sabato 31 gennaio 2009

25 gennaio 2009: il giro più pazzo del mondo, nell'Imperiese

"Il mondo non è tutto al 15%": così sentenziò, tempo fa, Pietro, il mio psicomeccanico a distanza, il mio spacciatore di componenti e di consigli. Rimproverava, come sempre, il mio scarso entusiasmo per gli allenamenti in pianura e sul falsopiano. Ebbene, mi duole, ma devo ammettere che aveva ragione da vendere. Il mondo non è tutto al 15%: non bisogna infatti dimenticare il 17%, talvolta il 20%, persino il 22%, per non farci mancare nulla. E se poi proprio vogliamo dare fiducia al verbo del GPS Garmin, addirittura il 23%...

Vatti a fidare delle acque chete. Quelle personcine pacate e tranquille, da cui mai immagineresti di doverti difendere: poi, quando meno te l'aspetti, ti volti un attimo e tracchete, ti ritrovi con la lama di un coltellaccio da macellaio in mezzo alle scapole. Così, accade che, verso la fine di un'uggiosa settimana lavorativa, ci si scambi qualche e-mail, cosa fai sabato e domenica, mah io così, tu cosà, e già si sa che indagarsi reciprocamente significa che, in fondo in fondo, questo fine settimana noi s'ha poca voglia di pedalare ciascuno per conto proprio. Attacca Mik con una proposta ciclistica ligure in compagnia di loschi figuri, soprattutto, figuri troppo veloci per i miei gusti; mi ritiro in difesa, no no, poi mi fate morire ed io vi faccio penare, preferisco andar per conto mio. Rilancia Mik con la secessione dal gruppo dei loschi figuri: si potrebbe pensare un itinerario al caldo, vista mare, tranquillo. Sognando di raggi di sole e tepore sulla pelle, la sventurata rispose: peggio che mai, disse di sì, e, non contenta, cedette come sempre l'incombenza della scelta dell'itinerario. Vero, sono reduce da qualche scottatura, ma sarebbe meglio parlare di ustione di terzo grado, riportata nel corso delle ultime scorribande ciclistiche al seguito di Matteo; però, appunto, in quelle occasioni c'era di mezzo Matteo; naturale, quindi, che la scelta delle strade fosse caduta sulle più orride mulattiere ove l'asfaltatura più recente risaliva all'epoca delle Guerre Puniche. Stavolta però la regia spetta a Mik, che in fondo è un omino con la testa sul collo, e poi via, è un ingegnere... Ecco, maturando questa certezza, metto già il primo piede nella fossa e comincio a sollevare il secondo. Casco del tutto nel trappolone quando il marrano mi propone, a chiosa di tutta la messinscena, la partenza da casa mia alle sei e mezza: anzi, mi commuovo pure; ottenere, senza peraltro aver chiesto nulla, che il ciclista più ghiro dell'intero Piemonte si scinda dal materasso a siffatto orario notturno, è cosa che quasi mi scioglie in lacrime di gioia. Me tapina, sono avviata verso il patibolo e nemmeno me ne accorgo! E chissà, pensandoci col senno di poi, quanto sogghigna sotto i baffi il maledetto...

Così, alle sei e mezza, puntualissima, sono davanti al portone d'ingresso, con la bici già smontata. Per l'occasione, e per pietà verso l'auto di Mik, ieri sera alla Ridley ho fatto persino la doccia: diciamo che ho tirato via quei due tre etti di fango e sale caricati durante le recenti, timide uscite nelle inospitali desolate gelide lande piemontarde. Insomma, "pulito" è un'altra cosa, ma così può andar bene, direi. Anche Mik spacca il minuto. Scopriamo che alla sua Y non piacciono i comandi Shimano: va bene che il manubrio con le corna è orribile... Però, rifiutarsi di accoglierlo nell'abitacolo mi pare troppo! Un po' di pazienza, un colpo di qua ed uno di là, e alla fine la bici è parcheggiata sul sedile posteriore. Si parte.

Interminabile viaggio tra due mondi, quello al di qua e quello al di là del Colle di Nava. Fino a Ceva, in autostrada, nebbia; da lì al colle, neve, neve ed ancora neve, muri a bordo strada, cappucci sui tetti, sui comignoli, sulle coperture dei portoncini, sui piloncini votivi, sui gradoni delle cave che danno alla parete della montagna un curioso aspetto a striscie; neve che sembra soffice ma ormai è gelata lì da chissà quanto tempo, per chissà quanto tempo. Uno spettacolo quasi irreale. I colori qui sono scomparsi: è tutto bianco, grigio o nero. Anche se lassù, sulle cime delle montagne che incorniciano la vallata, si vede appena appena un po' di rosso. E' il sole che sorge.

Bagnasco, Garessio, Ormea, il bivio per il Colle di Caprauna, quello per Viozene: tutte strade di cui le mie ruote hanno già calcato l'asfalto; da ogni via parte un itinerario ed un ricordo che l'accompagna, o più ricordi. Ma non oggi, non qui, in bici: troppo freddo ed inospitale. Superiamo il colle, che sa poco di colle, piatto com'è; in discesa, è subito mare, anche se il mare da qui è ancora lontano. Almeno la temperatura ha cambiato di segno: quando raggiungiamo Chiusavecchia, il nostro punto di partenza, ci sembra ancora di aver freddo, ma è questione di pochi minuti, poche pedalate e via. Primo bivio per Lucinasco: salita molto dolce, ideale per riscaldarsi. Ci si riscalda sul serio: io son partita agghindata come Bibendum, ma dopo un paio di chilometri son già ferma a levare la giacca. Ho dimenticato il berretto di pile, ma direi che non ne sentirò la mancanza. Cielo azzurro e sole limpido sono ottime premesse. Un po' meno lieta la scoperta che faccio un attimo dopo: rilancio, mi alzo sui pedali... E il manubrio ruota in giù. Non è possibile... Eppure stamattina ho bevuto solo il caffè! Senza fermarmi, provo ad afferrare la piega e tirarla verso di me: è proprio vero, è allentata. Oh cappero, e adesso che faccio? Va tutto bene finché si sale... Ma in discesa? Dovrei avere, nel borsello portaoggetti, una brugola. Ricordo che va bene per le viti della sella, non per quella del collarino reggisella; guardando così, a stima, secondo me non va bene nemmeno per le viti del manubrio. Bah, ci penserò in cima. Intanto mi godo la salita e le gambe che girano, frullano, leggere leggere. Era da tempo che non mi sentivo così! Ma è troppo presto per giubilare, siamo appena all'inizio. Magari è solo l'effetto di sollievo dopo il lungo viaggio in auto: per quanto Mik sia cauto con il volante, il mio pancino non può fare a meno di patire, sempre, le curve.
A proposito: Mik è avanti a me, non molto; è evidente che la sta prendendo molto ma molto comoda anche lui. Anzi, di tanto in tanto si volta indietro: non ci posso credere, eppure sembra proprio che mi stia aspettando! Un evento del genere ha portata epocale... Cerco di affrettarmi per raggiungerlo, così, senza un motivo preciso, per il semplice fatto che è scortese prolungare l'attesa di chi ci attende. Siamo ormai alla fine della prima salita quando lo affianco e gli comunico, candidamente, che ho un piccolissimo problema tecnico... In cuor mio, speravo che le brugole le avesse lui; infatti è così. Ne ha addirittura tre, una delle quali fa proprio al caso mio. Ci fermiamo all'ingresso di una bellissima borgata, accanto ad un parapetto di mattoni che apre la vista su una splendida vallata e su una cima imbiancata, un manto talmente lindo ed intatto da sembrare un lenzuolo di lino steso con cura; un distacco netto tra la montagna ed il cielo blu, come si vede solo nelle foto dei puzzle del Cervino. Case di pietra, due anziani che scambiano chiacchiere dalla strada alla finestra del primo piano, un micio che protesta tutto offeso, un'Ape parcheggiata. Mik armeggia sicuro sulle viti del mio manubrio, tutte e quattro ben allentate, con bonario rimprovero: qualsiasi assemblaggio di pezzi, dopo un periodo di assestamento, andrebbe controllato. E magari, aggiungo tra me e me, non maltrattato con l'acqua della doccia, il sapone di Marsiglia e lo Chante Clair, non soggetto a malaugurati esperimenti di regolazione... Vabbuò, per questa volta l'abbiamo scampata. Risalgo in sella con il proposito di procurarmi, al più presto, uno di quei simil-coltellini svizzeri che, al posto delle lame le tenaglie la bussola il cacciavite la macchina del caffè espresso, hanno le brugole di ogni possibile misura.
Ci troviamo in un intrico di stradine che convergono tutte qui, al ponticello. Che ne dice il Garmin? Sulle prime, pare suggerisca di scendere subito a destra. Idea che mi atterrisce: la prima stradina a destra è una rampa ripidissima, dall'aspetto poco rassicurante, che chissà dove va a finire. Mi spaventa la fortissima pendenza, eccessiva per me che ho il terrore delle discese e sono ancora molto malferma sulla bici nuova. Purtroppo non ho molta scelta: o resto appollaiata quassù, oppure cerco di ricacciare il terrore in fondo allo stomaco e seguo Mik. Meno male che, dopo pochi metri, il GPS cambia idea. Mi tocca un'inversione di marcia ed una ripartenza in salita su un muro: ma è sempre meglio di quell'orrido salto nel vuoto; torno su con lo slancio dell'euforia.
Dopo un'altra incertezza, il Garmin prende una decisione chiara, gettandoci lungo una discesa un po' meno truce, quanto ad inclinazione. C'è un cartello che indica un santuario, non ho ben capito dove, ma non importa: devo badare a dove metto le ruote. Mik annuncia che il programma cartografico su cui ha tracciato l'itinerario di oggi si rifiutava ostinatamente di far passare il giro per di qua: comincio a capire il perché... Buche enormi, crateri lunari; pietre, ghiaia, sassi di tutte le fogge e dimensioni, da farci una mostra dei minerali; pozze che sembrano peschiere; fango, fogliame. Disegno la traccia più assurda ed irregolare possibile nel tentativo di evitare le insidie peggiori; ad ogni pedale sospinto, mi aspetto che la bici scivoli o si impantani, che una pietra tagli il copertone. Mi sento orrendamente instabile: mi sa che lo intuisce anche Mik, che, in un sommo sforzo di pazienza, fa il possibile per restare nei paraggi. Più che una discesa, questa è una lunga strada in costa; anzi, più che lunga, è prolungata nella mia percezione dalla fatica che sto facendo per uscirne viva. A contorno di tutto ciù, un concerto di esplosioni vicine e lontane, latrati di cani da caccia, nascosti chissà dove nel folto del bosco. Speriamo che si rendano conto che di qui non passano solo i cinghiali.
Nonostante la situazione a dir poco tragica, non mi sento ancora in vena di disperarmi: più che altro, mi vien da ridere. In fondo, prima o poi tutto ciò finirà... Non saranno mica tutte così, le strade, oggi! Già, illusa...

Una rampa in discesa, più feroce delle precedenti, ci scarica in una borgata, da cui ci allontaniamo subito svoltando a sinistra. Finalmente, sotto le ruote c'è dell'asfalto. Poca distanza, un altro paese, un cartello, Ville San Pietro. Un momento, io qui ci son già stata! E me ne ricordo, eccome, se me ne ricordo. Qui, oltre il paese, la strada si impenna con rampe ben più sadiche del 15% e va a finire a San Bernardo di Conio, o Conio, non sono più sicura; comunque, sulla strada che scende dal Colle d'Oggia. Meno male che è il Garmin a mettere buonsenso: non dobbiamo entrare in Ville, bensì imboccare la salita sulla sinistra, prima dell'abitato. Benissimo. Di norma, chi lascia la via vecchia per la nuova, dice il proverbio, non fa un affare; però la via nuova, per quanto sconosciuta, non può certo essere peggiore della vecchia e nota! Qui si sale, pendenze severe, ma è ordinaria amministrazione. Almeno, così pare...
La strada principale passa accanto ad una borgata, arroccata sopra le nostre teste. Buonsenso vorrebbe che si seguisse, appunto, la via maestra. Peccato che il Garmin sia di diverso avviso e ci intimi di svoltare a destra, su per una rampa che arriva in mezzo alle case, accatastate l'una sull'altra, tanto che tra vicini ci si può prestare lo zucchero ed il caffé da finestra a finestra. Beh, chiaro, qui ci si ferma, non si può mica proseguire, a meno di non fare irruzione in un salotto! No, non è esatto. Siccome al peggio non c'è mai limite, la stradina va ad arenarsi in una rampa di cemento che sale perpendicolare rispetto ad essa. Ci sporgiamo oltre l'angolo del muro e ci tocca storcere per benino il collo: la pista di cemento sale su, con pendenza inqualificabile. Per un attimo guardo Mik con l'aria di chi domanda "Ma ci sei o ci fai?". La stessa cosa passa probabilmente per la testa di una vecchina che si affaccia sulla soglia della casetta di fronte a noi. Sarà la fatica, ma io per un attimo quella casetta me la vedo come la casa fatta di marzapane e canditi nella favola di Hansel e Gretel, o qualcosa del genere, reminiscenze di un'infanzia già abbastanza lontana: anche se quella vecchina, tutta curva, tutta sdentata, con il fazzoletto in testa annodato sotto il mento ed il bastone da passeggio in mano, mi pare tutto fuorché una strega cattiva. Un po' fetente, però, lo è: ci invita sghignazzando a salire su in bici... Mik, dotato di scarpe da mountain bike e soprattutto di gambe da capriolo, schizza su con la bici per mano; io mi trascino camminando con il busto tutto proteso in avanti; aggrappata al manubrio, spingo su la Ridley che non m'è mai sembrata così pesante, domandandomi con insistenza quand'è che la sveglia suonerà per liberarmi da questo incubo. Spero di non rovinare troppo le tacchette, che sto usando a mò di ramponi. L'asfalto termina in una curva a novanta gradi così com'è iniziato; ancora qualche metro a piedi e trovo un tratto quasi piatto, cioè, sotto il 15% di pendenza, per risalire in sella e ripartire. Un altro paio di staffilate nelle gambe e, sbuffando come una locomotiva, salgo fino alla fine di questo scherzo della forza di gravità che è stato il viaggio nel centro del borghetto. Com'era ovvio, ci reimmettiamo nel punto in cui saremmo giunti, senza rischiare la morte per ipossia, se solo non avessimo dato retta a quel cassone del Garmin. Ma qui Mik ci cova: sono convinta che lo sapeva benissimo... "Ecco, siamo andati a finire esattamente dove saremmo sbucati tirando dritto", sbotto con un filo di voce; mi risponde lui, sornione: "...dici?". Se non gli infilo la pompetta in mezzo ai raggi, è solo perché mi spiacerebbe troppo rovinare quella meraviglia di viso, sarebbe un delitto contro Madre Natura; però, l'impulso di causargli inestimabile dolore fisico è fortissimo...

