistra, tanto qui non passa nessuno già nei giorni ordinari, figuriamoci poi oggi, Natale, ora di pranzo, con la neve.

Sarà stupendo il 2009, se riuscirò davvero a tradurre i miei sogni in realtà. Almeno, ci proverò, anche se ogni anno gli obiettivi sono sempre più ambiziosi, e quasi mai ce la faccio, a raggiungerli. In fondo, però, sognare non costa nulla, e tantovale allora farlo in grande, guardarmi come se fossi spettatrice all'arrivo del Raid Provence Extreme, della Race Across the Alps, immaginare cosa diavolo possa essere davvero una corsa ciclistica che qualche individuo dotato di sadico umorismo ha pensato bene di battezzare "Tortour". E magari anche scrollarmi via un po' di neve dalla giacca: altrimenti, sembro davvero un pupazzo. E' ora di tornare giù con i piedi per terra, perché si sentono i rumori dell'autostrada, pochi chilometri e sarò a casa. Un vero atleta non si accontenterebbe certo dei miei ventidue km; anzi, sarebbe felice di affrontare con sprezzo del pericolo la furia degli elementi. Ma qui, in questo istante, non ci sono elementi infuriati, c'è solo la neve che scende pigra e placida, appena un po' scombussolata da un leggero vento che mi appiccica i pantaloni impermeabili alle gambe, dal ginocchio in giù dove il pantaloncino non arriva. E non ci sono nemmeno veri atleti. Quindi rinuncio a qualsiasi deviazione e punto dritta verso casa; se potessi, col pensiero farei levitare il cartoccio del latte verso la tazza e la tazza verso il forno a microonde, per trovarla già bella calda e fumante al mio arrivo.

Quasi mi spiace quano, all'ultimo bivio, le impronte del mio collega virtuale girano di là, a sinistra. Torno ad essere sola in mezzo alla campagna; troverò ancora le tracce diagonali delle zampine del leprotto, ma non ci sarà più nessuno a correre accanto a me. Beh, chiunque tu sia, anonimo podista, non ci siamo incrociati per un pelo. Con quel passo lì, non sei certo uno di quelli che oggi si improvvisano corridori solo per espiare le abbuffate dei giorni scorsi. Sei di certo uno che, come me, ha cercato la solitudine e l'ha trovata qui tra i campi. Sei uno che, come me, sta trascorrendo il giorno di festa nel migliore dei modi possibili, per te come per me. Chiunque tu sia, anonimo podista... Buon Natale!

domenica 14 dicembre 2008

30 novembre: un temerario a spasso per le Langhe!

Spazio alla penna, anzi alla tastiera, di Luca; questa volta tocca a lui descrivere un'avventura tutta sua: io ci aggiungo solo una foto!

Nonostante le condizioni non ottimali di questo fine settimana non avevo voglia di rulli, allora ho inforcato l'unica mtb a disposizione in casa - antidiluviana, logora ed arrugginita, ma che ha egregiamente adempiuto al proprio compito- e ho pedalato all'aperto. In particolare ieri, cammin facendo, ho deciso di fare una visita in alta langa. Son salito da Dogliani verso
Somano, poi Bossolasco, quindi mi sono mosso lungo la provinciale che percorre
la cresta: poco tempo a disposizione, ma sufficiente per apprezzare.
Appena oltrepassato l'abitato di Bossolasco mi sono trovato sospeso in
un'atmosfera speciale... la sensazione di essere diventato parte di un
acquerello di Oreste Tarditi.
La strada bagnata e, in qualche curva poco esposta, ancora parzialmente innevata.
I cumuli di neve che, ai lati delle strada, riducevano la larghezza della
carreggiata, a tratti come se avessi imboccato per errore un tragitto secondario.
Niente e nessuno in giro, se non qualche raro pedone dal passo frettoloso, pochissime auto, qualche animale selvatico che si era spinto fin sulla strada.
Banchi di nuvole ad avvolgere le cime delle colline più alte, in un abbraccio freddo ed ovattato, come a preservarle dall'invadenza di sguardi impazienti.
L'odore antico di fuliggine che emanava dai comignoli fumanti di alcune case isolate, unica traccia visibile della presenza di abitanti al loro interno.
Spruzzi di acqua salata e fango sulle lenti degli occhiali, già velate di condensa, mi impedivano di osservare bene prospettive e dettagli a me noti... eppure ciò che vedevo era esattamente quello che avrei voluto vedere in quel momento.
Gli stessi spruzzi di acqua salata e sabbia di cui mi era impossibile non sperimentare il sapore... eppure quello era il gusto che avrei scelto di provare in quel momento.
L'aria fredda ed umida a velare la capacità di carpire aromi... eppure il sentore che appena intuivo era l'odore che avrei voluto percepire in quel momento.
Le prime luci della sera, già accese a metà pomeriggio, e la sensazione di freddo che mi pervadeva mani e piedi... eppure non potevo immaginare di poter stare meglio.
Pur lasciandosi condurre dal divenire di pensieri che sorgevano e mutavano, dissolvendosi l'uno nell'altro, tutto era privo di contraddizioni, tutto era chiaro nella mia mente.


13 dicembre 2008 - Corsa notturna in Langa

Matteo aveva già lanciato la proposta tempo fa: quand'è che facciamo un bell'allenamento notturno di corsa in Langa? Poi ci si è messa anche mia sorella: "Se non ti spiace, il 13 sera farei una cena con alcuni amici". No per carità, a me non spiace affatto; basta che io non sia coinvolta... Mi organizzo e sparisco nel nulla! Non posso farci niente, ho una vera e propria repulsione per le occasioni di convivialità che siano qualcosa di più di una veloce pizza e quattro chiacchiere tra ciclisti o corridori; di altro non saprei parlare e per altro non avrei alcun interesse, oltre al fatto che non sopporto di star seduta a lungo ad un tavolo ed ingozzarmi come un'oca, con tutto il seguito di rimorsi e fatiche per smaltire le calorie... Sono secoli che non lo faccio!

Due più due: sabato sera potrebbe essere appunto l'occasione per un bell'allenamento in Langa. Fin dal mattino, scruto il meteo: nebbia e pioggia, niente da dire, situazione incoraggiante. L'appuntamento sarebbe questa sera alle nove a Dogliani: però mi spiace far correre Matteo fino lì per poi correre senza veder nulla, incamerare solo una dose industriale di freddo ed umidità. Invio una mail con le mie perplessità e, nel dubbio, esco nell'ora di pranzo per una quindicina di km di corsa, imbacuccata come se dovessi affrontare il diluvio universale. Quando rientro, scopro quel che in fondo sapevo già: Matteo non si fa certo scoraggiare dagli elementi avversi! Appuntamento a Dogliani confermato, quindi.

Ho preparato tre possibili itinerari, uno da 41 km, uno da 32 ed uno da 25, a seconda del tempo che vogliamo dedicare alla corsa, al freddo che siamo disposti a sopportare ed alla fatica che le nostre gambe vorranno tollerare. A Dogliani, dove entrambi giungiamo dopo un viaggio in auto abbastanza rocambolesco tra nebbia e pioggia, la scelta cade su quello da 32; in ogni caso, se ce ne fosse la necessità, si può "tagliare" sul percorso da 25 senza difficoltà. Siamo addirittura in anticipo sulla tabella di marcia; riusciamo ad avviarci qualche minuto prima delle nove. Io ho optato per l'abbigliamento da pioggia: maglia di pile alla pelle e GoreTex sia per la giacca che per i copripantaloni; piedi impiastricciati con la pasta Fissan onde evitare il rischio di piaghe se le calze dovessero bagnarsi, più le scarpe che uso per i trail, seriamente impermeabili. Completano il quadretto un berretto di pile, i guanti e lo zaino con un po' di pappatoria ed una giacca in più, non si sa mai. Matteo viaggia ben più leggero, a parte la scorta di cibo per un reggimento. Ho in mano una luce, ma l'accendo solo quando sento arrivare un'auto.

