lunedì 20 aprile 2009

12-13 aprile 2009 - Prova percorso Raid Provence Extreme 2009

Il primo colpo di pedale, di buon'ora, la mattina della domenica di Pasqua a Valensole: è l'inizio di un'avventura. Ed è anche un grande traguardo. Sono mesi che si fantastica di questa ricognizione, mesi di progetti, proposte, risposte, idee, parti più o meno folli delle fertili menti dei Compagni di Merende.
Il Raid ufficiale prevede un percorso di circa 600 km, con oltre 9000 m di dislivello in salita dichiarati; partirà il prossimo 30 maggio da Bedoin. Tra i papabili per il viaggio prova, c'è chi sostiene l'opportunità di spezzare l'itinerario in tappe uniformi, chi propende per due tapponi più una minitappa finale di riposo e recupero... Chi ha invece un chiodo fisso: partire ed arrivare una volta sola, proprio come si dovrà fare nel giorno, anzi nei due giorni, della randonnée ufficiale. Io me medesima, ovviamente. Non voglio sentire ragioni: io farò così, chi mi ama mi segua, chi c'è c'è. Non saprei nemmeno spiegare la vera ragione di simile ostinazione: in fondo, anche se non l'ho portato a termine, ho già vissuto sulla mia pelle il RPE quasi per intero... Poco male, ho smesso da tempo di cercare una giustificazione logica per le mie pensate.
Alla fine la spunto io... Anche se in realtà non avevo alcuna intenzione di coinvolgere gli altri nel mio progetto; mi ci sarei buttata anche da sola, salvo poi sbattere il naso al primo muro di difficoltà, ma questa è un'altra storia. La spunto, o almeno, Matteo riesce a farmelo credere, trovando, come sempre, una quadra per accontentare più o meno tutti. Tutti: una moltitudine indefinita che in breve, tra defezioni e rinunce varie, s'è ristretta a quattro elementi. La quadra prevede, semplicità geniale, la partenza in auto da Valensole: il RPE infatti segue un percorso a "8" con un primo anello di circa 400 km ed un secondo anello di circa 200; Matteo propone di sfruttare l'auto a Valensole come campo base per rifocillarsi dopo aver coperto i primi due terzi del giro ed eventualmente come luogo di sepoltura per chi, dopo quei primi due terzi, dovesse passare a miglior vita. Sì, mi duole, ma devo riconoscere che si tratta di un'idea molto saggia.
Ad una settimana dal fatidico giorno del via, ci si mettono le previsioni del tempo a guastar la festa, preannunciando con rara ostinazione pioggia, pioggia ed ancora pioggia per il ponte pasquale. Partire, non partire? Ho il cuore in fondo ai calzini, all'idea di dover dire addio al progetto che ho cullato e cresciuto con tanto amore... E non solo io! Insomma, ho combinato tutto per benino: venerdì sera arrivo ad Arenzano, passo la notte a spasso per sentieri con un gruppo di faticatori locali, poi sabato in viaggio verso la Provenza con Matteo, domenica mattina in bici e via... No, non voglio rinunciare, non se ne parla nemmeno. E se anche il gruppo di quattro papabili perde per strada altri due elementi, in extremis, io ottengo la conferma in cui non dubitavo: Matteo è d'accordo, si va comunque.

Così mi ritrovo, sabato intorno all'una, a Voltri, al capolinea dei bus, un luogo che ormai m'è entrato nell'anima: mi ci sento quasi a casa, è una bella balconata sul mare, anche se poi, quando ti volti, sei risucchiato dal caos dell'Aurelia, appena sotto il viadotto dell'autostrada. C'è Matteo pronto ad attendermi: che imbecille, sono pure in ritardo. Sono felice di vederlo, ho addosso l'emozione di un bambino alla prima gita scolastica, ma anche la stanchezza di una notte passata a camminare su sentiero, e la relativa fame atavica! Così, quando ci rimettiamo in marcia dopo una doccia calda ed il pranzo luculliano preparato dalla mamma di Matteo, posso dire con certezza di sentirmi davvero meglio...

Ci trasferiamo a Savona con i rispettivi mezzi, per praticità del viaggio di rientro, che spero sia il più lontano possibile anche se sarà solo dopodomani; lì abbandono la Opel e trasferisco bici, bagagli e me stessa sul furgone Wolkswagen di Matteo, che a me pare un vero transatlantico. Suonata e un po' stracca per la notte insonne, ma felice come non mai, vorrei che questo viaggio non avesse fine. E un po' è proprio così: partiti da Genova prima delle tre, giungiamo a Valensole alle otto, con gli occhi colmi di panorami e la voglia ed insieme l'inquietudine della splendida avventura. Lo so, che Matteo può capire, in fondo siamo fatti della stessa pasta, anche se lui ha dalla sua un carattere serafico, un autocontrollo a prova di bomba, una capacità eccezionale di risolvere problemi piccoli e grandi senza scomporsi, una meravigliosa attitudine ad arrangiarsi. E' anche per questo che amo viaggiare con lui, perché mi sento tranquilla, in una botte di ferro. Qualunque cosa succeda, tanto c'è lui...

La mattina di Pasqua, intorno alle otto, c'è già movimento a Valensole. Gente che va, gente che viene, tutti con l'ombrello: piove, una pioggerella delicata ma di quelle che han l'aria di non voler cedere il passo troppo presto, anzi. Cielo bigio, strati bigi alternati a strati ancor più bigi; la giacca impermeabile indosso da subito, le bici pronte e ben oliate, ovviamente a cura di Matteo, per affrontare l'umido andante che ci attende oggi. Ci salutano gli splendidi platani della piazza: mi avvio, con l'umore concorde al colore delle nuvole ma, una volta tanto, senza quel senso di terrore incontrollabile che di solito mi assedia quando qualcosa comincia ad andare storto. Piove, è vero: ma è appena una pioggerella debole, nulla da temere per la stabilità della mia Ridley equipaggiata per l'occasione con i copertoncini da 28. Lo zaino, quello sì, è davvero pesante: purtroppo, con le previsioni del tempo avverse, non posso fare a meno di portarmi dietro un bel po' di scorta di vestiario. A dire la verità, stamattina il proprietario della Chambre d'Hote ci ha annunciato che nel pomeriggio la pioggia sarebbe cessata, secondo il meteo francese, ma non posso rischiare e fidarmi. E, in ogni caso, l'acqua dal cielo non frena l'euforia. Un po' di più ci riescono le gambe! La camminata di ieri notte si sente, eccome; i muscoli sono rigidi, induriti, quasi gonfi. Eppure, con mio grande stupore, nemmeno questo oggi riesce ad abbattermi. Il viaggio comincia nelle campagne tra Valensole, Greoux les Bains, Vinon sur Verdon; sulla destra il fiume, placido ed ordinato, tutt'intorno il verde acceso delle colture e della vegetazione spontanea, le uniche che oggi saranno ben contente del meteo. Sull'asfalto, grosse chiocciole dal guscio chiaro tentano la traversata fino all'altro lato della strada: per loro fortuna, c'è pochissimo traffico stamattina. Questo tratto di strada è l'ideale per il riscaldamento iniziale, perché offre pendenza favorevole, a parte qualche breve tratto di risalita, come la rampa di Greoux che conduce nel centro del paesello, già brulicante di locali e turisti a caccia di boulangerie. Come dar loro torto? Idem a Vinon, c'è il mercato. Ormai qui son di casa: non sbaglio nemmeno più i bivi! Dobbiamo lasciarci il fiume sempre a destra, direzione Pont de Mirabeau; è un po' noioso questo tratto, ma ci pensa Matteo a distrarmi; si chiacchiera di tutto un po' e la pioggia, che continua a picchiare sulle nostre capocce, è quasi dimenticata. Per fortuna, il percorso che andremo a coprire oggi e domani non è preoccupante, da questo punto di vista, perché non ci sono discese lunghe e tortuose, non c'è – o almeno non dovrebbe esserci – rischio di scivolare o problemi con i freni. A parte il fatto che i Cantilever non temono l'acqua. Forse è questo che mi rende così tranquilla, o forse la speranza, a cui mi sono aggrappata, di un miglioramento nel pomeriggio. Certo che, se dovesse mettersi a piovere forte, sarebbe comunque abbastanza drammatico! Va bene infliggersi fatiche e sofferenza... Ma con moderazione! Mi preoccupa ben di più lo stato delle gambe. Chissà se ce la farò? Con la marcia di ieri notte, ho voluto fare il vero uomo che non patisce nulla... Speriamo solo di non aver esagerato! Ma non voglio pensarci ora.
Superato il ponte, imbocchiamo come da roadbook la seconda strada a sinistra: vana è la speranza che, dall'ultima mia visita da queste parti, gli indigeni abbiano provveduto alla riasfaltatura. Le buche ci sono, tutte ed anche più: i copertoncini spessi fan quel che possono per attutire i colpi. Ma almeno si comincia a salire: Beumont de Pertuis, poi un lungo tratto di falsopiano e salita molto dolce in mezzo al verde acceso della vegetazione ed ai primi fiori degli alberi da frutto, fino a La Bastide. La stagione qui pare essere in ritardo, come da noi, o forse è normale ma non c'ero più abituata. Da La Bastide inizia una salita lunga e molto blanda, 10 km che ci portano a quota 650 m circa, con la pioggia che ora cade a sprazzi, un po' sì ed un po' no. Le gambe faticano, cavoli se faticano: sto usando, pur su pendenze ridicole, il rapporto più leggero che ho. Del resto, la strada che ci attende è lunghissima, i bagagli sono pesanti; la parola d'ordine è risparmiare la fatica!
Le strade qui sono ampie, liscie, le curve dolcissime. Al primo bivio si svolta a sinistra, per un'altrettanto dolce discesa in direzione Cereste – Reillanne. Strada di fondovalle, tendenzialmente in discesa, fino a Cereste: ormai siamo intorno al mezzogiorno, è ora di fare scorta di pappatoria. Io non ci avevo nemmeno pensato, ma è Matteo che me lo fa notare: oltre alla sosta in panetteria per l'immediato, è opportuna anche una visita al supermercato, per comprare qualcosa che ci servirà nella notte. Oggi pomeriggio infatti non troveremo più negozi aperti. Agli ordini! La boulangerie ci provvede di pizza con formaggio e di pain au chocolat, che sbraniamo con la foga di due reduci di guerra sul marciapiede; al supermercato troviamo invece una buona dose di Camembert, scelto come sempre sulla base della più alta percentuale di massa grassa disponibile nel banco frigo, un sacchetto da 12 brioches, una bottiglia da un litro e mezzo di Coca Cola ed un Bounty. Non c'è che dire: la tipica alimentazione sana ed equilibrata da atleti. Il Camembert finisce nel mio zaino; bottiglione e brioches trovano invece posto, grazie all'inesauribile creatività di Matteo, sulla valigia che ha fissato al canotto reggisella in modo da evitare la necessità dello zaino. Non scommetterei un soldo bucato sulla stabilità della struttura, e invece...