Dopo aver fatto un po' troppo il galletto sulla prima salita, e dopo la giusta punizione divina, giunta sotto forma di cemento, tiro un po' i remi in barca. E' meglio che mi ricordi con chi ho a che fare: tentar di tenere il passo di Mik, sia pure a mezzo servizio com'è oggi, poverello, ancora tormentato da una bronchite più florida che mai, è follia allo stato puro, è presunzione degna di Icaro. Lascia che vada, Gian... Attenderà in cima! Riprendo il mio passo di asino stanco, controllo di tanto in tanto il manubrio che ora è perfettamente immobile, tengo d'occhio l'asfalto, onde evitare di finire in qualche voragine, dove rischierei di perdermi. La seconda strada muschiata della giornata: in mezzo cresce una bella scia di muffa, l'ideale per farci un bel presepio.
Deve esserci, ad un certo punto, un bivio: questa strada conduce al Colle d'Oggia, ne sono sicura, ma non è lì che dobbiamo andare noi. Mik è stato immensamente saggio almeno da questo punto di vista: non oltre quota ottocento metri, e sempre su versanti a mare. Ecco il bivio ed ecco il mio compare intento a vestirsi: puah, vestirsi, roba da mammolette! A che serve oggi, che ci saranno dieci gradi, cioè almeno quindici più che a casa? Tiro dritto; il bosco scompare, la vista si allarga sulla vallata; due case in costruzione, uno scempio in un luogo così bello e selvaggio... Ma devo ammettere che sono dei capolavori! E non ho ancora alzato lo sguardo: quando lo faccio, a momenti mi manca il fiato. Quanto meraviglioso azzurrissimo mare! Ci siamo proprio sopra, vicinissimi. Uno spettacolo talmente stupendo da mettermi persino in buona disposizione d'animo verso la discesa, che, per fortuna, qui sembra abbastanza facile. Stradina stretta, poco trafficata, passa in mezzo a pochi gruppi di case, poi sopra e sotto l'autostrada. Sarebbe ancor meglio, dice Mik, se non ci fosse l'autostrada: beh, devo dire che invece a me anche quel capolavoro di equilibrio grigio non sembra affatto stonare, anzi. Io che ho il terrore dell'altezza, non posso che guardare da sotto in su, con timore reverenziale, quei piloni infiniti, e pensare che, meno male, quando guido l'auto sospesa lassù nel vuoto, non mi rendo conto del salto che c'è sotto di me. Chissà com'è stato possibile pensare che qualcosa del genere fosse possibile...
Scendo scendo sotto il sole caldo, godendomi l'aria sulla faccia che una volta tanto non fa male alle ossa tant'è gelida, anzi, è dolce e tiepida come una coccola. Scendo e penso che sarebbe bellissimo, adesso, arrivare giù, attraversare l'Aurelia e scendere giù a mettere i piedi nudi nella sabbia. Una tentazione fortissima... Ma non è professionale, no, per niente; con sforzo sovrumano, quando la stradina si immette nella trafficatissima via di costa, supero Mik fermo in paziente attesa e tiro avanti. Gli odiati saliscendi, l'odiatissimo traffico di auto moto e pullman. L'unico aspetto piacevole dell'Aurelia è la fauna ciclistica che fa quasi sentire "in famiglia", anche se poi la maggior parte di "loro" non ha nulla a che spartire con "noi", perché "loro" sono bestiacce da quaranta all'ora in pianura e dribbling dell'automobilista con insulto, mentre "noi" ci rassegnamo a portare qui i nostri copertoncini proprio solo quando non ne possiamo fare a meno, quando dobbiamo concatenare una salita con un'altra. Che poi, di "noi", Mik in realtà sia un ibrido, uno che va fortissimo sia sui muri che sui tavoli da biliardo, beh, quella è un'altra storia... Io sono razzista, preferisco ragionare per categorie. E godermi i raggi del sole sulla schiena ed il colore del mare che oggi pare proprio arrabbiato, schiumoso, corrugato da un vento che qui non si sente. Pochissimi km e poi bivio: a destra, verso Civezza. Salita dolce dolcissima e, pure qui, calda. Il Garmin GPS protesta, dice che non siamo sulla strada giusta: oh ma chissenefrega, stai zitto, trabiccolone. Non importa se non siamo sulla retta via: questa salita mi piace, è rilassante, è luminosa, è profumata. E' proprio questo a cui stentiamo ad abituarci oggi: i colori ed i profumi, le distese di margherite e di petali gialli in mezzo agli ulivi. Sarà dura, questa sera, tornare a vivere in bianco e nero.
Le gambe sembrano riprendersi un po': verso Civezza mi sento ancora una volta leggera, per quanto leggera può essere una specie di petroliera sui pedali, ma l'importante è crederci... Non c'è altra spiegazione, tutto ciò è proprio l'effetto del caldo, del sole. Su al Nord, a casa, in questo periodo, stento a calciarmi fuori dal cortile in bici e, quand'anche ci riesco, non vedo poi l'ora di rientrare. Qui, invece, potrei andare avanti fino ad esaurimento delle risorse alimentari... E, con un etto di libidinosissimo cioccolato bianco con miele e nocciole nello zaino, prima di esaurire le risorse, arrivo fino a Capo Nord!



Da Civezza, come già ha annunciato Mik, sbuchiamo sull'ultima discesa che abbiamo appena percorso; facciamo quindi un giro, tornando in parte sui nostri passi. Ancora una volta, scendiamo in faccia al mare, corriamo un po' di Aurelia, facciamo il pieno di sole. Da San Lorenzo al Mare, svoltiamo in direzione Pietrabruna. Ancora ignara, anche qui mi beo del calduccio di questa salita non troppo impegnativa, in perfetto accordo con la mia voglia di fatica "bella", piacevole, per oggi. Ma, proprio mentre sono impegnata in un funambolico tentativo di recuperare il cioccolato nella tasca posteriore dello zaino, Mik annuncia: "Dovremmo fare un anello e tornare di qua... Però è meglio se la facciamo in salita". La facciamo? Che cosa, dove? Ci metto un attimo a realizzare cosa stia farfugliando questo squilibrato che mi ritrovo accanto: alla nostra sinistra, parte una mulattiera che si impenna su su verso chissà dove. Ok, va bene, accetto passivamente anche questo: giro il bilico, invoco San Trentaquattroperventisette e mi ci butto, sperando che il suolo non respinga la mia ruota anteriore. Sarebbe imbarazzante un'impennata proprio qui. Una rampa, un'altra rampa, un'altra ancora; i muscoli cominciano a far male proprio sopra le ginocchia, come se bruciassero, come se dovessero strapparsi, ed è qui che mi pento e mi dolgo degli eccessi nutelleschi... Più forte della forza di gravità è solo la testardaggine di andare ancora su, perché il piede a terra non s'ha da mettere, proprio no. Mi torna in mente la proverbiale tirchieria ligure, che vuole strade così spietatamente ripide per risparmiare l'asfalto con cui congiungere le località abitate, ma quassù chi ci sale, con quale mezzo? Uliveti a perdita d'occhio, fiori, un paesello lassù che pare lontanissimo... Ma, di questo passo, ci arriveremo ben in fretta! All'improvviso, una ventina di metri avanti a me ed una decina sopra di me, vedo Mik che fa segno di fermarsi: eh no bello mio, se mi dici qui che abbiamo sbagliato strada, giuro che ti sopprimo, e non sarà un'eutanasia... No no, per niente eu-!!! Torna giù cauto, mi mostra dov'è che dobbiamo andare: sarà peggio quel che ci attende? Non importa, per me non c'è scelta, io giù di qua non torno. Detto, fatto, si tira avanti. Addento un bel pezzo di cioccolato bianco e torno qualche metro indietro, per poter ripartire approfittando di una pendenza al di sotto del 15%. Avviarsi e riagganciare i pedali, in queste circostanze, è sempre un terno al lotto; infatti, riesco ad agganciare il sinistro solo al termine della rampa. Ne seguono ancora alcune, poi di punto in bianco vedo un omino in giacca rossa fermo avanti a me: ci metto qualche istante a realizzare, il cervello ottenebrato dalla mancanza di ossigeno, che è Mik vestito da discesa. Da quella mulattiera maltenuta, passiamo, per fortuna, su una bella strada abbastanza ampia, che ci porta in direzione Costarainera. Un paio di km dolcissimi, vista mare, un tepore adorabile verso la Cipressa: che voglia di quella spiaggia... Non sono il tipo da spiaggia io, ma cinque minuti cinque con la schiena al sole, oh se mi ci metterei.
La discesa dalla Cipressa, per quanto facilissima sulla carta, mi crea come al solito qualche problema; la bici nuova per certi versi mi dà molta sicurezza in più rispetto al passato, ma per altri è ancora un oggetto estraneo a me, su cui non riesco a sentirmi tranquilla; mi manca ancora, oltre all'equilibrio che mi mancherà sempre, la familiarità. Faccio infuriare un po' di automobilisti: quanto vorrei trovarmi nella direzione contraria, con queste belle rampe poi...

Svolta a sinistra, si torna verso San Lorenzo al Mare, qualche tranquillo chilometro di Aurelia con il mare questa volta a destra: bellissimo, ancora nervoso, con le onde che si infrangono su quel che resta della ferrovia, schizzano fino alla strada, emanano profumo di sale. Qualche nuvola, verso l'orizzonte, disegna sull'acqua aloni d'ombra bianchi.
Ancora una volta il bivio a sinistra: quello che abbiamo imboccato prima, ma adesso non giriamo più per la rampa. Proseguiamo fino all'abitato di Pietrabruna, e già così non è affatto facile: ad un primo tratto di strada quasi piatta, fino all'incrocio con la stradina da cui Mik preannuncia che torneremo, segue una bella salita ardua, anche qui con pendenze di tutto rispetto, nascosta, isolata, malconcia, muschiata, pure lei. Non ho idea della direzione che abbiamo preso; posso solo, salendo sul versante destro della valle, intuire una sorta di anfiteatro ed una linea che pare una strada, dall'altra parte, in mezzo alla vegetazione fitta di ulivi e piante selvatiche. Non mi aspetto che questa salita sia già conclusa, ma nel mezzo del paese trovo Mik di ritorno. Prudente, mi interpella: "Ti faccio vedere una salita, mi dici se la vuoi fare o no". Allungo il collo dietro l'angolo di un edificio, vedo una lista di asfalto, si fa per dire, che sale vergognosamente ripida: no, stavolta no, mi spiace, io non ho ucciso nessuno per meritarmi tutto questo. Basta, mi rifiuto. Cerchiamo piuttosto una fontanella, che sono a secco. Ci infiliamo nelle minuscole viuzze in mezzo a questo pugno di case, Pietrabruna; viuzze in pietra, pizzicate tra case alte, accatastate, cresciute l'una sull'altra; chissà cos'aveva bevuto il geometra che ha redatto il piano regolatore di un luogo così!



Eppure è bellissima la piazzetta in faccia alla chiesa, con la fontana in legno. Tento di immortalare qualche scorcio tra i muri, incrocio lo sguardo di un'anziana dietro ai vetri di una finestra, distolgo il mio sguardo che per un attimo pare a me stessa troppo invadente. Guardo giù, il cunicolo che porta via dalla piazzetta; no no, non si scende da lì; torniamo un po' indietro lungo la strada da cui siamo saliti. Ma poco: poi svoltiamo a destra, verso Borgomare. Un altro calvario, un'altra mulattiera tutta buche in mezzo agli ulivi ed a sparute case abitate chissà se, chissà da chi. Rampe che qualche secolo fa hanno conosciuto l'asfalto, rampe in cemento che fanno da letto a rigagnoli cristallini, rampe che mi fanno soffrire in salita e peggio ancora in discesa. Ma quanto sono inospitali i Borgomaresi, o Borgomarini, o Borgomarittimi che dir si voglia? Mi torna in mente il timore, espresso da qualche ciclista di cui ho letto tempo fa: lamentava di aver paura ad uscire da solo, perché, in caso di incidente, avrebbe potuto restare senza soccorso. Cavoli, se capita qualcosa a noi, qui, ci troveranno solo all'apertura della prossima stagione dei funghi!
Procediamo a rilento, per forza; non è solo la durezza della pendenza, è anche il fatto che la strada è impervia, insidiosa, ed io sono tutt'altro che sicura di me stessa; ho i nervi a fior di pelle per la paura di scivolare, di finir per terra per una ragione o per l'altra. Borgomare spunta, come una liberazione, all'improvviso: quando la nostra mulattiera si immette nel paese, rinuncio a voltarmi e leggere cosa indicano i cartelli che, arrivando qui, ho visto solo da dietro. Probabilmente recano il simbolo del teschio con le due ossa incrociate. Va bè, siamo fuori: la discesa, anche stavolta, è più umana, anche se pure qui ci toccano un paio di guadi. La nota positiva, se non altro, è il fatto che i freni Cantilever della Ridley non fanno una piega: se i cerchi son bagnati, la frenata rende esattamente come sull'asciutto. Meglio di così...