Partiamo in direzione Bossolasco, ma dopo 500 m svoltiamo già a sinistra, direzione Cissone e Serravalle Langhe, e ci togliamo dal traffico di auto. Entriamo in un mondo da favola: intorno a noi, solo nebbia e neve, tutto sfocato, bianco e grigio, tutto ovattato. Per me, poi, l'effetto della nebbia è amplificato dalle lenti appannate, prima, e dalla forte miopia, quando gli occhiali finiscono in tasca. Non serve la luce artificiale, basta il riverbero della neve per permetterci di intuire la strada.
Dal parcheggio a Serravalle ci sarà una dozzina di km: la prima metà, circa, su strada solo leggermente in salita; la seconda, dopo il bivio con la strada che sale a Roddino, di vera ascesa, con pendenze tuttavia non proibitive. L'avvio, come sempre, per me è un po' affannoso; meno male che a chiacchierare pensa Matteo, mentre io misuro le risposte in base al fiato che mi serve per non soffocare. Gli alberi, i cartelli stradali, i parapetti dei ponticelli compaiono come figure spettrali, cariche di neve, solo all'ultimo istante; di tanto in tanto, un'auto ci sorpassa con la massima circospezione, manco fossimo fantasmi. E allora, mai visto nessuno correre di notte, qui, in luogo sperduto, con la nebbia e la pioggia? Probabilmente no...

Il buio uniforme è interrotto solo dalla lucina fioca della finestra di qualche casa, che è pur sempre un conforto, il segno di una presenza umana. Quando poi inizia la salita vera, cedo del tutto lo scettro della discussione a Matteo: vado matta per i racconti delle sue storie di vita, ma non posso che replicare a monosillabi; sì, no, niente di più... Intanto, osservo che forse forse mi sembra più breve a piedi che in bici, questo tragitto. Un paio di tornanti, un ristorante illuminato a destra, poi ancora tornanti ed eccoci in paese, a Cissone. Ancora un po' di salita, più blanda, e siamo a Serravalle Langhe. Da qui, rimarremo per parecchi km sulla strada in cresta, leggermente più trafficata, ma non poi tanto. In bici lo noto meno, ma a piedi mi accorgo delle minime pendenze in questo tratto che sembra pianeggiante. Da qui si potrebbe godere una vista spettacolare; invece, ancora nebbia, addirittura più fitta di prima; anzi, più pioggia che nebbia. Passiamo la Fontana Azzurra senza che me ne accorga; sarà perché sono impegnata a scartare e spezzare il Ritter.
Un po' prima della rotonda da cui partono la via centrale del paese e la strada per Somano, la pendenza diventa in leggera salita, e prosegue, oltre la rotonda, ancora un po', fino all'uscita di Bossolasco. Passiamo accanto al parcheggio di un ristorante: un'auto che sta per uscire inchioda appena ci vede... Scommetto che, per lui, siamo due materializzazioni del troppo alcool ingurgitato a tavola!
Sono un po' in crisi, fiato grosso, gambe appesantite: uhm, speriamo che si tratti solo di un malessere passeggero; non posso certo mollare qui!

Impossibile valutare con precisione le distanze, ora che è buio pesto e decisamente piove. Ancora latrati di cani, case, una chiesetta illuminata; alla rotonda che ben ricordo arriviamo quasi senza accorgercene. Dritto di qua s'andrebbe a Murazzano; a sinistra, a San Benedetto Belbo; noi invece svoltiamo a destra verso Bonvicino. Ci attende una lunga discesa: ecco, ne bastano poche centinaia di metri per far comparire il mal di gambe, uffa! Ancora buio, pioggia e freddo; auto sempre più rare, automobilisti sempre più sconcertati. In un attimo siamo a Bonvicino, un grumo di case silenzioso e dormiente; poi, lungo tratto di fondovalle con qualche saliscendi, qualche strada che si stacca a destra ed a sinistra e sfuma nel buio, l'ennesima auto che rallenta vistosamente: esclamo a casaccio, "Cosa vuoi che pensino, vedendo due persone qui correre a mezzanotte?". Matteo guarda l'orologio: cavoli che tempismo, è mezzanotte in punto!

In mezzo agli alberi dall'aspetto lugubre, trapela la luce di Dogliani; il bivio con la strada che sale a Somano arriva dopo un'eternità. Restano circa due km sulla strada principale: leggera risalita ed altrettanto tenue discesa, poi qualche metro di passo ed eccole lì, la Mini e la Opel in paziente attesa; 33 km, circa 3 ore e mezza, che, considerato il dislivello, non è neanche un tempo malvagio. Ci congediamo, carichi di freddo e di sonno, ma contentissimi per l'ennesima avventura: questa è piccola, ma è pur sempre una bella impresa... E cosa c'è di meglio di arrivare a casa alle due ed avventarsi senza rimorsi, a mò di avvoltoio, sui gustosissimi avanzi della cena?

Provenza - 7/8 dicembre 2008 - II giorno

Ci vuole qualche istante perché i miei due neuroni si scrollino la brina di dosso e riprendano a funzionare, almeno per le funzioni vitali di base. Un lampo di genio, anzi di preoccupazione, nella notte: ma qualcuno l'avrà messa, la sveglia? Io no... Andando per esclusione, non mi resta che sperare che ci abbia pensato Matteo. "Sì, alle sei e mezza"... Meno male. In ogni caso, dalla finestra non filtra ancora nemmeno un barlume di luce: che goduria inestimabile, svegliarsi e scoprire che si può dormire ancora un po', o almeno poltrire in attesa del trillo, che si fa sentire poco dopo. Tornata del tutto alla realtà, da sotto il calduccio delle coperte, immagino con terrore la temperatura siberiana che mi congelerà il naso non appena aprirò la porta: ma s'ha da fare, tocca svegliarsi dal letargo e prepararsi. Colazione alle sette e mezza: puntualissimi, ci presentiamo a tavola. I titolari della chambre ci ospitano nella loro stessa cucina: peccato, per me, non poter intrattenere uno straccio di conversazione. Devo accontentarmi di far da spettatrice: a dire il vero, un minimo di discorso sarei forse in grado di imbastirlo, ma mi vergogno all'idea di tirar fuori qualche boiata del tipo "Nù vulevam savuar l'indiriss..." e mi censuro. Sembra di essere stati proiettati sul set della pubblicità del Mulino Bianco: casa perfettamente linda ed ordinata; tavola imbandita con ogni possibile leccornia, marmellate, miele di lavanda, biscotti di varia foggia, pane, burro salato e no, frutta, succhi di frutta, yogurt. Ai due lati opposti della cucina, ampie finestre che danno sul giardino, da una parte, e sulla piscina in mezzo agli ulivi, dall'altra. Famigliola con papà e mamma giovani, belli e gioviali e due bimbe, una però ammalata in camera, l'altra che si accomoda a tavola salutando educatamente, vestita e pettinata senza un capello fuori posto, come una bambolina. In altre circostanze, tutto il mio cinismo sarebbe emerso all'istante, come una palla quando tenti di spingerla sott'acqua; davanti ai miei occhi si sarebbe materializzata l'immagine di quelle stesse persone, private della loro bella maschera di cera, nervose o euforiche o tristi o imbestialite come capita a tutti i comuni mortali. Ma tutto sommato oggi anche la mia natura vipera s'è presa un giorno di vacanza; va bene così, va bene che sia tutto bello anche se magari è finto. Meglio pensare alla colazione, anche se non oso mangiare tutto quello che vorrei: mi porto dietro da ieri una buona dose di fame residua, ma non voglio far la figura di quella che non mangia da una settimana, quindi mi modero; Matteo invece non pare farsi questo genere di problemi; anzi, mi stupisco che non addenti anche il tavolo ed il braccio del padrone di casa!
Si parla di distanze e di percorsi; grande meraviglia quando Matteo descrive l'itinerario di ieri e quello che andremo a coprire oggi, tanto che l'uomo di casa si meraviglia di come Matteo riesca a far fare a "sa femme" una cosa del genere. E qui mi ribolle già un po' il sangue nelle vene. Un po' per esser definita "la femme" di chicchessia, che non saprei bene se si traduca come "moglie" o come generico "compagna" ma mi dà ai nervi lo stesso – ricordo, a proposito, un proclama femminista che campeggiava tempo fa sul muro sotto i portici di una via di Torino, "Io sono mia", a cui qualche burlone aveva risposto a tono "E tieniti! Chi ti vuole?". Ma soprattutto perché non c'è alcuna necessità che qualcuno "mi faccia fare" qualcosa in bici; che diamine, è la passione mia e basta! Però, a ben pensarci, un fondo di verità c'è: l'idea della Provenza l'ha avuta Matteo; da sola non ci avrei probabilmente nemmeno pensato.