Si riparte. Poco oltre il paese, bivio a destra e salita verso l'abitato di Viens, splendida borgata dai colori chiari, come tutto qui intorno Ha quasi smesso di piovere, anche se il cielo non è affatto incoraggiante: proviamo a levare la giacca impermeabile, poi si vedrà. Altra salita e le gambe soffrono: Matteo però è sempre qui, non s'allontana di un metro; di tanto in tanto si ferma, ma poi mi riacchiappa senza difficoltà. E di staccarmi non se ne parla. Da Viens, breve discesa e direzione Gignac – Rustrel, fino a giungere poi in vista di Saint Saturnin les Apt, meraviglioso paese su cui incombe un imponente castello. Qualche tornante ci porta in centro; da lì svoltiamo verso sinistra e poi, dopo un breve tratto di falsopiano, ancora a destra, direzione Murs e relativo colle. Ricordo questa salita con un po' di timore: è breve, 6 km scarsi, ma a gennaio qui avevo sofferto. Oggi invece sembra andare tutto bene, a maggior ragione con un gregario eccezionale che mi rifornisce di Coca Cola in corsa. E' incredibile Matteo... Riesce a pensare per sé e per gli altri, in un momento di fatica e concentrazione, laddove io riesco a malapena a badare a me stessa!
Dall'abitato di Murs si sale ancora un po', verso il colle, col cielo che quasi quasi lascia filtrare qualche pallido raggio di sole. Discesa nelle splendide Gorges, quelle che io ho ribattezzato, per l'occasione, mini-gorges, visto che poi ci attendono quelle del Verdon che sono gorges con i controcavoli; un ambiente suggestivo, la Foret de Venasque, peccato non poterselo godere in discesa. Ancora un bivio a sinistra e si riprende a salire, fissando lassù una sella che non arriva mai, con le gambe che si lamentano e la fame che comincia a farsi insistente: ormai le barrette van giù come fossero acqua fresca; è ben altro quel che vorrebbe il pancino. E' un momento di debolezza, fisica e morale, al pensiero preoccupato della strada che ancora mi attende, alla paura di non farcela.

La sella infine arriva, la strada spiana appena; bivio a sinistra, bivio a destra, discesa su Gordes. Questo è un paese davvero meraviglioso; purtroppo lo sanno anche i turisti che l'affollano. C'è una valanga di gente qui! Approfittiamo di una fontana, rigorosamente eau non potable, per riempire le borracce e mangiare un boccone; è un momento un po' critico per me, mi sento stanca ed ho fame, ma non riesco a mangiare le barrette. Avrei voglia di qualcosa di disgustosamente salato, tipo un altro ettaro cubico di pizza al formaggio! Ma oggi non c'è trippa... Matteo mi porge una brioche: sembra quasi che riesca a percepire l'arrivo dei miei momenti critici, è davvero incredibile. Devo riprendermi subito: per lui, prima che per me! Riparto un attimo prima di lui, esco dal paese, via dalla pazza folla. Siamo scesi molto di quota, rispetto ai 500 metri circa di Murs. Quel che segue è un tratto di falsipiani che tocca gli abitati di Menerbes e Bonnieux; sulla destra vedo rilievi che hanno decisamente più l'aspetto di vere montagne, rispetto alle colline dolci attraversate finora: sono in effetti le montagne del Luberon. Siamo ormai vicinissimi al punto critico, quello in cui l'anno scorso, al Raid Provence Extreme, ho pensato bene di smarrire la diritta via. Lourmarin, Cadenet, qualche incertezza nel paese, anche stavolta; Matteo però non sbaglia: in un attimo ci troviamo di fronte al minaccioso cartello che indica la pendenza, 21%. E' ormai tardo pomeriggio, anche se non ho ben chiara la nozione del tempo, e sento molto la stanchezza, insieme alla fame di qualcosa di vero, consistente, salato. Sono preoccupata, anche se vorrei non darlo a vedere: per non preoccupare Matteo... E per riprendermi io stessa. So benissimo cos'è che mi spaventa, è proprio quello a cui ho voluto a tutti i costi andare incontro con questo viaggio: la notte. Tra poco scenderà il buio ed arriveranno quelli che io chiamo "i miei fantasmi"; arriveranno, oh se arriveranno.