Scendo con le gambe indurite e penso che, da un lato, la voglia di pedalare oggi è davvero infinita, l'entusiasmo alle stelle... Ma, dall'altro, i muscoli cominciano ad averne abbastanza d'essere maltrattati così. Ci vorrebbe una bella salita lunga e dolce: ma non oso chiedere a Mik cosa ci attenda adesso. Preferisco restare ancora un po' nella beata ignoranza...

Questa volta il tratto di Aurelia, seppur breve, non è più così piacevole. Ci ficchiamo dentro Imperia, che significa traffico, auto parcheggiate, pedoni, semafori. E noi non riusciamo ad adeguarci all'usanza ligure del salto del semaforo per i ciclisti. Un breve anda e rianda per un errore di direzione, poi finalmente ci togliamo dal caos e riprendiamo a salire. Via dalla pazza folla. Punto una serpentina d'asfalto nero che sale appiccicata alla montagna: Mik mi rassicura, "Non dovrebbero più esserci sorprese adesso". Ma, chissà perché, nell'istante stesso in cui lo sento pronunciare queste parole, rimpiango di non essere un uomo e, quindi, di non poter afferrare a piena mano ciò che di solito si afferra saldamente per scaramanzia. Lo faccio virtualmente: so che la fine del mondo è vicina...

Come volevasi dimostrare: la salita è umana e tentatrice solo fino ad un certo punto. Poi, un piazzale sterrato di fronte ad un santuario è il chiaro segno che tocca lasciare ogni speranza, noi ch'entriamo. Subito ci arrampichiamo su per una stradina mignon, dove, ovviamente nel punto difficile del tornante, incrociamo un'auto che scende. Da questo momento in poi è un susseguirsi di rampe dalle pendenze pazzesche, una via l'altra, in crescendo, come la sparatoria che segna la fine di uno spettacolo pirotecnico, rapida spietata implacabile. I muscoli sopra le ginocchia urlano dal male; ho il terrore che, da un istante all'altro, possa partire il crampo. Pochi tratti che probabilmente pendono molto, ma in quella situazione sembrano piatti, concedono un minimo di respiro. Se fin qui ho potuto ridere della situazione e della mia fatica, ora non ci riesco più: ho davvero paura di non farcela, paura di dover mettere piede a terra, peggio, di dover tornare indietro da questa stessa parte, cosa che non sarei davvero in grado, né fisicamente né come testa, di fare. Mi sforzo d'essere razionale, ma ho una paura dannata. Una rampa anche in giù, appena prima di Sant'Agata, poi un'altra pugnalata nelle gambe, un tornante tra le case, un'auto che giunge alle spalle, Mik che pianta uno scatto felino che mi leva ancora quel poco di fiato residuo: incredibile, quanto sia a suo agio su queste rampe che sembrano voler schizzare diritte sopra le nuvole. Saliamo, superiamo il paese, ho male dappertutto, dove diavolo stiamo andando? E' chiaro che siamo vicini alla fine del giro, per forza, ma quanto? Dove siamo, quanto dobbiamo ancora salire? E questa strada andrà davvero da qualche parte? Così com'è, potrebbe benissimo andare a morire in mezzo ai boschi, anche se il Garmin dice che siamo sulla rotta giusta. Il sole è ormai molto basso, la luce gialla e fioca. Mik sgambetta ancora come stamattina; io non ce la faccio più. Ed il peggio, ma proprio il peggio, mi coglie qua; una lunghissima, durissima rampa, che passa accanto a ville e case ancora in costruzione, sconnessa, odiosa, disperatamente dura. Chiamo a raccolta tutte le mie forze per spingere giù quei pedali che sembrano bloccati, quel terrore che vorrebbe farmi sganciar tutto ed accettare la resa. Istanti interminabili in cui monta la rabbia per essere qui, la paura, il rancore contro Mik che è chissà dove là davanti e che, poveretto, non poteva conoscere questi posti più di quanto li conosca io, nulla; sconforto, puro e semplice sconforto. Guardo su e vedo ancora salita, avanti ed ancora salita; non ce la faccio più, basta, alla prossima scendo, proseguo a piedi, e pazienza se il buio mi coglierà, non mi interessa. Siamo in mezzo al nulla più assoluto, solo bosco incolto ed automobili di cacciatori.

Poi la strada spiana, raggiungo Mik, confesso, per quanto possa costare al mio orgoglio, che così è troppo, anche per me. E non lo dico, ma lo credo con tutto il cuore: non ne posso più, per oggi ne ho abbastanza. Ho solo la smania di scendere. La strada che sale al Colle di Nava dev'essere quella laggiù in fondo, alla nostra destra; prima o poi dovremo per forza cominciare a scendere, e più passa il tempo, più divento impaziente, nervosa, spaventata. Se tornassi domani qui, probabilmente, ne sarei solo felice; ormai saprei cosa mi attende. Ma è l'incertezza che mi terrorizza.
Il Garmin vorrebbe a tutti i costi farci imboccare un passaggio a destra, verso valle, che non esiste: no, decido per l'ammutinamento; questa stradina da qualche parte andrà, adesso io la seguo e basta. Non accetto altre deviazioni, di alcun genere. Finalmente si scende, finalmente il fondovalle comincia ad avvicinarsi, finalmente respiro. Ulivi ed ancora ulivi, si scende, i primi brividi della sera, Pontedassio. Come sempre, man mano che si ritira l'inquietudine, forse per contrappasso sale l'euforia, ora che finalmente ho capito dove siamo, dove andremo a sbucare. La strada di fondovalle, la tanto odiata strada che sale al Nava senza salire mai: quanto la adoro stasera. Qualche chilometro di leggerissima salita che riscalda un po' le ossa intirizzite dall'aria già frizzante della sera: ma è proprio per sola inerzia che ancora le gambe girano. Mik è davanti, parte come un forsennato: provo a tenere il passo, ma una minima risalita stronca definitivamente qualsiasi baldanzoso proposito. Le gambe si inchiodano, senza appello. Non ce la faccio più. Mi rassegno ad un passo di sussistenza, mentre Mik là davanti si volta indietro: non posso farci nulla, mi dispiace... Ho finito la benzina, anche la riserva. Inseguo ancora la mia ombra lunghissima, un sospiro di sollievo al cartello "Chiusavecchia". Una maglia asciutta e la notte che, quasi sospesa fino a quel momento per farci un favore, crolla d'improvviso su di noi, come la scena di un palco di teatro. Sono distrutta, ho male dappertutto... Mik, quando torniamo da queste parti?

sabato 24 gennaio 2009

17 gennaio 2009 - Notturna a Punta Aquila

La proposta era già stata lanciata qualche giorno fa: un itinerario nella zona di Giaveno, una salita in parte su asfalto ed in parte su neve, con destinazione tale Punta Aquila, a quota 2.100 circa. Leggendo quella mail, mi sono chiesta se Mik si fosse per caso dato all'alcool o all'uso di chissà quale droga pesante: 2.100? A gennaio, con tutta la neve caduta quest'inverno, senza sci, senza racchette, con le sole scarpe? Non so un emerito tubo di montagna invernale, visto che ho sempre accuratamente evitato di andare volontariamente a caccia di freddo; però, sulle prime, l'idea non mi ha affatto entusiasmata. Anzi: la risposta nata nella mia mente è stata molto colorita; poi, lavorando di lima, seghetto, scalpello e martello, si è tradotta in un morigeratissimo "Non mi pare il caso". Con tanto di argomentazione scientifica: se la neve non fosse gelata, affonderemmo fino alle orecchie, almeno io che concentro un peso massimo su una superficie di scarpa abbastanza piccola; se la neve al contrario fosse gelata, magari riusciremmo a salire, ma sarebbe l'ultima ascesa della nostra vita, perché in discesa prenderemmo senza dubbio alcuno il volo, come gli sciatori che si lanciano dal trampolino. Ma senza trampolino e senza sci. A nulla sono valse le garanzie offerte da Mik: le informazioni del collega scialpinista, la promessa che, in caso di difficoltà, avremmo rinunciato... Il metro con cui lui misura le difficoltà non è lo stesso che uso io! E poi, scherzi a parte, mi spaventano la quota, la possibilità di trovare freddo davvero severo, visto che in pianura, in questo periodo, la temperatura scende parecchi gradi sotto lo zero... Insomma, ho timore di cacciarmi nei guai. Non sono mai stata una persona granché saggia, ma se c'è una regola a cui non intendo contravvenire, è questa: la montagna non va mai sottovalutata... Anche una passeggiata apparentemente innocua può essere pericolosa, se non si è adeguatamente equipaggiati e se non si ha un minimo di esperienza. Ed io non sono un cuor di leone.

Però... Il tarlo, si sa, lavora nell'ombra, senza farsi sentire, nascosto dal tran tran quotidiano. Scava, scava, si fa la sua strada. A me questo no così deciso, in fondo in fondo, non piace... Mi resta un senso quasi di colpa: rinunciare senza aver provato, non è da me... Magari il pericolo è solo nella mia testa. Potrei anche provare; vorrà dire che, prima di finire nei guai fino al collo, me ne accorgerò, no? Sarò sempre in tempo a tornare indietro... Almeno, spero! Insomma, come sempre, non ci vuole poi molto per convincermi a lanciarmi nell'impresa. Beh, lanciarmi è una parola grossa; diciamo, per avvicinarmici in punta di piedi. Detto fatto, si combina l'uscita per un sabato sera, in modo da avere un paio d'ore di nanna in più al mattino successivo. Anche se in realtà non sarà affatto così, visto che, al mattino successivo, la sveglia sarà puntata alle sei e mezza per una fuga ciclistica a caccia del calduccio del mare!
Fagocitiamo nell'avventura anche l'altra immancabile testa matta: da Genova con furore, arriverà anche Matteo. Così, poco dopo le otto di un sabato sera di gennaio, eccoci alla frazione Maddalene, dalle parti di Trana se ho ben capito: in realtà, come sempre, da passeggera, non ho badato alla strada che abbiamo fatto per arrivare fin qui. Matteo arriverà probabilmente con un po' di ritardo: siamo già d'accordo, Mik ed io ci si avvia, tanto il Genovese non avrà alcun problema a raggiungerci di corsa!
Siamo sulla piazzetta di un paese fantasma: una chiesa, alcune case, nessuna traccia di presenza umana. Solo segni di ex-umanità, gli annunci mortuari proprio davanti al naso. Che effetto strano, il solito pensiero di vederci il mio nome lì sopra: prima o poi succederà... Ma tu guarda cosa devo andare ad elucubrare proprio adesso! Mi pare d'esser mia nonna, quando secoli fa già pretendeva dal fotografo un'immagine "ca vada bin da bütè en s'la tumba"... Ed è ancora perfettamente viva, vegeta e più arzilla di me! Torno precipitosamente alla realtà: Mik ha pensato proprio a tutto! Nientemeno che un paio di ghette ed un paio di ramponi anche per me... Io che, come al solito, non mi sono nemmeno lontanamente preoccupata dell'equipaggiamento, nei giorni scorsi. Sarei partita serena e fiduciosa con le scarpe da trail... Il problema è che i ramponi, nello zaino, non ci stanno più, vista la quantità vergognosa di vestiario che ci ho messo. E pure il telo di sopravvivenza... Si sa mai che ci si perda! Non è poi un'ipotesi così peregrina, visto che mi è già successo. Almeno, fino a domani, sopravviveremo! Appendo i ramponi allo zaino: lo so, è una scelta ben poco saggia, dato il mio equilibrio instabile che, su neve, moltiplica le occasioni di caduta, ma tant'è, non ho voglia di sottilizzare. Così mi ritrovo a percorrere i primi chilometri, su asfalto, con i ramponi che ad ogni passo mi massaggiano la chiappa sinistra: non ho diritto di lamentarmi; c'è gente che paga per farsi fare i trattamenti anticellulite...

Ci avviamo al buio, di buon passo, lungo la salita. Per ora siamo su asfalto, in mezzo alle abitazioni, sia pur diradate; in basso, le luci del fondovalle, Superga lassù, in fondo, sulla collina. Tendo l'orecchio: se Matteo è in arrivo, dovremmo sentirlo già a partire da quando uscirà dalla tangenziale. La sua macchinina è tascabile, ma fa più fracasso dello Shuttle al decollo... Mik ed io procediamo di buon passo: così il nemico sarà costretto a correre più forte per raggiungerci, e magari si stancherà un po' e non ci tirerà il collo per il resto della salita. Pia illusione, secondo me: Matteo è infaticabile, l'ho visto in crisi una sola volta da quando lo conosco, ed anche da quella crisi si è ripreso con un vigore che non so davvero da dove possa essere sgorgato. Intanto elaboriamo il piano d'azione per l'indomani: partenza per il mare, destinazione Savona o dintorni, per un bel giro in bici finalmente al caldo. O "al meno freddo". Ad essere sinceri, nemmeno qui sembra fare particolarmente freddo stasera. Ma siamo partiti da quota ottocento metri circa; quel che temo io è lassù...