Quando ci alziamo, l'immagine che resta sul tavolo è una buona rappresentazione di ciò che resta dopo il passaggio di uno sciame di cavallette particolarmente affamate. Abbiamo spazzolato una quantità di cibo tale da sfamare una famiglia africana con sei figli per un mese... Ma noi s'ha da pedalare! Ci prepariamo alla svelta, raccogliendo il nostro bagaglio già molto concentrato. Al momento di partire, però, si presenta un problema inatteso: il fango che s'è appiccicato alle ruote della bici di Matteo durante le scorribande fuoristrada di ieri sera è congelato lì, formando una crosta spessa che non ha la minima intenzione di lasciar girare le ruote od azionare i freni. E non si stacca nemmeno afferrandola con le dita o tentando di raschiarla via con un ramo. E' peggio del mastice! Alla fine, l'idea di versarci sopra dell'acqua calda è vincente. La terra, impregnata d'acqua, diventa molto friabile e si sbriciola subito. Il vapore che sale dal getto della borraccia, riempita con l'acqua calda del lavandino, dà l'idea della temperatura che c'è qui fuori... Il giardino è bianco di brina come i muri della casa, come tutto qui intorno; le foglie delle piantine nei vasi sono ricoperte di minuscoli aghi di ghiaccio. Ma splende il sole, che, confido, provvederà a riscaldare almeno un po' le nostre spalle in viaggio.



Matteo traffica per un po' prima di riuscire a liberare del tutto i freni; sono circa le otto e mezza quando ci rimettiamo in marcia. Sulla carta, oggi ci attendono meno km rispetto a ieri; "solo" 150, circa. Però dobbiamo tornare alla quota di La Palud, partendo dal basso, quindi avremo più salita e non risparmieremo poi molto tempo.

Ci troviamo sul tratto del Raid Provence Extreme che fa parte del tracciato 2009, un'aggiunta rispetto al percorso del 2008. Da Murs infatti si scende per poi andare a risalire allo stesso paese, passato il Col de Murs, attraverso una suggestiva gola. La discesa è blanda e fredda, anche se, pare, molto meno di quella che ieri ha dato inizio al viaggio; ci porta in mezzo a strapiombi di roccia porosa e vegetazione di un'unico colore bianco: luogo suggestivo, ma mai quanto la successiva salita. Ad un bivio, svoltiamo a destra; da qui al Col de Murs ci sono circa sei km di salita dolce in mezzo alle Gorges, dove il sole arriverà solo tra qualche ora; tutto gelato, bianco, scintillante in quei pochi scorci di sole dove un raggio riesce già a trapelare. Le dita delle mani e dei piedi fanno già male: non mi resta che immaginare con ansia la calura che qui troveremo il giorno della corsa, a fine maggio. Qualche foto è d'obbligo, ma il sole non arriva mai? No, di tanto in tanto illude, fa capolino, poi torna a sparire dietro le rocce. E, come per tutte le salite da queste parti, ci si arrampica senza mai riuscire a capire dove possa andarsi a concludere l'ascesa.



Incontriamo proprio qui un cicloturista con bici tipo passeggio ed un bagaglio stile vacanza al mare per tutta la famiglia, enorme: cavoli, ed io che già mi sentivo molto eroica per questi due giorni...
Finalmente il colle ed il sole; scendiamo a Murs, deserta e sonnacchiosa come la sera precedente, se non per un paio di operai al lavoro – oggi in Francia non è festa come da noi. Ripercorriamo la strada che ieri abbiamo coperto in salita, giusto per renderci conto che le rampe non erano solo un'impressione dovuta alla stanchezza: c'erano davvero!




Al bivio in fondo, svolta a sinistra e risalita a St Sautrnin les Apt. Matteo sempre davanti, a far da apripista; io vigliaccamente imboscata a ruota. Poco oltre gli abitati di Rustrel e Gignac, abbandoniamo il percorso del RPE, che sa St Saturnin abbiamo percorso al contrario rispetto al senso di marcia della gara, per dirigerci verso Simiane la Rotonde ed andare a riprendere il percorso originario della corsa in un altro punto, lungo la strada che da Banon conduce a St Michel l'Observatoire. L'alternativa è tra un tratto di pianura ed una deviazione con salita verso Carniol: ovviamente si ricade su quest'ultima scelta; abbandoniamo quindi la strada principale in favore di una stradina secondaria con breve salita, tre o quattro km, e vista spettacolare sulla vallata. Per ora le gambe sembrano voler girare bene, con il conforto di qualche grado in più. Siamo ancora entrambi belli ringalluzziti, anche se un po' di preoccupazione ce l'ho, per il fatto che, secondo me, anche stasera ci toccherà un po' di strada al buio. Il tragitto di oggi è più breve ma è lento; la salita è molta e spezzata, quindi faticosa.
La discesa ci dà, a tratti, l'impressione di entrare ed uscire da una cella frigo. Ci sono alcuni punti, poche centinaia di metri per volta, in cui il sole proprio non arriva; il cambiamento di temperatura dell'aria è repentino, si avverte all'istante con brividi che aggrediscono la schiena ed irrigidiscono le gambe, con le mani che dolgono e si ribellano al contatto con i freni, nonostante i guanti spessi.