Imbocchiamo la famigerata salita di La Roque d'Antheron, una stradina stretta ed un po' sconnessa, costellata di cartelli terroristici: no ai rimorchi, no alle roulottes, no a questo, no a quello... Immagino la rampa micidiale: ma ci son 4 km di salita e 200 m di dislivello; non potrà mica essere al 21% tutta quanta! Infatti l'inizio è dolce, subdolo, in mezzo ai pini, uno slalom tra le buche e le pigne. Ma c'è qualche tratto di discesa e lì la pelle mi si accappona: pessimo segno! Siccome la matematica, anche nella stanchezza, non è un'opinione, il dislivello che si perde andrà recuperato, e man mano che si va avanti la strada a disposizione s'accorcia... Quindi s'impenna! Poco dopo, infatti, ricompare minaccioso il cartello del 21%: solo che, questa volta, è al contrario! E' un cartello che indica la discesa... Evidentemente un lapsus, perché è salita, eccome se è salita. Un paio di rampe brevi ma cattivissime: m'immagino la rando, nella quale questo tratto si affronterà quasi a fine percorso, con cinquecento e rotti km nelle gambe! Che crudeltà! Butto l'occhio oltre la curva, tentando disperatamente di tenere la ruota anteriore incollata a terra; a stento, ma ce la faccio. Ancora un paio di rampe meno crudeli; passano due auto i cui motori ansimano quasi quanto me. In cima, di lì a pochissimo, trovo Matteo, entusiasta perché le coltellate nelle gambe, a suo dire, gli han fatto un gran bene: beato lui... Vorrei poter dire lo stesso, ma resto ancora con la mia preoccupazione. Un po' di chilometri fa, Matteo ha accennato alla possibilità di fermarsi a prendere una pizza in uno dei tanti furgoncini che, in questi paeselli, vendono le pizze da asporto; quell'immagine mi si è tatuata nella mente, tali sono a questo punto la stanchezza e la fame. Ma a Lambesc non vedo nulla del genere e la mia preoccupazione cresce, come la lunghezza delle ombre. Ancora una breve, blanda salita, poi l'abitato di Alleins, dove abbiamo già in programma di far la sosta per fissare le luci ed indossare l'abbigliamento da notte. E'proprio qui, quando già avevo perso le speranze, che caccio un urlo di giubilo: incredibile... Una pizzeria!!! Beh, pizzeria è una parola grossa; si tratta di un minuscolo locale, grande quanto un box, ma a noi che importa? C'è il forno, ci son le pizze, e pazienza se costano uno sproposito; in questo momento non siamo in condizione di mercanteggiare o di disquisire del carovita e dell'inflazione. Abbiamo una fame che sbraneremmo i tavoli!
I pizzaioli ci guatano con aria a metà tra diffidenza e curiosità, ma anche questo non ci tange; l'importante è che le pizze si materializzano sotto i nostri nasi nel giro di due minuti due, e in un arco di tempo appena più lungo son già fagocitate. Appollaiati sugli sgabelli, davanti ad un tavolino minuscolo, ruminanti e silenziosi, due destini randagi uniti per caso in una notte randagia di bici quasi due anni fa, ciascuno ora perso dietro ai propri timori a cui è proibito dare voce, perché altrimenti diventano veri e non bisogna che accada. L'ultimo boccone e siamo già fuori, lasciamo i pizzaioli al loro tran tran, lasciamo il caldo della fiamma del forno. Sistemare le bici, le luci, noi stessi: ormai è buio, tempo di ripartire. Ci attende un lungo trasferimento verso la zona del Mont Ventoux: da qui, infatti, il percorso ufficiale andrebbe verso Saint Remy, mentre noi aggireremo il Ventoux andando direttamente a Sault. Il che significa, da qui, una valanga di chilometri di pianura pura, in buona parte su strade con parecchio traffico. Di giorno, sarebbe una iattura, ma di notte... Di notte anche il caos delle auto in un certo senso mi tiene compagnia. La notte, la amo e la odio al tempo stesso, amo l'idea di prolungare la vita quando il resto del mondo si ferma, odio il sonno che ti avvolge la mente, la stringe, la soffoca; amo il cielo stellato, odio il cerchio di luce dei faretti che è ossessivo, quasi persecutorio, che ti costringe a guardare solo sempre lì. Ed ho difficoltà a vedere dove metto le ruote, grazie alla mia fedele compagna di vita, la miopia! Nervi tesi, pronti a reagire all'ostacolo che non riuscirò a vedere e quindi ad evitare; respiro trattenuto, lotta tra me e me per tenere a bada la paura. Matteo parte sicuro, di gran carriera. Stradone verso Cavaillon e poi Isle sur la Sorgue: c'è da dire che probabilmente siamo ben equipaggiati per il buio, perché gli automobilisti cominciano già da lontano ad alzare gli abbaglianti, rallentare, spostarsi. Qualcuno ci investe di colpi di clacson indignati: e bè, si può sapere che cavolo vuoi? Abbiamo le luci, abbiamo i rifrangenti, in certi punti tanto di pista ciclabile; forse non ti va che stiamo qui? Capisco che possa essere insolito... Ma certo non è vietato! Pernes, Mazan: in alcuni tratti, cogliamo l'occasione di spostarci su una strada parallela alla principale, meno trafficata; però non sono sicura che per me sia meglio: sullo stradone, non avevo difficoltà a seguire la linea bianca a bordo strada, mentre sulle stradine secondarie la linea bianca manca del tutto. Meno male che Matteo mi fa da navigatore; solo, devo mantenere un po' di distanza, in caso di imprevisti e relative brusche manovre.
Il buio ormai è fitto già da un po', i nervi tesi, gli occhi volti a scrutare per quanto possibile l'alone di asfalto davanti alle ruote, ad intuire buche, fessure, ostacoli che non sono affatto sicura di riuscire a prevedere. Ora più che mai dovrei procedere sulla destra, ma ho di continuo la sensazione che la ruota scivoli fuori strada e mi sposto, talvolta bruscamente, verso il centro della corsia. Chissà poi se davvero la lucina ed i rifrangenti si vedono bene, da dietro?
Il concerto delle rane nei fossi, in una bella serata tranquilla da trascorrere seduti su una panchina in campagna, sarebbe piacevole, un che di romantico, ma stanotte a me sembra solo insopportabile frastuono. Se almeno potessi togliere l'audio! E invece no, chilometri, pianura, paesi che attraversiamo sotto gli sguardi allibiti degli altri nottambuli, un po' diversi da noi ma forse altrettanto allucinati. Pause frequenti, vuoi per consultare la carta, vuoi per mangiucchiare qualcosa; continuo a seguire fedelmente il mio navigatore. A Mazan l'incubo finisce, o meglio, cambia: qui inizia la salita che ci porterà a quota 1000 m, dapprima con dieci km di pendenza blanda e poi con un po' più di serietà, così annuncia Matteo. Bene: se non altro, ora dovremmo essere fuori dal traffico. Le nuvole finalmente hanno ceduto: in cielo solo stelle, una brezza leggera. Cerco la chiacchiera perché so che il sonno tra poco piomberà su di me come un avvoltoio; già i primi sbadigli... Sbadigli e senso di testa leggera, o meglio vuota, più vuota del solito. Al paese, Villes sur Auzon, cerco un po' d'acqua: nonostante sia notte, e per tutto il giorno non abbia certo patito quel gran caldo, sto bevendo come una spugna. Trangugio una pastiglia di caffeina, una di quelle che ho raccattato nell'ultima trasferta in Svizzera; dovrebbe contenerne 200 mg, almeno così mi hanno assicurato. Spero che basti a vincere la lunghissima monotonia della notte, in cui gli occhi non vedono altro che buio tutto uguale, ma non ho molta fiducia: con le quantità industriali di caffé che sono abituata a bere ogni giorno, penso proprio che una dose di caffeina in più non mi cambierà l'esistenza. Si riparte chiacchierando, ma ben presto le voci vanno a morire. Il buio è insieme affascinante ed opprimente; man mano che saliamo, il vento a folate è più freddo, s'infila su per le maniche, nel colletto. Canticchio, conto, scavo nella memoria alla ricerca di qualche reminiscenza della scuola, qualche poesia da recitare tra me e me per tenere la testa impegnata e distrarla dalla monotonia ipnotica del buio. E' Matteo ad essere insolitamente taciturno adesso. Ha sonno anche lui e si sente: fatica ad articolare le parole, ha una voce strana, più cupa, impastata, come se venisse da qualcun altro. Bofonchia qualcosa da solo, ma stento a capire; dice, come se fosse la cosa più normale del mondo, che dta parlando da solo e quindi non ha bisogno di risposta... "Se senti un tonfo, sono io che casco per terra". Andiamo bene. Brividi, ho paura che stia male; lo vedo sfilare un po' indietro, ma resto a pochi metri, mentre comincio, anch'io, ad affrontare il sonno che fino ad ora più o meno avevo dominato. Non basta più guardarmi intorno, offrire il viso alle sferzate dell'aria fredda, contrarre uno per uno i muscoli delle braccia, delle gambe, delle mani, stropicciare e schiaffeggiare la faccia. L'unico irrefrenabile desiderio è chiudere gli occhi. Possibile che sia già, così presto, a questo punto? Eh sì, possibile, considerato che per me questa è la seconda notte insonne su tre. Rallento, viaggio a zig zag per tutta la larghezza di questa strada enorme e deserta; Matteo, che nel frattempo s'è ripreso, chiede come sto e propone una breve sosta per dormire. Ne avrei disperatamente bisogno... Ma dove? Ormai non siamo più lontani dal colle; qui non c'è alcun riparo, solo prati, qualche albero isolato; fa già molto freddo se si va avanti, figuriamoci cosa succederebbe se ci fermassimo. No, Gian, dai, un po' di sforzo, tira dritto. Tiro dritto, si fa per dire, finché non do un paio di pedalate a vuoto: un attimo di mancamento, come accade quando, a qualche noiosissimo inutile convegno, accade che la testa per un istante crolli, prima di riprendersi con un sussulto ed un po' di imbarazzo. La faccenda si fa spinosa: se m'addormento, precipito! Devo per forza fermarmi un attimo, sperando poi che la situazione migliori un po'. Matteo individua un prato a bordo strada che può fare al caso nostro: molliamo le bici, ci sdraiamo nell'erba. Piombo in un sonno profondissimo ma irregolare, un continuo passare dalla realtà di questa stramba condizione al sogno di cose e persone lontanissime, un riposo interrotto dai brividi di freddo. Di lì a poco, il rumore di un'auto che passa, si ferma, torna indietro: non capisco, sono confusa, non riesco ad articolare parola, mentre Matteo, molto più sveglio ed arzillo di me, si alza e corre verso l'abitacolo, spiegando che è tutto ok, tutto normale. Non posso nemmeno immaginare cosa passi per la testa del povero automobilista che, nel cuore della notte, a quota 1000 metri, vede due bici buttate a terra sul ciglio della strada e due ciclisti che assicurano che non c'è alcun problema, spuntando come fantasmi dal buio di un prato... Meglio filare, perché questo qui tra poco, secondo me, chiama la Gendarmerie! O forse no, gli darebbero del visionario ubriaco. Avrò tempo più tardi, con un po' di lucidità in più, a rendermi conto che s'è trattato indubbiamente di una persona molto civile ed anche coraggiosa: non so se, viaggiando in auto di notte, da sola ed in luogo deserto, vedendo qualcuno che potrebbe aver bisogno di aiuto, mi fermerei. Al massimo chiamerei appunto la Polizia! Con i tempi che corrono, mors tua, vita mea...

