domenica 29 marzo 2009

27-28 marzo 2009 – Trail Autogestito dell'Alta Via dei Monti Liguri: noi ce l'abbiamo messa tutta...

...ma Giove Pluvio ne ha messa di più. Mannaggia. Ok, è vero, ci ha rovinato il trail, ma non è riuscito a rovinarci la splendida esperienza che comunque dalla disavventura abbiamo tratto. Sarà stata poi davvero una disavventura?

E dire che la giornata di venerdì non lasciava presagire nulla di tutto ciò. Sole splendido, cielo limpido, caldo. Ripenso, viaggiando verso Imperia, alle previsioni meteo fosche come le nubi che annunciano, ma ho il finestrino aperto; la luce scalda persino troppo attraverso i vetri dell'auto. Non è mica possibile che domani accada questo gran finimondo. E sarebbe un vero peccato, perché quest'avventura è nell'aria da mesi! Un'idea della fervida mente di Lorenzo, organizzatore di quel capolavoro che è stato il Gran Trail Rensen 2008. Il programma originale, partorito, se non ricordo male, già a gennaio, prevedeva un itinerario in tre tappe, da La Brigue ad Arenzano, con soste presso alberghi o rifugi: oltre 200 km di marcia in tre giorni, un vero sogno per gli amanti della marcia in montagna. Infatti avevo detto sì subito, senza riserve, con la sola preoccupazione di chiedere se l'andatura prevista potesse essere adatta alle mie scarse possibilità; amo la distanza ma devo prenderla con molta calma... Per me, un'ottima occasione per saggiare la reazione del corpaccione e, soprattutto, del mononeurone, ad una fatica simile a quella che mi attenderà all'Ultra Trail del Monte Bianco a fine agosto, fatte le debite proporzioni.
Il progetto conquista addirittura il sostegno, morale e materiale, dell'Associazione Alta Via dei Monti Liguri e di alcuni dei Comuni toccati dall'itinerario, associando al dilettevole dei camminatori l'utile del fine benefico, una raccolta di fondi a favore dell'Ospedale Gaslini di Genova. Per riuscire a coinvolgere persone, enti, autorità, ci vuole davvero il fisico, un po' come per correre, e Lorenzo indubbiamente il fisico ce l'ha, in entrambe le specialità! E' una dote che un po' gli invidio, io che non riuscirei convincente nemmeno nei confronti della mì mamma e che, piuttosto che dover discutere per conquistare un aiuto, di qualsiasi cosa si tratti, preferisco piuttosto tribolare, ma arrangiarmi comunque da sola.
Purtroppo, già la stagione invernale si pone a sfavore dell'iniziativa. La gran neve caduta quest'inverno rende inaccessibile la prima tappa, vuoi per la difficoltà di camminare affondando con le semplici scarpe da trail, sia per il rischio di valanghe. Fino all'ultimo pendo dalle labbra, anzi dalle e-mail e dal telefono di Lorenzo, ma il no definitivo arriva già una settimana prima del via. Va bin, pazienza: le tappe saranno due, la prima dal Colle di Nava al Colle del Melogno e la seconda dal Melogno ad Arenzano, per una distanza stimata tra 140 e 150 km ed un dislivello complessivo di circa 3.200 m. Forse temendo che il drastico taglio dei chilometri possa lasciare l'amaro in bocca al manipolo di camminatori assetati di distanza e di fatica, Lorenzo poi studia un rimedio anche per questo: le due tappe superstiti potrebbero diventare una tappa sola, con sosta al Colle del Melogno solo per la cena. Altra idea che approvo senza alcuna riserva e con entusiasmo; così la prova simil-UTMB è salva! 150 km quasi di fila sono pur sempre un buon esperimento, anche se il Trail del Bianco è poco più lungo ed infligge molta, molta salita in più. A quanto pare, anche gli altri corridori coinvolti son d'accordo: allora, appuntamento alle 18 di venerdì 27 marzo, pomeriggio, alla stazione di Imperia Oneglia.

Ci arrivo con una decina di minuti d'anticipo, dopo aver già nelle gambe un bel po' di riscaldamento: è evidente che ad Imperia i forestieri devono mettersi l'auto in tasca, perché non si trova un buco libero manco a pagarlo, nel vero senso della parola! Pieni anche i parcheggi a pagamento. Così vago senza meta e, stufa, abbandono la Opel in luogo del tutto abusivo, copiando l'idea già nata da un altro indisciplinato come me. Mi fiondo alla stazione, sperando di ricordarmi il luogo del delitto domenica sera: prendo qualche punto di riferimento, onde evitare di girare altri dieci chilometri per Imperia.
Una telefonata di Lorenzo precede di pochi minuti la discesa del manipolo di eroi: un gruppo di variopinti soggetti fasciati di tutine aderenti, una delle tante ragioni per cui amo questo sport, e carichi di zaini di dimensioni contenute ma decisamente densi, non può che essere il mio gruppo. Veloci presentazioni: qualcuno lo conosco già, qualcuno è una novità. Siamo, per ora, in otto: oltre a me onnipresente, ci sono Lorenzo alias capo spedizione, Isacco, Alessandro alias Cesare, Mario alias Scion, Stefano, più un podista di Monza ed uno di Bologna di cui, ahimé, non ho memorizzato subito i nomi e non ho poi osato richiederli. A mia parziale discolpa, però, del corridore bolognese mi stampo subito in mente i begli occhioni chiari ed il sorriso buono; non me ne vogliano i miei quattro lettori, ma che posso farci se a me, anche nei momenti più drammatici, inevitabilmente l'occhio cade? "I'm only human – of flesh and blood I'm made", canta una splendida canzone di qualche anno fa, con piena ragione.
Alessandro distribuisce, gentilissimo, le copie della mappa e dell'altimetria del percorso, oltre ad una bella bandana colorata per ogni partecipante. Ci attende alla stazione un pulmino messo a disposizione, gratuitamente, dalla Riviera Trasporti, con tanto di autista simpatico e disposto alla chiacchiera: gli toccherà, dopo averci scaricati al Colle di Nava, una bella gita andata e ritorno a Genova. Quante ore al volante, non l'invidio.
Il pulmino s'arrampica su per il Nava con il favore delle stelle, mentre tra i sedili si rompe il ghiaccio e si fa un po' di conoscenza, con l'emozione di una classe di scolari in gita. Domani, domani. Scopro con sorpresa che gli altri, come me, stanno appena appena realizzando adesso quel che ci attende. E' proprio vero: fino a ieri, 150 non era che un freddo dato numerico per indicare la distanza del nostro percorso; in questo momento, 150 diventa in un attimo la misura della nostra fatica, degli infiniti passi, degli zaini che tormenteranno le nostre spalle per tante ore, del male alle gambe, dei muscoli sfiniti. Forse forse, azzarda qualcuno, la soppressione della prima tappa non è del tutto una sciagura, anzi!
Già il viaggio su ruote ci riserva un vero brivido: in piena curva cieca, ci sorpassa sprintosa una Panda bianca che poi, poco avanti a noi, mostra una netta predilezione per la permanenza prolungata nella corsia di marcia opposta a quella canonica. Che sia un Inglese in vacanza, un po'confuso? No... Superiamo a nostra volta la Panda che si ferma davanti ad una casetta; alla guida c'è un'arzilla signora dei primi del Novecento, sul volto un'espressione truce che non ammette repliche.

Al Colle di Nava, la temperatura non è più così piacevole com'era ad Oneglia. Brividi... Sul piazzale dell'Albergo "Da Lino", la nostra cuccia per la notte, salutiamo il simpatico autista. Attraverso i vetri della veranda, si agita la fiamma di una stufa a legna: che meraviglia, mi ci voglio sedere sopra, quando si va a tavola! I gestori dell'albergo sono alla mano, decisi, senza fronzoli, proprio come piace a me che detesto i convenevoli. In un attimo ci ritroviamo nelle rispettive stanze e poi nella veranda, adattata a sala da pranzo, ad attendere gli altri tre colleghi che arriveranno tra poco, direttamente qui. Tutto ciò a spese dei pacchetti di grissini, fagocitati in pochi minuti. Anche di uno di loro ho scordato il nome... Mi attirerò gli strali! Gli altri due sono Roberto e Sabrina, due personaggi che, a giudicare dall'aspetto fisico, di chilometri ne macinano, e tanti anche! Sabrina quest'anno si lancerà nella Petite Trotte à Leon addirittura; tanto di cappello!
Il primo, piacevolissimo pensiero che mi spunta in mente partecipando alla tavolata è proprio questo: ho intorno a me persone che, sulle loro gambe, han combinato cose che voi umani non potete immaginare, eppure son persone di una semplicità ammirevole; nessuno che parli di tempi, di risultati, di prestazioni, che cerchi di prevaricare l'altro con le proprie follie sempre "un po' più folli". E sì che ne avrebbero da vendere, di ragioni per "tirarsela". Ed è molto strano che io mi senta, stasera, perfettamente a mio agio, io che detesto di tutto cuore i momenti conviviali ed in generale il chiasso, le occasioni di aggregazione, da cui abitualmente mi tengo ben lontana, a costo di far sempre la figura dell'orso. Sto bene proprio perché sono in compagnia di persone che non mi fanno sentire fuori posto, anche se ne ho di strada da fare, in tutti i sensi, per raggiungere il loro livello. E poi anche perché stasera posso poltrire ed abbuffarmi senza rimorsi, visto quel che mi attende domani. Peccato solo per la clamorosa violazione della mia regola vegetariana: ci avevo pensato, nei giorni scorsi, ma non ho osato rompere le scatole agli albergatori con richieste di piatti particolari; trovo che chiunque possa avere le proprie fissazioni, ma non anche infliggerle al prossimo. E poi, siccome io ho sempre bisogno di un punto di riferimento, non posso che essere lieta di averne già trovati, stasera a tavola, almeno due. Uno, va bè, lo sapevo già, è Lorenzo, che ha il carisma della guida e poi, pur essendo da un lato il più matto dei matti, è una persona affidabile, con cui, dovendo decidere un'uscita in montagna, so già che non sarei condotta in situazioni non adatte alle mie capacità. L'altro è Mario, alias Scion, mai soprannome fu più azzeccato: se gli mettessi addosso uno smoking, avresti immediatamente lo 007 più famoso del mondo! Persona, anche lui, molto pacata, affabile; spero non si offenda se gli dico che mi dà la sensazione di un papà paziente e buono... Chiacchiere podistiche, si parla della Petite Trotte, come gestirla, come equipaggiarsi, si parla delle varie altre corse in calendario, passando dal primo al secondo al contorno al dolce al caffé. Però è palese che io non ho il fisico per queste imprese: alle otto e mezza già mi tocca tener su le palpebre con gli stecchini... Mezz'ora dopo, butto la testa sul cuscino ed entro in coma.

Sveglia alle quattro ed è il gran giorno. I gestori dell'albergo, disponibilissimi, ci fan trovare la colazione pronta alle quattro e mezza: croissant, plumcake, cappuccini, the, caffé, per tutti i gusti. Che levataccia, poveretti: già solo per questo, ci ricorderemo di loro! A tavola, qualcuno annuncia di aver visto in cielo le stelle: mah, speriamo bene, confidiamo in un errore del meteo che, una volta tanto, sarebbe salutato con gran gioia. Ma quando, titubanti, usciamo sul piazzale, scopro che, purtroppo, non fa gran freddo. Purtroppo, perché, se alla quota del Colle di Nava, alle cinque del mattino, ci son quattro gradi a marzo, significa che ci son le nuvole. Infatti qualche sparuta stella si vede, sì, ma son poche, e per poco. In compenso, per ora la combriccola è allegra, sveglia ed ha voglia di scherzare. Si attende solo più l'ultimo componente, bloccato in camera a causa di uno spiacevole imprevisto: il povero Alessandro è impegnato in una strenua lotta con la fettuccia dei pantaloni, da cui esce, distrutto dalla fatica, qualche minuto più tardi. Foto di gruppo davanti all'albergo e via, tra uno schiamazzo ed una risata, si parte. Spero che l'ecosistema della valle non riporti danni dal passaggio di quest'orda di undici barbari... E che a nessun autoctono venga in mente di spianare la carabina dalla finestra. Ne avrebbe pieno diritto!