Torniamo, di lì a poco, sull'asfalto del percorso ufficiale. Un po' di discesa, poi qualche km di risalita che sembra molto più lungo di quel che è, perché su strada ampia ed ostinatamente dritta; tutte immagini che spuntano pronte nella memoria, tutti luoghi che ho già visto. Poi la discesa verso St Michel, dove Matteo riesce nell'impresa in cui io per ben due volte ho fallito: individuare l'Observatoire! E sì che è grosso: ma, per vederlo, tocca voltarsi indietro; ecco perché non l'avevo scovato, concludendo che St Michel l'Observatoire fosse in realtà un paese millantatore, senza Observatoire.
Passando a qualcosa di più concreto: sarebbe ora di cercar qualcosa da mettere sotto i denti; io ho scorte a sufficienza per l'intera giornata, ma avrei gran voglia di un pezzo di pizza, di qualcosa di buono da scovare in boulangerie, o di un po' di pane e formaggio; quanto a Matteo, mi sa che l'inceneritore ambulante è al limite della risenva fissa... Ma non c'è nulla di aperto qui; tantovale puntare diritti verso Manosque, che è una città più grande e magari offre qualche negozio aperto anche nell'ora di pranzo. Ancora una deviazione a sinistra, verso St Martin les Eaux; sì, me lo ricordo, qui c'è ancora una salita, prima di giungere a Manosque. Nulla di proibitivo, ma per me la fame di qualcosa di sostanzioso comincia a farsi sentire in modo prepotente, insieme alla stanchezza ed all'agitazione che ancora serpeggia per le ore di luce che restano, troppo poche in rapporto alla distanza che ci separa dalla Opel. La salita è più lunga di quel che sembra; qualcuno si ferma a chiedere quale sia la direzione giusta per Manosque. Noi, sia pure per vie traverse, stiamo per arrivarci.
Un momento di panico mi assale quando mi accorgo che, all'improvviso, la catena si mette a "saltare": c'è qualcosa che la fa incastrare nelle rotelline del cambio, causando un mezzo movimento a vuoto dei pedali. Il cuore per un attimo si ferma... No, non è possibile!!! Se si guasta qualcosa qui, adesso, sono panata! Vorrei evitare una sosta inutile, tirando dritto fino a Manosque, ma Matteo, con la sua flemma proverbiale, mi convince a fermare: estrae lo smagliacatena, individua la maglia incriminata, traffica un po' e, nel giro di pochi secondi, risolve il problema. Ed è già almeno la seconda volta nell'anno che mi rimette in sesto la bici, senza contare le innumerevoli volte in cui ha risolto i ben più insidiosi guai dei miei momenti di sconforto e di rabbia. Credo di aver sviluppato nei suoi confronti, tra i miei vari confusi sentimenti, anche una sorta di sindrome del marsupiale: se non c'è lui in giro, mi sento un po' persa... Al contrario, quando c'è, credo che potrei riuscire quasi in qualsiasi impresa matta!

Discesa veloce su Manosque, un paesone che appare orrendo già da lontano. Percorriamo una sorta di circonvallazione, caotica quanto basta per farmela odiare; però, ci offre l'occasione di una bella boulangerie aperta. Un panorama di pane, dolci e focacce dietro il verto del bancone... Non ce lo facciamo dire due volte: pizza e due brioches per uno.
Litigando con il telefonino che non vuol saperne di funzionare, sbrano sia il trancio di pizza che una delle brioches; l'altra finisce nel borsello da manubrio, insieme alle merendine residue. Probabilmente la titolare del negozio, da dentro la vetrina, ci sta osservando con la compassione che si riserva a chi patisce da sempre la fame...

Semafori, rotonde e ancora rotonde, poi inizia l'odiosa risalita verso Valensole: odiosa perché impietosamente dritta, molto dolce ma non per questo meno insopportabile. E meno male che non tira vento. E' primo pomeriggio, non sono ancora le tre, ma il sole è già basso, la sua luce gialla, le ombre sempre più lunghe. E' una salita odiosa perché non si conclude mai, non offre la consolazione di una discesa ma solo di un tratto finale in piano, in mezzo ai campi di lavanda, con le montagne innevate sempre più vicine. L'aria è così limpida che sembra di poterle toccare allungando la mano. Ormai la mente, complice la stanchezza, viaggia per conto suo e si fissa sulle cose più strane; mi colpisce, poco prima del paese, un signore che scende da una lussuosa auto a bordo strada, vestito con un bel maglione ed un paio di pantaloni con un vistoso strappo su un ginocchio ed un lembo di stoffa che penzola: un "alternativo" un po' troppo cresciuto, oppure un reduce da un diverbio con qualche cane poco amichevole?

Appena oltre Valensole, svoltiamo a sinistra verso Puimoissons, ripercorrendo a ritroso la strada di ieri mattina. In teoria, avremmo dovuto svoltare a destra secondo quanto previsto dal percorso ufficiale; di qua, però, si risparmiano tanti km ed un paio di saliscendi; vista l'ora e la strada ancora da percorrere, è meglio così. Matteo snocciola le cifre della distanza che abbiamo ancora da metter sotto le ruote, e le previsioni circa l'ora di arrivo, a cui io, che ormai conosco il mio pollo, aggiungo un'ora buona. Sole sempre più basso, ombre sempre più lunghe; da Puimoissons verso Moustiers, si sale, si scende, ancora una volta in mezzo ai campi di lavanda, alla terra che adesso ha il colore dell'oro, appena accarezzata dai raggi lunghissimi e radenti.



Mi sbizzarrisco con la macchina fotografica, sperando di cogliere i giochi di luce ed ombra; ormai la prestazione sportiva in sé, se mai ha avuto qualche importanza, non conta più. L'unica cosa davvero infaticabile è la lingua: non smettiamo mai di chiacchierare; gli argomenti non ci mancano!



Gli ultimi km prima di Moustiers sono una sofferenza, prima in pianura e leggera salita, poi in rapida discesa che ancora una volta ci congela; ormai la strada è in ombra; abbiamo ancora breve autonomia prima di essere obbligati a fissare le luci sulla bici. Il paese è una meraviglia, così arroccato all'ingresso delle Gorges du Verdon, alla luce fioca della sera; ci passiamo proprio sotto, poi scendiamo ancora un paio di km prima di imboccare il bivio per La Palud. Da qui ha inizio l'ultima fatica: circa 17 km all'auto. Anzi, per me saranno 15: per sua somma magnanimità, infatti, Matteo farà questa salita "a tutta", recupererà la Opel a La Palud e tornerà un paio di km verso di me, per attendermi proprio in cima al colle e risparmiarmi gli ultimi due km di discesa. Lo so, lo so: sono solo due km, ma ne sono terrorizzata, perché già immagino quanto possa essere feroce il freddo, lassù.




I primi tornanti ci portano in vista del lago, meraviglioso, rosso fuoco come il cielo all'orizzonte; tento un paio di foto, ma la macchina fotografica ostinatamente fa scattare il flash. Mi sa che verrà fuori una schifezza, ma pazienza. Poi mi fermo per montare le luci e caccio letteralmente via Matteo, che poveretto, da due giorni morde il freno! Parte, sparisce, non lo vedo più. Mi riavvio con calma, dopo aver litigato per qualche minuto con la frontale e con il giacchino rifrangente. Per la mia vista scarsa, questa è l'ora peggiore, quand'è già buio ma non completamente. In più, spesso la strada in questo tratto tende a scendere; io non riesco a definire in modo nitido il bordo della strada, ma so che al di là c'è un gran bel salto... Quindi rallento, ben più del dovuto, e mi tengo, per quanto possibile, in mezzo alla strada. Sulla mia testa, paretoni verticali quasi inquietanti; sulla pelle, vento freddo che sta pian piano rinforzando. La luna non si vede, ma se ne intuisce la luce, che illumina il vallone quel tanto che basta a distinguere il profilo della montagna dal cielo. Una miriade di stelle limpidissime, scintillanti; ancora vento che sibila nelle orecchie e rende un po' più ardua la salita. E' un misto di preoccupazione e pace quello che sento in questo istante; preoccupazione per il freddo che ormai si fa intenso e risale dalle braccia al tronco, dai piedi alle gambe, assale la faccia; pace perché non si sente un rumore, solo il fruscio degli arbusti ed il latrato di qualche cane in lontananza.