Faticosamente sgranchiamo le articolazioni intirizzite e ci rimettiamo in marcia, con Matteo che brontola all'indirizzo dell'importuno nottambulo. "Ma che ci fa uno quassù alle due di notte?". Buona domanda: è semplicemente inaudito! Le due di notte... Significa ancora quattro ore di buio. Come sopravviverò a quattro ore di buio? Oltre il Col des Abeilles, la discesa su Sault: è breve e facile, ma ne ho il terrore, perché la discesa è garanzia di colpi di sonno. Scendo rigida come un baccalà, molto peggio del solito, a freni tiratissimi anche su questa strada di una facilità disarmante; mi dispiace per Matteo, a cui tocca sempre fare tanto esercizio di pazienza, ma davvero perdo di continuo il contatto con la realtà e vorrei evitare, se possibile, di prendere contatto con l'asfalto. La caffeina, come previsto, non è servita a nulla. Mi riprometto di andare a caccia di tecniche per favorire la concentrazione e vincere il sonno... Però intanto, appena giunti a Sault, individuo in un distributore di benzina il luogo ideale per un altro sonnellino. Non ce la faccio proprio. Matteo, poveretto, come sempre non protesta: ci appiccichiamo l'uno all'altro per vincere il freddo pungente; ci addormentiamo all'istante, entrambi a sprazzi, perché sento io stessa, nei brevi istanti di semi-coscienza, le braccia di Matteo che si abbandonano, si allentano e poi, di colpo, tornano su, contratte. Non ho idea del tempo che passiamo in questo stato, sullo scalino, contro la serranda di un'officina; fatto sta che, di lì a poco, recupero quel poco di contatto con la realtà che basta a farmi rialzare da terra. Fa un freddo siberiano, qui si rischia una bronchite; meglio provare a muoversi, almeno per un po'. Attraversiamo Sault deserta; ho un tale bisogno di luce che anche i lampioni mi paiono le più belle e luminose stelle. Ed ho fame, ma in fondo questo adesso è secondario; speriamo che il metronotte che incontriamo alla rotonda fuori del paese non ci scambi per due malintenzionati... In fondo lo siamo, è vero, ma solo verso noi stessi!

Interminabili chilometri di saliscendi che percorro, mezza rintronata, a passo di lumaca, con il cuore ormai abbattuto dalla preoccupazione e dal malessere, dietro a Matteo decisamente più sveglio di me. Ancora vento, fruscii nel bosco, occhi gialli alla luce della frontale che per un attimo ci fissano e poi sgusciano via. Ci saranno cinghiali da queste parti? Probabilmente sì. E cani che dai giardini delle sparute case latrano all'indirizzo dei due intrusi. Passiamo Revest, giungiamo a Banon; io sto sempre peggio, ho un sonno irrefrenabile. Ci abbattiamo sulla panchina del parco; estraggo dallo zaino il Camembert: ormai le ho provate tutte, proviamo anche a mangiare. Ci dividiamo salomonicamente l'etto e mezzo, quasi, di grassissimo formaggio: roba che in qualsiasi circostanza, notte e giorno, stando un po' meglio mi avrebbe mandata in brodo di giuggiole. Ora no; mangio proprio perché ho fame, ma non gusto nulla; anzi, il pesante fardello di colesterolo resterà lì in pancia a mezz'asta, a viaggiare su e giù per un bel po'.
Vorrei approfittare di questa panchina per dormire un altro po', ma tira un vento gelido che ci investe in pieno, e poi Matteo preferisce ripartire. Ci provo, con la testa che scoppia: un altrò po' di chilometri, ma poi, proprio ora che in cielo compare un flebile alone di luce, devo mettere ancora piede a terra. Non ce la faccio, sto rischiando troppo. E' Matteo, come sempre, che prende la decisione risolutiva: adesso ci mettiamo qui, ci copriamo e dormiamo un po'. "Qui" significa un fazzoletto di prato umido sul ciglio di una curva. Abbandoniamo le bici, stendiamo i miei copripantaloni di nylon per riparare appena un pò le schiene dall'umidità dell'erba, ci tiriamo addosso il telo termico a mò di plaid e via, coma profondissimo, irreversibile. Riprendo coscienza dopo un tempo indefinito: Matteo dice che abbiamo dormito un'ora... Chissà da quanto tempo è in paziente attesa, già sveglio, poveretto. Mi rialzo con fatica sovrumana, uno sforzo di volontà per sfuggire al congelamento; le mani, rimaste senza guanti, sono gelide. In fretta e furia ripieghiamo il telo termico, ci rimettiamo in cammino; il cielo ormai è quasi chiaro, striato di lunghe nuvole blu scuro. Il sole non è ancora sorto; la temperatura è freddissima, tanto che se ne lamenta anche Matteo: se sente freddo lui, che non patisce nulla, significa che la situazione è critica davvero!

Saliscendi, uno dopo l'altro, vento freddo e niente sole; per fortuna, la luce sta già dando l'effetto che speravo. Forse anche l'ora di sonno. Fatto sta che mi sento un po' meglio, più viva, nonostante il combattimento ancora in corso con il Camembert che non vuol proprio saperne di farsi digerire. Anzi, l'aria tagliente mi è quasi d'aiuto stavolta, anche se le dita nei guanti fanno quasi male ed i polpacci scoperti sembrano tempestati di spilli. Il cielo è di un azzurro incerto, velato di nuvole; Matteo protesta, "siamo a 1000 m, quanto dobbiamo ancora salire?". I continui cambi di pendenza, su e giù, sono estenuanti, ma so che ormai non manca molto; al di là di una curva, infatti, finalmente inizia la discesa verso Banon e, da lì, ancora lunga ed irregolare, verso St Michel l'Observatoire. Abbiamo un solo desiderio in questo istante: una boulangerie. Siamo entrambi affamatissimi. E' quello che io chiamo "effetto inceneritore": dopo un buon numero di ore di fatica, non c'è più santo che tenga; si mangerebbe a ciclo continuo, qualsiasi cosa pur di riempire uno stomaco che continua a chiedere, chiedere, chiedere.
Il sole stenta ancora a farsi vedere; la discesa all'ombra taglia la faccia. Una mongolfiera, sullo sfondo del cielo alla nostra sinistra, saluta il nostro arrivo in paese. Ormai conosco a sufficienza questi posti per dirigermi, senza esitazione, a St Michel, alla panetteria in mezzo alla piazza. Meno male, anche all'alba del mattino di Pasquetta c'è qualcuno che pensa a noi!
Due minuti dopo siamo ancora sulla piazza, a sbranare due croissant per me, un pezzo di focaccia ed un tortino di mele per Matteo. Rapida sosta ai bagni: la seconda per me, da ieri mattina, la ventisettemilacinquecentoduesima per Matteo che, nonostante tutto, rifiuta l'idea di essere affetto da incontinenza... Cavoli, è peggio che accompagnare a spasso il mio cagnone, che si ferma ad irrorare ogni forma vagamente verticale, che sia un albero, una panchina od un cespuglio... Che sia una tattica del mio diabolico gregario per segnare il percorso e ritrovarlo quando, a fine maggio, saremo qui per la rando ufficiale?
Dopo St Michel, ancora una breve discesa; svolta a destra e poco oltre a sinistra, salitella verso St Martin les Eaux. Ormai è chiaro che le previsioni di Matteo erano decisamente ottimistiche: sosteneva, ieri, che saremmo tornati all'auto a Valensole per le sei e mezza del mattino, e invece le sei e mezza sono passate da un pezzo e siamo ancora ben lontani! Dobbiamo scollinare questa dolcissima salita finalmente baciata da un sole appena tiepido, scendere a Manosque, risalire a Valensole.
Dopo tanti chilometri di campagna, colline, borghi, Manosque è la città più caotica che incontriamo; enorme, sparsa nella pianura, casermoni fabbriche fumi traffico. Ci tocca superare innumerevoli semafori, porgendo alla strada ed alle auto un'attenzione che non sono sicura di poter prestare, nello stato in cui sono. Ho mangiato mezz'ora fa ed ho ancora fame... Approfitto di una pausa per svestirmi e scavare nelle tasche dello zaino a caccia di quel che resta di commestibile: due fruttini ricoperti di zucchero, meglio che niente; tra poco saremo all'auto e potremo far rifornimento.

La salita a Valensole non è lunga né difficile, ma è dritta come un fuso, su uno stradone largo; è alienante, ma se non altro qui fa caldo, almeno finché si sale. La vicinanza della salvezza ha su di me un effetto corroborante; ho ritrovato entusiasmo e forza, tanto che non m'arrabbio nemmeno sugli ultimi chilometri di falsopiano tra le file sinuose delle piante di lavanda, che spuntano da una terra secca color dell'oro. Sullo sfondo s'intravede il Ventoux, il suo cappuccio di sassi e sabbia coperto da un altro cappuccio di neve. Si pedala, si pedala senza arrivare mai; i tetti di Valensole compaiono solo quando siamo di fatto arrivati. Il paese, la piazza, il furgone, urlo liberatorio: abbiamo già macinato 390 km...

...ci resta ora la decisione cruciale: e il giro delle Gorges? Ne abbiamo già parlato parecchio, pedalando. L'idea originaria sarebbe stata ripartire da qui, dopo adeguata sosta per rifocillarsi, e proseguire verso Moustiers; però, per far questo, avremmo dovuto arrivare al furgone ad un'ora decente, appunto, l'ora prevista da Matteo. Con il ritardo di quattro ore buone che abbiamo accumulato, o meglio, che ho accumulato, ripartendo da qui rischiamo di tornare al furgone a notte fonda: e non credo proprio di essere in grado di sopportare, nelle mie condizioni, altro buio in bici. La soluzione migliore l'ha già elaborata Matteo: mangiamo, ci riposiamo un momento, ripartiamo col furgone verso Moustiers e da lì ci riserviamo, in bici, la parte migliore, il giro delle Gorges. Approvo: in realtà non sono affatto convinta di potercela fare; sono stanchissima e fiacca, ma non ammetto di rinunciare così, a priori, senza almeno aver tentato. E poi so che Matteo non approverebbe. Dai Gian, fai questo sforzo, in fondo sono ancora ottanta km, poco più.
Appoggiamo le bici e ci buttiamo all'assalto delle scorte alimentari. Il primo a cadere sotto le nostre implacabili zanne è una specie di bastone di mezzo metro di lunghezza ed otto etti di peso, una sorta di enorme plumcake sulla cui confezione è scritto "pur beurre". Matteo lo taglia a fette, spalmandoci sopra marmellata di albicocche. A ciò s'aggiungono i biscotti al cioccolato ed il pane da sbocconcellare; tutto finisce giù per l'esofago, col rumore dell'acqua che scorre via dal lavandino, dentro il tubo dello scarico. Mi sento un po' come un leone che di tanto in tanto alza la testa dalla carcassa della preda e guarda davanti a sé con le zanne grondanti sangue...