Percorriamo qualche centinaio di metri della strada asfaltata che sale al Nava; troviamo, sulla sinistra, il simbolino bianco e rosso con la scritta "AV", Alta Via: è la nostra. Ci incamminiamo lungo una stradina ancora asfaltata in mezzo alle poche case del paese; già tentenniamo di fronte ad alcuni bivi... E, in men che non si dica, ci ritroviamo, dopo un lungo giro verso sinistra, quasi al punto di partenza, dietro l'albergo. Ok, abbiamo scherzato, dietrofront... Ma il segnale AV non l'abbiam più visto! Presto svelato l'arcano: è stato probabilmente cancellato nel corso della ristrutturazione del muretto di contenimento di una casa posta proprio sull'angolo del nostro bivio. Roberto schizza su per la rampa, in avanscoperta, e conferma l'ipotesi; tutti di qua. Turbiamo il sonno di alcuni cavalli ricoverati nei box accanto alla casa, poi su per il sentiero, in mezzo ai tentacoli dei rovi ed ai rami spezzati che ricoprono il terreno. Intanto la luce già si fa vedere, rivelando però un triste cielo grigio. Individuare i segnavia non è semplicissimo nemmeno per i montanari più scafati della compagnia: tocca fare qualche deviazione per la ricerca. Forse qualche pennellata qua e là in più non guasterebbe. Io patisco, come sempre, la partenza; ci vorrà un bel po' prima che il fiatone si plachi ed il cuore accetti l'idea che oggi c'è da far fatica. Per ora, soffio come una locomotiva ed ho difficoltà ad inseguire il passo del capocordata, cosa che per me è una vera necessità. Se cammino in pole position o quasi, mi sento tranquilla e fiduciosa; se devo mantenere la distanza da chi mi precede, senza farmi staccare, mi affanno, mi preoccupo, ecco adesso li costringo ad aspettare, ecco mi faccio staccare...
Mentre litigo con le lenti degli occhiali che si appannano, il gruppo tracima sulla strada asfaltata che sale da Ormea al Colle Caprauna. I corridori in montagna veri, duri e puri, detestano l'asfalto; prova del fatto che io non appartengo alla categoria, a me invece camminare sull'asfalto non solo non risulta sgradevole ma, anzi, molto rilassante. Prendo subito il mio passo, che suscita qualche bonaria protesta: non ho intenzione di staccare nessuno, tutt'altro, so benissimo che chiunque, qui intorno, può farmi mangiar la polvere come e quando lo desidera. Però, per me, conquistare un'andatura regolare, soprattutto all'inizio del viaggio, è importante, sia per una questione di testa che di gambe. Detesto le pause ed i cambi di ritmo, che mi fanno tanto tanto bibi ai garretti! Ma non sempre si può far come si vuole, soprattutto se si viaggia in comitiva. Al colle, Isacco ed io, che abbiamo preso un po' di vantaggio, subiamo poi le provocazioni scherzose del gruppo, che, in compenso, rispetto a me, guadagna in discesa. Scendiamo ancora per asfalto, lungo il bosco, prima di faggi ancora desolatamente spogli, poi di conifere. Unici segni della primavera, qualche ciuffo di primule selvatiche e qualche gemma, le sole chiazze di colore in mezzo al grigio del cielo che tinge di grigio anche l'aria e le montagne. Abbandoniamo poi la strada in favore di un bel sentierone ampio, ciottoloso, sulla sinistra, su cui non tardiamo a trovare la neve. Lingue di neve che scendono dalle pareti di roccia e dai pendii boscosi; per fortuna è neve che regge il nostro peso, ma io già m'innervosisco, perché sulla neve non so camminare. Non riesco a stare in piedi, scivolo di continuo ed ho anche dimenticato i bastoncini; mi affanno perché qui non c'è verso di tenere il passo dei miei colleghi.
Breve pausa in un'ampia curva sotto un pendio carico di neve: Lorenzo fa notare come quella che stiamo percorrendo non sia la strada alta in origine prevista, indica qualche punto indefinito lassù in mezzo alle nubi, impossibile da raggiungere con l'equipaggiamento di cui disponiamo, e comunque troppo pericoloso in discesa.
Intanto si sono abbassate le nuvole: ora ne siamo avvolti. La nostra marcia sulla neve si arena in uno spazio di pochi metri quadri d'erba secca e rocce. Da qui in poi, non sappiamo più dove andare. Lorenzo, Roberto e Sabrina si dividono in varie direzioni, spariscono nella nebbia, poi riappaiono, più e più volte, a caccia di segnali o tracce di precedenti passaggi; il resto del gruppo rimane sul cocuzzolo. Il vento gelido ci sferza; la pioggia, tanto temuta, arriva. Nel giro di pochi istanti, raggiungo lo stato fisico del surgelato: approfitto della pochissima mobilità che mi resta nelle dita, gonfie e livide, per indossare la giacca impermeabile. Non ho, come gli altri, il coprizaino, ma ho riposto gli indumenti in borse di plastica chiuse alla meno peggio, speriamo che basti.
Lo spettacolo è inquietante: a quanto pare, non si riesce a capire da che parte si debba proseguire. Vorrei essere in qualche modo d'aiuto, ma credo di far molto meno danno restando qui: con il terrore della neve che ho, e con questa nebbia, se mi allontanassi rischierei di farmi male e non riuscire più a capire dov'è che devo tornare, mettendo nei guai me stessa e gli altri. Vigliacca come sono, se fossi sola, per me qui la scelta sarebbe unica: riprendere il sentiero con cui siamo arrivati qui, tornare indietro ed andar da qualche altra parte, con buona pace dell'Alta Via. Mi sforzo di assorbire un po' della calma olimpica che aleggia tra i miei compagni di viaggio, per i quali la situazione sembra la più normale del mondo. In effetti probabilmente è vero; è abbastanza normale trovarsi in questa condizione. Ridono e scherzano, loro: io taccio e mi sforzo di limitare il tremore. Ho una paura dannata, non riesco a trovare conforto, perché vedo che neppure Lorenzo e Roberto riescono a raccapezzarsi. Se la mia guida si perde, mi perdo anch'io, d'animo prima che di direzione! Chi consulta il GPS, chi armeggia con bussola e cartina, interminabili minuti di vento che s'infila nel colletto, di mani congelate, piedi ormai zuppi di neve, peggio che mai. Ho paura.

D'improvviso il gruppo si muove, dietro ad una traccia che io stento a vedere. Vorrei frenare il panico, ma qui è peggio, qui non c'è più scampo, solo neve; i primi della fila si allontanano. Io incespico ad ogni passo. Calma Gian, per carità, calma. Non puoi venir qui a crearti e creare problemi per una fesseria. Probabilmente questa è una fesseria, non sei mica in mezzo a degli irresponsabili! Se tu non ti sai orientare, son problemi tuoi. Infatti, poco dopo, qualcuno strepita; dalla nebbia fitta emergono alcune frecce ed un tabellone con la mappa. Eureka. Ancora avanti, ancora neve; a me ogni passo costa una fatica enorme, nonostante lo sforzo di concentrazione che sto spendendo. Non guardare avanti Gian, chissenefrega se loro non si vedono più. Dietro c'è ancora qualcuno, e poi tu non devi seguire le persone ma le loro tracce fresche nella neve. Un passo, un altro, via. Finirà prima o poi, dovremo pur scendere e levarci da questo inferno.

Il gruppo si arena in mezzo al pendio. Probabilmente siamo troppo in alto rispetto alla quota del passaggio previsto; siamo oltre 1.500 m. Dinuovo qualcuno si cimenta nell'opera di esplorazione dei dintorni; la traccia a quanto pare non si vede più. Non appena mi fermo, però, quello che prima era un leggero malessere arriva quasi a prendere il sopravvento; ho la testa che gira, sento le voci degli altri lontane, che rimbombano. Vorrei sedermi un attimo su una delle poche rocce, ma è meglio di no; altrimenti finisco per stramazzare e far prendere un accidente a chi mi sta intorno. Calma Gian, stringi i denti, sì ma per favore ripartiamo... Ci muoviamo in una certa direzione; ormai non mi domando più il perché, ma seguo come fanno i pecoroni. Passiamo accanto ad un'antenna, tenuta su da alcuni tiranti; raggiungiamo quello che sembra un cocuzzolo, poche pietre in mezzo alla nebbia, poi scendiamo un po' in mezzo ad un bosco. Passiamo con sorprendente rapidità dall'ottimismo al più nero sconforto; ormai ogni pochi metri ci accatastiamo, col vento che soffia sempre più gelido e rabbioso e la nebbia che ci avvolge senza speranza. Segnavia se ne trovano, uno ogni tanto; il guaio è che non si riesce in alcun modo a collegarli l'uno all'altro. Prima su, poi giù, poi ancora su, poi dietrfront, per tratti sempre più brevi. Ogni sosta è un dramma per la mia nausea che sale; non so se sia solo paura o che diamine. Ho perso completamente il senso dell'orientamento, quel poco che di norma ho: se dovessi tornare al sentiero noto, adesso, non saprei proprio da che parte girarmi. Qualcuno fa notare che basta seguire le tracce a ritroso: non credo sia così facile, soprattutto per il fatto che i vari giri alla ricerca di una possibile direzione hanno lasciato tracce nuove che potrebbero confonderci. Ovviamente, dall'alto, o dal basso, della mia ignoranza di cose di montagna, taccio e mi limito a pendere dalle labbra di chi sa; però, quando Stefano suggerisce di tornare alla strada, non posso che aggrapparmi alle sue parole. La prima volta, il suggerimento cade nel vuoto: del resto, capisco benissimo la posizione di Lorenzo, a cui immagino spiaccia tantissimo abbandonare la sua creatura. Così come spiace tantissimo anche a me, che tenevo davvero tanto a questi due giorni. Ma una cosa del genere, chi se la sarebbe immaginata? Tutta questa neve, questo freddo, questa nebbia? Ancora qualche giro a vuoto, poi si decide di seguire l'ipotetica direzione indicata dagli ometti di pietra: se ne vede qualcuno in giro... Peccato che, ripassato il cocuzzolo con incedere questa volta sicuro, ci ritroviamo accanto all'antenna di prima. Anche qui, io sono completamente in balia degli eventi; avrei giurato che questa fosse un'altra antenna. Ennesimo dietrofront, procediamo sempre nella direzione degli ometti, ma nell'altro verso. E ci troviamo a risalire un pendio ripido con la neve che non cede di un millimetro. Panico, io qui non sto proprio su; ad ogni passo cado a terra e non riesco a far presa per frenare, nemmeno quando il buon Mario, impietosito, mi elargisce uno dei suoi bastoncini. Qui è panico assoluto, io non vado da nessuna parte, non è cattiva volontà ma proprio non ce la faccio. Quasi mi scoppia il cuore, ma per la gioia, quando Lorenzo getta la spugna e decide per l'unica soluzione che ormai anche a lui pare possibile: tornare al sentiero, tornare giù. Non me lo faccio dire due volte, mi levo dalla scomoda posizione, guadagno la posizione eretta e via. Ci ritiriamo dopo aver conquistato per ben quattro volte in un'oretta la vetta del Monte Dubasso: record che credo pochi alpinisti possano vantare! Si riparte ed io seguo, fiduciosa che qualcuno, da qui, sappia come tornare indietro.

Mi dispiace: questo significa che le tappe, almeno così come erano state concepite, vanno all'aria. Non raggiungeremo mai il Melogno per l'ora di cena, anche perché ormai abbiamo perso troppo tempo girando a vuoto; inoltre, non esiste, o meglio non conosciamo alcuna alternativa di sentiero che permetta la traversata restando a quota più bassa. Che si può fare? Cavoli, immagino lo stato d'animo di Lorenzo. Tanto lavoro per questa splendida iniziativa et voilà, una dannatissima giornata di maltempo che arriva e butta tutto all'aria. Lui ci ha creduto e speso tempo ed energie; posso capire quale sia il dispiacere. Già è grande per me che comunque ho portato qui solo il mio entusiasmo, come, immagino, tutti gli altri. A maggior ragione, ammiro la sua saggezza nel decidere di tornare indietro ed evitare rischi: la rinuncia è qualcosa che costa carissimo e non è da tutti avere la lucidità di ammetterla. Non ce l'hanno, a volte, nemmeno i più grandi alpinisti.

Torno a pestare le tracce di prima, a cuore molto più leggero; il malessere ora è sparito, segno che nasceva proprio solo dalla paura. La fatica della camminata è un po' meno sgradevole, ora che so dove sto andando e so che tra non molto la neve finirà. Pian piano, dalla nebbia spuntano i riferimenti di prima, la tavola di legno, le frecce accanto a cui ci fermiamo ancora un attimo, sconsolati, a ripeterci "eppure si va di lì...".

E' ora di pensare ai programmi alternativi. Tornare al Nava, andare ad Ormea e scegliere un itinerario di lì? Oppure scendere, sempre dal Nava, verso il mare? Le proposte si susseguono, finché Lorenzo,instancabile, ha un'idea: si potrebbe andare ad Ormea, da lì prendere il treno per Ceva e da Ceva il treno per Savona; fermarci al Colle di Cadibona e da lì riprendere l'Alta Via, verso il Passo del Giovo, da lì al Beigua e poi ad Arenzano. L'idea si definisce e circola. Per me va benissimo; in ogni caso, almeno per portare il mio sostegno morale, per quel che può valere, seguirò la scelta di Lorenzo, qualunque sia. Riprendiamo il sentiero, torniamo a superare le lingue di neve che, per fortuna, a ritroso son sempre più piccole, finché finiscono. Ed è qui che, da perfetta cretina, riesco a farmi male nel più stupido dei modi possibili: cammino chiacchierando, senza guardare dove metto i piedi; m'inciampo in una pietra e volo a faccia in avanti sulle pietre. Non so per quale strano caso del destino, quello che allunga a dismisura i momenti che, per chi sta a guardare da fuori, sono brevissimi istanti; mi dico di buttar le mani in avanti e così faccio, riuscendo a riparare il volto. Però, per contro, picchio il ginocchio destro in pieno contro una pietra. Spelacchiato, di sicuro, ma soprattutto pesto: fa un male boia, tanto che mi serve qualche secondo a denti stretti prima di trovare il coraggio per rimettermi in piedi. Non so se sia più il male o la rabbia per la figuraccia da idiota... Ma non voglio nemmeno guardare cosa sia successo; riparto zoppicando, con la coda tra le gambe, sperando che il dolore sia una cosa passeggera, nonostante i compagni di sventura, gentilissimi, mi offrano ogni possibile articolo da pronto soccorso. Così facendo, si arriva all'incrocio con la strada asfaltata che va al Caprauna. Si pone il problema di avvisare il ristorante che avremmo dvuto raggiungere in serata, a cui, a questo punto, non arriveremo mai: Lorenzo non ha il numero a portata di mano, ma ci pensa Roberto; come dice la pubblicità... Basta chiamare l'892424! Contrariamente alle mie funeste previsioni, di là, al ristorante "Din", non solo non si arrabbiano, ma replicano dicendo che se l'aspettavano. Del resto il cielo l'han guardato anche loro, probabilmente. E forse lì ha cominciato a piovere già prima: qualche telefonata alle consorti dei presenti ci ha fatto sapere che, più a Levante, piove già da un po'.

La salita al Caprauna è mesta e silenziosa; io sono ancora tutta presa dal mio ginocchio pesto, che spero smetta presto di far male; chissà, forse scaldandosi un po'... In ogni caso, ho una scorta di antiinfiammatori in dosi da cavallo; se proprio la situazione dovesse peggiorare, li prenderò. Però, almeno per questo tratto, devo lasciar fuggire chi va più forte di me; di inseguire proprio non c'è verso. E il Caprauna non arriva mai... Ci supera un solo, coraggiosissimo ciclista, diretto con buon passo alla vetta; ecco, no, non lo invidio, proprio per niente. Soprattutto perché, tra poco, gli toccherà la discesa, che bici, in questi casi, è molto peggio che a piedi, e molto più pericolosa.