Mi accorgo all'improvviso che il baratro ha lasciato il posto a morbidi prati in parte innevati. Di tanto in tanto, in lontananza, spuntano le luci di qualche auto che mi sfila poi accanto con cautela, nemmeno avesse visto un fantasma. La luce della bici illumina i cippi che segnalano i km mancanti a La Palud; sempre due di meno alla fine del mio viaggio. Meno tre, meno due, meno uno; la pendenza si allenta finché, sotto un cielo tempestato di stelle sempre più belle e più vicine, scorgo la figura di un'auto e, accanto, in piedi, di una persona. Ebbene sì, è Matteo, che, nel giro di pochi km, mi ha dato un distacco tale da arrivare a destinazione, cambiarsi e tornare un po' indietro ad attendermi. La gioia ed il sollievo di questo incontro sono immensi: adesso anch'io posso tirare un sospirone di sollievo, schizzare in auto e cambiarmi, mentre il mio efficientissimo compagno di viaggio carica la mia bici nel bagagliaio. Sfido qualunque professionista al mondo ad avere un gregario così!

Conclusa la fatica sui pedali, ce ne attende ora un'altra. Il viaggio di ritorno sarà lungo: sono quasi le sette, abbiamo diverse ore di auto davanti a noi. Il che, da una parte, mi preoccupa un po', perché so che presto il sonno si farà sentire in modo prepotente; dall'altra, però, mi lascia la soddisfazione di poter trascorrere ancora un po' di tempo insieme al mio compagno d'avventura, dare libero sfogo all'entusiasmo, raccontare e sentir raccontare le impressioni delle due giornate. Si torna verso la costa; vana è la ricerca di un negozio di alimentari ancora aperto: devo dire che, questa volta, la mancanza di pappatoria mi preoccupa più delle volte precedenti... Dividiamo salomonicamente la mia scorta residua di merendine; poi però, superato in autostrada il confine italiano, si impone una sosta in autogrill alla ricerca di qualcosa di commestibile, onde evitare che il senso di debolezza che mi sta assalendo mi faccia rischiare troppo alla guida. Un caffé con zucchero e mezzo tubetto di biscotti Grancereale mi riportano allo stato cosciente; Ventimiglia, Sanremo, Imperia, le uscite scorrono in fretta, per fortuna, ma purtroppo. Ogni volta che vivo momenti come quelli appena trascorsi, farei di tutto per prolungare ancora un po' l'atmosfera del viaggio, in compagnia di chi ha contribuito a rendermelo tanto caro. Ma domani, ahimé, tocca tornare in trincea; del resto, se una favola durasse troppo a lungo, probabilmente non sarebbe più una favola. L'importante, in fondo, è che, quando la favola si conclude, rimanga più vivo che mai il desiderio di cominciarne un'altra, appena possibile. E noi la prossima l'abbiamo già in mente!

sabato 13 dicembre 2008

Provenza - 7/8 dicembre 2008 - I giorno

Le cifre rosse della temperatura campeggiano impietose sullo stabilimento della Maina, quando l'autostrada passa nei pressi di Marene: sette gradi sotto zero. Chissà se è giusto: la Opel non me ne può dare conferma; lo schermo su cui dovrebbero comparire data, ora e temperatura ha reso l'anima molti anni fa e nessuno s'è mai curato di farlo sistemare. Tanto, in soldoni, a che serve? Me ne accorgo da sola, che fa un freddo boia; lo vedo nell'aria limpidissima e nello scintillio dell'asfalto e della neve ghiacciata a bordo strada. Quel che è peggio, lo sento nelle curve del tratto appenninico, dove l'auto tende a pattinare un po'. Non ha gomme termiche, povera bestia; ha gomme vecchissime e chissà quanto consumate, ma poco male; non c'è nessuno nel raggio di chilometri, ergo posso appropriarmi dell'intera carreggiata e raddrizzare le curve per quanto possibile.
Mi tornano in mente i viaggi a Savona di quand'ero piccola: la minuscola A112, l'autostrada ad una sola corsia per ogni senso di marcia, le due ciminiere della centrale di Vado Ligure che segnavano la fine della lunga marcia. Stanotte no: sono le quattro e mezza e Savona è solo la prima tappa del viaggio. Ho appuntamento con Matteo appena fuori dal casello: dopo aver sbagliato strada un paio di volte, evento per me direi fisiologico, scorgo nelle tenebre una losca figura, uno zaino enorme, un paio di ruote. Evito per un pelo di travolgerlo: eccolo qui!
Ben poco educatamente, esco un nanosecondo dall'auto e ci rientro subito: le operazioni di carico preferisco seguirle dall'interno, dove non è che faccia caldo, ma almeno non si iberna! Pochi minuti e rieccoci in autostrada: in fondo, il vero viaggio inizia qui, in due, entrambi in fibrillazione per l'avventura ed ansiosi di arrivare, di scoprire cosa troveremo laggiù. E' un'emozione che entrambi conosciamo bene...
I km scorrono veloci con le chiacchiere; arriviamo a Nizza in un attimo, poi fuori, basta autostrada, si va su per i monti. E già comincia, ben prima del previsto, lo spettacolo. Ci lasciamo alle spalle Grasse e saliamo lungo una strada ampia, dalla pendenza morbida, su per i fianchi di montagne arrotondate, pelate come zucche: direi che questo è un posto caldo, molto caldo, di sole cocente, di sete; probabilmente lo è davvero, nella bella stagione, che qui è senz'altro molto lunga. Ma oggi è il 7 dicembre e non ci si salva, nemmeno qui. Le cime di fronte a noi sono imbiancate, solo una spruzzata, ma è già molto, visto che parliamo di monti affacciati sulla costa. E ci basta valicare il primo colle, infilarci nell'interno, perché crolli qualsiasi speranza di incontrare, oggi, il conforto di un po' di tepore. Quel che vediamo è una landa desolata, bianca: non solo di neve, ma di vivo, spesso, inconfondibile ghiaccio. Ghiaccio sono le colate d'acqua attraverso la strada, ghiaccio i candelotti che pendono dalle rocce, ghiaccio l'erba sui pendii. Il sole qui non è ancora arrivato; l'alba è giunta da poco, ma i raggi scalderanno questo posto solo tra parecchie ore, e per un tempo brevissimo. L'auto pattina vistosamente sulle ampie lastre di ghiaccio; mi tocca procedere con le ruote di piombo e guai a toccare i freni. Sono, anzi siamo, a bocca aperta: le stime su quanto possa essere bassa la temperatura si sprecano. Tutto, indistintamente, bianco, tutto in ombra, tutto immobile, cristallizzato, addormentato. Un colle, poi un altro ed un'altro ancora, salite sempre dolci lungo questa strada enorme e perfetta, che mi chiedo cosa stia a fare in questo luogo che pare deserto. Ogni tanto compare qualche casupola, qualche locale, ma tutto immobile in mezzo al bianco; sembra un paesaggio irreale, mette quasi paura, anche se qualche altra auto in viaggio c'è.