Carichiamo le bici, ripartiamo verso Moustiers. Son pochi chilometri, in cui mi addormento e mi risveglio mille volte, intontita dal viaggio e sballottata dalle curve. Anche quando gli occhi sono aperti, però, il cervello è fuori uso; vedo immagini e luoghi, ma fatico a capire dove mi trovo e perché. Sono a metà tra il sogno e la realtà, anche quando s'arriva a Moustiers, si vede il lago. Matteo parcheggia lungo la salita che da Moustiers sale verso La Palud, quindi in un punto del giro delle Gorges, ma in senso opposto a quello in cui lo andremo a percorrere tra poco, ad un chilometro circa dal bivio di fondovalle. Tempo due secondi e siamo entrambi nel più profondo del sonno.

Riemergiamo dal coma un'oretta dopo, almeno credo. Mi sveglio più per i brividi di freddo che per altro: ormai è suppergiù mezzogiorno, il sole splende, ma il corpaccione fa quello che può; è confuso pure lui, non sa più regolarsi nemmeno con la temperatura. Matteo, che è un omino pragmatico, estrae fornellino a gas, pentola e confezione di spaghetti; prima ancora che io riesca a riordinare le idee e passare perlomeno in posizione seduta, lui è già lì in quel francobollo di piazzola, intento a mescolare gli spaghetti spezzati a metà. "Ne vuoi anche tu?". No grazie... Io sono pigra, talmente pigra che non solo mi dà fastidio cucinare per me stessa, ma persino vedere che altri cucinano per me! Mi aggiro un po' intontita tra il furgone e la strada, poi, per non saper né leggere né scrivere, attacco un'altra fetta del plumcake, ormai ridotto alla metà di quel che era in origine – incredibili i fenomeni di evaporazione che si verificano da queste parti! Il giro che ci attende ora è più breve e perfettamente noto; un'ottantina di km, in luogo ormai perfettamente noto e, pare, con il favore di un bel sole caldo, anche se l'aria rimane frizzante. Sono insieme elettrizzata e preoccupata. Questo giro s'ha da fare, non c'è dubbio: i 390 km macinati finora sono tanti, ma non ancora abbastanza da cedere alla tentazione della resa. In fondo, ciò di cui io sono perennemente a caccia è il mio limite: bene, non ammetto che il limite sia questo. Adesso sono stravolta a sufficienza per fare l'esperimento: in questo stato, di sonno e stanchezza fisica, quanto posso ancora andare avanti? Mi piacerebbe far tutto il giro, compresa la splendida Route des Cretes... Matteo a quest'ultima uscita è scettico. Sì, forse ha ragione; ridimensioniamo: cominciamo a pensare al giro "tradizionale", poi, quando saremo al bivio per la Route des Cretes, ci penseremo. Allora, e solo allora.

Lascio l'accampamento qualche minuto prima di Matteo, ancora intento a raccattare il pentolame. Un chilometro di discesa, più o meno, e sono alla rotonda che, svoltando a sinistra, conduce verso lo splendido Lac de Sainte Croix. Motociclisti a profusione, auto, turisti, traffico; le rive del lago sembrano tante piccole Rimini, formicolio di bagnanti ancora un po' dubbiosi, professionisti delle mascelle, marmocchi urlanti. Provo a girar le gambe ed è un dramma: mi sento completamente vuota, senza forze, le gambe irrigidite, come gonfie, costrette nei pantaloni ¾; il cuore che non si sente più, chissà se batte ancora o se sono già defunta. No, defunta no; non credo che nell'aldilà si senta profumo di braciole. Qualche chilometro di falsopiano e discesa, in cui mi sforzo con tutta me stessa di costringermi alla calma: non devo cedere allo sconforto; in fondo è normale che mi senta disfatta, sono appena ripartita; non appena i muscoli si saranno un po' scaldati, andrà meglio. L'importante è andar piano, risparmiare. E non è che possa far molto di più: mi manca il fiato... Ciclisti mi sorpassano di gran carriera, ma non me ne preoccupo; per me conta solo l'arrivo del bivio. Aiguines: finalmente inizia la salita. Blanda ma costante, cinque o sei km fino al paese, qualche tornante, la vista sul lago giù in basso, enorme, e su quattro enormi tralicci, altissimi sia rispetto agli altri vicini che ad alcuni edifici già dall'aspetto molto alto; saranno antenne, chissà, e chissà come fanno a restare in piedi, con quell'unica dimensione verticale tanto esagerata. Non so cosa siano, andrò a documentarmi, intanto mi alzo sui pedali, rilancio un po', soprattutto concedo sollievo al soprasella che, poverello, non si lamenta mai ma soffre! Devo avere davvero un aspetto tremendo... Però, curva dopo curva, continuo a salire. Di lì a poco, ecco Matteo; mi affianca, si ferma, con nonchalance allunga e mi riprende; beato lui che ha ancora tutte queste energie! Io conto i chilometri ad Aiguines, alla fontana, al pieno della borraccia: ora che fa così caldo, bere diventa indispensabile anche per me. Breve tappa all'idrante, poi via di qui: bel paesino, niente da dire, ma c'è troppa umanità. Adesso sì che si sale sul serio: ci arrampichiamo lungo la parete delle Gorges, la Corniche Sublime, noi con le ruote ed i pedali, laddove tanti appassionati si arrampicano sul serio. Tanti altri, meno temerari, si limitano ad affacciarsi ai parapetti e scattare foto; anche quella, però, è già una mossa troppo audace per i miei gusti. Mi accontento di guardare quel che si può vedere restando saldamente abbarbicati sull'asfalto, dal lato della parete per giunta; da qui posso solo intravedere, di tanto in tanto, il nastro azzurro verde del fiume, laggiù in fondo, anni luce là in fondo. Avevo ragione, la salita ha fatto bene alle gambe, che ora, seppure stanche, girano meglio. Anche il morale risente dei tiepidi raggi del sole: si chiacchiera volentieri, si spettegola, si misura di tanto in tanto, ad occhio, il tonnellaggio presunto di certe turiste non proprio filiformi.
La discesa dal primo colle – qui ci son diecimila colli, ogni dosso diventa un colle con tanto di nome e targhetta – è lunga e tormentosa, anche se per fortuna la luce intensa tiene lontano, per ora, il sonno. Strada stretta ed un certo traffico di turisti, per quanto insolitamente pazienti, mi costringono a scendere a freni tirati e nervi tesi. Dalla fine della discesa in poi, la pendenza si invertirà infinite volte; brevi tratti di salita, discese altrettanto corte, poi ancora saliscendi, roba da giocarsi i garretti. Ancora fame, nonostante la quantità vergognosa di roba che ho già ingurgitato: sono davvero un inceneritore, e di quelli ben poco efficienti anche! Hai voglia a tamponare con i fruttini...
In cielo si rincorrono le nuvole; chissà che il tempo non voglia guastarsi. Seguo con gli occhi, con un po' di preoccupazione, la linea della strada che sembra salire tantissimo; in realtà è solo l'effetto della mia ansia, perché poco dopo ci passo e mi rendo conto che in fondo non è nulla di terribile. Superiamo lo splendido Pont de l'Artuby, che per me significa il giro di boa anche se non so se siamo esattamente a metà, prima o dopo il giro; poi, ancora salita blanda in mezzo al verde – qui ci siamo un po' allontanati dal vero e proprio canyon del Verdon, ci sono prati ed animali al pascolo.
Discesa sull'abitato di Trigance, un altro piccolo gioiello a cui la strada passa accanto, uno di quei luoghi sospesi in un tempo indefinito ma certo passato, ed un ponticello strettissimo ci immette sulla strada verso il Pont de Soleils. Ancora falsipiani che percorro ormai a velocità da lumaca: non capisco se sia la testa, che non ce la fa più, o le gambe... Sto litigando già da un po' con un dolore forte ai piedi, la parte proprio sotto le dita, quella su cui il piede appoggia per la spinta della pedalata; ogni colpo di pedale diventa un supplizio, non c'è verso di spostare il punto di applicazione della forza. Sento le piante dei piedi doloranti e gonfie. Mi succede, di tanto in tanto; forse dovrei provare a togliere le scarpe qualche minuto. Ma, per ora, decido di procedere. Al Pont des Soleils, altra svolta a sinistra per una splendida strada con pareti a picco e strapiombanti, che corre per un tratto lungo il Verdon: in quell'acqua che immagino gelida vorrei tanto immergere i piedi.
Sogno la Coca Cola: ho proposto di comprarla sulla via del ritorno in auto; Matteo ha rilanciato: "Potremmo prenderla a La Palud". Da quel momento, La Palud è la mia prossima, agognatissima meta. Non capisco, davvero, se questo stato di sfinimento in cui sono piombata sia davvero una questione di stanchezza, o non piuttosto di "stufezza", che è diverso; insomma, non capisco se siano le gambe a chiedere pietà o la testa a dire basta. Il guaio è che, come fa giustamente notare Matteo, se ci toccasse una salita vera, lunga, soffriremmo magari il primo chilometro, in cui i muscoli spossati si adattano allo sforzo, ma poi prenderemmo il nostro passo e via; invece, qui, la pendenza cambia di continuo, con quelle salite brevi e blande che, anziché essere d'aiuto, fiaccano l'animo. E, se fin qui ho tenuto i neuroni più o meno a posto, per quanto possa riuscirci io che non sono un esempio di autocontrollo, ora mi accorgo che non ce la faccio più e che proprio non ne posso più. E pure l'inossidabile Matteo dà segni di insofferenza: non glielo dico, ma non ha idea di quanto ciò mi consoli. Se è stufo lui, vuol dire che ce n'è proprio motivo. E allora noi, proprio noi salitomani incalliti, ci ritroviamo ad ululare alla luna anche se è tardo pomeriggio e splende ancora il sole, solo un po' velato e meno caldo di prima. Un po' mi sento vigliacca ed "incompleta" a rinunciare alla Route des Cretes, salita davvero tosta, di tutto rispetto. Certo, se deviassimo per le Cretes, ritarderemmo di molto il rientro all'auto e di conseguenza a casa, e poi nel giro delle Gorges non abbiamo portato le luci; sono scuse più che valide, ma non tacitano la mia coscienza ciclistica. Ce la farei ancora a salire lassù? Passiamo davanti al bivio, tiriamo dritto. Ma no Gian, non stasera. Come, non stasera? E quando sarà il giorno del Raid, quello vero, come farai, se adesso non ti senti di andar su? Sì, è vero, ma al Raid non avrò due notti insonni e sessanta km a piedi alle spalle. Tra questi ed altri pensieri contorti, ancora qualche centinaio di metri di lamentosissima salita e siamo a La Palud. Coca? Meglio... Incredibile dictu, c'è ancora un supermercatino aperto!!! Allora sì, Coca, ma una bottiglia intera, e qualche provvista per il viaggio di ritorno: l'immancabile carburante delle nostre rando, il Camembert! Acquistato, come sempre, dopo oculata scelta della confezione su cui è indicata la massa grassa più alta. Mamma mia, mi vengono i brividi; in questi due giorni mi sono nutrita di pane, Camembert, cioccolato, biscotti, pizze, croissants, barrette, gelatine di frutta. Chissà cosa ne direbbe un medico sportivo?
Appena usciti, sulla soglia, la ferale notizia: ancora 100 m di dislivello. Come, ancora 100 m? No, basta, non se ne può più, basta!!! Intono il lamento del pastore tibetano, come Zio Paperone ogni volta che trova il deposito vuoto; un po' per scherzo, un po' per drammatica realtà... Sguardo implorante, pieno di speranza oltre ogni curva, desiderio di veder spuntare il colle, anche se chiamare quello "colle", e questa "salita", è quasi un insulto ai colli ed alle salite. Non è la strada che pende, sono io che non vado più avanti. Il rifiuto ormai è assoluto, radicale. Eccolo, il cartello, Col d'Ayens: ti odio, Col d'Ayens, sei il colle più brutto ed inutile che abbia mai valicato!
Matteo inizia la discesa con me, poi s'avvantaggia un po', per arrivare prima al furgone ed iniziare i preparativi per la partenza. E' solo la seconda volta che s'allontana per andare un po' più forte: la prima è stata, per necessità, la rampa di La Roque d'Antheron, ma solo perché, procedendo alla mia velocità, lì si sarebbe coricato su un fianco. Questione di fisica. Lo guardo allontanarsi e penso che questa ennesima splendida avventura è un'altra di quelle che devo a lui, non solo alla sua presenza ma alla pazienza che ha avuto nell'essermi sempre vicino. Ed all'effetto calmante che riesce a produrre, credo unico essere umano al mondo, sul mio carattere a dir poco esagitato. Sì, credo sia l'unica persona che, di fronte ad un problema per cui io sono sul punto di perdere il lume della ragione, sappia darmi un consiglio o indurmi ad una scelta senza provocare la mia reazione distruttiva cosmica.
Una dozzina di km di discesa, interrotti da un lungo falsopiano in salita che non ho più nemmeno la forza di insultare; ormai potrei affrontare passivamente qualsiasi prova... Sono al di là del bene e del male.
Arrivo al furgone che Matteo s'è già bell'e sistemato e lavato con doccia di fortuna "alla bottiglia": questo per dare l'idea di quanto ritardo riesco ad accumulare in una discesa da poco più di dieci km... A mia parziale discolpa, però, c'è da dire che ho abbandonato qualsiasi velleità, spento la luce, lasciato fare alla forza di gravità. Smonto di bici, definitivamente per oggi: alle spalle, da ieri mattina, 475 km e poco più di 7.000 m di dislivello in salita. Come sono freddi, i numeri. Non rivelano nulla di ciò che abbiamo vissuto. Nemmeno le mie ossa, del resto, lo rivelano, non ora. La soddisfazione è il più potente degli anestetici. Mi sistemo anch'io, alla bell'e meglio, giusto per assumere un minimo di aspetto civile, o forse per ritardare ancora un poco l'inevitabile momento della partenza.
Ritroverò la Opel, a Savona, dopo innumerevoli ore di viaggio e di pause, merito di uno stoico Matteo che davvero non so come faccia a restare sveglio. Vorrei fargli compagnia nella trasferta, ma non riesco, io, ad evitare di cadere addormentata di continuo, svegliarmi di soprassalto, guardarmi intorno, spiccicare due parole, riaddormentarmi. Se non altro, questa minima scorta di riposo mi permette poi di portare l'Opelona a casa, sana e salva, con l'intermezzo di un doppio caffé. Alle cinque a casa, due ore di nanna e poi... Via in ufficio!