Al Colle di Caprauna ci fermiamo per radunare il gregge, poi giù, un paio di tornanti ed un improbabile taglio in mezzo al bosco, che a me richiede certo più tempo di quello che avrei impiegato seguendo l'asfalto. Il ginocchio urla, ma faccio finta di niente.
Al bivio con il sentiero che conduce al Nava, ci separiamo dai tre colleghi che ci hanno raggiunti in albergo ieri sera, già con l'intenzione di percorrere solo la prima delle due tappe. Tornano diretti verso l'auto. Restiamo in otto a confabulare: Stefano ed Isacco non sono convinti... Non ho ben capito quale sia la loro intenzione, ma non sono evidentemente entusiasti all'idea di scendere ad Ormea ed imboccano anche loro, con un po' di ritardo, il sentiero verso il Nava. Rimaniamo in sei superstiti: via, si scende verso Ormea, senza altri indugi. Lorenzo frigge, dà il via alla corsa, e dietro tutti gli altri; io faccio quel che posso, ma perdo molto terreno. Non sono mai stata capace di mischiare le due discipline, la corsa e la camminata in montagna; sono pesante e poco allenata a questo genere di sport, quindi le gambe ne risentono. Sono irrigidite, imballate; la mia corsa si riduce a sollevare i piedi appena un po' più che nella camminata. Mi trovo molto meglio quando riesco ad impostare una marcia veloce, ma costante, molto meno traumatica per le ginocchia e per tutto il resto. Per fortuna, il gruppo alterna tratti di corsa ad altri di pietà. E la strada è lunga, almeno cinque chilometri dal colle al bivio di fondovalle a Cantarana, più altri quattro o cinque fino ad Ormea. Cerchiamo un sentiero alternativo che ci permetta di evitare l'asfalto, ma non c'è verso, ci tocca proprio scendere di qua. Marcio il più in fretta possibile, per limitare lo strazio di chi vorrebbe correre ed invece è costretto ad aspettarmi; per fortuna, i colleghi non sembrano avere intenzioni bellicose; si adeguano, chiacchierando del più e del meno, con ritrovata allegria.
La strada ad un tratto inverte la pendenza, con qualche centinaio di metri in risalita, forse una cinquantina di dislivello. Proprio prima della salita, c'è un bivio sulla destra: che porti ad Ormea? Proviamo ad imboccarlo, tanto oggi siamo in vena di esperimenti; raggiungiamo in un attimo una piccola frazione, in cui c'è persino qualche traccia di vita: due coniugi ed uno splendido San Bernardo. Io ormai vado come le macchinine a carica; proseguo senza chiedermi perché e per dove. I compagni, saggiamente, si fermano a chiedere lumi. No, la strada non va ad Ormea, muore qui tra le case. C'è un sentiero che valica il costone della montagna, ma non si sa bene dove passi. Forse è meglio tornare sulla strada principale... Ci torniamo, tagliando però per il sentiero che si stacca dalla chiesetta; arriviamo direttamente in cima alla risalita. Da lì si vede già il bivio di fondovalle; in un attimo siamo al garage del gatto delle nevi ed al ponte. Anziché passare lungo la strada del Nava, però, optiamo per un sentiero che corre parallelo, restando dall'altra parte del torrente: peccato però che, per imboccarlo, tocchi guadare un piccolo ma impetuoso torrentello affluente. C'è un punto in cui il passaggio è possibile, a patto di mettere i piedi a bagno, ma questa ormai non è più una novità; dopo qualche esitazione, tento il gran salto, finendo a bagno per metà io ed infliggendo una doccia non richiesta al corridore bolognese che mi ha offerto una mano. Pazienza, tanto siamo già bagnati per la pioggia, che fin qui non ha smesso un attimo, pur concedendoci la grazia di scendere lieve lieve. Ora tende a rinforzare. Ci godiamo la marcia lungo il Tanaro, impetuoso e di un bellissimo colore verde; prima lungo il sentiero, carico di rami di pino spezzati, poi lungo il sup prolungamento, che diventa pista ciclabile asfaltata, con tanto di corsie e linea di mezzeria ben definita. C'è già chi ha provveduto a chiedere per telefono alla consorte gli orari dei treni: pare che ce ne sia uno all'una e mezza da Ormea; ce la dovremmo fare. Marcio di buon passo, ma oppongo strenua resistenza passiva a qualsiasi iniziativa di corsa: no, non ce la faccio, e poi con la prospettiva di dover camminare ancora cinquanta chilometri... Non se ne parla nemmeno! Se mi rovino i muscoli del tutto, poi è fatta, non vado più avanti.

Di lì a poco siamo ad Ormea: Lorenzo sa dov'è la stazione, perfetto, un problema in meno. Attraversiamo il paese, silenzioso ed immobile forse data l'ora di pranzo; una simpatica famiglia raccolta intorno a tavola sotto la veranda di un camper ci invita a partecipare al convivio: rifiutiamo gentilmente ma, un attimo dopo, finiamo in pieno nella corrente di profumo delle costine e ci pentiamo amaramente del rifiuto... Anch'io, che ai buoni propositi vegetariani in questo istante antepongo l'istinto di sopravvivenza. Comunque, indietro non si torna, quindi procediamo per il centro del paese. La stazione dei Carabinieri, poi quella del treno, col binario che va a morire proprio lì. Ci affianca con gran colpi di clacson un'auto: sto per mandarli al diavolo... Ma sono i tre compari che abbiamo salutato sul Nava. Di Stefano ed Isacco non hanno più notizie; avranno scelto una terza soluzione, chissà. Credo proprio che sappiano cavarsela!

Pochi minuti dopo, arriva la corriera, che, abbiamo appena scoperto, sostituisce il treno. Litighiamo furiosamente con la macchinetta automatica che emette i biglietti, ma, in un modo o nell'altro, riusciamo a salire a bordo, grazie anche alla cortesia dell'autista. Ed un mega grazie anche ad Alessandro che, premurosissimo, mi presta l'Amuchina spray e la benda per medicare un po' il ginocchio martoriato: improvviso un'operazione di primo soccorso sul sedile; con la benda, la situazione ha già un aspetto migliore. La parte offesa è gonfiata e fa male; aspetto solo di mettere qualcosa di sostanzioso sotto i denti, poi prenderò una pastiglia di antiinfiammatorio. Non sarà una botta a rovinarmi la giornata!
Ci distribuiamo tra i sedili, silenziosi ed un po' assonnati. Per un po', seguo la strada, poi mi addormento: meglio così, almeno non corro il rischio di patire il bus, che per me è un classico. Mi sveglio solo a Ceva, quando l'autista, gentilissimo, incrocia il pullman di un collega diretto a San Giuseppe di Cairo e ci permette di fare il trasbordo "al volo". Il secondo autista ci avvisa che, svolgendo un servizio di sostituzione della linea ferroviaria Ceva – Sale Langhe – Savona, interrotta per lavori, dovrà fare tutte le fermate, con un paio di deviazioni rispetto alla via diretta Ceva-San Giuseppe. Nessun problema, siamo già fortunatissimi così! Un certo viavai di studenti, dall'aspetto un po' trasandato come impone la moda di oggi, ma dal parlare discreto e ben educato. Si sente, che siamo in mezzo alle Langhe e non nella grande città. Scendendo, salutano l'autista con una cortesia che quasi mi suona inaudita, pensando ai branchi di ragazzotti stupidi, chiassosi e volgari che sciamano davanti casa, sotto il viale, all'orario di chiusura delle scuole.

A San Giuseppe, scendiamo dal bus più infreddoliti che mai, sotto una pioggia battente. L'autista ci indica, qualche centinaio di metri più avanti, la rotonda dove ferma la corriera che porta a Savona. Facciamo appena in tempo a comprare i biglietti in tabaccheria, che il bus arriva e ci inghiotte. L'ultima traversata prima di ripartire a piedi, al Colle di Cadibona. A questo punto, non ci resta che guardare la pioggia che picchia sul parabrezza del bus, scrutare il cielo che proprio non sembra concedere la minima speranza. Il progetto è sempre lo stesso, dal Cadibona al Giovo al Beigua, in teoria. Nessuno fiata, ma credo che tutti, come me, si stiano chiedendo se sarà davvero possibile. Nessuno traduce in parole il dubbio che esprimono gli occhi. Beh dai Gian, in fondo non stai mica andando al patibolo. Ci sarà sempre un momento per fermarsi e rinunciare, se le cose proprio dovessero mettersi male.

Al Colle di Cadibona scendo con un certo mal di testa; l'autobus ha colpito... Spero almeno che la pastiglia di antiinfiammatorio, presa alla fine senza più aspettare, faccia effetto in fretta. Ci incamminiamo verso Altare, ripassando le gallerie, alla ricerca di un locale dove potersi rifocillare con qualcosa di caldo e vestire un po' meglio per affrontare quello che ormai, senza più scuse, si può solo chiamare diluvio. Ci attendono circa dieci chilometri di asfalto prima del punto in cui l'Alta Via riparte sotto forma di sentiero; lì dovremo decidere, in base alle condizioni nostre e del meteo, se sia meglio infilarsi nel bosco o procedere verso Pontinvrea sull'asfalto.

Pizza, cioccolata calda, caffè, all'occorrenza anche corretto, mentre la giovane barista ascolta incuriosita il racconto delle nostre vicissitudini e dei nostri progetti, e gli altri avventori osservano quest'orda di barbari umidicci con il timore reverenziale che si riserva alle bestie feroci del circo. Si riparte dopo una mezz'oretta, cambiati ed intabarrati come omini Michelin, anche se calze e scarpe sono zuppe ormai da un po'. In marcia per tanti, interminabili chilometri di asfalto, che in questa circostanza arrivo addirittura a benedire: se sulla strada corrono i torrenti, posso solo immaginare in che condizioni siano i sentieri. I segnali bianchi e rossi "AV" ci accompagnano, come la pioggia ed i carrellini del carbone appesi sopra le nostre teste, poco oltre Altare; a tratti, sembra che qualcuno si stia divertendo, con sadico accanimento, a rovesciarci addosso secchiate d'acqua fredda. E il vento che ci sferza appiccicandoci addosso gli abiti bagnati, facendoci rabbrividire nonostante la protezione già eccezionale offerta dai tessuti tecnici. Non finirò mai di ringraziare San GoreTex Paclite... Chilometri, chilometri ed ancora chilometri, con le auto che ci sorpassano con circospezione, i passeggeri inscatolati che ci osservano strabuzzando gli occhi e ripromettendosi di non toccare mai più un goccio di alcool. Seguo sempre, per istinto, la mia guida, anche se ogni tanto bisogna giustamente rallentare ed aspettare chi resta indietro; stavolta, la ragione della furia camminatoria è il freddo: solo camminando di buona lena si riesce a scaldarsi, appena un po'; non appena ci si ferma, il freddo morde ferocemente le ossa. E più procediamo, più ci bagniamo, più abbiamo freddo. Nonostante tutto, si spera ancora e si parla ancora di Beigua, di tempi di salita, di discesa su Arenzano; io non sono convinta, ma è proprio per questo che ho affidato, in cuor mio, qualsiasi decisione a chi ne sa di più. Se qualcuno ci va, ci vado anch'io, anche se ho paura, anche se non me la sento, anche se sono disfatta, forse più dai disagi e dal freddo che non dalla fatica della marcia, anche se di certo mi metto nei guai.

Al bivio con il sentiero, altra piccola ma necessaria sconfitta; stiamo viaggiando ancora in mezzo alla nebbia ed al vento rabbioso; sarebbe da folli buttarsi nel bosco, a rischio di perdere il sentiero e finire, stavolta sul serio, in una brutta situazione. Tiriamo ancora avanti, ostinatamente, fino alla borgata di Ferriera: non c'è nulla che possa esserci di aiuto, qui, ma già la sola vista di qualche finestra illuminata porta un po' di conforto. Ancora marcia, ancora pioggia, mentre son passate le sette ed il buio ben presto cala su di noi. Non serve la luce frontale; la riga a bordo strada si vede lo stesso. Notte, ancora avanti, le luci delle auto sfumate dall'effetto degli scrosci d'acqua; torrenti, pozzanghere, mani che non si sentono più, dita gonfie da far male, schiaffi del vento. Non ho più la cognizione del tempo né del luogo; potrei essere ovunque, in qualsiasi momento della notte, ed ho smesso da tempo di chiedermi perché. L'unico comandamento adesso è camminare, più forte possibile per vindere il freddo. Camminare, camminare, mentre Lorenzo, Mario ed il podista di Monza prendono un po' di vantaggio, mentre Alessandro ed il Bolognese restano indietro. Ciascuno perso nei propri pensieri, ciascuno in fuga dalla paura, perché ormai sono certa che anche i miei compagni, forse meno di me, stiano ricacciando indietro un po' di paura. Non abbiamo più modo di difenderci dal freddo, ora che tutto quel che avevamo l'abbiamo indossato; a me, poi, le dita delle mani non permetterebbero di fare nulla, assolutamente nulla. Mi tornano alla mente i racconti delle imprese alpinistiche estreme, scalatori che arrivano ad avere le mani inservibili, e non certo con la temperatura in assoluto non troppo fredda che c'è questa sera. E sale lo sconforto, la paura di quel che seguirà dopo l'asfalto. A me, salire al Beigua in queste condizioni sembra un'assurda follia. I sentieri saranno in uno stato indescrivibile di fango; non si vedrà nulla, magari c'è anche il rischio di perdere la strada, e poi? Un groppo in gola, la stanchezza che mi assale. Non rinunceranno mai, e certo non posso rinunciare io. Però, ancora una volta, mi tocca ammettere che non sono proprio fatta per le imprese estreme. Che diamine, c'è gente che realizza avventure impossibili con qualsiasi tempo... Io patisco il freddo in modo esagerato, freddo e paura, perdo il controllo per un nonnulla.

Smarrita tra questi foschi pensieri, alzo lo sguardo e vedo i tre che mi precedevano, fermi e schierati in attesa. La sentenza finale: troppo pericoloso andare al Beigua; conviene scendere a Stella ed andare al mare, direttamente. Li guardo per un istante stranita: sogno o son desta? A stento trattengo un sospiro di sollievo pari solo allo svuotamento di una mongolfiera... Domani ci sarà spazio per il dispiacere, forse anche per il senso di sconfitta, ma ora no, ora è solo sollievo per lo scampato pericolo. Ancora una volta apprezzo il senso di responsabilità di Lorenzo: in fondo, in qualche modo il capo spedizione è lui; al posto suo, sentirei tutto il peso della responsabilità di questa decisione, ma anche la responsabilità di indurre qualcuno ad un'impresa pericolosa e di dubbia riuscita, anche se, lo so benissimo, siamo tutti adulti e vaccinati. Quel che è certo è che, se lui avesse deciso di proseguire, sarei andata anch'io, perché inspiegabilmente, nei momenti in cui sei con le spalle al muro, talvolta trovi un coraggio folle che ti spinge a fare cose di cui non ti crederesti capace; quindi lo ringrazio di aver messo buonsenso anche per me. Dovremo rinunciare allo striscione che ci avrebbe accolti ad Arenzano, ma pazienza; non è un addio, è solo un arrivederci alla prossima.