Case sonnacchiose e cani vigili: Mik ricorda con timore gli scatti in bici, in fuga dalle bande di inarrestabili e mordacissimi cagnetti. Però mi sa che questa sera i cagnetti sono in sciopero; ci notano, sì, ma con molta sufficienza.. Passiamo indenni. Mi volto spesso indietro, ma la strada è deserta. Confesso che immaginavo che Matteo arrivasse prima; è vero, ha un sacco di strada da fare, ma questo silenzio mi preoccupa un po'. Va bè, se proprio, alla fine dell'asfalto, non si sarà ancora visto, lo cercherò via telefono. Ma non ce n'è bisogno: non ho ancora finito il pensiero, che Matteo ci spunta a fianco, arriva di corsa su per queste rampe senza neanche il fiatone. No, decisamente il fiato non gli manca! Più o meno è come se avessimo acceso la radio... Mik ed io siamo di norma più taciturni, io non per indole ma per la fatica che mi porta via l'ossigeno; provvede lui a fare il giullare per cavarci la risata! Così, con la cronaca del rocambolesco viaggio da Genova, arriviamo alla fine dell'asfalto ed all'inizio delle mie preoccupazioni. Un enorme piazzale investito di luce e musica di un altoparlante: nientemeno che un ristorante quassù! In questo posto dimenticato dal mondo... E noi che andavamo a caccia di solitudine, quiete e meditazione! Beh, quiete più o meno; anche noi, nel nostro piccolo, riusciamo a creare un bel po' di sconquasso nell'ecosistema del luogo.

Quando il gioco si fa duro... Si comincia a pestare neve. Da qui in poi, cammineremo sulle tracce degli scialpinisti. Prima qualche tornante dolce dolce, per scaldarci: si affonda, ma non troppo; anzi, direi che la neve tiene discretamente. Non c'è ancora bisogno della luce frontale: stanotte non c'è la luna, ma il riverbero della neve permette comunque di procedere senza perdere la retta via; e poi c'è la luce che emana dalla pianura, nonché dal megaristorante appena sotto di noi. Cielo, anche questa volta, meravigliosamente limpido e stellato; pochi alberi carichi di neve. Tracce, nessuna, se non quelle degli sci. Eppure il sentiero è definito, come se ne stessimo seguendo la proiezione sopra il manto nevoso.

Come immaginavo, perdo terreno rispetto a Mik, da subito. Lui levita come i treni giapponesi, mentre io affondo nelle sabbie mobili, e più cerco di camminare in fretta, più mi areno. Per fortuna a chiudere la fila c'è Matteo, che non mi molla un momento. Ecco. Dal momento che c'è lui, per questa sera ho messo via la paura. Se lo sapesse, probabilmente se ne preoccuperebbe, ma la sua presenza per me fa da parafulmine di qualsiasi preoccupazione, sempre, e soprattutto in montagna, e ancor più questa sera che, con l'aggiunta della neve e del buio, io sono proprio in balia degli elementi. La traccia si fa sempre più ripida; salgo con il naso contro la neve, o meglio ci provo, scivolando di continuo, talvolta affondando fino al ginocchio. Vado giù, appoggio l'altro piede, vado giù anche con quello, insomma sembro una balena spiaggiata... I bastoncini aiutano, ma non molto. Non vedo quasi nulla intorno a me, perché non posso distogliere gli occhi dal punto in cui appoggerò il prossimo passo, e forse è meglio così. La pendenza sostenuta mi fa pensare che, in discesa, sarà vita dura, durissima... Ma non importa, ormai sono qui e non è proprio il momento di fare i capricci, anche se il fiato è sempre più corto, il cuore sempre più affannato, il capocordata sempre più lontano. Ma c'è Matteo...
Un bivio dietro l'altro, e davvero non riesco a capire come Mik riesca a vedere un itinerario in questa distesa di neve senza forme, senza riferimenti. Ogni tanto, alzando lo sguardo, mi par di vedere una sella, ma no, noi non andiamo verso di lì, infiliamo un'altra rampa e poi un'altra ancora. E mi sembra incredibile poter progredire con le scarpe, semplicemente con le scarpe, che si conficcano nella neve quel tanto che basta a stare in piedi, e solo ogni tanto, in qualche punto, affondano più giù. Grazie anche alle ghette, i piedi sono ancora asciutti.

Non mi par vero di veder apparire davanti a me, all'improvviso, un edificio. Forse il rifugio a cui accennava Mik nella mail? Me n'ero dimenticata... E' lui stesso a rispondermi; si tratta del rifugio a quota circa 1.800 m o poco più. Quindi, facendo due conti, abbiamo percorso seicento metri di salita, dal ristorante, in quel che mi è sembrato un lampo, nonostante la fatica. Per la prima volta alzo lo sguardo e vedo la sterminata distesa di luci dalla pianura: non mi piace, anzi, mi dà immediatamente un senso di vuoto e di vertigine. Mi rendo conto che, scendendo, l'avrò davanti a me, quella vista, e non sarà facile, niente affatto. In cuor mio vorrei scendere, subito, ma, quando Mik propone di proseguire verso la cima, approvo senza indugio. Non posso lasciare che la paura mi fermi qui, non adesso, non stasera, quando proprio non c'è ragione di aver paura. Ci lasciamo alle spalle il rifugio ed il traliccio che credo fosse parte degli impianti di una pista da sci ormai inesistente, riprendendo il nostro viaggio nella neve. Non manca più molto dislivello, ma ci sono alcuni passaggi "in cresta": probabilmente nulla di che, per chi è abituato a questo genere di esperienze, ma difficilissimi per me che ho il terrore del vuoto. Superare il primo di questi tratti mi costa uno sforzo di volontà non indifferente: cammino su una sottile striscia, mentre il pendio a destra e sinistra si tuffa ripidissimo verso il nero della notte. Non vedo quel che ci sia oltre; potrebbero esserci venti metri di salto o mille, non lo so, non ho nemmeno più gli occhiali, inutili quando si appannano. Ed è meglio così: se fosse giorno, io qui non passerei nemmeno al traino; vedrei il baratro in tutto il suo splendore e tornerei con le pive nel sacco al rifugio, in attesa del ritorno dei miei compagni di avventura. Invece passo. Via la prima cresta, via un tratto di pianoro, un po' di risalita secca. Scruto il nero davanti a me, ma non riesco ancora a distinguere dove possa essere la nostra meta, la Punta Aquila. Mi limito a seguire Mik, aiutandomi con la frontale che l'immancabile Matteo mi presta, visto che ho dimenticato la mia. Più che prestarmela, mi costringe a mettermela sul cranio, dopo avermi anche derubata dei ramponi appesi allo zaino, per timore che mi faccia male. In altre circostanze, ad un affronto del genere avrei reagito catapultando il malcapitato direttamente sul sagrato della Basilica di Superga... Ma qui sono in condizione di inferiorità, direi di infimità; sto già combattendo una lotta senza quartiere contro i nervi che potrebbero saltare da un attimo all'altro per la paura... E poi sarebbe assurdo, lo so che Matteo si preoccupa davvero. Ed ha ragione, io qui sto camminando su una corda tesa; è più che probabile che prima o poi cada e che le punte dei ramponi, nella migliore delle ipotesi, mi obliterino una chiappa.

Una piccola costruzione, poi ancora un breve tratto di salita. La croce è inequivocabile: questa volta ci siamo. Ci fermiamo un attimo, tiro il fiato. Mi guardo intorno, è bellissimo, ma è una sensazione sgradevole; le luci laggiù in fondo, piccolissime, il silenzio pesante, il vento mi investono in un senso di vertigine quasi immediato. Mi chino sullo zaino per non perdere l'equilibrio; in quel momento, mi ricordo anche che è forse il caso di mettere qualcosa sotto i denti. Ho mangiato una sorta di pranzo/cena alle tre oggi pomeriggio, dopo un giro di corsa piattissimo da venticinque chilometri; è da un po' che sento la fame, ma la tensione era troppa per fermarmi. Ho un ciucciotto di gel, di quelli che si comprano da Decathlon, disgustosi quanto basta, ma abbastanza efficaci per tappare il buco nella pancia; lo faccio fuori, mentre Matteo imbandisce la tavola per il suo lauto ed abbondante pasto, raccogliendo con cura ogni minima briciola che cade nella neve. Inutile tentare di spiegargli che una briciola fornisce meno calorie di quelle che si sprecano per raccoglierla...

Concluse le operazioni di pieno di carburante e vestizione, litigato un po' con la luce di Mik che non vuol saperne di stare accesa, ritorniamo sui nostri passi. Ecco, è proprio il momento che avrei voluto vedere più lontano possibile. Ora le luci della pianura sono tutte lì davanti a me, beffarde, a dirmi il salto che c'è tra me e loro, tanto facile da compiere, soprattutto perché in discesa il mio equilibrio è, se possibile, ancora più precario. Il cuore impazzisce, peggio che in salita. Calma Gian, calma. Guarda le punte dei piedi, guarda lo spazio di luce di Mik là davanti, segui le sue orme ed andrà tutto bene. Il silenzio, c'è troppo silenzio qui intorno. E le tracce, mi sembra che si moltiplichino a dismisura. Se fossi sola, qui, avrei già perso completamente l'orientamento. In effetti, qualcosa del genere succede. All'improvviso, ci troviamo davanti ad una chiesetta: all'andata, non l'avevo notata... Semplice: non siamo passati di qua, all'andata. E allora... Mi sforzo di lasciarmi contagiare dalla calma olimpica dei miei due colleghi; "Tracce ce ne sono tante, e vanno in giù", mi rassicura Matteo... Ma confesso che il panico si impossessa di me all'istante. Giriamo alla ricerca della casermetta che abbiamo visto poco prima della cima; cammina cammina, a me pare che si stia tornando indietro, verso la Punta: mi sembra che si vada troppo indietro... Invece no: è evidente che non ho più alcuna idea di come siamo girati, perché Matteo mi fa notare che la Punta è, com'è giusto che sia, alle nostre spalle. Non me ne sono resa conto, ma siamo tornati sulla retta via. Gaudio e giubilo... Sono talmente sollevata che quasi quasi la discesa mi si spiana. In effetti, non ho ancora trovato nulla di così pauroso come mi aspettavo, nemmeno un tratto di cresta che ci regaliamo in più rispetto all'andata; anzi, la neve è talmente soffice che attutisce le cadute e permette persino di lanciarsi in qualche piccola scivolata. Mik si lancia giù a valanga, ma qualcosa mi dice che non è il caso di imitarlo...

Dopo un tratto di pendenza dolce, ecco spuntare là in fondo, credo almeno cinquecento metri più in basso, il ristorante, ancora illuminato. Una bella picchiata fin laggiù: impressionante... Ma anche qui il buio gioca a mio favore, impedendomi di avere un'idea chiara delle distanze, del vuoto. Scivolo e scivolo, cerco di non perdere troppo terreno rispetto ai colleghi, che intanto si dilettano nella ricerca delle costellazioni. Senza occhiali, io di stelle ne vedo la decima potenza di quelle che esistono lassù! Ma ho addosso un'euforia incontenibile adesso, quel misto di senso di avventura compiuta e di pericolo scampato, ed anche, perché no, di orgoglio per una piccola impresa che non credevo possibile per me, con tutto il mio bagaglio di fobie. Però adesso ho voglia di scendere, basta neve, basta punte, basta buio e silenzio. Il piazzale è sempre più vicino e tuttavia sempre troppo lontano, per quanto la discesa sia ripida.

All'improvviso, Matteo ne combina una delle sue... Lo vedo accasciato sulla neve: non capisco, ma manco tre o quattro battiti del cuore. Ma cosa fai? Dice di volersi fermare per un attimo di sonno. Sonno? Ma stai scherzando? Non ci credo nemmeno per un attimo: non ha senso, non può essere; senza dubbio non si sente bene... In un istante, un diluvio di pensieri, prendere il telefonino, chiamare i soccorsi... Lo so che è una reazione esagerata, ma non stiamo mica parlando di un Tizio qualsiasi! No no, io mi rifiuto di andar giù se non riparti anche tu. Alla fine scatta come una molla e si rimette in cammino: ok, aveva ragione lui, era solo sonno... Ma come avrei potuto credergli?

Restano poche decine di metri su e giù per i tornanti, schivando qualche ramo di pino che si spinge troppo audace sulla strada, e finalmente siamo al piazzale. Via la frontale, via i bastoncini, finalmente si cammina da persone civili. Anzi, dopo tanto incespicare, sembra quasi di volare!