Ho lo stomaco in fondo ai calzini quando finalmente si arriva a La Palud, a due passi due dalle Gorges du Verdon. Si vede che guido talmente male, ma talmente male, che mi patisco da sola. E quel che vedo intorno a me non mi conforta per niente: ancora ghiaccio sull'asfalto, auto che potrebbero avere i colori di Arlecchino ma in questo momento sono tutte, uniformemente, bianche. Mi assale la preoccupazione: come posso pensare di mettermi in strada con la bici da corsa, in queste condizioni? Mi spaventano le dieci e più ore di viaggio che presumo mi attendano, ma soprattutto mi terrorizza l'idea di scivolare. L'incontro ravvicinato tra la mia faccia e lo spigolo di una rotonda, dello scorso gennaio, me lo ricordo ancora bene! Per fortuna c'è Matteo che, con la sua calma olimpica, riesce sempre a fare da contrappeso alle mie fobie. Mi guardo intorno. Poco fa abbiamo superato l'incrocio con la Route de Cretes, quella che porta dritta verso le gole, e un brivido, questa volta non di freddo, mi ha attraversato la schiena. Del Raid Provence Extreme dello scorso maggio, quello è uno dei tratti che ricordo in modo più nitido. Era notte fonda; la strada su in alto non si vedeva, ma sapevo che avrei dovuto superare alcune rampe impietose, per poi buttarmi giù lungo una discesa che di giorno fa venire, garantito, le vertigini. Già, me l'ero quasi dimenticato, ma il Raid Provence Extreme è la ragione prima per cui oggi siamo qui. E' Matteo che tempo fa ha lanciato l'idea: ovvio che, in due giorni a dicembre, non possiamo pensare di provare l'intero percorso di seicento e rotti km, ma possiamo sbirciarne almeno una parte, soprattutto quella che, rispetto all'edizione del Raid 2008, presenta qualche modifica.
Neve e ghiaccio... E' tutto quel che ho davanti agli occhi mentre osservo Matteo che sistema il suo enorme bagaglio sul portapacchi della bici. E' una struttura portentosa: chissà come fa a stare su; è perfetta, ha una forma tondeggiante senza nemmeno una sbavatura... Certo che avrà il triplo del carico che ho io nello zainetto! E l'ottanta per cento, conoscendo il mio pollo, è cibo. Cinghie, lacci, laccetti ed abili manovre: voilà, ci siamo, il dado è tratto. Tocca partire. Se riesco a muovermi, dato che sono già ibernata!





Il sole che a La Palud aveva appena fatto capolino, ci abbandona subito mentre imbocchiamo la strada verso Moustiers. Figuriamoci: i primi due km sono blanda salita, e già qui io litigo con la fisica e la mancanza di stabilità. Addirittura, in qualche punto, attraverso a piedi il lastrone di ghiaccio, rischiando anche così di volar per terra. Vorrei godermi lo spettacolo intorno a me, ma proprio non ce la faccio, tali sono la paura e la tensione che mi paralizzano le braccia ed i due neuroni. E fa freddo, dannatamente sempre più freddo! La discesa non è lunghissima, ma diventa eterna se fatta a venti all'ora quando va bene, con la sensazione di scivolare ad ogni metro, l'occhio fisso a cercare ogni parvenza di ghiaccio anche dove il ghiaccio non c'è. Tutto quel che vedo è l'asfalto, un po' di bordo strada con l'erba bianca di brina, i candelotti trasparenti che brillano in naturale prosecuzione del filo d'erba a cui sono appesi. Le mani, speriamo che almeno le mani resistano, che le dita non si irrigidiscano; speriamo che la discesa finisca, perché sto congelando! Ed è un misto di rabbia e paura quello che si sta facendo beffe di me, lo conosco bene ed ogni volta ci casco, anche se Matteo fa tutto quel che può per rassicurarmi e per distrarre la mia attenzione dall'ossessione. Se persino lui dice che fa freddo, allora fa freddo davvero. Ho fortissimi dubbi di riuscire, in queste condizioni, a percorrere i centosettanta km che abbiamo messo in preventivo per oggi. Come farò a resistere, se già adesso ho i brividi ed ho male, ma davvero male, a tutte le dita, mani e piedi?

La vista del lago alla mia sinistra mi rincuora un po': stiamo finalmente arrivando alla civiltà. Non ho visto nulla dei quindici km che mi sono appena lasciata alle spalle, non saprei dire se il panorama fosse bello o meno. Spero solo, con tutto il cuore, che, allontanandoci dalle gole, il clima diventi un po' meno nemico. Intanto, i brevi tratti di risalita, quelli che di solito detesto, mi sono preziosi per riscaldarmi un po'. Primo bivio, a destra per Moustiers: pian piano, i ricordi riaffiorano, le immagini, i luoghi. Se dovessi descrivere, sulla carta, il tragitto del Raid che ho percorso la scorsa primavera, dapprima in prova e poi in corsa, non ne sarei in grado, ma qui, ora che ci sono, pian piano rivedo i particolari. Un po' di salita, alla rotonda dritto e poi giù; ha inizio l'interminabile serie di saliscendi che mi ridurrà a brevissimo le gambe in pappa. Davvero, mi domando che ci faccio, io, qui su un tracciato di questo tipo, proprio io che non sopporto, né nel fisico né nella mente, i percorsi ondulati, su cui soffro moltissimo. Però adesso, finalmente, c'è il sole. Fiacco, ancora timido a quest'ora, ma c'è e riscalda il cuore prima ancora dei muscoli. La tensione si scioglie pian piano con la neve a lato strada, anche se non bisogna abbassare la guardia, perché, nei tratti in ombra, il ghiaccio è sempre in agguato. Non avrei davvero mai detto che questi luoghi, roventi già a primavera, potessero essere, in questa stagione, tanto inospitali. Eppure il cielo è blu come non mai, il sole splende, ma sembra quasi che i suoi raggi siano freddi. Puimuissons, poi Valensole; colline dolcissime, tutt'intorno i campi di lavanda, le piante disposte a file che accompagnano e sottolineano i morbidi declivi. E sullo sfondo, lontano, spunta il Mont Ventoux nella sua livrea invernale, con la vetta innevata appena un po' più bianca di quanto già appaia nella bella stagione, quasi accecante per i raggi del sole che accentuano il colore delle pietre e della sabbia, il paesaggio lunare, come viene spesso definito. Il Ventoux, e più in qua le Alpi, almeno, direi che, per esclusione, può trattarsi solo delle Alpi; vette ben più alte, cariche di neve, nitide, belle. E' là che vorrei poter pedalare, in realtà; mi manca la salita vera, mi manca la quota, guardare il mondo dall'alto quando l'alto te lo sei conquistato con la fatica dei garretti. Ci vorrà ancora qualche mese di pazienza, l'inverno è appena all'inizio.

Fatico, ma non posso che dare ragione a Matteo, quando osserva che tutto questo è molto rilassante. E' vero, questo ambiente dolce, un po' addormentato nel letargo invernale, ispira pace, tranquillità, anche se poi io litigo con i saliscendi. Matteo non scappa, resta pazientemente accanto, permettendomi così di godermi il viaggio senza angosciarmi di continuo perché causo ritardo nella marcia. E' tormentato da una tosse che non gli dà tregua, poveretto, chissà che non abbia la febbre; però è qui lo stesso, perché l'entusiasmo è più forte di qualsiasi malanno, perché in lui c'è quella vena di follia che me lo fa apprezzare ancor di più. Un comune mortale sarebbe a letto con la tisana sul comodino e la borsa dell'acqua calda sui piedi. Ma lui non è un comune mortale... Per fortuna!