mercoledì 8 aprile 2009

4 aprile 2009 - Da Savona ad Avegno

Chi ben comincia è a metà dell'opera: posso dire di essere a buon punto, allora. Son quasi al casello dell'autostrada ed ho un lampo: patente e bancomat... Sono rimasti a casa! Uno, due, tre, quattro, dieci, cento, calma Gian, calma. Un lungo respiro profondo, non è il caso di inalberarsi per non dire incaxxarsi furiosamente; fai inversione, possibilmente non il testacoda con freno a mano tirato, torna a casa, prendi quel che devi. Ritenta, sarai più fortunata: ce l'ho quasi fatta, ma quando, un'altra volta al casello, vedo che il cielo già comincia a farsi chiaro, comincio a schiumare di rabbia. Non è possibile puntare la sveglia alle quattro e mezza e non riuscire a mettersi in strada prima delle sei passate! Oggi mi attende un giro lungo, su strada sconosciuta, ed io qui a perdere tempo prezioso nel più stupido dei modi possibili! E' quel che succede se si prepara il bagaglio da viaggio alle undici di sera prima della partenza, ogni volta me lo ripeto ed ogni volta mi frego con le mie stesse mani. Speriamo almeno di non aver dimenticato altro di fondamentale. Saranno le quattro ore scarse di sonno, sarà che ieri ho combattuto un'eroica ma vana battaglia per sistemare le ruote della Ridley che alla fine ha avuto la meglio ed è rimasta a casa... Ma oggi parto con l'inquietudine, quel senso di imminente disastro che non se ne va nemmeno con la musica del lettore Mp3, nemmeno con le prime luci dell'alba. Pazzesco, come sia possibile suggestionarsi così, senza alcuna precisa ragione; fatto sta che a Savona, quando metto giù le gambe dall'auto, sento i muscoli tesi ed inchiodati come se ci avessi appena pedalato il Mortirolo. Davvero, cominciamo bene...