La marcia verso Pontinvrea è ancora lunga, ma la affrontiamo da qui in poi a cuore più leggero. L'alternativa che ci si prospetta è comunque tutt'altro che rosea: dal paese a Savona ci saranno ancora, per la via diretta, almeno venti chilometri, senza contare che, da Albisola, dovremo comunque ancora spostarci, io verso Savona a caccia di un treno, gli altri verso Arenzano, alle auto. Ma, in queste circostanze, è fondamentale ragionare per obiettivi intermedi: il prossimo è appunto Pontinvrea, dove speriamo di trovare un locale per rifocillarci e riscaldarci un po'. Ormai che il programma è sbrodolato del tutto, diciamo che non disdegneremmo di saltare su un'altra corriera, se avessimo la fortuna di trovarla, ma ormai è tardi. Le luci di Pontinvrea si vedono già, ma i fari delle auto che ci vengono incontro disegnano una linea ancora lunga a mezza costa. Siamo a circa quattrocento metri di quota, osserva Lorenzo, e fa un freddo siberiano: chissà cosa troveremmo oltre i mille, per giunta in una zona fredda com'è abitualmente il Beigua. Camminiamo, camminiamo ancora, ormai quasi insensibili agli scrosci rabbiosi ed al vento che ci investe in ogni direzione e ci gela la faccia, quasi fosse un male necessario. Non bisogna commettere l'errore di pensare che sia finita, Gian: non è affatto finita, a meno che succeda l'imponderabile. Ma la fortuna questa volta pare volerci dare una mano...

A Pontinvrea giungiamo dopo un'eternità. C'è un bar che pare ancora aperto: il bar "Gli Olmi". Lorenzo, il podista di Monza ed io entriamo, mentre Mario generosamente si sacrifica ad attendere fuori l'arrivo degli altri due, il Bolognese ed Alessandro, rimasti un po' indietro. Celestiale visione di una scoppiettante stufa a legna, a cui aderisco immediatamente, a mo' di cozza. Caso vuole che il barista e Lorenzo si conoscano e si riconoscano: è un attimo, spieghiamo perché siamo qui, spieghiamo cosa ci attende ancora, chiediamo inutilmente di una corriera; il giovane barista non ci pensa su un momento e si offre di accompagnarci giù. Ha un'auto che può contenerci tutti e sei. Quasi stentiamo a crederci... E per poco non esplodiamo in un coro da stadio. Quando basta un solo istante a passare dalla più cupa depressione al colmo della felicità! Ci concentriamo tutti intorno alla stufa, festeggiamo a panini e vino rosso e caffè, diamo sfogo alle macchine fotografiche. Dopotutto abbiamo comunque messo nelle gambe 60 km. C'è solo, per me, un'ombra su tutto questo, ma pesante. Prima che succedesse tutto questo cancan, prima del cambio di programma, avevo lasciato a Matteo le coordinate dell'itinerario, in modo che potesse, da Genova, eventualmente unirsi per un tratto di percorso. Durante il giorno, c'è stato poi un intenso scambio di messaggi, ad ogni cambio di programma. Per fortuna, visto come la situazione stesse volgendo al peggio, nel mio ultimo messaggio ho intimato a Matteo di non muoversi, di non far cretinate, visto che, poco prima, aveva accennato alla possibilità di raggiungerci in bici... Ho precisato che non avrei più dato indicazioni sulla nostra posizione. Ringrazio mille volte d'averlo fatto, perché adesso, accanto alla stufa, sto furiosamente litigando con il cellulare che non si accende più. E non conosco il numero di Matteo a memoria, maledetta fiducia nei mezzi elettronici. Spero con tutto il cuore che non abbia deciso di recarsi ad uno dei possibili punti d'incontro a cui avevamo accennato durante il giorno... Perché poi i piani sono stati stravolti. Spero...

Lorenzo è parecchio infreddolito, non trova pace nemmeno vicino alla stufa. Forse è lui che ha patito più di tutti, anche se io non ero certo gioiosa. Però ora l'atmosfera è bella; ci ritroviamo tutti insieme con la sensazione di scampato pericolo, di allegria finalmente libera di scorrere. Il papà del barista ci mette del suo: un arzillo signore di ottant'anni, dalla battuta prontissima, che scambia aneddoti in genovese e poi fa per me la traduzione simultanea in italiano, anche se ormai, a furia di bazzicare Genova, dove il dialetto pare molto più radicato che dalle mie parti, ho imparato a capire, anche se non saprei mai ripetere, buona parte dei discorsi, almeno nel senso. Che spasso, sia lui che alcuni degli avventori.

L'avventura si conclude sul fuoristrada del barista, che, davvero impagabile, si mette a nostra disposizione e ci porta non solo ad Albisola ma addirittura fino ad Arenzano. Ci salutiamo alle dieci passate, alla stazione: Lorenzo abita qui, gli altri colleghi han lasciato qui l'auto, per me c'è un treno che poco prima delle undici partirà per Imperia. Li saluto frettolosamente e, devo ammettere, con profondo dispiacere, perché basta un giorno così, vissuto intensamente, condiviso con le gioie e le paure di tutti, per creare un legame che è doloroso spezzare. Quasi scappo verso la macchinetta dei biglietti, poi mi abbatto su una seggiola nella sala d'attesa. Tremo; il freddo è tornato a farla da padrone, nonostante abbia indossato tutto quel che ho. Osservo con un po' di timore il viavai di facce, alcune ben poco raccomandabili, che popolano la stazione, ma il tempo per fortuna scorre in fretta. Il treno arriva, ci salto su, prendo posto, mi addormento stringendo lo zaino; mi risveglio di tanto in tanto per i brividi, ma va bene così, altrimenti rischierei seriamente di restare in carrozza fino al capolinea, a Ventimiglia. Il buio scorre dai finestrini; gente che sale, gente che scende, anche qui qualche individuo dall'aspetto patibolare. Per fortuna, credo di essere, in questo momento, sufficientemente repellente da non dover temere alcuna aggressione. Oneglia, mezzanotte e quaranta, la stazione, un altro chilometro abbondante di pioggia per andare a recuperare la Opel. E poi, contando il cambio dell'ora, sei ore abbondanti di viaggio fino a casa: dal Nava fino a Ceva, m'è toccato fermarmi a dormire almeno una volta ogni cinque o sei chilometri, altrimenti la Opel andava dove voleva lei, sterzava all'improvviso per evitare figure inesistenti in mezzo alla strada o per schivare auto parcheggiate che in realtà erano solo il guard rail. Benedetto il caffé al primo autogrill, benedetta la luce.
Non è stato il Trail dell'Alta Via, ma non è stata una giornata sprecata, questo è certo. Ho vissuto un giorno che valeva la pena d'essere vissuto, conosciuto persone che davvero valeva la pena di conoscere. E poi l'abbiamo già detto: è solo un arrivederci; non ci arrendiamo mica così, noi. Siamo o non siamo trail runners?

venerdì 27 marzo 2009

22 marzo 2009 - Solitudine in Langa

Certo che, se qualcuno t'infila la sua lingua rasposa in un orecchio giù fino al timpano, anche se sei il più incallito dei ghiri, non puoi fare a meno di svegliarti. Ha ragione, povero il mio maschione peloso; ha bisogno della sua passeggiata mattutina! Son quasi nove ore che dormo. Sguardo svogliato alla sveglia, sono le sei e pochi minuti; mi butto addosso qualcosa ed accompagno Skipper in giardino. Così assaggio la temperatura: gelida, un po' meno di ieri però. E c'è un bel cielo limpido; il sole non tarderà a fare il suo dovere.

Son passata dal coma vero e proprio al coma vigile, quello che mi permette giusto di scaldare la colazione e farmi il caffé; ho la testa pesante come dicono sia il mattino successivo ad una solenne sbronza... Ma non ho toccato alcool ieri! Il corpaccione ha una sola preghiera: "Buttati sul letto e dammi un giorno di requie". E dire che dovrebbe saperlo, ormai: sono parole al vento. Non sia mai che io sprechi una domenica, una bellissima domenica di primavera, solo un po' fredda. I duecentotrenta e rotti km di ieri non hanno certo spento la mia voglia di bici, anzi; se possibile, l'hanno alimentata. Oggi non ho compagnia né programmi, solo un'idea di giro, anzi, un'idea per la prima parte del giro. Ho bisogno della bici; la fiacca passerà strada facendo. Parto poco più tardi delle otto e mezza, con un po' di vestiario di scorta e qualche barretta; prima destinazione, Alba. In Carmagnola, all'ombra dei palazzi, la temperatura è da brivido; pochi passanti infreddoliti, poche auto in circolazione. Forse la notte appena trascorsa non ha fatto precipitare la temperatura sotto zero, come la precedente, ma poco ci manca. Per fortuna, il lungo tratto di trasferimento verso Alba è tutto in pieno sole. Frullo le gambe lungo il viale che porta via dalla città, poi lungo la strada per Ceresole, tutto piatto o leggerissima salita; l'aria è frizzante, i colori netti, intensi. Della primavera appena iniziata c'è ben poca traccia: gli alberi sono ancora grigi, spogli; qualche macchia di fiori solo negli angoli più riparati, a ridosso dei muri di cinta dei giardini. Filo, sto bene; le gambe sono affaticate ma non irrigidite, il soprasella non si lamenta. Pazienza se il segnalatore di velocità di Ceresole sentenzia "22"; quel che conta è che, nella mia testa, io stia correndo veloce, leggera, soddisfatta.
Ancora pianura, ma non mi dispiace, anzi. E' un toccasana per i garretti un po' cotti, e poi devo ammettere che, negli ultimi tempi, la digerisco un po' meglio. Perlomeno, non la odio più così profondamente come prima. Sarà solo un momento così, passeggero? E' anche merito del fatto che oggi pedalo sola, quindi posso scegliere l'andatura che più mi aggrada, senza l'ansia di dover correre dietro ai compari di viaggio o di perdere continuamente la ruota di chi mi precede. La mia compagnia, il gruppo di pazzi scatenati con cui condivido avventure più o meno folli, in bici o a piedi, è la migliore che potrei desiderare: solo che ogni tanto ho necessità di disintossicarmi, vale a dire, di sciropparmi un po' di chilometri a modo mio senza l'ansia, sempre presente e strisciante, di rallentare o annoiare chi è costretto ad aspettarmi. Oggi posso impiegare sei ore o dodici, non me ne importa proprio nulla. Il mal di testa se n'è andato già nei primi chilometri: l'ho sempre detto, io, che per me la bici è la miglior cura dai malanni del fisico e soprattutto dell'animo.

Incrocio il primo infreddolito collega a Sommariva Perno e mi butto in discesa, ringraziando, ancora una volta, la Ridley ed i suoi copertoncini da 25, grazie a cui posso anche non preoccuparmi troppo delle buche e dei vari disastri stradali. A Corneliano, anche qui caso strano, imbocco la circonvallazione: e dire che 'sto stradone largo l'ho sempre detestato. Ma stamattina non c'è nessuno o quasi, né auto, né moto, nulla. Raggiungo Alba in modo quasi indolore: è ancora presto per i turisti da trattoria!

Da qui in poi, è vita. La salita verso Manera, via Madonna di Como, è lunga, dieci chilometri o forse più, ed è molto dolce; un serpentone in mezzo ai vigneti ancora completamente spogli, qualche cascina, qualche cortile in cui buttare lo sguardo curioso. Sulla destra, dall'altra parte della vallata, spicca nitida Diano d'Alba e, ben oltre, tra i profili grigi e verdi delle colline, lo sfondo candido delle Alpi; sulla sinistra, colline a perdita d'occhio, Treiso, Neive, Barbaresco. Salgo tranquilla, senza fatica, guardo la mia ombra lunghissima che si perde tra i filari. Ogni tanto in piedi sui pedali, ma solo per cambiare posizione. I ciclisti son pochini a quest'ora; in compenso, non mancano i podisti: da quelli più "professionali", dotati di tute fascianti multicolori, a quelli che corrono con braghe informi e gilet; tanto, si sa che non è l'abito a fare il monaco, soprattutto in questo genere di sport. L'apparenza conta quanto uno zero tondo! Penso che questa salita sia ideale, in fondo, per allenarsi un po' anche a piedi; ha una pendenza che affatica ma non distrugge. Un giorno o l'altro la proverò.

Madonna di Como, il ristorante ancora tace. La rotonda per Treiso, poi gli ultimi chilometri; l'altra rotonda, quella in cui si immette la strada che arriva da Mango, quella che, nell'altro senso, in discesa, spesso taglio in spregio al Codice della Strada: non c'è mai nessuno! Le sagome delle colline sempre più definite man mano che la leggera nebbia del mattino si dissolve al caldo. A Manera chiudo la zip del giacchino antivento, pronta ad affrontare i tre chilometri di discesa: ieri mattina, prima delle sette, ho creduto che sarei arrivata giù al Belbo in forma di stalattite... Invece no, oggi la luce è intensa, non solo per l'ora; fa un po' meno freddo: il meteo non ha mentito. Il serpentone di asfalto è già terra dei motociclisti, tanti, di tutte le forme e colori, di tutte le possibili attitudini, da chi viaggia in sella ad un salotto ambulante a chi cavalca una fiammante due ruote da pista. Appena un brivido per l'aria che s'infila fra il manicotto e la manica corta della maglietta, sotto il berretto, nel collo... E son già al castello di Borgomale, severo ed imponente, mentre con un occhio bado a dove metto le ruote e con l'altro cerco la strada che sale a Lequio, quasi a controllare che sia ancora lì. Oggi non vengo a trovarti, ma ci vedremo presto!