Libero sfogo alla chiacchiera, all'euforia. Si torna a parlare di tutto, di bici, di pedali, di catene, di stagione da pianificare, di personaggi da convincere a tentare certe imprese, Eedi altri da svegliare nel cuore della notte per trascinarli nel giro in bici di domani. Ma che dico, di domani: di oggi, tra poche ore! E poi si parla di passate avventure in bici, quelle di quando non ci frequentavamo ancora: ed è sempre curioso scoprire particolari della vita di chi ti sembra ormai di conoscere da sempre. E' vero quel che ho letto in più di uno dei libri di alpinismo che consumo pedalando sui rulli; è vero per l'alpinismo, probabilmente, ma di certo è vero anche per tante altre circostanze: condividere un'esperienza intensa, faticosa, magari anche una paura, una preoccupazione, crea tra le persone talvolta un legame più solido di quello che potrebbe nascere in anni di "semplice" amicizia. E ti sembra di camminare, di pedalare insieme da secoli, e non ti ricordi più che è solo un anno, pochi anni...

Passo dopo passo, ritroviamo la frazione, le case, i cani di prima, e persino qualche auto che sale, il conducente ignaro della nostra presenza, forse un po' addormentato, pure lui. E pure io, visto che non mi accorgo che siamo già a Maddalene, se non quando sono in vista dell'auto. Via le ghette, via i ramponi; meno male che è Mik a guidare, perché io stento a tener gli occhi aperti. Tra un'oretta, nebbia permettendo, sarò a nanna, per ben tre ore di sonno abbondanti. Poi s'ha da pedalare! Per dormire ci sarà tempo, come sempre... La prossima volta!

14 gennnaio 2009: passeggiata notturna al Monastero di Pra 'd Mill

"E' troppo grande e brillante per essere una stella!"
"Ma è anche troppo immobile per essere un aereo..."
Mi sento di escludere l'ipotesi che si tratti di un ufo, dal momento che non tocco alcool da un bel po'; quanto a Mik, mi sembra sobrio pure lui, visto che è alla guida e per ora non ha raddrizzato alcuna curva. E allora mi sa che non restano molte alternative: quel punto luminoso, lassù a mezzo cielo, non sarà altro che una luce artificiale sul costone della montagna, forse lungo la strada che sale a Montoso. Cielo e terra non si distinguono più, ora che sono quasi le nove. E, se quella non è una stella, pazienza; sopra le nostre teste ne abbiamo a migliaia, basta sceglierne una che sia una stella per davvero. Tanto, brillano tutte, perché l'aria è limpida, gelida; sette, otto gradi sotto zero, non oso pensare quando mi toccherà scender dall'auto, tra pochi minuti. E poi la luce blu, un bel blu intenso: quella è una croce, son sicura, anche se da qui, con il mio occhio di lince miope, non vedo altro che un enorme asterisco azzurro. Non ricordo esattamente in che punto si trovi: e dire che qui, di giorno, sarò già passata un'infinità e mezza di volte! Poco più in alto, le antenne, quelle che svettano a poca distanza da quegli obbrobri di cemento e grigiume e sfacelo che sono gli alberghi di Rucas. Un po' di nostalgia ce l'ho: è vero che stasera son qui per camminare, è vero che la fatica non mi mancherà, ma in cuor mio vorrei aver la bici per pedalare fin lassù, perché lassù è squallido, è vero, ma i tornanti della salita a Rucas sciolgono il cuore del più duro degli scalatori; il mio, poi, guai, lo riducono in pappa! Coraggio Gian, sarà questione di un paio di mesi; poi, potrai andare lassù e persino tornare giù senza che il ghiaccio recapiti te e la bici per posta prioritaria e per via direttissima in centro a Bagnolo.

Abbandoniamo l'auto proprio ai piedi della salita che va a Montoso, onde evitare anche un solo metro di inutile pianura. Appena usciti dall'abitacolo, il freddo è pungente e fa venir voglia di tornare dentro, anzi, proprio a casa. Ma sappiamo entrambi che sarà sufficiente avviarci di buon passo per scaldarci un po'. Io indosso una canottiera traforata, una maglietta di pile a collo alto, una felpa ed una giacca Windstopper, tutto rubato all'armadio del corredo ciclistico, un paio di pantaloni lunghi leggeri, calzettoni pesanti e scarpe da trail, oltre ai guanti ed al berretto; nello zaino, ancora un pile spesso e la giacca antivento, più qualcosa da mangiare per l'emergenza fame; Mik pare avere un bagaglio più leggero, a giudicare dal minuscolo zainetto: che abbia liofilizzato il vestiario? Ci son circa otto gradi sotto zero.

Percorriamo un paio di km lungo la salita di Montoso, la rampa iniziale che porta all'abitato di Villar. Saranno circa le nove, c'è ben poca gente in giro; solo i cani, dai giardini, si curano di noi, una scia di latrati al nostro passaggio, di tutte le intonazioni, di tutte le intensità. Tranquilli, non siamo qui per farvi del male; ne faremo solo, come sempre, a noi stessi!
Si chiacchiera, benché a me l'avvio crei come ogni volta qualche problema di fiato, che mi accompagnerà almeno per la prima mezz'ora. Man mano che Bagnolo si allontana alle nostre spalle, vediamo più netto lo scintillio delle stelle, una miriade di stelle, e quello delle luci della montagna; riusciamo appena, di qua, a distinguere il profilo nero dei monti dal cielo, appena meno nero. L'asfalto luccica, come tempestato di brillantini. Ghiaccio, neve.

Lasciamo la strada principale all'altezza della chiesa di Villar, in favore di una via sulla sinistra, dove un cartello indica: "Pra 'd Mill 8,5". Alla luce gialla dei lampioni, la borgata appare ancora più immobile, congelata come l'asfalto che brilla sotto i piedi. Eppure qualche luce alle finestre tradisce ancora un po' di vita; non è così tardi, del resto. Saran passate da poco le nove. Ma è buio, ed è proprio il buio che ci frega. Bel belli, giungiamo ad un incrocio, a sinistra una stradina che va in direzione di Bagnolo, a destra un'altra stradina che sale su. Proprio come quella che sale a Pra 'd Mill. Ma le strade si perdono nell'oscurità e noi, che pure di qua siamo già passati in bici, ci facciamo gabbare come polli. Soprattutto io che qui sono di casa! Sicuro, si deve girare a destra, e allora su per una stradina sconnessa, in mezzo a qualche casolare, qualche albero, il ghiaccio. Già, sarà perché ci tocca viaggiare con gli occhi fissi a terra, che non ci rendiamo subito conto dell'errore. La pendenza sale subito, ma è senz'altro giusto: Pra 'd Mill è una salita arcigna. Latrati di cani che si perdono nel buio, un ponticello sul torrente impetuoso, l'acqua nera come petrolio, la neve a bordo strada. Ancora una vecchia casa, un cancello, un box improvvisato in lamiera ed assi di legno, ma noi si chiacchiera e non ci si pone alcun dubbio. Poi una breve discesa, l'asfalto sparisce; la strada prosegue ma è solo più terra, fango ghiacciato. Sconcerto: e che diamine è successo? Vero, non è mai stata una pista da bowling questa salita, ma così è un po' troppo! Eppure siamo certi di non aver superato alcun bivio; non è possibile che si sia sbagliata la direzione. Proviamo a procedere ancora un po', spaesati e con una certa difficoltà a restare in equilibrio: giungiamo ad un ciabòt, una casetta che pare abbandonata o usata solo come magazzino, oltre la quale la strada muore in mezzo ai rami tetri del bosco. Ohibò. Ma dove diavolo siamo finiti? Cos'è capitato alla strada del monastero? Eppure deve essere questa! L'ipotesi meno assurda è quella di Mik: può darsi che l'asfalto sia stato spazzato via dall'alluvione della scorsa estate; in effetti, da allora nessuno dei due è più passato di qui.

Un po' frastornati e con le pive nel sacco, torniamo sui nostri passi, pur buttando l'occhio e la luce della frontale in ogni possibile direzione che lasci intuire la traccia di un passaggio. Ma no, qui non c'è proprio nulla. Tantovale tornare giù, sarà poco più di un chilometro, e rassegnarsi a percorrere un tratto della salita verso Montoso. Però non siamo convinti... Quasi quasi si potrebbe bussare ad una delle finestrelle illuminate di qualche casa: ma il dubbio è che, nella migliore delle ipotesi, ci venga rovesciata in testa una valanga di improperi. Nella peggiore, che i nostri deretani siano destinatari di una rosa di pallini per uno! Tiriamo mestamente avanti, ripassiamo il ponticello su cui il ghiaccio è spesso ed insidioso. Rieccoci all'incrocio. Però... A dire il vero, la strada che arriva da Villar prosegue ancora, dritto! E se andassimo a veder dove finisce?

Ecco svelato l'arcano. Più avanti c'è un altro incrocio, molto simile al precedente, solo che stavolta è quello giusto, con tanto di indicazione per il monastero. Che imbecille sono stata a non capirlo prima. Ricominciamo da capo: via, svolta a destra, si sale. Altri casolari, altri cani che non gradiscono il nostro passaggio; un altro ponte sullo stesso torrente, altri quadratini di luce. Chissà, da lì dentro, quanti si chiedono ragione dell'agitazione dei quadrupedi in giardino. Penseranno a qualche cinghiale, a qualche volpe nei paraggi. Invece no, siamo noi, in carne, ossa e scintilla di follia. Sempre di buon passo, su un tracciato tutto sommato facile, a parte un po' di ghiaccio: la strada è stata evidentemente pulita. Del resto, ricordo abitazioni disseminate un po' ovunque, a parte poi il monastero al termine della salita: è ovvio che chi abita qui debba avere la possibilità di muoversi, nonostante la neve.

Respiro affannoso, qualche alito di vento, un tappeto di luci dalla pianura che ad ogni tornante compare e poi se ne va, inghiottito dai rami e dal fitto della vegetazione addormentata. Qualche lampione che stride con il buio, la quiete di questo luogo un po' fuori dal mondo; qualche casa con giardino illuminato, chiassoso, quasi offensivo della semplicità del luogo. Poi ci rituffiamo in mezzo alla vegetazione, dove questo nastro d'asfalto sembra essere sorto per sbaglio, e ancora camminiamo, spediti. Ciascuno immerso nei propri pensieri, che viaggiano dal sasso sotto la suola della scarpa ad immagini e sensazioni lontane mille chilometri, che pure arrivano fin qui, chissà come. Le cellule grigie lavorano, lavorano, quasi se ne può sentire il rumore. Finché alzo la testa, davanti una curva, in mezzo al legno nero degli arbusti una grossa macchia color del fuoco, una palla, anzi no, una palla un po' schiacciata. Un attimo di stupore, sì, quasi di paura: cosa diavolo è? Ma sì... La luna! La luna, la luce, una fiamma che accende il ghiaccio fin sotto ai nostri piedi, quasi un'alba improvvisa, ma di un intenso color arancio. Le arriviamo in fronte, le voltiamo la schiena al tornante, scoprendo quasi come se fosse appena spuntato l'asfalto, che fino a poco prima potevamo sentire ma non vedere, che ci tendeva il tranello di una buca o di una crepa senza che noi potessimo difenderci dalla storta. Ora è chiaro come di giorno, senza bisogno di ricorrere al trucco delle luci frontali, che comunque finora son rimaste spente. Nelle notti di neve non serve la luce; basta lasciare che gli occhi si abituino, e presto si impara a distinguere il nero della strada dal grigio della neve; si possono scambiare i rami nudi degli alberi come tentacoli che sembrano proprio muoversi, abbassarsi verso di noi, puntare minacciosi come per ricacciarci indietro. Lo ammetto: se fossi da sola, qui, un po' avrei paura. Non c'è nulla di nulla da temere, anzi, molto meno di quanto ci sia a quest'ora in città... Ma fruscii, scricchiolii, schiocchi, non capisci da dove arrivino, non ti accorgi di dove si allontanino. E l'auto parcheggiata lì dietro la curva non c'entra proprio un tubo, rompe la poesia: però, a pensarci bene, mi sa che la poesia l'abbiamo rotta noi agli occupanti... E pure le scatole! Via, meglio filare... La luna sale con noi, diventa sempre meno gonfia, meno rossa, fino a diventare poi una luna come tutte le lune di sempre, bianca, accesa, quasi banale. Ma la sua luce continua a farci comodo. Case e ancora case, non ne ricordavo tante quassù. Addirittura una cappelletta, orrenda, un obbrobrio, appena prima di una rampa cattiva. Gli ultimi chilometri sono i più severi, anche a piedi. Ne mancano meno di quattro quando, con nostra sorpresa, ci imbattiamo in un cartello di stop. Stop? Che significa? Semplice, significa che la stradina che stiamo percorrendo noi si immette su un'altra strada, evidentemente principale. Significa che c'è un'altra strada che sale da Bagnolo. Possibile che questo incrocio ci sia sempre sfuggito? O forse una volta non c'era lo stop?