Scarico la bici, do un minimo di senso logico all'organizzazione del bagaglio e parto, via, all'avventura. Primo obiettivo, Monte Beigua. Son le otto meno un quarto, ma a Savona il traffico è già caotico. Ed io già insofferente; questa volta il cielo azzurro non basta a farmi coraggio. Parto con l'ansia che stia per capitare qualcosa di spiacevole: è l'atteggiamento migliore per favorirle, le disgrazie... Infatti, supero indenne la prima serie di semafori, supero la fortezza, son quasi fuori... E, per scansare una buca, eccomi sul marciapiede, ben lanciata. Probabilmente due soli secondi, ma mi son sembrati un'eternità: tempo di realizzare d'essere sulla rampetta, poi sul marciapiede, e capire che di lì a pochissimo avrei fatto il volo. Mi irrigidisco sul manubrio, tento di dare una parvenza di direzione alla bici: salto giù, sono ancora in piedi. Con il cuore che schizza fuori dalle orecchie, ma in piedi e integra. Anche la bici. Roba da matti... A questo punto è d'obbligo che io stessa mi prenda a ceffoni: se fossi sola, lo farei davvero... Ma, per evitare l'immediato intervento del pronto soccorso di qualche clinica psichiatrica, mi limito a percuotermi selvaggiamente col pensiero. Insomma: o ti dai una calmata, Gian, o tu da qui oggi non esci viva, chiaro? In bici come in tutto il resto della mia vita, ancora una volta la minaccia più grave per la mia integrità fisica sono io stessa medesima! Devo togliermi da questo caos. Anche se c'è il mare, non l'ho ancora nemmeno guardato. Ad Albisola, superato il viale che pare una giostra delle montagne russe, tanti sono i rattoppi sull'asfalto ed i rattoppi dei rattoppi, svolto a sinistra e prendo la via per Ellera. Via dalla pazza folla, salita dolce ed ideale per scaldare le gambe. Supero un ciclista con la mountain bike, mi risupera lui dopo qualche chilometro; resta lì poco avanti, come se volesse attaccar bottone... Mi rendo conto d'essere davvero scorbutica, ma proprio non sono in vena di chiacchierare. Su un muraglione a lato strada, una scritta a caratteri cubitali: "CICLISTI LA MATTINA SILENZIO", mi vien voglia di mettermi a cantare a squarciagola "O sole mio"!
La salita per fortuna fa il suo dovere; quando arrivo a Stella, son già un po' più tranquilla. Qui dove vado? A sinistra no, si va ad Acqui Terme. A destra nemmeno, si torna al mare. Resta una stradina minima davanti a me: manco a dirlo, la provo. Mi sembra che vada nella giusta direzione: se così non fosse, beh, vorrà dire che oggi mi dedico all'esplorazione. La stradina s'infila sotto un arco, passa in mezzo alle case e poi si apre con una bella vista sulla vallata, soprattutto con un buon numero di rampe mica da ridere: arranco... Ma mi consolo scaricando tutta la colpa sui chili di zaino che ho sulla schiena! Rampa dopo rampa, raggiungo un altro paesello; dalla stele a memoria dei caduti, in mezzo ad un giardinetto, leggo che si tratta di Stella San Martino. E questo è un luogo familiare: da qui passa il trail dei Tre Comuni! E' il luogo, se non ricordo male, del primo ristoro. Da qui mi sembra di ricordare un piccolissimo bivio: nel dubbio, però, interpello, dopo attenta analisi fisiognomica, un giovanotto che porta a spasso un meraviglioso cagnone, un Golden Retriever. Un amante dei cani deve per forza essere una brava persona! Mi conferma il bivio per Alpicella. Stradina minima e non troppo in salute: buche e sassi non mancano nemmeno qui, però c'è il sole che promette una tiepida salita al Beigua. E i fiori, finalmente!
Ad Alpicella inizia la vera salita, indicata da un certello su cui la scritta "Beigua" si intuisce solo più se sai che lì devi proprio leggere quel nome. Quota 1300 quasi; se non ricordo male sono una decina di km, poco più, poco meno. E' ora di innestare la marcia ridotta: le prime rampe son le più cattive; la ricordo metro per metro, ormai, questa salita.
Mi volto appena, vedo un'ombra bianca alle mie spalle: toh, un collega quassù... Merce rara! Continuo del mio passo, attendendo lo spostamento d'aria del suo sorpasso; macché: il ciclista mi affianca, rallenta, fatica un po' anche lui; mi incoraggia, ma io son qui tranquillissima... Mi infastidisce un po' solo lo slalom tra le buche e le crepe: la strada è in condizioni davvero pessime; spesso l'asfalto manca, spesso è spaccato, pericoloso se c'infili le ruote. E ci sono sassi e pietruzze d'ogni dimensione; spero solo che i copertoncini tengano. Si chiacchiera, salendo, del più e del meno; il collega di Voltri mi racconta la sua vita di ciclista da appena un anno, cominciata per perdere peso e continuata perché la malattia ti prende... Non posso che apprezzare; uno dei pochi che abbandona il terreno facile dell'Aurelia e si spinge fin quassù. Come mai sei da sola? Ma con la mia bici non sono mai sola, ho la migliore compagnia che potrei desiderare! E come mai sei qui? Domani ho la GF di Camogli, ma soprattutto stasera sarò a spasso con un amico; viaggio col bagaglio, tornerò a Savona domani. Quanti chilometri? Boh, tanti, ma non troppi... Le rampe lasciano spazio a tratti di salita più dolce, con l'asfalto che però peggiora man mano che si sale; il sole c'è ancora, caldo, ma il mare non si vede, non si vedrà nemmeno dalla vetta; c'è foschia. Qualche batuffolo di nuvola si sfilaccia già da dietro le montagne. Il ciclista un po' allunga, un po' rallenta: gli raccomando di fare il suo passo, tranquillo, ma mi guardo bene dall'andargli dietro. La mia strada è ancora lunga oggi!
Al Beigua, sotto le antenne, non mi fermo: troppo presto per perdere tempo. Non so quanti chilometri e quanta salita ho davanti; meglio non indugiare; se poi mi renderò conto di avere margine, me la prenderò comoda più avanti.
Il collega di salita era partito con l'intenzione di salire al Beigua e tornare giù per la stessa strada, ma ora tentenna; vorrebbe aggregarsi ancora per un tratto, rientrando poi a Genova via Faiallo. Detto, fatto, ci lanciamo, si fa per dire, in discesa. Tocca superare un tratto di diversi metri senza asfalto, e poi affrontare chilometri di strada in condizioni a dire poco ignobili, un disastro di mulattiera che chissà quando ha avuto il privilegio dell'ultima asfaltatura. Tortuosa e pericolosa, il peggio del peggio: a scendere a Piampaludo impiego, anzi impieghiamo, due secoli di salti, botte, scivolate ed abbattimento di santi dal calendario. Non passerò più di qua finché non avrò la matematica certezza che la strada sia stata risistemata! Adesso mi spiego perché, sulle carte, questo tratto non è segnato tra le vie asfaltate... E dire che ci son già passata, l'anno scorso, ma adesso è peggio. Ci mancano poi anche le auto, mannaggia a loro, come se già non fosse abbastanza difficile così! Almeno la temperatura, però, è piacevole; mi è bastato chiudere la cerniera del gilet.

Dopo Piampaludo, la situazione della strada non migliora di molto. Il collega poi si congeda ad Urbe: ha intenzione di tornare a casa. Non ho idea di dove vada a passare, ma credo che lo sappia lui meglio di me, anche se mi ha detto di non essere mai stato in questa zona in bici. Grazie della compagnia, alla prossima!

Procedo tra i paesi, Urbe, Tiglieto, un po' di salita ma poca roba, poi Rossiglione ed una strada noiosa e trafficatissima. Il sole si vede sempre meno, ma il caldo qui è quasi opprimente, vuoi per la pendenza in leggerissima salita, vuoi per il traffico e la strada dritta. Sento vicini i primi segni della cotta: ho fame, ma non ho voglia di toccare le mie scorte alimentari; non ho voglia di roba dolce da mangiare, al contrario avrei voglia di Coca Cola, disperatamente, ed invece ho solo acqua. Anzi, a dirla tutta, in questo momento non ho più nulla, borraccia vuota. Potrei concedermi una sosta presso qualche negozietto, ma devo sbrigarmi: il campanile che ho appena visto segna mezzogiorno e venti... Il solito dilemma: fermarmi e perder tempo che potrebbe essere prezioso, ma risolvere la cotta, oppure tentare di tirare comunque dritto, a rischio di crollo psicologico ed anche fisico?
A Campoligure taglio corto: entro in paese, mi fermo accanto ad un discount, entro. Il fiuto mi guida prima di tutto allo scaffale delle bibite: la Coca in versione piccola non c'è, ma due bottigliette di Pepsi andranno benissimo. Purtroppo non c'è più pane, né focacce: il mio sguardo per un attimo si ipnotizza su un tubetto di maionese... Poi lascio perdere, ripiego su un piccolo yogurt; mi metto in coda alle casse e pochi minuti dopo sono attaccata al collo di una delle due bottigliette di Pepsi, con indescrivibile goduria. L'altra finisce nello zaino, già mastodontico. Ingollo anche lo yogurt a mò di struzzo e poi via in salita, destinazione Capanne di Marcarolo. Si dice che io sia già stata qui... Non mi ricordo nulla di nulla. Però apprezzo le belle rampe secche iniziali e l'ambiente quasi lugubre, secco, di un solo colore dominante, il grigio; oltre le poche case, solo colline coperte di alberi apparentemente morti, come capelli rizzati in testa da una scarica elettrica, sagome di fantasmi. Forse è il colore del cielo, ormai livido, che fa questo effetto. Chissà quando inizierà a piovere? Speriamo che mi risparmi ancora la prossima discesa, che non so come sia ma deve esserci per forza.
Superata la località Capanne ed oltrepassato un bivio girando a sinistra, sono un po' in dubbio: a naso e guardando la carta, direi che sono sulla strada giusta, ma i cartelli stradali non indicano Voltaggio nemmeno a pagarlo, né Busalla. Procedo un po', finché, nei pressi del Santuario della Benedicta, incontro un curioso personaggio, già avanti con gli anni, in sella ad un'impossibile Graziellona con una stazza da petroliera: come abbia fatto ad arrivare fin qui, costui, con cotanto mezzo, è un mistero! Chiedo se sono sulla strada giusta per Voltaggio: il gentilissimo ciclista estrae da un borsello di cuoio, che porta a tracolla, un ettaro di carta geografica, credo in scala 1:1, da cui, con immensa fatica, riusciamo ad intuire che sì, devo andar di qua. "Dovrebbe essere tutta discesa", mi rassicura: quando sento proferire queste parole, mi si accappona la pelle... Infatti non è discesa per niente. Ringrazio, saluto, procedo. In realtà non c'è più molto da salire, ma c'è da guardarsi intorno e restare a bocca aperta. La strada scende fino al guado di un torrente e poi risale lungo il costone di questa valle sempre più spettrale, grigia, come appena uscita da un immenso incendio; il cielo è grigio come la montagna; tira un venticello sottile che mette i brividi... E non si vede un'anima, nulla di nulla, nessuna forma di vita animale. Guardo giù, alla mia sinistra; questo luogo potrebbe essere il fratello minore, appena un po' meno aspro e spigoloso, del Vallone dell'Orrido di Elva, con il corso d'acqua laggiù in fondo ed attorno solitudine. Una situazione che insieme mi affascina e quasi mi fa un po' paura, proprio per la suggestione del luogo inospitale.