In fondo, il ponte sul Belbo; svolto a destra ed attacco un'altra salita dolce, quella che conduce da Bosia a Cravanzana. Man mano che si sale, il colpo d'occhio sulla vallata è sempre più emozionante. Sul versante opposto si intravedono alcune tracce che sembrano strade; alcune lo sono e sono ben note, altre chissà, devo andare a cacciare il naso, prima o poi. Quelle cascine sperdute in mezzo alla boscaglia devono pur avere un qualche collegamento con il fondovalle. Ma oggi non sono in vena di esperimenti; vado a colpo sicuro. La lenta risalita amplifica le urla del mio pancino, che oggi reclama disperato il saldo del suo credito ancora residuo, anche da ieri. Lo placo con una barretta, ma è solo quiete momentanea. Poco prima di Cravanzana, giù a destra, direzione Cerretto Langhe; qualche curva secca tra buche e cascine, poi attraverso un'altra volta il Belbo. Mi attende una bella rampa, ben visibile e minacciosa in tutta la sua lunghezza: ma non importa, basta aver pazienza, godersi il sole caldo sulla schiena, lasciar fare alle gambe che ormai conoscono bene il loro mestiere. Nelle orecchie le note dei Toto, mentre incontro qualche timida primula gialla che infrange la monotonia dei colori ancora autunnali. La strada porta subito in alto, a veder la valle dall'altra parte. Qualche edificio abbandonato, qualche cortile desolatamente incolto, pezzi di attrezzi agricoli arrugginiti, e chissà mai cosa si poteva coltivare su questo costone? Poi il paese, sempre più vicino; qualche tornante, la strada che spiana. Cala la pendenza, ma le gambe non si riprendono; sento una gran debolezza, non so se sia fame, la testa pesante, gli occhi che faticano a restare aperti ed a fissare quel che dovrebbero, cioè la strada. Detesto le pause durante i giri in bici, anche quelle di pochi istanti: figuriamoci poi fermarmi a comprar da mangiare... Ma oggi mi sa proprio che non ho molta scelta. Se continuo così, a barrette, a casa non arrivo, anzi; mi rovino tutta la giornata. Un paio di km e sarò al bar ristorante della Pedaggera: se non c'è troppa ressa, mi fermo e mi faccio fare un bel panino. Detto, fatto: mi trascino all'incrocio, butto l'occhio; pochi avventori, decido per la sosta. Panino con il formaggio, ottima Toma di Langa, più un Mars che finisce nel borsello, preziosa risorsa da estrarre tra un po'. Mi appoggio al muro, fuori, al sole, accanto alla mia bici: di lì a poco, arrivano quattro motociclisti che parcheggiano i loro fiammanti cavalli proprio davanti a me. Anche un'ignorante al cubo come me non fa molta fatica, stavolta, a capire di che moto si tratti, visto che recano scritto a caratteri cubitali "Harley Davidson". Ascolto distrattamente i discorsi dei quattro centauri: parlano ovviamente delle bimbe, ne magnificano i particolari, le ultime novità che han comprato a prezzo di chissà quale organo interno, le finiture. Effettivamente il metallo è talmente lustro che, come si dice da queste parti, quasi "sbalucca"! Mi piacerebbe una foto della Ridley con quelle meraviglie... Ma non oso chiederla; finisco senza pietà alcuna il panino gigante e salto in sella. Per dove? Mah, potrei scendere a Valle Talloria e risalire a Montelupo... Albaretto no, oggi no Gian, dai, sei già uno straccio... Ti uccide! Pensa e ripensa, ma dalle prime curve della discesa di Costepomo, lei si vede, è lì. Mi chiama. Scendo tranquilla, oggi più che mai; è una di quelle giornate, purtroppo rare, in cui davvero mi sento in pace con la fatica e con il mondo intero; mi accorgo di sorridere da sola, e meno male che non c'è nessuno qui intorno che mi può vedere. Poi in fondo, al bivio, non ho scelta. Albaretto è nel mio destino. 18%, il cartello è sempre lì; nessuno ha ancora pensato di compiere un gesto di ciclistica pietà e rimuoverlo. Dicono gli esperti: l'ideale è affrontare una salita con rampe lunghe e spietate, subito dopo aver trangugiato due etti di pane e formaggio ben grasso. Meno male che il mio stomaco è foderato di amianto: non batte ciglio! Anzi, mi sento bene come non credevo possibile; affronto la prima rampa, poi il tornante, l'altra rampa e l'altra ancora; mi accorgo dei cambi di pendenza, cosa che non mi capita nei giorni no, quando la sofferenza è unica dal primo all'ultimo metro. Invece oggi riesco a rifiatare quando la pendenza passa, diciamo, dal 15 al 12%. Mi superano, nel tratto più duro, due motociclisti che sono veri artisti, perché non dev'essere facile, su pendenze del genere, pennellare una curva e controcurva con il ginocchio quasi sull'asfalto senza ribaltarsi. Ormai qui conosco ogni metro, davvero potrei andare su ad occhi chiusi. Il caldo è meraviglioso: i raggi del sole picchiano sull'asfalto nero ed io, con la mia velocità da tartaruga, me li godo tutti! Qualche ciclista lo incrocio, ma sono rigorosamente tutti in discesa; li saluto con un "ciao" squillante di cui io stessa mi sorprendo. E mò? Mò, nel tratto di falsopiano oltre il paese di Albaretto, devo decidere il resto del percorso. Presto fatto: alla rotonda svolto a sinistra, verso Diano d'Alba. Qualche chilometro di discesa in cui non è più nemmeno necessario chiudere il gilet; qui, in queste curve morbide ed ampie, mi diverto persino io. Peccato solo che le montagne siano già sbiadite per effetto della calura del primo pomeriggio. Leggera risalita prima di Diano, pieno alla borraccia sulla piazza del paese, sotto lo sguardo interrogativo di un gruppo di turisti di lingua tedesca; bè, non l'avete mai visto un ciclista assetato? Non è mica colpa mia se le fontane sono ancora quasi tutte chiuse!

Ancora discesa, più decisa, verso Grinzane Cavour ed il suo bellissimo castello. Voglio ancora salire a La Morra, ma non da Gallo; attraverso il paese, a ruota di un baffuto ciclista maturo, e procedo per il versante di Annunziata, concedendomi finalmente anche il Mars a cui pensavo con cupidigia da un po'. Anche La Morra scorre via veloce, o meglio, con le gambe che rispondono bene, nonostante la stanchezza. Contenta più che mai, e dire che non c'è nemmeno un perché: sto bene, tutto qui, mi spiace solo dover prendere la strada di casa, ecco. Il bellissimo cedro in cima alla collina, vista rassicurante alla mia destra; nelle orecchie ancora musica, grazie al fantastico lettore Mp3 dalla batteria pressoché inesauribile. Oltre la rotonda, affronto con cautela l'ultimo strappo, poi libero sfogo alla baldanza e, perché no, ad un pizzico di esibizionismo: tanto lo so, lo sento, che gli occhi quando passo su in cima al belvedere son puntati su di me! Ancora una discesa, verso la frazione Rivalta e Pollenzo, che affronto con allegria. E mi chiedo, per l'ennesima volta, perché ci siano i giorni in cui anche questa discesa mi terrorizza, mentre oggi, boh, mollo i freni e vado giù, mentre incontro sale una squadra in allenamento, con tanto di auto ammiraglia al seguito.

Il ponte sul Tanaro, poi Pollenzo: volendo, potrei ancora aggiungere qualche salitella, ma in fondo non mi servirebbe a nulla, se non forse ad affaticare troppo le gambe. Sono in riserva fissa; altra mezza barretta mentre salgo a Pocapaglia, ancora con la sensazione di debolezza nelle gambe e nelle braccia. Son passate da poco le tre del pomeriggio, ma la luce è già più bassa, i contrasti di colore più netti ed i toni più intensi. Un breve tratto di discesa e l'ultimo fondovalle prima dello strappo cattivo di Sommariva Perno: ennesima conferma, le gambe girano bene; è la fiacca generale che mi fa penare. Restano solo più venti chilometri tendenzialmente in leggera discesa; mi avvio con calma, ma non c'è niente da fare: mi tocca, poco prima di Ceresole, buttare in pancia ancora una barretta. Non capisco quanto sia suggestione e quanto sia effettiva necessità di cibo, credo di zuccheri: però, la sensazione di mancamento è reale, e non sarebbe un'esperienza piacevole, su questo stradone dove le auto sfrecciano ben oltre i limiti! Poche, ma buone... Così l'ultima galoppata in mezzo alla campagna, ai pioppi spogli, al verde intenso del grano appena spuntato, o granturco che sia, quanto sono ignorante! Con la mia ombra tornata lunghissima, arrivo a casa con la lingua che s'impiglia in mezzo ai raggi. Per fortuna che mia sorella, ieri, ha cucinato il riso con le verdure in dosi da reggimento: anche oggi posso vivere di rendita!

21 marzo 2009 - Da Alba al Beigua... O no?

"No no e poi no, non ci penso nemmeno, a partire alle sette con la prospettiva di dover macinare 220 km. Ma scherziamo? Partire alle 7 in questo periodo significa buttare via una buona ora di luce; io sono una lumaca, già mi ci vorrà un'eternità e mezza per completare il giro... Se parto alle 7, arrivo a notte fonda!". Oh insomma, che iattura. E dire che ormai dovrei saperlo. Con Mik si può scendere a compromessi su qualsiasi cosa, distanze, salite, destinazioni; posso avanzare le proposte più folli con la certezza che, in qualche modo, sarò assecondata... Ma c'è un punto, un solo punto su cui ormai ho gettato la spugna. Toglietegli tutto... Ma non le ore di sonno! E così non mi metto nemmeno più a litigare; siccome la mia testaccia è granitica almeno quanto la sua, io adotto la tattica del "Faccio quel che pare a me, tu fai quel che pare a te". Questa è la ragione di fondo per cui stamattina, alle cinque e mezza, buio pesto, mi trovo casualmente nel bel mezzo del parcheggio del Tribunale di Alba. Deserto, la Opel in mezzo ad un dedalo di striscie bianche che posso solo immaginare nelle tenebre. Di buono c'è che si respira puro effluvio di cioccolata, "Eau de Nutellà", roba da saltare in bici, prendere la direzione della Ferrero e compiere una rapina a mano armata, non so di cosa ma credo che la pompetta per le gomme possa andar bene. Di cattivo... C'è che fa un freddo siberiano, che i termometri qui nelle vicinanze segnano con ostinazione temperature negative e che le poche auto parcheggiate nei dintorni son coperte di un bello strato di brina. Povero Roberto, si sarà già pentito di avermi sostenuta nella mia crociata pro-partenza notturna con il sacrificio umano di se stesso medesimo? Mah, a vederlo così, direi di no, anzi; non lo conosco così bene, è il secondo giro che condividiamo, ma direi che ha l'aspetto abbastanza roccioso. Probabilmente sto soffrendo più io di lui, ed il guaio è che non mi posso nemmeno lamentare.

Bardati ed incappucciati con l'equipaggiamento da spedizione in Alaska, illuminati come alberi di Natale, Roberto ed io ci mettiamo in marcia. Per dove? Mah, a dire il vero, Mik ha fornito una traccia ben chiara, che prevede di andare al mare via Cortemilia e Dego, scendere ad Albisola, risalire via Monte Beigua e poi rientrare ad Alba passando per la zona di Acqui, terreno a me del tutto sconosciuto. Mi sono studiata un po' la cartina: partendo con un'ora, un'ora e mezza di ritardo rispetto a noi, Luca e Mik dovrebbero raggiungerci prima del mare; quindi, il problema di trovar la strada per il ritorno a nord non dovrebbe porsi. Non dovrebbe... La cartina l'avrei anche preparata, sempre in teoria. Però è rimasta a casa sull'asse da stiro; dubito che oggi potrà essermi di grande utilità. Pazienza, ormai siamo qui! Bando agli indugi. Mezzi congelati, attacchiamo la lunga e morbida salita verso Manera. Le sofferenze termiche son compensate da pura poesia per gli occhi: il cielo comincia appena a sfumarsi, dal nero al blu, all'azzurro appena più chiaro; le stelle spariscono, una ad una, le colline si delineano, pure i paeselli su di esse. L'atmosfera è limpidissima e permette di distinguere i dettagli a grande distanza; Diano d'Alba, da qui, non s'è mai vista così nitida!

Ingannevole, la salita, perché sembra allentare un po' la morsa del gelo; persino le dita riprendono un po' di vita, anche se l'aggeggino elettronico sul manubrio di Roberto continua a farci presente che siamo sotto zero. Infatti attendo con terrore il momento in cui ci butteremo in discesa; è breve, la discesa da Manera al Belbo, saranno tre chilometri, ma sarà un'agonia... Cerco con gli occhi i raggi del sole, vorrei poter credere che lo stradone di Borgomale sia già illuminato, ma so bene che la valle è troppo incassata e profonda perché la luce la raggiunga così presto al mattino. In compenso, il freddo pungente mi dà l'idea che le gambe stiano girando bene: probabilmente, solo perché fa l'effetto di una anestesia!
Roberto segue, ma entrambi siamo poco in vena di chiacchierare. Dobbiamo ancora, come si suol dire, rompere il fiato. Oltrepassata l'ultima rotonda, però, ci tocca affrontare la dura realtà: da Manera, ancora qualche centinaio di metri in leggera salita, poi giù. Un dramma. Freddo pungente che mi aggredisce il torace, le braccia, la faccia, ma soprattutto le mani. A Borgomale già stento ad impugnare i freni; le dita non vogliono saperne di rispondere ai comandi, fanno un male da piangere nei guanti spessi eppure inutili. Manca poco, Gian, davvero poco... Eppure la tentazione di fermarmi è fortissima; ho il terrore che la presa sui freni ceda di punto in bianco, sarebbe un disastro. Raccolgo le residue forze per aggrapparmi alle leve fino all'ultima stramaledetta curva... Finalmente il ponte, il Belbo, si torna a salire.