Ci ripromettiamo di scendere, al ritorno, a sinistra. Intanto io cerco di mettere insieme i miei riferimenti geografici, pochi ma confusi, e di capire dove può andare a finire quell'altra strada: mi dichiaro in breve sicurissima di una conclusione... Che sarà poi completamente sballata.
Si sale ancora, tra casolari abbandonati o forse solo disabitati 'inverno, fornetti per il barbecue e tavolini nei giardini, di cui s'intuisce solo la sagoma sotto la coltre di neve ghiacciata, numeri civici che pendono da improvvisati paletti, tracce di ruote sulla strada che ora sembra pulita e persino asciutta, ora è ingombra di neve. E' difficile, nella notte, prioettare qui il ricordo di ciò che vedo quando salgo in bici. Le distanze sono a volte dilatate, a volte ristrette, le curve diventano dritte e nei rettilinei si finisce a girare. Non ricordo più nulla dell'arrivo, solo un tratto di strada sterrata, brevissimo, ed un paio di cagnoni grossi e pigri che mi si lanciano incontro dagli edifici del monastero. Nemmeno quelli, a dir la verità, mi ricordo. E' Mik che mi preannuncia una svolta a destra, una splendida vallata: è così, è proprio così; il bosco scompare in un istante, la vista spazia lungo un'ampia vallata, bianca di neve, illuminata dalla luce violenta di una bellissima luna, scintillante nell'aria perfettamente limpida ed immobile di questa sera. Si vede ogni particolare dei declivi, si vede qualche luce, qualche alpeggio sperduto, qualche luogo da eremita che non posso non invidiare. E' uno spettacolo che mi lascia senza fiato, più delle rampe. E le stelle, quante infinite stelle: non ho mai imparato i nomi delle costellazioni, ma ormai cerco ad istinto quelle che hanno quella certa disposizione, quelle che formano una certa figura, son sempre lì, quasi una sicurezza. Lì una fila dritta di tre, laggiù una spezzata di altre tre, un quadrilatero, i famosi Carri. L'asfalto sotto i piedi non c'è più, solo terra battuta ed insidiosissimo ghiaccio; un cartello di legno, modesto, ad indicare il monastero; una vecchia Panda parcheggiata a testimoniare la presenza di qualche anima. Ecco gli edifici bassi e coperti di neve, quasi sprofondati nella coltre bianca; fanno contrasto con la natura del luogo le lucine rosse e verdi del quadro elettrico, il rumore sordo e continuo di un generatore. Nulla muove, nessuno esce, nessuna finestra si illumina, nulla di nulla. Forse nessuno s'accorge di noi. Meglio così, forse ne avrebbero paura: anche se, a ben pensarci, chi avesse cattive intenzioni non credo farebbe tutta questa strada per cercare un bersaglio... E, quando l'avesse fatta, non avrebbe più forze residue per commettere alcuna efferatezza!

Mik è stato più saggio di me, s'è portato gli abiti di ricambio per la discesa. Io no... Ma tanto, conoscendomi, non avrei avuto il coraggio di esporre la mia ciccia al freddo ed al gelo dell'aria notturna! No no, per carità... Mi limito ad indossare uno strato in più, la giacca antivento, e ad attendere qualche momento con il naso all'insù, verso il pendio innevato, grigio così come si vede adesso, e le stelle. Le luci della pianura da qui non si vedono più, ma tra poco le ritroveremo. La breve discesa finale ora è una salita che ci permette di riscaldarci appena un po' dopo la sosta al monastero; mi vien quasi voglia di avvicinarmi alla Panda e tirare su i tergicristallo... Ma si sa che i monaci non hanno gran senso dell'umorismo; rischio che mi lancino qualche anatema, non sia mai!
E' solo adesso, in discesa, che mi accorgo della temperatura non proprio sahariana. La giacca ripara bene, ma il naso fende l'aria gelida e non ne è troppo contento. Se non altro, però, le gambe lavorano e un po' di calore lo mandano in circolo. Chi è ciclista nell'animo è abituato a considerare la discesa come un apostrofo rosa tra la fine della salita e la fine del giro, o l'inizio della salita successiva, comunque un tratto di riposo che scorre via in fretta. A piedi ormai ho imparato che non è affatto così, anzi; la discesa costa fatica, dolore ai muscoli se si è su sentiero, un po' di noia e di freddo se si è su strada e si scende, per forza, lentamente.

Ripercorriamo i quattro km circa prima del bivio che abbiamo notato all'andata: le rampe sono quasi più evidenti adesso, che non prima, quando le abbiamo superate in salita. La luna è ormai alta, le poche case ancora più immobili e silenziose, i pochi quadretti di luce spenti, spariti. Solo più i lampioni e l'asfalto a dirci che siamo vicini alla civiltà. Al bivio, giù a destra, questa volta: chissà se poi si rivelerà davvero una scelta saggia? Magari questa strada non arriva affatto dove vogliamo andare noi; magari al fondo c'è un muro altissimo o un fossato con i coccodrilli e ci tocca tornare indietro... Ma un vero esploratore non teme l'ignoto, soprattutto se l'ignoto si presenta sotto forma di una bella strada comoda che passa tra le case ed offre la vista sulla pianura... Man mano che scendiamo, nell'oscurità si delineano i tetti, poi i muri, poi i cortili delle case, una qui una là; cani che latrano senza sosta, forse più per sorpresa che per minaccia; altre strade che si staccano e vanno verso la montagna, che ci ripromettiamo di provare prima o poi... Magari poi. E lo scampanio delle bestie al pascolo: non avrei mai immaginato che qui, a quest'ora di notte, in pieno inverno, le mucche e le pecore fossero lasciate all'aperto. Eppure le sentiamo e le vediamo con i nostri occhi personali!

La discesa è lunga, noiosa, eppure son questi i momenti che vorrei non finissero mai. In silenzio, lontana da tutto, posso illudermi per un po' che la vita sia tutta qui, camminare, salire, vedere, sentire, faticare, respirare, in questo momento d'inverno in cui si coltivano i sogni o quando i sogni, ormai cresciuti, sono pronti per essere vissuti. Sono serena così, quando sono fuori, al freddo con le dita che piangono nei guanti inutili, una maglia fradicia che mette i brividi, nulla a cui pensare se non il prossimo chilometro, la prossima meta, il prossimo punto di partenza. Lo so che è un atteggiamento infantile, irresponsabile, inaccettabile alla mia età, ma l'ufficio, il telefono, le scartoffie non mi appartengono. L'unico pezzo di carta che mi appartiene è quello bianco, senza quadretti e senza righe, da riempire in libertà tra un'avventura e l'altra. Peccato che la poesia non si mangi!

Mi riporta alla dura realtà un verso indefinibile, quasi la tipica, diciamo così, emissione sonora di chi ha appena concluso una pantagruelica mangiata e, soprattutto, bevuta: vien dal bosco, appena sopra la mia testa... Che cosa possa aver prodotto quell'inquietante suono, lo ignoro; fatto sta che le mie gambe attaccano a fare giacomo giacomo... Affretto il passo e continuo a voltarmi indietro per un po', nel timore che quell'essere imprecisato decida di seguirci con intento minaccioso; Mik, per nulla preoccupato, se la ride sotto i baffi... Lui che è abituato a viaggiare per il mondo, non ha certo paura della sua ombra, come invece ho io! Quante belle avventure ho già mandato a monte per colpa della paura... Però mi vendico quando a prendersela con noi sono i cani, che io adoro... Ma Mik no!

Dopo un tempo interminabile, la strada spunta in un luogo che mi è immediatamente familiare: è nientemeno che lo stesso bivio da cui si stacca la via che abbiamo percorso in salita. Ah, ecco... Si può fare l'anello, dunque! Tutte le mie congetture circa il punto in cui saremmo andati a scendere diventano carta straccia... Ricalchiamo le nostre stesse orme fino a Villar, dove per un attimo mi distrae una locandina che parla di montagne dell'Himalaya: da quando ho preso a divorare i libri di alpinismo, nulla mi sfugge sul tema... E poi l'interminabile drittone, sarà poco più di un chilometro ma non finisce mai. La sagoma nera di un castello, in alto sulla destra; le villette alla periferia di Bagnolo, molte dall'aspetto probabilmente lussuoso nelle intenzioni, ma che a me sembrano solo un po' pacchiane, poi il peso, finalmente la rotonda. A dire il vero, l'unica parte di me che desidera il calduccio dell'auto son le mani: tolti i guanti, mi ritrovo con dieci salsicciotti gonfi e gelidi, come sempre. E non c'è verso di risolvere questo problema; le ho già provate tutte... Pazienza, sotto le coperte si scalderanno. E, mentre Mik litiga con un CD che non vuol saperne di fare il suo dovere, io penso che ancora una sera di quest'inverno, una bella sera di luna e stelle, a Pra 'd Mill ci dovrò tornare.

martedì 13 gennaio 2009

13 gennaio 2009: buon compleanno blog!

Oggi è, o ieri è stato? Siamo a cavallo di mezzanotte... Comunque è, o è stato, il primo compleanno di questo mio blog. Nato quasi per scherzo, per caso, per occupare un'ora buca. E poi ha attecchito davvero! Ed io che non ho mai avuto il pollice verde...

Grazie a chi mi legge, tutti dal primo all'ultimo! E grazie anche a chi mi dà argomenti su cui scrivere, a chi commenta, critica, a chi cita, a chi ride... Un'altra stagione ci attende!

domenica 11 gennaio 2009

6 e 8 gennaio 2009: notturne sulla neve

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: così dicono... In realtà, in questo caso, più che di gioco duro, si dovrebbe parlare di gioco gelido. Ci sono occasioni in cui vorresti tanto che le previsioni del tempo si rivelassero completamente sballate; ovvio che, in quelle occasioni, invece, ci azzeccano con precisione millimetrica, anzi, se possibile, non bastano a rendere un'immagine abbastanza tragica di quel che accadrà. Così è stato nella seconda metà di dicembre 2008 e nei primi giorni di gennaio 2009, da queste parti: neve, neve, e ancora neve, e, tra una nevicata e l'altra, pioggia e ghiaccio, per non farci mancare nulla. Insomma, tempi durissimi per il ciclista incallito, e pure per il podista, il cui osso sacro è seriamente minacciato dall'asfalto scivoloso. Non resta che rinchiudersi in casa e costringere la bici all'immobilità sui rulli: anche lo spirito più vagabondo deve talvolta rassegnarsi a far fatica senza andar da nessuna parte.

...o no? Ma insomma, siamo uomini o caporali? Ci lasciamo annientare così dalla furia degli elementi? Non sia mai! Meno male che, ogni tanto, quando il mio neurone è in pausa caffé, ci pensa qualcun altro, a generare idee folli ed a propormele. La prima vede la luce, luce si fa per dire, il giorno dell'Epifania, uggioso e nevoso quanto basta: e se tentassimo una camminata con un po' di dislivello? Alla proposta generica, Mik allega due o tre ipotesi di itinerari; la mia scelta cade sulla salita da Piossasco al Monte San Giorgio: solo perché Piossasco è, tra i possibili punti di partenza, quello più vicino a Carmagnola; dovendoci arrivare in auto, con questo tempo da lupi, preferisco metter sotto le quattro ruote meno strada possibile.

Detto, fatto; poco dopo le otto, quella sera stessa, siamo al punto di partenza, abbigliati di tutto punto e dotati di scarpe da trail e, per me, anche di bastoncini. Sei chilometri di salita su mulattiera, in mezzo al bosco ed ai pini, affondando, ma non troppo, in una coltre di neve morbidissima, polverosa, quasi asciutta, che infatti non s'infila nelle scarpe, benché arrivi ben presto a salire oltre la caviglia. In salita riusciamo a tenere un buon passo, anche se io sbuffo e fatico, temendo che Mik decida di tener fede, anche a piedi, alla sua indole di scalatore folle e di mollarmi, di punto in bianco, per schizzare su verso la meta. E' pur vero che qui è difficile sbagliare strada... Ma io, lasciata a me stessa, ne sarei capace! E poi toccherebbe mobilitare i soccorsi, l'Esercito, la Marina, la Legione Straniera per venirmi a cercare. Per carità Gian, vedi di darti da fare. Ma il compagno di merende stasera non pare avere intenzioni minacciose. Per mia fortuna, è in convalescenza da malanni vari!

E' un'esperienza strana. Se non avessi fatto, proprio ieri in Liguria, una sorta di battesimo della camminata sulla neve, qualcosa di più dell'attraversamento di un piccolo nevaio, stasera sarei senza dubbio ben più preoccupata, anche se, in realtà, non c'è nulla di cui preoccuparsi. Nemmeno del buio c'è da preoccuparsi; ormai sono anni che vado a correre in ore serali ed anche notturne... Il bosco è immobile, non si sente rumore né suono, solo il fruscio dei rami, solo la neve che di tanto in tanto scivola tra gli aghi, chissà perché proprio in quel momento in cui passiamo. E non sono nemmeno da sola, né lontana dall'abitato. Nonostante tutto questo, non riesco a ricacciare del tutto indietro il timore, semplicemente, di essere qui. Forse per questi pini così alti e così scuri, questi tronchi che si proiettano verso il buio, questi rami che disegnano figure contorte che nella fantasia diventano subito minacciose. Come nelle illustrazioni sui libri di fiabe, quelli che da bambina ho divorato in quantità quasi pari a quella dei barattoli di Nutella. Il bello, però, è che non serve la pila frontale. Il riverbero della neve basta già a permetterci di vedere dove mettiamo i piedi; mi vien da chiedermi da dove arrivi, questa luce... Anche questo fa parte del mistero.

In salita, il freddo non si sente. Anzi, non si sente nemmeno la pendenza. Son talmente impegnata a cercar di stare in piedi, ed a mettere una scarpa davanti all'altra, che quasi non mi rendo conto dei tornanti, delle debili lucine della pianura che si fanno sempre più lontane. Il buio, il silenzio, la vista in "modalità bassa definizione", come ironizza Mik – nessuna pietà per una povera talpa! - creano un'atmosfera sospesa, in cui quasi non mi rendo conto né dell'ora né del luogo né dello sforzo. Però passiamo di tornante in tornante, quindi per forza stiamo salendo. Nemmeno della distanza riesco a dare una valutazione corretta: quando mi sembra ragionevole pensare d'aver percorso più o meno metà strada, un leggero venticello mi fa rabbrividire e lascia intendere che la cima è ormai vicina. Mik conferma; ancora un paio di curve e la strada si perde in un'ampia radura, ovviamente coperta di neve, da cui la vista spazia sulle luci della pianura. Ancora pochi metri dietro l'ultima propaggine del bosco e ci troviamo di fronte l'abside di una piccola chiesetta che, con il beneficio d'inventario della mia mostruosa ignoranza, parrebbe essere romanica. Se il retro è così bello, chissà la facciata: mi affretto a fare il giro intorno a questo edificio di culto bonsai e, come previsto, scopro una splendida struttura di pietra e legno che, se non era così in origine, è stata comunque ristrutturata con cura e gusto, direi.