A Puimuissons non potrei sbagliare, mi sembra d'esserci stata ieri; si svolta a sinistra e poi a destra, imboccando una stradina quasi interamente rettilinea che ci conduce a Valensole, non prima d'averci offerto ancora una volta lo spettacolo delle cime. Non si può correre, qui, neanche volendo. Tutto ispira pace, calma, tranquillità. Solo a Valensole c'è un po' di movimento; quasi cerco con lo sguardo il punto di controllo e ristoro a cui è obbligatorio timbrare il cartellino, nel Raid ufficiale, due volte, prima e dopo la gara. Mi sembra ancora di vedere il tavolino imbandito e gli indaffarati volontari intenti a preparare panini e caffé solubile. Incredibile, quanto un'avventura possa conficcarsi nel cuore e nei ricordi, riaffiorare quasi come sensazione sulla pelle a distanza di tanto tempo. Significa che l'hai vissuta davvero!
Da Valensole, ha inizio un lunghissimo tratto di pianura, leggera discesa, verso il Pont de Mirabeau. In realtà non è poi così lungo, saranno venti km, ma è orrendamente dritto e piatto. Matteo si mette davanti e, contrariamente a quel che temevo, prende un'andatura semplicemente adorabile, che non faccio fatica a seguire. Un breve tratto in ombra, che credo in questa stagione non venga mai raggiunto dai raggi del sole, ci ributta nella ghiacciaia: alla nostra sinistra, un pendio ripido che nasconde la strada alla luce diretta del sole; a destra, un campo di granoturco, alto, con le pannocchie ben formate, vista decisamente insolita per la stagione, almeno dalle mie parti. Viaggiamo verso Greoux Les Bains, soprattutto, verso la pappatoria: siamo vicini all'ora di chiusura dei negozi... E dobbiamo assolutamente procurarci qualcosa per la cena!

A Greoux non troviamo alcun minimarket; decidiamo di rischiare, proseguendo verso Vinon sur Verdon. Alla peggio, ci fermeremo lì. Ancora qualche km di pianura interminabile e poi ecco il paese: c'è persino il mercato; un banchetto sepolto di forme di formaggio di ogni tipo provoca una rivoluzione dei succhi gastrici. Dalla partenza, un bel po' di km fa, io non ho ancora toccato cibo; non oso nemmeno immaginare cosa sia già riuscito ad ingurgitare invece l'inceneritore ambulante che mi fa compagnia oggi.
Panetteria o negozietto di alimentari? La scelta cade su quest'ultimo, che scopriamo, con sorpresa, essere gestito da una concittadina di Matteo. Che bello sentire qualche parola di italiano! Mi riprometto spesso di imparare almeno un po' di francese, almeno i rudimenti, visto che viaggio oltralpe spesso e volentieri... Ma poi non lo faccio mai, per mancanza di tempo, o meglio, per pigrizia!
Incuriosita, chiedo alla signora come mai, da Genova, si sia trasferita qui: in un attimo, mi racconta la storia della sua vita; ha gestito per anni un bar trattoria nel capoluogo ligure, poi ha raccolto l'invito della sorella e s'è trasferita a Vinon, e ne è soddisfattissima. Ci posso credere, questo posto è un paradiso; anche se il freddo invernale, a quanto pare, è feroce, credo che sia davvero breve.
Quasi mi spiace non poter restare a fare ancora quattro chiacchiere, ma non possiamo permetterci di perdere tempo: le ore di luce sono poche. Toccata e fuga alla boulangerie accanto, dove prendiamo due brioche da sbafare subito, più una pagnotta per la sera. Vedo la pagnotta intera... Ed allibisco trovandomela in mano, tre secondi dopo, sezionata in almeno una ventina di fette, se non di più. Fenomeno paranormale o macchina apposita?



Trangugiamo le brioches e ripartiamo. 11 km al Pont de Mirabeau: suvvia, s'ha da fare. Almeno si sta con la schiena al sole, e pazienza se si viaggia su uno stradone enorme, accanto ad un corso d'acqua artificiale, sulla piatta piattura. Passata quella che sembra essere una base militare, il ponte è già là in fondo. Certo che, all'inizio di maggio, qui il sole del primissimo mattino era già cocente! Ritrovo la pensilina del bus sotto cui mi ero fermata a dormire qualche minuto, dopo quasi quattrocento km di marcia, al mattino presto: che emozione...

Superato il ponte, ricordo di dover imboccare la seconda strada a sinistra, di cui ho ancora viva la memoria: asfalto disastroso, puro dolore per il soprasella e per le mani. Salita breve e blanda verso Beaumont de Pertuis, poi ancora strada verso La Bastide, mentre Matteo fa già altri programmi, mi parla di un itinerario a piedi che vorrebbe tentare in unica tappa, verso la costa, un luogo caro agli appassionati di arrampicata ma accessibile anche agli escursionisti scarsi come me. Sì, l'idea mi piace, aderirò volentieri quando sarà il momento: però, tra una chiacchiera e l'altra, riesco a distrarmi ed a perdere la strada giusta. Sono davvero un caso disperato: è la terza volta che passo di qua... Eppure ho svoltato a destra all'incrocio prima di quello dove avrei dovuto girare. Come diavolo posso pensare di concludere una randonnée, se ho il senso dell'orientamento di un comodino bendato?




Arriviamo alle porte di Pierrevert, dove Matteo si ferma ed estrae la carta. Eh sì, poco da fare, abbiamo sbagliato strada. E' evidente che il nome di Pierrevert me lo ricordavo a sproposito. E qui è il dubbio amletico del randonneur: tornare indietro e reimmettersi sull'itinerario prestabilito, oppure ricongiungersi per altra via? Visto che il tempo a disposizione stringe, scegliamo la seconda opzione; scendiamo in direzione Manosque, poi ci immettiamo lungo la salita che da Manosque ci allontana, andando in direzione Reillanne. Matteo ammutolisce e si flagella per l'errore: ok, è vero, lui ci teneva a vedere il percorso giusto, visto che ha intenzione di tentare il RPE nel 2009 (tentare, nel suo caso, non è il termine corretto; ci riuscirà). Ma non vedo il dramma! Pazienza, abbiamo sbagliato, aggiungeremo una decina di km, una goccia nell'oceano! E poi tutto sommato sto bene, non sono nemmeno disfatta; le gambe girano ancora discretamente. E' qui, in salita, che addento la seconda razione di cibo del giorno; una merendina, dopo la brioche di Vinon. Scolliniamo, discesa e direzione Cereste, per un lungo tratto di pianura ed un bel viale d'ingresso al paese. Passiamo davanti alla boulangerie dove a maggio, nel viaggio di ricognizione con Mik, ci eravamo fermati a fare incetta di pizza e leccornie varie: ma oggi, domenica pomeriggio, è tutto chiuso, e comunque non ne avremmo il tempo. Le ore di luce saranno già strette così; la previsione, al momento, è di viaggiare un'oretta al buio. Previsione sbagliatissima: ma, per fortuna, non lo sappiamo ancora. Qualche km di discesa, poi svoltiamo a destra in direzione Viens: salita dolce e breve, che conduce ad uno dei caratteristici paeselli con le case color sabbia, anche qui ad indicare clima caldo... Quasi sempre.