E poi, i problemi non son mica finiti qui... Già, perché la vita dell'aspirante ultraciclista non è solo spazi sconfinati, vento nei capelli, lotta contro la salita e trionfo della tenacia sulla gravità: è anche cose ben più terra terra, vilmente materiali. E allora tu, aspirante ultraciclista, ti ritrovi talvolta a pestare sui pedali e con lo sguardo non immagini il susseguirsi dei tornanti dell'Alpe d'Huez o la meraviglia abbagliante della Casse Deserte. No, disgrazia ambulante che non sei altro, tu scruti con malcelata ansia qualsiasi cespuglio a bordo strada, casomai si rivelasse un luogo idoneo ad una sosta tecnica per alleggerire dalle pene della vita sia l'anima che, soprattutto, la panza... Ma oggi tutto congiura contro di me: la necessità impelle, ma il coraggio non m'è sufficiente a decidere di esporre le mie delicate pudenda, non tanto al pubblico ludibrio, che a quest'ora non c'è una mazza ferrata di nessuno in giro, quanto alla morsa del gelo. Va bene che il freddo conserva, ma ad ibernarmi le chiappe non ci tengo proprio! Così mi tocca capitolare, andando contro ai miei ferrei principi di ciclista no stop, e chiedere una pausa cappuccino a Cortemilia. Ci arriveremo alla fine della prossima discesa. Prima, si sale a Castino: schiodare le gambe ibernate è una bella scommessa; meno male che la pendenza qui è mite! Poi giù, qualche chilometro di strada ampia ed ancora deserta, ma già in buona parte baciata dal sole, verso Cortemilia. Destinazione paradiso, è proprio il caso di dirlo; chi ha patito almeno una volta il mal di pancia in bici mi può capire... Ma anche il cappuccino caldo va giù che è una meraviglia.

Ripartiamo a malincuore, si stava bene al calduccio del bar, ma il dovere ci chiama. Ora, soddisfatti i grezzi istinti primari, posso andar leggera a mente sgombra a caccia dell'incrocio, prima di Pezzolo, dove dovremo girare a sinistra. Agghiacciante, è il termine più adatto direi, la vista di due lunghi ramoscelli pendenti a bordo strada, foderati da spessi candelotti di ghiaccio. Ancora -1°C, sentenzia Roberto. Meno male che poi la strada riprende a salire, sotto un cielo limpidissimo, sotto una luce che, quando ci coglie, è viva ed abbagliante. Anche la lingua è già un po' più sciolta; finalmente riusciamo a chiacchierare, complice la salita lunga e blanda, alternata a tratti quasi in piano, complice soprattutto la quiete di questo luogo. Le possiamo contare sulle dita, le auto che abbiamo incrociato! E chissà gli altri due fenomeni, a che ora saran partiti? Ma sarnno poi partiti o, viste le temperature, si son girati dall'altra parte ed han ripreso la nanna?
La discesa verso Piana Crixia è di gran lunga meno traumatica delle precedenti; la pianura verso Dego, poi, fa il resto, riscaldando per bene ossa e muscoli. Roberto ce la mette tutta per star davanti a tagliare l'aria, ma io mi stacco quasi subito: niente da fare, a seguire la scia non imparerò mai; basta un'impercettibile pendenza positiva perché le gambe si inchiodino e buonanotte ai suonatori. Non sarò mai una passista! E neanche una buona guida turistica...

...a Dego infatti succede il fattaccio. C'è un bivio: Varazze a sinistra, Santa Giulia e Cairo a destra. Ora, il buonsenso porterebbe a girare a sinistra; ricordo bene che la strada indicata sulla cartina, a Dego, piegava decisa verso sinistra, guardando dal punto di vista di chi va verso il mare. Ma siccome il buonsenso ed io facciamo selvaggiamente a pugni, decido che la nostra via è a destra. Anzi, lo affermo e lo sostengo con inattaccabile convinzione. Non so se Roberto ci creda davvero o semplicemente non osi contraddirmi... Fatto sta che, in un attimo, ci lasciamo alle spalle lo stradone, infilandoci su per questa bella valletta laterale. E finalmente, per la prima volta oggi, posso dire di aver caldo: meglio fare il cambio di pelle, altrimenti qui ci scappa una sauna con conseguente congelamento istantaneo in discesa. Passo dalla giacca invernale alle maniche corte con manicotti: tanto, le rampe di Santa Giulia sono severe abbastanza da non farci patire il freddo. Di tanto in tanto, oltre un tornante, guardo giù: possibile che gli altri due fenomeni non siano ancora nei paraggi? Poi il dubbio, meglio tardi che mai, s'insinua... "Mi sa che non siamo mica sulla strada giusta", concludo. Roberto ne prende atto... In fondo, questa salita è troppo bella per averne a male. E poi comunque da qui si arriva a Cairo, e da Cairo al mare. E poi e poi... Con il freddo maledetto che fa oggi, siamo proprio sicuri che abbiamo voglia di andarci a cacciare fin sul Beigua e, soprattutto, di scendere dall'altra parte, verso l'entroterra? Ormai la mia viltà ha trovato una breccia e sta tracimando senza più freni. Si potrebbe scendere al mare e poi andare al Melogno, che è una bella salita lunga e di solito abbastanza tiepida... Boh, intanto mando un messaggio a Mik per comunicare la posizione: il poveretto mi chiama, di lì a poco, e non so quale mostruoso autocontrollo debba avere per non mandarmi istantaneamente a compiere atti contro natura. Meno male che non vedo la sua faccia, stavolta credo non sarebbe affatto piacevole. Ma a me vien da ridere! Il succo del mio discorso è, ok abbiamo sbagliato, adesso andiamo a Cairo Carcare Altare Savona, voi – Mik e Luca – fate un po' quel cavolo che vi pare! Democratica ed altruista come sempre... Intanto la strada in quota prende a scendere, giù verso l'amena visione dell'orrenda periferia di Cairo Montenotte e dell'ancor più orrenda strada che porta a San Giuseppe ed a Carcare. Caos, gas di scarico, semafori rossi a cui ci tocca proprio dar retta; l'unica nota positiva in questo tratto è che passiamo nei paraggi di un agriturismo tappa, lo scorso autunno, di uno splendido giro langarolo con Luca e Mik. Grande è poi la sorpresa quando, passata Carcare, mi sento chiamare per nome da un tifoso occasionale, pure lui in viaggio per la Liguria, ma in auto. Lì per lì non metto a fuoco di chi si tratti, anche se ho i miei sospetti; avrò poi la conferma grazie al forum di Bicidacorsa.

Roberto non pare per nulla sconvolto dalla deviazione fuori programma; anzi, è tranquillissimo perché Savona è vicina... In effetti è vero: ben presto siamo ad Altare. Attraversiamo il paese, perché la galleria è proibita alle bici; ne approfitto per mangiare un boccone ed inviare un altro messaggino: "Siamo ad Altare, ma se non avete voglia di aspettare, andate pure", che sottintende quanto segue: "...tanto io non ho proprio nessuna voglia di andare ad ibernare sul Beigua, preferisco andare al Melogno e che nessuno abbia da ridire o si senta defraudato del suo progetto originario". Troppo lungo per i 150 caratteri. Risposta quasi immediata: "Stiamo salendo al Cadibona, tra poco ci incontriamo". Oh cacchio, ma allora oggi non la scampo!

Finalmente una discesa a temperatura umana: siamo quasi giù quando, all'altezza di un tratto di senso unico alternato, ci riuniamo alle pecorelle smarrite (questione di punti di vista). E mò dove si va? Sospirone immenso di sollievo: l'itinerario Beigua ormai è troppo lungo... Evvai, fantastico, va tutto bene, fate di me quel che vi pare allora, mi adatto!!! Ma alla fine la spunto... La proposta di salire al Melogno dal lago di Osiglia è bocciata senza appello per via dei cinque orrendi chilometri di piatta risalita da Carcare a Millesimo; si va a Borgio, tombola!

Quattro pecoroni, ci buttiamo nel traffico di Savona e poi dell'Aurelia, litigando come sempre con gli automobilisti, i tombini, le buche, i semafori. I tre compagni di merende in fuga, io più lenta e più precaria d'equilibrio sempre ad inseguire, affannarmi, sbuffare. L'Aurelia è stranamente sgombra, ovunque ci sono divieti di parcheggio e ciclisti che sciamano in tutta libertà: non ci arrivo mica, subito, a capire che oggi passa la Milano Sanremo. Anche perché la mia attenzione va tutta al mare, al caldo sulla schiena, a quei pochi sventurati colleghi che mi capita di poter raggiungere e superare. Ed alle meravigliose pareti rocciose a strapiombo tra Noli e Finale: incredibile, non credo di aver mai pedalato qui, non avrei potuto assistere ad uno spettacolo del genere e dimenticarmelo! La luce limpida, la roccia chiara, forse anche l'innaturale quiete di oggi, che permette di pedalare alzando gli occhi, senza dover stare sul chi va là per evitare d'essere arrotati. Cavoli, se l'Aurelia fosse tutta così, potrei pedalarci fino a Ventimiglia!

La salita però è sempre benvenuta. Breve sosta a Borgio per svestirci: riparto con un po' di anticipo, ma so già che è il solito fuoco di paglia. Mi riacchiappano nel giro di trenta secondi. Pazienza, le mie gambe adorano il susseguirsi di tornantini in mezzo alle case, i primi fiori finalmente s'affacciano dai cortili, la borgata lassù è bella e luminosa come sempre. Incrocio un paio di ciclisti in discesa che mi chiedono lumi sulla direzione per le Manie: oh capperi, ci son già stata, eppure ho un vuoto di memoria... Sarà la salita che sottrae ossigeno al neurone!
Con la coda dell'occhio, vedo un proiettile rosso e nero che sfreccia sulla strada sotto di me; poco dopo ne sento lo spostamento d'aria. Prima Mik, poi Luca e Roberto: ok, ho capito... Mannaggia a me che non ho portato il lettore Mp3. Mi preparo per la solita lunga ascesa solitaria. Peccato che, superato il tratto di saliscendi fino a Gorra, la salita lasci intendere che venderà cara la pelle. C'è vento forte, e freddo: guai ad averlo di fronte, non ti lascia procedere; guai ad averlo di lato, ti butta a terra. E da ogni parte ti fa rabbrividire. Gian, la salita è lunga e tu sei stanca. Metti la marcia ridotta, il neurone in modalità "pensiamo ad altro" e ce la farai, prima o poi. Ormai so dove guardare, cosa cercare per capire quanto manca; il quanto, tanto o poco, è una misteriosa entità legata allo stato d'animo e di gambe. Ancora tre curve, due, una, curve ampie e morbide fino al bivio. Trovo infatti lì, fermi in attesa da chissà quanto tempo, i miei tre compari: "Che si fa?", chiedono. Non vedo alternative: si scende a Millesimo, si risale dal Montezemolo, si va a Bossolasco. Qualsiasi altra via è troppo lunga per oggi. Faremmo notte. Decisione approvata all'unanimità: si procede, tra buche, sassi, crepe varie, crateri nell'asfalto; un po'di piano, un tratto di risalita, poi i pochi tornanti che scendono ad Osiglia. Brevissimo tratto di pavè che, se non altro, riattiva la circolazione; poi il lago, appena increspato dal vento, il lungo pianoro, ancora un paio di tornanti verso valle. Provvidenziale la sosta alla fontana: ero a secco!

Il vento mi massacra fino a Millesimo; lì ci concediamo ancora una pausa prima di attaccare l'ultimal, per me temutissima salita: quella a Montezemolo. Piacevole nel primo tratto, che sale con pendenza decisa, ma agghiacciante negli ultimi tre chilometri o poco più, con il falsopiano che più falso non si può, quell'orrendo stradone caotico che sembra non salire affatto ed invece stronca le gambe. Ce la puoi fare, Gian, vedrai che se t'impegni passa in fretta. Roberto resta in compagnia della mia sofferenza; che angoscia questi pedali che non scendono nemmeno sotto minaccia. Mi lagno ancora un bel po', finché non s'arriva in vista della rotonda e del ristorante di fronte ad essa. Il vento c'è ancora, ma meno odioso; ormai è proprio colpa mia se non vado più avanti!

Da qui in poi, è fatta. Vero che mi trascino senza forme, che non riesco ad affrontare con il giusto spirito ed un minimo di slancio i tratti di leggera risalita, vero che posso solo seguire Mik e Luca con lo sguardo finché non spariscono dietro alla curva, ma ormai è questione di un minimo sforzo. E di approfittare ancora un po' della pazienza certosina dei due velocisti del gruppo. Ormai qui è storia nota per me: si sale, si scende poco, si risale pochissimo, insomma, un disastro per i miei garretti ormai sfiniti. Le ombre son già lunghe... Erano le tre a Millesimo.

Poco prima di Murazzano, svoltiamo a destra, direzione Bossolasco; ancora leggera salita, ancora difficoltà, e fame soprattutto, tanta! Bossolasco, Serravalle Langhe, Pedaggera, Rodello: le lingue ora sono gli unici muscoli che non patiscono la stanchezza ed hanno una gran voglia di mettersi in moto. Si chiacchiera, si scherza, fino ad arrivare a Rodello e svoltare a destra, per scendere giù direttamente ad Alba; discesa lunga e dinuovo fredda, ma anche stavolta è fatta. Per tornare alle auto, manca solo più di attraversare la città: una guerra contro tutti, dall'automobilista al pedone, il festival degli istinti omicidi. Al parcheggio abbiamo tutti valori diversi della percorrenza: per me son 230 km e credo qualcosa più di 3000 m di dislivello in salita. Scopro inoltre, con mio grande piacere, che gli Albesi sono onesti: ho dimenticato stamattina le chiavi in bella vista sul cruscotto... E sono ancora lì!

giovedì 26 marzo 2009

15 marzo 2009 - Colle Braida, Colle del Lys, Aquila, Verne

Tutto ciò che ricordo dei miei trascorsi ciclistici al Colle Braida è, appunto, il nome, Colle Braida: niente di più. Son già passati parecchi anni, direi un numero a due cifre; erano i primissimi tempi in cui andavo in bici da corsa e concentravo i miei sforzi nel tentativo di non precipitare rovinosamente a terra ad ogni piè, anzi pedale, sospinto. Badavo poco al paesaggio, devo ammetterlo. Oggi mi ci ritrovo, ma è una novità. Sono stata in zona a camminare in un paio di occasioni, ma non è la stessa cosa; la salita da Avigliana, su asfalto, è proprio una perfetta sconosciuta. Ma ho un'ottima guida che qui è di casa; con Max non mi perderò! E' lui il regista del giro di oggi: siamo giunti ad Avigliana partendo da Piossasco, per non so quali strade e stradine in cui il mio già precario senso dell'orientamento ha immediatamente gettato la spugna. Sarò a trenta, quaranta chilometri da casa al massimo, eppure per me qui è nebbia fitta. Ho una vera e propria fobia, ciclistica e non solo, per tutto ciò che sta nei paraggi di Torino; per me Torino si associa istintivamente a caos, traffico, folla, insomma a quanto di più sgradevole possa invadere la mia indole di ciclista meditativa da ampi spazi deserti. Max è riuscito ad attrarmi come si fa con le trappole per topi, solo che al posto del formaggio ci sono 3000 m di dislivello.