Fermi quassù, però, non conviene restare: il vento e gli abiti bagnati fanno immediatamente venir la pelle d'oca. Scartata l'idea peregrina di Mik di scendere a valle per via retta, lanciandosi giù dal pendio a mò di bob umani – non mi stupirei affatto di vederglielo fare davvero – ci rimettiamo sui nostri passi, ripercorrendo a ritroso uno dopo l'altro tutti i tornanti. Benché il passo sia svelto, il freddo arriva lo stesso a mordere le ossa e soprattutto le mani, tanto che ho la netta sensazione che qualcuno ci abbia giocato lo scherzo di allungare la strada, dopo il nostro passaggio. Le luci della città son sempre là sotto, lontane, e non ci arriviamo mai, per quanto camminiamo! Le uniche tracce son quelle delle nostre scarpe: mi sa che nessun altro, stasera, si avventurerà quassù. O quasi: ormai giunti alle prime case di Piossasco, incontriamo due loschi figuri, in tenuta non certo montana ma, direi, da struscio cittadino in mezzo alle vetrine, che si avviano verso l'alto. Ma che diamine ci faranno qui, questi due, a quest'ora? Probabilmente, la curiosità è reciproca...
A conclusione di tutto ciò, poco meno di dodici chilometri e poco più di quattrocento metri di dislivello. Soprattutto, benedetto chi ha inventato, per le automobili, il riscaldamento!

Forti dell'ottimo risultato del nostro primo esperimento, due sere dopo, decidiamo di rimetterci in marcia, più che mai fiduciosi. Peccato che, in quei due giorni, la neve non abbia smesso di cadere... Particolare che non sarà irrilevante.
La meta prescelta, questa volta, è sulle pendici del Monte Musinè. L'idea sarebbe quella di andare da Caselette a Madonna della Bassa, un po' più di venti chilometri tra andata e ritorno: se solo la quantità di neve sul sentiero fosse la stessa di martedì scorso. Per fortuna, in un impeto di buonsenso, mi faccio venire il dubbio che non sia così ed opto per gli scarponi da montagna, alti oltre la caviglia, al posto delle scarpe da trail. E' da tempo che ho pensionato gli scarponi, in realtà. Quand'ero ragazzina e partecipavo, qualche volta, a qualche gita del CAI o qualche escursione con mio padre, la montagna per me si basava su due solidissime certezze. Una era il fatto che le uscite su sentiero si misuravano in metri di dislivello, non in distanza lineare, e l'altra era appunto il fatto che "in montagna si va con gli scarponi". Le gare di trail hanno spazzato via entrambi i miei punti fermi: in questa disciplina, infatti, la distanza conta eccome... E la caviglia bloccata non è più un obbligo imprescindibile, ma anzi sarebbe solo un fastidio.
Ma ho il sospetto che, stasera, gli scarponi serviranno eccome. E meno male. Alla partenza, da Caselette, ci è subito chiaro che la neve ci darà del gran filo da torcere. La pioggia caduta nelle ultime ore ha trasformato il tratto iniziale del sentiero in un torrente di acqua e neve marcia, scivolosa, appiccicosa. Eppure qui qualcuno si è avventurato; ci sono tracce di passi e forse addirittura di sci. Poi, man mano che faticosamente avanziamo, l'acqua sparisce, ma la neve è comunque pesante; soprattutto, è tanta, troppa. Avremo percorso sì e no due chilometri ed io affondo già fino a metà polpaccio; se non avessi i bastoncini, sarei già finita faccia a terra chissà quante volte. E la cosa peggiore è che, mentre io incespico e fatico in modo ignobile ad ogni passo, Mik lì davanti sembra levitare sulla neve, leggero ed agile come un camoscio, che in questo frangente mi pare l'animale più adeguato alla situazione: un bel termine di paragone sarebbe l'antilope, ma mi sa che di antilopi nei boschi del Musinè non se ne vedano spesso. Nutro più di qualche dubbio sull'opportunità di proseguire, ma non oso esprimerlo: temo che Mik non prenderebbe nemmeno in considerazione l'idea di tornare indietro. E, comunque, non ho il fiato per parlare. Mi rinchiudo nel mio affannato silenzio, mentre cerco di ricacciare indietro la paura che sento salire su, combattendola con gli argomenti della logica: ma cosa vuoi che possa succedere qui; siamo vicinissimi alla città; è vero che è difficile camminare, ma di certo qua non si resta bloccati; non fa nemmeno così freddo... Però la logica non è mai stata il mio forte e soccombe al pensiero delle mie calze ormai fradice. Vero che gli scarponi sono impermeabili ed alti... Ma sono scarponi da escursionismo, mica stivali da pescatore, ed io qui affondo fino al ginocchio! Mi pare di correre i quattrocento metri ostacoli, ma al rallentatore... Non oso pensare a quanto urleranno domani i muscoli delle gambe, costretti a questo movimento così insolito ed innaturale!

Per fortuna che la luce non serve, nemmeno stasera. Sono nitidissime le luci della pianura, sulla nostra sinistra; se solo l'aria fosse un po' più limpida, dall'altra parte della valle si vedrebbe la Sacra di San Michele.

Quando ormai sono rassegnata al mio destino, all'idea di macinare dieci e più chilometri in questo stato, impiegandoci chissà quante ore, quando ormai ho liberamente scelto di sottopormi al martirio, per la salvezza del mio buon nome di uomo che non deve chiedere mai... Mik se ne esce con un "mi sa che non riusciamo ad andare dove avevo programmato". Trattengo un attimo il fiato, per essere certa di aver capito bene... E poi butto fuori un sospiro di sollievo tale che, per il rinculo, quasi finisco a terra, manco fossi un palloncino bucato di colpo. 'azz... Va bene, siamo qui in mezzo ad un bosco, al freddo, sotto la nevicata e mezzi sepolti, ma se non altro non peggioreremo la nostra condizione! Ed io che già temevo, donna di poca fede, di dover fare ricorso al telo termico, che in ogni caso ho portato nello zaino...

Su una provvidenziale mappa appesa ad un tabellone di legno lungo il sentiero, Mik mi mostra dove siamo e dove andremo: dovremmo percorrere un tratto di sentiero in discesa e raggiungere l'abitato di Almese. Da lì potremo proseguire ancora un po', finché ne avremo voglia, su asfalto. E' solo per darmi un contegno, che non mi metto a far le capriole. Anche perché, in ogni caso, non è finita; bisogna appunto scendere! Riprendiamo a fatica la marcia; mi rimetto a ruota, per sfruttare vigliaccamente almeno le impronte lasciate dagli scarponi di Mik, che mi aiutano un po': l'ho sempre detto, io, che l'acqua e la neve non sono i miei elementi. Questa sarebbe stata una sera da racchette, altro che.

Le uniche orme che accompagnano le nostre sono quelle di qualche piccolo abitante del bosco: lepri e volpi, con tutta probabilità. Saranno loro a provocare i flebili rumori, i fruscii, gli schiocchi di rami che si sentono ogni tanto.
Poco oltre la tavola segnaletica, giungiamo al bivio con la strada che in teoria avremmo dovuto seguire; mi affretto a tirar dritto dall'altra parte, casomai Mik avesse un ripensamento... Tavolini da picnic: allora siamo vicini alla civiltà, anche se poi la strada si immette in una pineta in cui mi è quasi difficile intuire la giusta direzione. Ma poi, una rete, un cordolo di pietra spazzano via ogni dubbio: è la strada giusta, siamo ad Almese. Finalmente, con gran gioia dei miei garretti, l'asfalto.

Ancora un dubbio mi tormenta: ma, al ritorno, dovremo ripassare di qua? E' lacerante... Ma lo tengo per me; se Mik rispondesse di sì, sprofonderei nella disperazione; a volte è meglio non sapere cosa ci aspetta. Me ne preoccuperò quando sarà il momento.

La stradina asfaltata è una ripida discesa verso il centro del paese. Passiamo in mezzo alle case, a giardini carichi di neve, ad alberi ancora addobbati con la veste natalizia. Sono quasi le undici, ma molte finestre illuminate lasciano intendere che non siamo i soli nottambuli, anche se gli altri son più saggi e se ne stanno al caldo delle stufe. Noi, di quel caldo, respiriamo solo il profumo del legno che sbuffa dai camini. Se qualcuno uscisse portandoci una tazza di cioccolata fumante... No, non penso proprio; già i pochi automobilisti che incontriamo ci guardano come se avessero visto due fantasmi. Se qualcuno ci venisse incontro, sarebbe solo per vestire entrambi con un'elegantissima camicia di forza!

Mi sforzo di non pensare ai miei piedi zuppi: calze bagnate, pozzangherina privata in ogni scarpone. Ovvio, sono impermeabili: l'acqua non entra, ma, quand'è entrata, non esce più! Beato Mik che, con le ghette, è rimasto all'asciutto...

Anche nella piccola Almese non manca il capannello di facce patibolari ramazzate fuori dal bar all'orario di chiusura, sulla piazzetta centrale. Passiamo con fare spedito, diretti verso la strada del Col del Lys: come compromesso della serata, sfumata la prima opzione, ci accontenteremo di percorrerne un pezzetto. D'accordo, a mezzanotte faremo dietrofront. Ormai trotto con allegria: poco fa, il mio compagno di viaggio ha sciolto i miei angosciosi dubbi, annunciandomi che a Caselette torneremo via strada asfaltata, via pianura... Fantastico, ora non ho più nulla da temere, se non l'andatura di Mik che, su terreno agevole, prende letteralmente il volo. E meno male che gli scarponi sono troppo pesanti ed ingombranti per correre, altrimenti sarei panata! Mi metto a marciare anch'io alla bell'e meglio, sperando che fiato e gambe resistano ancora un po'... E che qualche abitante delle ville che si affacciano sulla strada, spaventato dall'abbaiare forsennato dei cani da guardia, non ci scambi per ladri e non decida di accoglierci a fucilate! Tocca anche schivare un pilota di Panda che crede evidentemente d'essere un rallysta provetto, a giudicare dalla foga con cui prende una curva sul ghiaccio! Un po' è anche colpa nostra però: non siamo per niente visibili! Meno male che ci sono i lampioni.

Ad un tratto, sulla destra, si stacca un sentiero che punta verso il basso: se ho ben capito, è da qui che dovremmo tornare verso l'abitato. Un paio di fogli scritti fitti fitti, appesi alla sbarra che chiude il passaggio ai veicoli, ci fa però intendere che non sarà possibile passar di lì nemmeno a piedi: per quel poco che il buio mi permette di leggere, si parla di una frana... Ostinati, proviamo lo stesso a superare la sbarra, ma, poco più avanti, ci troviamo di fronte ad un pino a testa in giù. Anzi, probabilmente è qualcosa di più di un pino: è proprio un pezzetto di montagna! Qui mi impunto, le acrobazie non fanno per me, soprattutto perché, a lato della strada, non si vede nulla e, in compenso, si sente lo scorrere di un torrente. Non ho voglia di un gelido bagno fuori programma. Dietrofront, si torna giù per la stessa via, sicura ed asfaltata, da cui siamo saliti.

La discesa, come sempre, è ben più lunga ed odiosa della salita, anche se poi, di fatto, dal giro di boa fino ad Almese impieghiamo dieci minuti. Questa volta, almeno per me, il passo svelto è un obbligo per evitare che il freddo prenda il sopravvento. Dal paese, dove arriviamo intorno a mezzanotte ed un quarto, all'auto, ci sono circa cinque chilometri piatti: e intanto ha ripreso a nevicare, fiocchi grandi, fitti, che si fermano sugli abiti e sulle labbra e sulle lenti degli occhiali, che già imbiancano un po' la strada. Percorriamo un itinerario secondario, uno dei terreni ciclistici di Mik: di sottecchi guardo la montagna alla mia sinistra e mi compiaccio dello scampato pericolo, di non dover più passare di lassù. Il freddo che tanto temevo, soprattutto per via dei piedi bagnati, non arriva: la marcia del resto è molto veloce; ormai siamo entrambi silenziosi e compresi nel nostro desiderio di raggiungere la Opel. Ci vorrà un'oretta, poco più. Dapprima passiamo in mezzo ai campi, alla luce dei lampioni, accanto ad una pista ciclabile che possiamo solo immaginare sotto la neve; poi, ci immettiamo in una borgata. Da lì, la strada cessa di essere illuminata; resta un breve tratto in mezzo al bosco, dove, d'improvviso, nonostante la semi-cecità causata dalle lenti bagnate, scorgo una grossa forma tondeggiante che incrocia la nostra traiettoria, per fortuna ad una certa distanza da noi, e si fionda in mezzo al bosco fino a sparire: quasi certamente un cinghiale. Confesso che, da lì, mi volterò un paio di volte indietro, casomai il nostro occasionale collega di scorribande notturne dovesse decidere di tornare per approfondire la conoscenza...