Gignac, Rustrel, le località indicate sui cartelli stradali mi tornano man mano familiari; dopo Viens, si va a St Saturnin d'Apt, altro gioiellino tra i tanti in questa zona. Ormai il sole è basso all'orizzonte, le ombre lunghissime; la temperatura ha perso quei pochi gradi faticosamente guadagnati a metà giornata, anche se, per fortuna, non fa ancora freddo come stamattina. Breve pausa per montare le luci sulla bici ed indossare il giacchino rifrangente, poi via, ancora, nel tramonto. "Quattro e mezzo al bivio – sentenzia Matteo – cinque e mezzo in salita e siamo a Murs". Bene, la cosa non può che farmi piacere. E' vero che ormai sono abituata al nottambulismo ciclistico, ma non in questa stagione, io che sono tremendamente freddolosa. Non so perché, ma l'idea di protrarre il viaggio al buio mi inquieta un po'. Per fortuna, almeno sulla carta, gli ultimi km sono in salita, una salita a tratti ardua; ci si scalda e poi ci si tuffa sotto una doccia calda. Già, la doccia... Non oso chiedere a Matteo, non mi va di fare la menagramo: ma sei sicuro che, in quel paesello dimenticato dal mondo che troveremo lassù, qualcuno ci accoglierà per la notte? Io ho qualche dubbio... Va bè, preoccupiamoci di una cosa per volta. Quando saremo lassù, vedremo, ma, chissà perché, non oso sperare che il viaggio si concluda a Murs. Salgo salgo e non vedo nulla intorno a me, non una luce, niente che faccia pensare alla presenza di un paese; è evidente che lo stesso dubbio è sorto a Matteo, che un attimo dopo si domanda ad alta voce: "Ma ci sarà davvero, il paese?"

C'è; per esserci, c'è. Appena ci arrivo, rischio la collisione con un furgoncino che vende pizze, fermo a bordo strada; un'attrazione fatale. Mi rimetto in carreggiata e seguo Matteo nella ricerca di un ricovero: qui a Murs dovrebbero esserci due locali, ma sono chiusi. E' tutto silenzioso e morto; butto lo sguardo oltre la finestra illuminata di una casa e quasi quasi spero che qualcuno esca ed offra ospitalità... Sì, mia nonna! Un cartello sulla sinistra indica "Chambres d'Hotes" a un km e mezzo, giù per una stradina secondaria, ed io ho già il cuore in gola e la certezza matematica che saranno chiuse. Scendo con cautela, seguo Matteo che punta deciso in direzione dei cartelli. Ci infiliamo in un tratto di strada sterrata, in mezzo al bosco: ma qui non si vede nulla, non c'è una luce; non è possibile che ci siano chambres d'hotes aperte. Matteo guadagna terreno, mentre io combatto faticosamente con fango, buche e ghiaia per restare in piedi, e tra me e me maledico... Chi? Già, la cosa più indisponente è proprio non avere nessuno su cui scaricare la colpa! In questa situazione disgraziatissima mi son cacciata di mia spontanea iniziativa. Avrei dovuto immaginarlo, che a dicembre qui non ci fosse trippa per gli albergatori & affini. Incespico ed abbatto santi finché mi ritrovo nel cortile di un piccolo edificio: c'è anche un'auto parcheggiata, ma è tutto chiuso, e buio. Meglio che me la fili, prima che il proprietario decida di uscire con la doppietta! Torno al bivio precedente, dove sento la voce di Matteo, qualche metro più in su: c'è un'abitazione illuminata, incredibile, quasi un'apparizione extraterrestre in questo luogo sperduto; ma è una casa privata.

Ho il morale sotto le tacchette, sono preoccupatissima e sconcertata. E arrabbiata: mi dispiace, perché finisco per causare a Matteo un senso di colpa per una colpa che non esiste affatto; me ne accorgo dal modo cauto in cui mi si rivolge, quasi avesse paura di maneggiare dinamite... Avrei voglia di sfogarmi, è sempre così quando sale la rabbia; ma non è il momento, non sarebbe produttivo, non servirebbe a nulla se non ad incrinare la magia di questo splendido e, una volta tanto, totale accordo che s'è creato tra noi oggi. Gian, cerca di mantenere la calma; non è successo nulla; si tratta solo di sopportare ancora un po' di strada. Non può essere molto tardi; è buio, vero, ma saranno al massimo le sei e mezza... C'è ancora tempo per trovare posto. Decidiamo di scendere a Gordes, che è un paese un po' più grande, nella speranza di scovare un tetto ed un materasso. Ancora un tentativo a vuoto nei primissimi km di discesa: poi, quando meno te l'aspetti, quando già la stanchezza ha preso il sopravvento e sobilla la rabbia, la preoccupazione, quando il freddo è ormai pungente... La sorpresa: sulla destra, un'indicazione, "Chambres d'Hotes". E soprattutto... "Ouvert"! Stento a crederci... Matteo suona la campanella. Mi affloscio come un palloncino sgonfiato, tale era la tensione, che si tramuta immediatamente in euforia, a stento trattenuta, fino al liberatorio "Oui" della gentilissima padrona di casa. Incredibile, è finita, davvero!

Solo adesso riesco a guardarmi intorno ed a notare che siamo capitati in un posto meraviglioso. Un complesso di tre piccole costruzioni con i muri in pietre sporgenti, lindo, ordinato, molto molto bello. A noi tocca la camera "ocra": è da un po' che il riscaldamento non viene acceso, ma, ci informa la signora, basta avviare il calorifero al massimo. Prima ancora che io possa notarlo, la padrona di casa raccoglie con cura dal pavimento un piccolo scorpione: lo osservo da vicino con meraviglia, non ho mai visto uno scorpione vivo; vorrei tenerlo nel palmo della mano, ma, prima che riesca a farmi capire nel mio francese inesistente, l'inquilino abusivo è già sfrattato in giardino.

Il mio passo successivo? Mi incollo al calorifero e ci resto. Ho freddo fino alle ossa, ho i brividi; l'effetto del calore su mani e piedi intirizziti è dolorosissimo Però sono finalmente tranquilla. Cedo a Matteo la pole position per la doccia, mentre resto attaccata al getto d'aria rovente e medito sulla giornata: beh, insomma, quasi 180 km, e stavolta i cicloturisti arditi siamo noi, davvero! Non abbiamo incontrato nessuno con borse e bagagli... Nessuno che sia così folle! Ora che sono "al sicuro", posso dire d'aver vissuto una splendida giornata. Domani saranno circa 150 i km, tendenzialmente in salita. E poi... Il mio turno sotto la doccia: ci passo un'eternità, godendomi l'acqua calda caldissima, crogiolandomi sotto la cascata bollente in una sensazione direi paradisiaca. Di solito io odio sprecare l'acqua e faccio docce telegrafiche: ma questa volta mi è indispensabile per riprendere forma umana. La doccia, e poi ci vorrebbe un tazzone di latte bollente...
Con la temperatura corporea, recupero anche il mio buonumore e la mia voglia di scherzare... Già ridendo al pensiero della reazione, lancio il sasso: "Guarda, ho deciso che da qui sotto io non esco più, però potresti venire a farmi compagnia tu!". Dall'altra parte del muro, un grugnito cavernicolo... Uh? Strano, ed io che la risposta me l'aspettavo immediata! Ma non resto delusa; qualche minuto dopo, eccola in arrivo: "Stavo mangiando la pastasciutta... Nella vita ci sono delle priorità!". A momenti mi ribalto per terra dal ridere... Quando il mio compare di merende, di lì a poco, fa capolino dalla porta, con un interrogativo "Ma scherzavi o dicevi sul serio?", scuoto la testa e mostro un ghigno satanico: "Spiacente, troppo tardi"... Infatti è vero; ho già indossato la muta da palombaro dei mari artici, mi sento sexy come appunto potrebbe apparire il suddetto palombaro in divisa e, data la temperatura siberiana, completo l'agghiacciante quadretto arrotolandomi nella coperta supplementare che ci ha portato la padrona di casa.



Resta la frugale cena a base di pane e formaggio tipo Camembert, poi a nanna: domani è un altro giorno... E speriamo di arrivarci senza defungere per ipotermia!