Il sole non manca, questa mattina; la temperatura è piacevolissima. Nonostante la sveglia comoda alle sei e mezza, però, mi sento tutto fuorché pimpante: mi piacerebbe poter dire che ciò il fisico bestiale, ma i 290 km di ieri si sentono, eccome. Non è indolenzimento alle gambe: è proprio fiacca generale. Speriamo che la situazione migliori con un po' di riscaldamento.
I primi chilometri della salita verso il Braida sono affollatissimi: da quando ci lasciamo alle spalle uno dei laghi, non saprei se il piccolo o il grande, è tutto un susseguirsi di ciclisti, solitari o in gruppo, molti dei quali saltano sui pedali come forsennati: qualcuno addirittura chiede a gran voce, già da lontano, di farci da parte per lasciarlo passare. Manco fosse Fausto Coppi in persona! Ma va là babau... Max me l'ha spiegato, che questa è una sorta di salita test nella zona; quel che non avevo capito è che questo manipolo di indemoniati non va mica su fino al Colle, eh no: si ferma a pochi chilometri da Avigliana, dove la salita spiana leggermente e si raggiunge un bivio con una stradina che riporta verso il fondovalle. Ma no... Che fregatura! Certo che così son capace anch'io... Magari non oggi. Superiamo sdegnosi il capannello di pavidi fermi all'incrocio e tirem'innanz: siamo ciclisti seri noi! Da qui in poi, il deserto... La pendenza si fa un po' più severa, le gambe soffrono, me ne accorgo subito. La strada va su ben esposta sul fianco della montagna; butto l'occhio alla mia destra e mi sposto verso il centro strada con un brivido... Il salto c'è e si vede tutto! Gli edifici piccoli piccoli là in fondo, no, tutto ciò non mi riposa per nulla.

La Sacra di San Michele spunta all'improvviso dietro una curva, o forse sono io che, abituata a viaggiare ad occhi bassi, non l'avevo ancora vista. Meravigliosa ed imponente, così vicina che sembra quasi di poterla toccare. Qualche turista in auto si ferma a far le foto: meno male che è stato istituito il senso unico, qui, altrimenti guai! La giornata è abbastanza limpida da consentire un bel colpo d'occhio su tutta la vallata, anche se l'unica cima a cui posso dare un nome, nella mia solidissima ignoranza, è il Rocciamelone, la quota più alta a cui abbia mai portato le mie zampe, quasi quattordici anni fa! Me la ricordo come fosse ieri, quella partenza con i "grandi" del CAI, alle quattro del mattino da casa... Ed arrivare in cima con il gruppo dei primi, una fatica bestiale ma che soddisfazione immensa!

Superiamo la frazione San Pietro, poi lo spiazzo da cui parte la stradina che conduce alla Sacra. Ancora un paio di tornanti e riconosco la frazione Basinatto, dove qualche giorno fa ho fatto una scorribanda notturna con l'altro camminatore folle, il buon Mik. Strano, era buio, eppure mi ci ritrovo abbastanza! Poco oltre, il colle: capperi, a piedi non m'ero mica accorta che qui fosse ancora salita... Un attimo di pausa accanto al cartello, poi via in discesa. Ed anche qui, anzi soprattutto qui, mi accorgo che oggi proprio non è giornata; la discesa è il mio punto debole ed è lì che si scaricano gli effetti più pesanti degli stati d'animo, oltre che di quelli meteo. La stanchezza acuisce il panico, la paura di scivolare nella più stupida delle curve, il terrore della pendenza che qui è tutt'altro che proibitiva. I "pensieri negativi", come li ha definiti con termine azzeccatissimo il buon Luca, uno dei miei consiglieri ciclisti, quelli che in teoria non ascolto mai ma che seminano tra le mie poche cellule grigie i tarli del dubbio. I pensieri negativi son tutti lì che si affollano nelle mie dita, ben salde a ghermire i freni. Il povero Max ci mette tanta tanta pazienza ad aspettare in fondo alla discesa. Si torna ad Avigliana, purtroppo in compagnia del traffico. Come se già non bastasse la fiacca, ci si mette anche il resto del mondo a darmi ai nervi! Meno male che son troppo impegnata a seguire la mia guida turistica, per pensare ad arrabbiarmi. Attraversiamo, non so come, la città: non ci ho capito niente... Meno male che siamo fuori, direzione Almese: la prossima salita è vicina. Al Col del Lys non sono mai stata; ne ho sentito parlare come di una splendida strada, anche duretta, e sono ansiosa di farci visita. Imbocchiamo a centro paese un bivio che ricordo bene per esserci passata, sempre a piedi, una tarda sera dell'inverno appena trascorso, con la neve ed un freddo becco. Una rampa ed eccoci sulla strada principale, che sale molto ripida in mezzo alle case per due o tre chilometri: l'ideale per i garretti, che qui sembrano reagire molto meglio. Sarà che si sono scaldati, sarà che questa pendenza, paradossalmente, mi è più congeniale anche quando sono stanca. Un breve tratto in piano si trova prima dell'abitato di Rubiana, ma è un attimo; già nel paese, piccolo ma molto vitale a quest'ora, si torna sul ripido, saltando l'abitato nel giro di due o tre tornanti. Poi è ancora bosco, con i colori che sembrano fermi all'autunno scorso; qualche rara abitazione isolata, una frazione... Guardando i tetti, qui, si può ancora avere un'idea ben chiara della quantità di neve cascata quest'inverno: i blocchi rimasti sui coppi, per chissà quale strano gioco di equilibrio, sono enormi funghi, alti e minacciosi. La strada è gradevole, poco frequentata; poche auto, qualche motociclista.
Salgo tranquilla, ma l'effetto inceneritore ormai è nel pieno del suo vigore; trangugio miele e barrette e continuo ad aver fame. Ma lo sapevo già: ieri ho mangiato, tutto sommato, poco, pedalando moltissimo; in questi casi, il pancino si vendica reclamando tutto il dovuto, con gli interessi, il secondo giorno. Almeno il sole scalda; salgo in maniche corte, con i manicotti ed il gilet, anche se s'arriva a 1300 metri: infatti, poco prima della cima, noto gente già spaparanzata in mutande al sole! Beh, così mi pare un po' troppo...

Sosta per riempire la borraccia in vetta, in mezzo ad un gruppo di ciclisti dall'aspetto molto professionale, vestiti Parkpre: poi ridiscendo, sempre con la stessa tenuta primaverile, ma col berretto di pile ben calzato in testa. Prendo un po' di vantaggio, in modo da non costringere Max all'eterna attesa ad Almese! Discesa fredda solo nella prima parte, poi si ragiona; peccato che, proprio ad Almese, la ruota anteriore si afflosci... Mando una raffica di miserie ai copertoncini groviera, e un'altra a me stessa che non ho ancora vinto la pigrizia per sostituirli; via il copertoncino, via la camera, su l'altra camera. Il tentativo di gonfiare la gomma con la bomboletta è del tutto fallimentare: la ruota si gonfia, sì, ma tre nanosecondi più tardi è dinuovo a terra. Meno male che c'è la vecchia pompetta.

Archiviato l'intoppo, ripartiamo e ripercorriamo la strada all'inverso: prima Avigliana, che per fortuna nell'ora di pranzo è più sonnacchiosa, poi l'interminabile odiosissimo falsopiano in salita verso Giaveno, che stramaledico di tutto cuore. Perdo la ruota di Max in continuazione, alla fine ci rinuncio... Mi distraggo sbafando l'ennesima barretta. Ci attende ora la chicca della giornata: la salita di Aquila. Prendiamo la direzione di Coazze, che per fortuna abbandoniamo presto, svoltando a sinistra; breve discesa e poi, al ponte, si punta un'altra volta il naso verso l'alto. Dovrebbero essere otto o nove chilometri di quelli tosti: l'ho già percorsa, anche qui una sera di quest'inverno, in auto fino a Maddalene e da lì a piedi. Ricordo bene le rampe!
I primi chilometri, fino alla frazione, sono ancora abbordabili, per quanto severi. Mando un messaggio sul telefonino a Mik, che stamattina ha corso la mezza maratona di Torino con un risultato da favola: chissà che nel pomeriggio non pedali da queste parti! E le gambe ancora reagiscono. Dopo la piazzetta con la chiesa... Il buio. Un primo tornante, poi la lunga rampa in mezzo alla frazione, con grande strepito di cani e cagnetti d'ogni taglia; altri tornanti, la pendenza sempre più cattiva e continua, Max che si allontana, mentre io cedo. L'ordine tassativo è arrivare su, tantopiù che la strada non è lunga, ma che sofferenza... Non sono solo le gambe, è che proprio sono cotta, completamente cotta. Fame, pancino che urla, garretti che non spingono, bici che oscilla pericolosamente; in più ci sono anche le buche! Ce la faccio, non ce la faccio, un lunghissimo traverso dritto... Vedo avanti a me la valle che si apre, ormai non dovrebbe mancare molto allo spiazzo con il ristorante; invece c'è ancora una curva, un altro tornante, uno scalino di troppo. Allo spiazzo, pieno di gente e di auto, arrivo con il sorriso sulle labbra ma il cuore in mezzo alle orecchie, atri e ventricoli equamente distribuiti tra le due! Meglio scendere và... Poniamo fine a questa prestazione ingloriosa, ho perso una battaglia ma non la guerra, tornerò! Sì, se sopravvivo a questa discesa che non è certo meno ardua della salita.

Incontro qualche altro temerario su due ruote, qualcuno in bici da corsa, qualcuno in mountain bike; chi sale deciso, chi viaggia secondo un'immaginaria serpentina. Meno male che per me è finita!
Al fondo della discesa... Un viso noto: ma guarda chi si vede! E' Mik! A quanto pare la mezza maratona non gli è proprio bastata... Come viene a sapere che ci manca un pezzetto di salita per far cifra tonda ed arrivare a 3000 m di dislivello nella giornata, tira fuori dal cappello una proposta delle sue. Ed io, ormai in riserva fissa di forze, di cibo, di voglia, sento un brivido gelido correre giù per la schiena. Ma non sia mai che mi tiro indietro: come al solito, quando il gioco si fa duro, e anche un po' pirla, io non manco mai!

Torniamo tutti verso Giaveno, mentre Mik racconta un po' della sua avventura mattutina; 16° assoluto, roba da matti! E dire che si dichiarava, fino a poco tempo fa, uomo da sprint... Scommetto un ettaro di focaccia al gorgonzola che in capo a un anno lo vedremo alla maratona, quella intera però.

Il novello Baldini, anzi mezzo Baldini, ci guida verso la Colletta di Cumiana, salita blanda, quasi rilassante, anche se ormai pure qui faccio quel che posso e mi trascino, guardando i miei compari sparire oltre la curva. Ma non può essere tutta qui la faccenda, se conosco il mio pollo: infatti, dalla Colletta svoltiamo a destra e saliamo su. Una stradina splendida, sconnessa, in mezzo al bosco, deserta, dimenticata dal mondo e pure dai ciclisti; tra una buca, un sasso ed un ramo caduto, raggiungo i due fuggiaschi sulla piazzetta di una frazione, Verne. L'idea più saggia, a quanto pare, sarebbe ridiscendere alla Colletta dallo stesso versante: ma io, imbecille che non sono altro, chiedo lumi sulla strada che scende invece dall'altra parte. E' un po' sconnessa, dice Mik... Li mortacci sua! Se un infinitesimo degli accidenti che gli mando durante l'interminabile discesa dovesse colpire nel segno, il poveretto sarebbe destinato ad una fine raccapricciante. Non è una strada, è una mulattiera da asini questa! E poi tutta in ompra, anche perché ormai siamo nel tardo pomeriggio ed il sole se ne sta andando. Max resta nei paraggi, forse temendo di dover tornare su a raccogliere qualche frammento di me; tra fango e voragini e sabbie mobili, in un tempo indefinibile ed interminabile torniamo nella civiltà, a Cumiana. Mik è giù ma si tiene a rispettosa distanza... Pronto ad evitare la mia ira funesta! Ma forse son troppo cotta anche per essere violenta. Mi metto in coda per gli ultimi chilometri in direzione di Piossasco: sulla sinistra, il San Giorgio, altro itineario podistico notturno di questo bellissimo inverno di vagabondaggi serali in montagna. Giusto il tempo di violare qualche semaforo rosso, salutare Mik che è nei paraggi di casa ed arrivare all'auto di Max: dopo 137 km e 3.200 m di dislivello, siamo al parcheggio, al cimitero... Per lo stato in cui sono adesso, direi che mi ci sentirò quasi a casa!

martedì 24 marzo 2009

14 marzo 2009: da Cherasco a Finale Ligure e ritorno

Due nanosecondi sono sufficienti per capire che oggi non sarà affato come sabato scorso. Non sarà quella giornata frizzante, piena d'energia e d'entusiasmo, no, niente affatto. Son le quattro del mattino; ho in magazzino tre ore e mezza di sonno, perché ieri sera mi son data alla vita mondana con mamma... E' un dramma. E non va meglio quando, un'ora dopo, salgo in auto alla volta di Cherasco: il sonno mi appiccica le palpebre; sonno, stanchezza, quasi nausea. All'etilometro risulterei senz'altro negativa, ma credo di essere pericolosa più o meno quanto un incallito alcolista anonimo! Tant'è che al parcheggio del cimitero, la mia destinazione, punto la sveglia del cellulare e piombo ancora per dieci minuti nel sonno più profondo... Non ce la posso fare, oggi, proprio no. Eppure devo: ho appuntamento con Matteo al mare. E voglio macinare chilometri, voglio, punto. Poi, Gian, lo sai: quando sei in sella stai meglio... Mi occorre un supremo sforzo di volontà per spingere via la portiera dell'auto, cacciarmi fuori, sistemare la bici, a cui ho appena cambiato i pattini dei freni, con gran pianto & stridor di denti. Costruire un reattore nucleare probabilmente sarebbe stato più semplice. Freddo pungente, cielo ancora scuro, segno evidente del fatto che le nuvole non mancano. Eppure Meteoitalia ha promesso il sole... Ma forse Giove Pluvio non lo sa!