Ma ormai ci siamo. Un breve tratto di strada statale, ormai coperta da un velo di neve già ferma, e poi attraversiamo una delle vie di Caselette, una bella strada in salita in mezzo alle case: chissà quanti sono i viandanti che di solito, all'una di notte passata, animano la movida notturna di questo paesello... Una cartoleria, un negozio di alimentari, ovviamente sprangati. Il desiderio di una cioccolata calda non è ancora sopito nel fondo del mio cuore, ma mi sa che non ci sia proprio trippa per gatti! Al massimo, a quest'ora si potrebbe trovare aperto un night club... Ma non a Caselette!

L'effetto del caldo improvviso è micidiale. A fatica riesco a riconsegnare Mik vivo e vegeto a Vinovo – troppo suonata anche per rendermi conto che avrei dovuto cedere la guida – e poi, spento il motore sotto casa, prima ancora di riuscire a sfilare la chiave dal cruscotto, mi addormento sul volante. Per fortuna che il freddo mi risveglia dopo pochi minuti: almeno riesco a completare il passaggio al letto... Sono le due e mezza; la sveglia suonerà alle sei. Domani, anzi oggi, è un altro giorno!

sabato 10 gennaio 2009

3 e 4 gennaio 2009 - Col de Turini e dintorni - II giorno

Alle sei e mezza, quando la sveglia ci riporta alla cruda e soprattutto gelida realtà, è ancora buio pesto. Nonostante le abbondanti libagioni di ieri sera, il mio primo pensiero va alla colazione: una fame da lupi! Restano da spazzolare la torta, due yogurt, il formaggio. Forse la mia è più un'esigenza psicologica che non reale: pochi bocconi di panino al formaggio mi saziano già, sul momento... Ma devo convincermi di essere una discarica e buttar giù più sostanza possibile, perché so che, tra freddo e fatica, ben presto avrò dinuovo fame.
Con i preparativi la tiriamo un po' per le lunghe, in attesa di poter partire con un po' di luce. Dalla finestra si vede, dapprima, solo la sagoma nera delle montagne contro il cielo appena più chiaro; poi, pian piano, i dettagli: il pendio della montagna, terrazzato per fare spazio ad un misero orticello, tutto bianco di brina. Trovo il coraggio per aprire l'imposta e fare un paio di foto: la temperatura è siberiana... Non è che potessi attendermi nulla di diverso, del resto. E non posso farci nulla: tocca partire, a meno di volere svernare qui per un paio di mesi!

Faccio scaldare dell'acqua sul fornello per metterla nelle borracce: in realtà, non ha molto senso, visto che né Matteo né io abbiamo alcuna borraccia termica. Infatti, meno di mezz'ora dopo la partenza, nell'acqua galleggeranno già frammenti di ghiaccio.

Sulla carta, oggi ci attende, rispetto a ieri, più o meno la stessa distanza, con meno dislivello; quindi, dovremmo fare più in fretta. Sulla carta. Io però ho smesso da tempo di credere a queste promesse da marinaio del mio collega: lui ragiona su se stesso; da solo, impiegherebbe un'infinità di tempo in meno, rispetto a me; io invece combatto con mille difficoltà. Non sono capace di andare in bici, l'ho sempre detto; qualsiasi cosa mi crea problemi. Matteo si preoccupa all'idea che oggi si rientri troppo presto alla base e che, per questo, io mi possa arrabbiare. E' vero, effettivamente, in condizioni normali, mi secca molto dover fermare i pedali quando sarebbe ancora umanamente possibile percorrere un po' di strada e dislivello in più; ma queste non sono condizioni normali, questa è una situazione disperata! E, pur avendo voglia di pedalare, anzi, pur sentendone la necessità, sono combattutissima. Nello stesso momento, spero di arrivare presto all'auto, spero di arrivarci il più tardi possibile; in ogni caso, quando ci arriverò, sarò troppo intirizzita e sfinita per essere dispiaciuta.

Il peggio che possa capitare, in una gelida mattina di gennaio alle otto, è dover partire in discesa. Poco più di due chilometri, ma dev'essere più o meno come infilarsi degli spilli sotto le unghie. Arrivo giù, alla strada di fondovalle, quasi senza fiato, e mi lancio lungo lo stradone con tutto l'impeto che posso metterci, solo per riscaldarmi. Anche oggi, la pianura non mi riesce antipatica, affatto. Ne abbiamo circa 16 km, accompagnati dal traffico in senso inverso rispetto a ieri sera: già, perché ieri sera gli sciatori tornavano verso mare, mentre stamattina vanno verso monte.

E pensare che, per oggi, Matteo aveva programmato un itinerario che ci avrebbe condotti per ben due volte a quota 1.600 metri... Sarebbe stato da pazzi, anzi, proprio impossibile. Se davvero fossimo saliti al Col de la Cuillole, probabilmente poi io non sarei stata in grado di scendere; insomma, ne sarebbe venuto fuori un bel guaio. Meno male che, tra tutti e due, siamo stati illuminati da un barlume di buonsenso: anzi, per quanto mi riguarda, più che di buonsenso s'è trattato di paura. So bene di non essere così stoica né così coraggiosa; so bene che, alla minima difficoltà, posso non essere più in grado di proseguire. Ho i nervi di pastafrolla, quando qualcosa va storto. Insomma, oggi resteremo più verso sud, sperando in una temperatura appena appena meno spietata di ieri.

Passano i chilometri, arriviamo prima a Touet sur Var, poi a Puget-Théniers: qui abbandoniamo il fondovalle, attraversiamo un ponte ed iniziamo la prima salita della giornata, verso il Col St Raphael. Otto chilometri di salita sempre in ombra, mentre di là, dal versante opposto della valle, la montagna è già illuminata. Pazienza; in salita più o meno ci scaldiamo; l'importante sarà avere un po' di sole nella discesa, ammesso che quella che ci attende dopo il colle sia una discesa. A giudicare da quel che abbiamo visto sulla carta, si tratterà probabilmente di un lungo, lunghissimo tratto a mezza costa, su e giù. Così sarà, infatti. Perlomeno, questa volta la carta indica la strada in bianco, ma con linea continua: non dovrebbe trattarsi di un tratto infernale come quello che abbiamo percorso ieri dopo Utelle, che, ho scoperto solo alla sera, era segnalato con i trattini rossi!

All'attacco della salita, incontriamo un mezzo spartineve: cominciamo bene... Il freddo è pungente; Matteo mette già in azione le ganasce: probabilmente, quelli delle mascelle sono i più allenati tra i suoi muscoli, pure allenatissimi in generale. Pare di potersi aspettare, dopo ogni curva, un po' di sole... Ma ogni volta si tratta di un'impressione, un miraggio, un'illusione. I raggi si concedono solo per pochi metri.



Al colle, imbocchiamo la strada sulla sinistra: proprio come previsto, si tratta di un'interminabile percorso a saliscendi. Interminabile, davvero. Forse anche perché, poco dopo il bivio, incappo in un'altra foratura. Anche questa volta, Matteo interviene a limitare i danni, cambiando la camera d'aria in pochi minuti; io però fumo dalle orecchie per il nervoso e comincio a nutrire seri dubbi sull'opportunità di montare questi copertoncini. E' vero, sono eccezionali quanto a tenuta di strada, ma è evidente che non sono abbastanza robusti per il tipo di percorsi in cui mi lancio di solito. Qui la strada è più o meno integra, ma sporca di ghiaietto e sassolini, come del resto tutte le strade secondarie, in questa stagione. Non posso mica mettere in preventivo una foratura al giorno! E poi è proprio il luogo ed il momento peggiore per essere costretti ad una sosta forzata; fa un freddo da battere i denti, nonostante il sole che qui, finalmente, ci illumina.

Riparto, contrariata ed innervosita; siamo in marcia da poco e già abbiamo avuto un contrattempo... Questa strada non contribuisce affatto a mettermi di buon umore, anzi. Probabilmente, tra un paio di mesi, la potrei apprezzare; saprei godere della solitudine e del bellissimo panorama. Ma oggi proprio non va; questo luogo dimenticato dal mondo mi mette addosso un senso di inquietudine, una voglia, insolita ma irrefrenabile, di arrivare in qualche luogo più caotico, in qualche modo più caldo. Anche il peggiore dei misantropi sente, ogni tanto, il desiderio di trovarsi in mezzo alla folla. Di tanto in tanto, attraversiamo qualche minuscolo paese, Rourel, Toudon, Revest les Roches, ma poi ritornano deserto e ghiaccio sulla strada, da attraversare con la bici per mano. Ghiaccio nelle curve, nei tratti in ombra, ma anche in pieno sole, anche quando si vede il mare così vicino e quindi dovrebbe far più caldo... Ma non è così, non oggi.



Devo essere proprio pesante, come compagna di viaggio: musona come non mai, d'umore mutevole come una banderuola, anche se cerco, nel limite del possibile, di tacere e tenere tutto per me. Finirà, questa strada, prima o poi! Infatti, sì, finisce, dopo almeno una trentina di km, scendendo giù a fondovalle. Ora ci attendono tre brevi salite prima del Col de Braus, che concluderà la giornata riportandoci a Sospel. La prima sale verso La Roquette ed è in pieno sole, tanto che mi tocca fermarmi a levare una delle due giacche: la temperatura sale di pari passo con il mio morale. Ora sì che mi sento bene: le gambe potrebbero girare fino a sfinimento. Riprendo anche un po' la favella, altrimenti poi Matteo penserà che un pelouche gli avrebbe fatto più compagnia, creandogli per giunta meno fastidi! Sono davvero inspiegabili i corsi e ricorsi della mente: se mettessi in un grafico l'andamento del mio umore in relazione al tempo, ne otterrei una funzione simile a quella del seno o del coseno. Anzi, meglio, quella della tangente: tendente ad infinito, nel bene e nel male...

Discesa a Levens, tutto sommato breve e tollerabile. Altra salitella, poco più di 400 metri di dislivello, a Chateauneuf Ville Vieille, e comincia il toto-orario di arrivo: Matteo promette, le quattro-quattro e mezza; io ci aggiungo due ore e mi regolo su quello. Ultimo salto prima del Col de Braus, quello che da Contes ci porta verso L'Escarene. Ci arrivo già intirizzita: il sole ormai ha perso quel poco di vigore conquistato a metà giornata; non vedo l'ora che la pendenza mi permetta di riscaldarmi un po'. Esorto Matteo a godersi almeno questa salita: poverello, mi è stato fedelmente al fianco per tutta la giornata di ieri, sia in salita che in discesa, ed anche oggi... Soffro io per lui, a vederlo mordere il freno, anche se la sua presenza per me è preziosissima.

Avevo la sensazione che la salita al Braus fosse ben più lunga, ricordandomi questo stesso tratto percorso ieri in discesa: ma, come al solito, è la mia antipatia per le discese, che dilata le distanze a dismisura. Si tratta, in realtà, di una decina di chilometri di salita, che diventa un po' più seria dopo Touet de l'Escarene. E' da lì, a sei chilometri dalla cima, che Matteo, dopo aver fatto l'ultimo pieno alimentare – anche se è difficile definire i momenti in cui mangia: è un aspiratore in continuo! - parte a tutta verso la cima. Lo seguo allontanarsi con lo sguardo, mentre io, al contrario, avverto le conseguenze della fame. Anche oggi, ho cercato di costringermi a limitare gli introiti, ingurgitando un paio di barrette ed un paio di gelatine di frutta, più un provvidenziale pezzo di panettone ed un po' di frutta secca rubati alla scorta di Matteo; complici alcune rampe più serie, sento di essere in difficoltà. Mi conforta il fatto che, davvero, è quasi finita: mi distraggo guardando il bellissimo panorama con i colori del tramonto e scattando fotografie ai morbidi tornanti sopra la mia testa. Mangiare ora, a fine giro, sarebbe inutile; tantovale portare avanti l'esperimento fino in cima.



A due km dalla vetta, ricompare Matteo, che è già di ritorno dalla cima. Io ormai arranco, le gambe molli e refrattarie alla fatica. Mi preoccupano i dodici km di discesa fino a Sospel: qui, su questo versante della montagna, c'è ancora un po' di luce, ma, oltrepassato il colle, sarà ombra, nient'altro. Scatto un paio di foto ed indosso tutto quel che ho: coraggio, mezz'oretta e sarà finita. Giù, tornante dopo tornante, cerco avidamente i cartelli bianchi e gialli a bordo strada che indicano lo scorrere dei chilometri. Vorrei riuscire a fare una tirata unica, ma a metà strada mi tocca fermarmi per riscaldare le dita, ormai inservibili sui freni. Ecco, una cosa che ho imparato leggendo i racconti di vicende alpinistiche: battere le mani l'una contro l'altra, pare un'ovvietà ma io non ci avevo mai pensato. Aprire e chiudere le dita non sortisce lo stesso effetto. Qualche istante di puro dolore quando il sangue torna a scorrere fino ai polpastrelli, poi ancora giù, quattro km, tre, due, uno, eccoci a Sospel. Gli ultimi cinquecento metri per raggiungere il parcheggio sono un vero supplizio: quasi tuffo la bici nel bagagliaio e mi rinchiudo in auto, seguita poco dopo da Matteo.

Due giorni splendidi, non lo posso negare, sia per il viaggio che per la compagnia. Però, qualcuno mi ricordi che, per i prossimi due mesi almeno, idee del genere non me le devo più far venire in mente!