Mi avvio intorno alle sei e un quarto: direzione Bra, con l'intento di salire a Cherasco e ridiscendere qui. Almeno mi rendo conto fin da subito se i freni sono ben sistemati o se è meglio darci una regolata. Sono intirizzita, svogliata; i pedali son macigni pesantissimi, la nausea è più forte che mai, e dire che a colazione, proprio per colpa sua, ho mangiato ben poco. Un chilometro ed imbocco la breve cattivissima rampa: le gambe gelide lanciano lamenti strazianti. Attraverso la bella piazza completamente deserta a quest'ora, poi giù al punto di partenza: un brivido lungo la schiena, di paura questa volta, ma i freni sembrano tenere, e persino, sommo gaudio, sembrano centrati sulle piste dei cerchi. Beh, almeno qualcosa di buono c'è oggi!

Avevo in programma un itinerario diretto a Dogliani e poi, da lì, verso Farigliano, Clavesana, Murazzano, poi l'anello di Marsaglia ed infine Ceva, Colle dei Giovetti, Colle del Melogno. Ma fa freddo, troppo per i miei gusti, e il sole non ha intenzione di far capolino, non molto presto, perlomeno. Così opto per la salita che va a La Morra; lunga e dolce, riscalderà un poco le ossa. La luce ora c'è, pallida e malaticcia; il cielo si scopre di un tristissimo grigio uniforme, proprio come il mio umore. Al malessere si aggiunge la preoccupazione: non credo proprio d'essere in grado di tener fede ai miei propositi oggi; rabbia doppia per me stessa e per l'appuntamento con Matteo, che rischia di andare in fumo. Silenzio, aria di pioggia, nemmeno i soliti cagnoni che abbaiano; nulla di nulla. Salgo piano, con cautela, respiro a pieni polmoni; mi sembra di stare un po' meglio man mano che procedo, ma vietato illudersi. Raggiungo La Morra ancora addormentata, solo qualche anziano a spasso con il giornale sottobraccio; da lì decido per Novello e la discesa verso Monchiero. Purtroppo quel poco di calore conquistato in salita si paga subito, brividi e gambe irrigidite; la bici che in discesa torna a farmi paura, lo stradone per Dogliani che vorrei sparisse subito. Risalgo intorno al cupolone, lentamente fino al primo incrocio: qui abbandono la strada principale e mi dirigo verso Farigliano, sperando di ricordare l'itinerario percorso insieme a Luca qualche tempo fa. Sì, più o meno mi ritrovo; oggi non diluvia come quel giorno, ma è tutto fuorché una bella giornata. Qualche sobrio banco di mercato a Farigliano, qualche chilometro di stradone di fondovalle su cui soffro, e tanto. L'aria sa di pioggia: non mi spiego che non abbia ancora cominciato a buttar giù secchiate...

Mi consola un po' la salita, bellissima, verso Clavesana, qualche tornante cattivo con la vista su contrafforti di sabbia bianca, paretoni che sembrano sbriciolarsi da un attimo all'altro. La neve a mucchietti accompagna ancora il cammino, bagna insidiosa i cubetti di porfido del breve tratto in pavè. Da lì, la salita verso Murazzano sembra interminabile; la vista sulla Langa oggi è desolante, tutto grigio che si perde nella nebbia, sempre più fitta man mano che si sale. Nebbia spessa che a volte nasconde anche la curva che sta per arrivare, nebbia che bagna gli abiti ed i capelli. Le case compaiono come figure spettrali man mano che mi avvicino; mi sembra d'essere sospesa in un luogo sconosciuto, tesa, preoccupata non so nemmeno io bene per quale motivo. Stringo al collo la cerniera della giacca invernale, perché, come se non bastasse, quassù soffia il vento, cattivo e gelido. Arrivo alla strada che congiunge Dogliani a Murazzano quasi senza rendermene conto, proprio perché non vedo nulla; mi ci immetto con un po' di timore, sperando che la mia lucina basti a segnalare la mia presenza. Ma a chi? Stamattina qui non c'è un'anima, non un'auto, non una moto; solo, a Belvedere Langhe, qualche studente infreddolito in attesa del bus. Per fortuna sto un po' meglio, la nausea sembra passata, anche se le gambe sono gelide, rigide, refrattarie. Il giro di Marsaglia è già nel dimenticatoio: ricordo bene quanto fosse gelida quella discesa; oggi non è proprio la giornata ideale per affrontarla. Ma, a ben pensarci, nemmeno l'idea di scendere a Ceva mi solletica: sarebbe una picchiata lunga e tutt'altro che piacevole. No, lascia perdere Gian. Mentre scorro pigramente i chilometri tra Murazzano e Sale Langhe, scruto il cielo come se dovessi studiarlo a memoria: mi par di scorgere, verso sinistra, un po' di chiarore, appena un timido accenno di luce. Basta quella flebile speranza per farmi decidere: proseguo per Murazzano, da lì scenderò a Millesimo. Continuo a solcare la nebbia, a masticare freddo e folate di vento, senza vedere nulla; so di essere sulla strada giusta, ma non mi è di conforto... Solo a Montezemolo il grigiume si dirada. Anzi, in pochi chilometri si passa dalla Siberia della strada alta a qualche goduriosissimo raggio di sole: Millesimo, paese gelido per eccellenza, oggi smentisce la propria fama. Sul mercato del paese splende il sole. Per me, un'iniezione di fiducia e voglia di pedalare: ora ho una direzione obbligata; lago di Osiglia e Colle del Melogno. E' presto; spero di riuscire a scendere al mare prima dell'arrivo di Matteo, così potrò poi godermi la salita intera, magari da Borgio. La strada s'infila sotto gli immensi piloni autostradali, passa accanto ad una cava; poi, al bivio, a sinistra, sfilando accanto ad un meraviglioso edificio in pietra, un vero capolavoro. La salita è blanda, deserta che più deserta non si può; il sole è pallido ma resiste, nonostante qualche strato di nuvole alto e velato. Il lago è tutto uno scintillio di innumerevoli minuscole onde; non posso che pensare immediatamente alla strada che sale al Bernina e corre piatta accanto al lago, per poi riprendere baldanza appena oltre. Qualche pescatore insonnolito, poi la borgata di Osiglia, tutta raccolta intorno ad una graziosa piazzetta. Qualche tornante; l'asfalto si fa più sconnesso, sporco, il sole cede il passo alle nuvole e la temperatura scende giù, in picchiata. Ho tolto la giacca, ma quasi quasi me ne pento... Lunghi chilometri dolci, mentre cerco con lo sguardo il varco tra le montagne che mi porterà al caldo, almeno spero; primo bivio con la strada che sale da Carcare, poi ancora blanda salita, altro bivio con la via per Pian dei Corsi: ancora nessuno, nessun cenno di vita. Solo all'incrocio con la strada che sale da Finale incontro un paio di esseri umani e, ben più interessante, un banchetto con una golosissima esposizione di formaggi.

Speravo in un bel sole deciso... Ma è evidente, oggi non è giornata. Anche quassù la nebbia fa da padrone, anche se meno fitta e fredda rispetto a qualche ora fa. Mi tocca un'altra pausa, l'ennesima, per vestirmi prima dei quindici chilometri che mi condurranno a Finale. Troppo lunghi per tentare l'avventura con guanti estivi e gilet. Il mare laggiù, grigio come tutto il resto, prende colore solo dopo un bel po' di chilometri; sono rigida di freddo anche in discesa, impiego un'eternità. L'Aurelia, finalmente: solo due o tre chilometri, ma sufficienti a scaldarmi un po' le ossa. Ed il passaggio a livello... I tornanti di Borgio Verezzi: ne sono innamorata. Salgo di buona lena, il morale alle stelle, sarà l'effetto della luce, del mare, delle mimose. Il paese su in alto, di muri chiari, quasi bianchi, che si avvicina in fretta, il muretto su cui volentieri mi siederei per riscaldarmi un po'. Mando un messaggio a Matteo: è quasi a Gorra, il luogo dell'appuntamento, il primo paesello salendo da Finale verso il Melogno. Scarica la bici e mi verrà incontro: beh, fine delle mie preoccupazioni... Salgo con buona lena, faccio il pieno di profumi; la barretta la ingoio più per senso del dovere che per vera fame... Non ho ancora toccato cibo, né la borraccia. Salgo con rinnovata allegria: a Gorra, come promesso, ecco Matteo. Come sempre è una gara a raccontarsi le novità di tanti giorni passati, ma vince sempre lui che in salita ha ben più fiato; io patisco i chili di troppo ed i cento km già sulle gambe, passati da un po'. Viaggia con due zaini, Matteo: uno per sé, col bagaglio, ed uno da portare a Luca quando, tra qualche ora, passeremo per Novello. Il corredo dell'aspirante randonneur!

Salgo in modo quasi decente, sempre sull'orlo della mancanza di zuccheri, e benedetti i ciucciotti di miele Ambrosoli, a cui attingo di tanto in tanto, recitando un requiem per i miei denti. Il freddo non se n'è andato, è rimasto lì ad aspettarmi man mano che salgo; freddo, vento e nebbia riprendono il posto dei colori. Ma con Matteo qualsiasi avversità mi spaventa molto meno. I mille metri di dislivello passano in fretta se c'è qualcuno che ti distrae, che ascolti volentieri. Poi, la sensazione di sicurezza che mi dà la presenza di qualcuno già di norma molto più forte di me, ed oggi pure più fresco perché appena partito... E' impagabile! Sento che potrei far di tutto.

A ritroso, discesa verso Osiglia ed il lago, lungo e quieto, che sparisce nel nulla del baratro oltre la diga; qualche tornante ed un ovetto di cioccolato, qualche brivido ed il rombo dei camion lassù sui viadotti dell'autostrada; Millesimo. Al pomeriggio il mercato non c'è più; possiamo avventurarci sulla piazza centrale. Il pavè è odioso, di norma... Ma oggi ha la preziosa funzione di riattivare la circolazione. E la salita a Montezemolo, anch'essa abbastanza odiosa soprattutto nel tratto finale, ha l'indiscutibile pregio di essere calda. Inveisco solo contro gli ultimi chilometri di "falsopiano", almeno così lo vedo io, anche se è un piano falso davvero, con pendenze a tratti dell'8%. E' dannatamente largo e dritto... Ma lo affronto oggi per la seconda volta in due settimane; mi riesce già meno indigesto della prima.

Al rotondone di Montezemolo, ci confondiamo nella folla di motociclisti che ripartono dal ristorante: tanti, di tutti i generi, di tutte le possibili concezioni della moto. Passano in fila, innumerevoli, e vanno. Procediamo anche noi, con la calma dettata da me e dalla mia stanchezza, con il conforto di un pallido sole. Matteo fa i conti di quanto manchi all'auto; a me pare ben poco ormai... Cinquanta km, forse, ma ormai le difficoltà sono alle spalle. Salutiamo l'enorme elica per la produzione di elettricità, immobile anche oggi. Poi...

...in un tratto in cui la strada supera un avvallamento ed è visibile per un bel tratto, in lontananza scorgo un veicolo fermo con le quattro frecce, sembra in mezzo alla strada. Lì per lì non ci faccio caso, ma, quando son più vicina, vedo in mezzo alla strada una massa grossa e scura, una moto rovesciata. Gente che si affolla intorno, spero tanto che il motociclista sia uno di loro, magari spaventato ed arrabbiato ma intero: invece no, è riverso a terra, su un fianco, nell'interno della curva, immobile, col casco ancora infilato ma senza visiera. Qualcuno chiama il 118, Matteo si avvicina al poveretto che, proprio in quel momento, riprende a respirare. E' probabile che sia incosciente, non parla, ma cerca di muovere gambe e braccia: mi fa una pena infinita... Anche se non saprei proprio cosa fare, anzi, credo che non si debba fare proprio nulla, se non attendere l'arrivo dell'elicottero annunciato dall'operatore. Pochi istanti ed arriva un'altra moto; è il cognato del motocicilsta a terra, che viaggiava davanti e non s'è accorto di nulla. Mi vien rabbia, che jella. Non è possibile che stessero andando così forte; ci han superati pochi minuti prima, e poi la moto è solo a pochi metri dal centauro... Chissà cosa diamine è successo. Di lì a poco, Matteo ed io riprendiamo la marcia, inutile restare in mezzo alla folla; sentirò poi il rumore dell'elicottero. E qui mi viene in mente che questa è una bella rivincita per il tanto denigrato sistema sanitario italiano: basta una telefonata e zac, ecco che arriva addirittura un elicottero per salvarti la pelle. Non saprò più nulla del poveretto, ma spero di tutto cuore che se la sia cavata bene e possa tornare in sella al più presto!

Ancora avanti, chilometri dolci, la torre di Murazzano all'orizzonte, le ultime coltellate dei saliscendi nelle gambe; la casa sul tornante con le finestre ad ogiva, Belvedere, ancora Dogliani. Da qui a Cherasco, un male necessario; meno male che facciamo tappa all'incrocio con la strada che sale a Novello: qualche minuto per rifiatare mentre Matteo, perfetto venditore, consegna a Luca lo zainetto da lunghe distanze. Così la giornata, cupa ed uggiosa quasi sempre, ci regala uno splendido tramonto di fuoco. Salutiamo Luca che domani si farà onore ad una delle granfondo liguri e maciniamo, si fa per dire, l'ultima manciata di chilometri prima di Cherasco. Per me alla fine son 215 km e circa 3.800 m di dislivello, a spanne. In premio i panzerotti con la ricotta: e non invidio Matteo che, domattina alle quattro, ripartirà in bici alla volta di Finale. Lo ammiro immensamente, ma non lo invidio. Anch'io pedalerò, ma con orario decisamente più umano!