La strada si biforca poi ad un bivio, dove finalmente ritrovo i colori: il verde dei prati, qualche fiore. Ecco, non capivo cosa mancasse poco fa, ma lo capisco ora; mancavano proprio i colori! Ma c'è anche qualcosa di troppo: una transenna in mezzo alla mia strada, un cartello che avvisa della chiusura di un ponte pericolante ed invita a cercare strade alternative. Strade alternative? Consulto la mia cartina: già, ma le strade alternative mi fanno allungare il giro almeno di venti chilometri, se non di più; a che ora ci arrivo, ad Avegno? A notte fonda! No, non ha senso... Ci penso un po', poi decido per l'opzione audace. Supero la transenna, scendo giù lungo una strada dolce in mezzo ad alberi e cascine, finché arrivo al ponte incriminato. Beh, non mi pare così malvagia la situazione. I due lati del ponte sembrano in effetti non godere di ottima salute, visto che i parapetti stanno per finire giù; però la striscia centrale mi sembra solida e, comunque, sotto il ponte ci sarà al massimo un metro e mezzo di volo, e l'acqua non è più alta di quella di una pozza. Via Gian, bando ai tentennamenti. Passo sul ponte, sollevo la bici oltre lo sbarramento di blocchidi cemento e tubi d'acciaio, passo anch'io, con qualche contorsione di troppo. Nell'attimo del mio atletico salto, colpisco la bici che perde il suo precario appiglio e per un attimo non finisce giù nel torrente... Via di qua, il piùin fretta possibile!

Gli ostacoli però non sono finiti; dopo nemmeno un chilometro, trovo la strada sbarrata da una grossa catasta di tronchi. Mi tocca aspettare pazientemente che il macchinario tipo gru finisca di spostarli tutti... E spiegare ad un ostinato motociclista in sella ad una Harley che sì, io ho passato il ponte, ma non so quanto sia comodo sollevare tot quintali di moto oltre la barriera. Faccia un po' lei!
Poco prima di Voltaggio, le prime gocce. In paese, supero un passaggio che è un vero e proprio guado, con tanto di cartelli che vietano il transito in caso di acqua alta, manco fossimo a Venezia; poi svolto a destra, verso Busalla. Dietro di me, distanti ma non troppo per impedirmi di sentirne le voci, arrivano tre ciclisti, che restano più o meno defilati anche quando la strada comincia appena a salire. Per un pelo mi ricordo di girare a sinistra al primo bivio: meno male che "Busalla" lì è scritto a caratteri cubitali! Svolto, inizio la salita, abbastanza blanda; i colleghi occasionali seguono, ma sempre a distanza. Mi alzo un paio di volte sui pedali, più che altro per dare sollievo al soprasella martoriato dal mio dolce peso e da quello altrettanto delicato dello zaino; cerco di mantenere un minimo di ritmo decente e mi accorgo che le voci dietro si affievoliscono fino a sparire. Li avrò staccati, oppure sono in stato di asfissia? Chissà, io come sempre non mi giro e tiro avanti, superando di buona lena anche qualche rampetta. Solo quando, verso la cima che non so esattamente dove sia, la strada spiana, rallento un po' lo sforzo, per evitare di cuocermi; uno degli inseguitori si affianca, mi fa i complimenti: "Mi hai fatto morire per riprenderti... Con la differenza che tu hai il carico, io no!". Beh insomma, son soddisfazioni!

Ora piove, senza dubbio. Già il colore livido delle nubi non lasciava molto spazio alla speranza. Piove sul serio: mi fermo ad indossare la giacca impermeabile; i tre ciclisti mi superano e, in discesa, mi seminano senza la benché minima difficoltà. Io vedo l'asfalto appena bagnato e già mi terrorizzo, anche se, per ora, non c'è proprio nulla da temere. Pigra discesa su Busalla, un tratto in centro del paese, sullo stradone, e poi svolta a sinistra. Ho in mente la sequenza dei paesi che devo inseguire: mi sa che, di qui in poi, mi toccherà solo più un interminabile, noiosissimo trasferimento, senza grandi salite. Ma in fondo va benissimo così, visto che ora la pioggia è abbondante: non ci terrei proprio a buttarmi in qualche discesa.
Supero il casello dell'autostrada e leggo il nome di Montoggio: ok, è la direzione giusta. La carta indica una strada abbastanza grossa; speriamo non sia troppo trafficata e nemmeno troppo piatta! Saranno più o meno le tre; chissà quanta strada ho ancora davanti? E se ci saranno ancora salite? Sì, qualcosa dovrebbe ancora esserci.
I paesi indicati sulla mappa si susseguono più in fretta di quanto pensassi: è evidente che non ho un buon senso delle proporzioni. Piove forte e tocca far bene attenzione alle buche. Ogni tanto incrocio un camion che mi avvolge nella nuvola d'acqua sollevata dalle sue ruote... Se non altro, non fa freddo. Dopo Montoggio, la strada tende a salire un po', infilandosi in una valle dall'aspetto decisamente più montano. Non devo andare a Torriglia, eppure ad un certo punto leggo questo nome sul cartello marrone, di quelli che indicano, credo, il territorio. Possibile che abbia imboccato la strada sbagliata? Consultare la carta sotto il diluvio non è semplice. Ormai i miei fogli stampati con tanto amore da Googlemaps sono quasi ridotti ad un'informe poltiglia. Torno indietro all'ultimo cartello chilometrico, per fortuna molto vicino: SP226, è la mia. Ora basta con i dubbi, tiriamo avanti e qualche santo sarà.

Infatti, di lì a poco, la strada improvvisamente diventa enorme; compaiono le indicazioni per le autostrade. E la pioggia si fa sempre più battente. Spero solo di essere abbastanza visibile per chi passa in auto...
Vedo davanti a me una galleria. Ah ecco: Matteo mi aveva raccomandato di evitare la strada con le gallerie, tenendomi sulla vecchia strada che attraversa i paesi. Ma a me, chi me lo fa fare? Almeno avrò un chilometro di viaggio all'asciutto... Mi butto al riparo; non ho visto divieti di passaggio alle bici, ma ho il sospetto di essere completamente fuorilegge. Pazienza: dopo l'esperienza del passaggio in bici nelle gallerie della strada tra Moneglia e Sestri Levante, mi sento pronta a tutto... Qui, almeno, se incrocio un bus non rischio di restare spiaccicata contro la parete!

All'uscita della galleria, mi accorgo che ce ne sono altre: ma stavolta forse è meglio se svolto a sinistra, direzione Ferriere com'è indicato sui cartelli. Ci ho messo un po' a capire che le due strade, quella delle gallerie e quella esterna, andranno a ricongiungersi nello stesso posto; è sorprendente come io riesca a non vedere cose che in realtà sono palesi! E' tutto il giorno che scruto la carta e me ne sono accorta solo ora...
La discesa, circa nove chilometri, mi fa un po' soffrire; per fortuna la pioggia è meno intensa, ma il freddo ora si sente, irrigidisce le mani e le dita, mette i brividi. E la fame... Il pancino chiama, già da un po', ma non ho voglia di fermarmi e rovistare nello zaino con tutta quest'acqua che mi si sta rovesciando addosso. Già ho il mio bel da fare a mantenere la bici in strada, con la sensazione che debba scivolare da un attimo all'altro. Ferriere arriva dopo un'eternità; poco dopo il paese, ecco sulla destra una bella rampa, verso Lumarzo. Meno male: la salita mi aiuterà a scaldarmi un po'. Sembra persino che la pioggia voglia concedermi un po' di pietà: non è che stia cessando, ma s'è un po' placata...

Approfitto della serranda di un garage sollevata, per rimediare un tetto sulla testa e mangiare un boccone. E' troppo tempo che sto tirando la corda. Un anziano, affacciato alla finestra di una casetta in pietra, mi osserva perplesso. Poi mi riavvio, ancora in salita: pur nella foschia e con la poca luce del pomeriggio umido, posso seguire con lo sguardo la strada che fa un ampio giro a semicerchio seguendo la montagna e va a finire, sulla mia sinistra, a quello che pare un colle, dopo aver passato gli abitati di Lumarzo e di Pannesi. Bella salita, molto dolce, quasi rilassante. Poi la lunga discesa verso il mare, graziata dalla pioggia che è quasi cessata. Nei pressi di Uscio noto che sono già stati piazzati i cartelli che indicano il percorso della gara di domani: pochi km all'arrivo... Anche per me, oggi. Avegno: a questo punto, secondo le istruzioni, devo scendere ancora un paio di km e svoltare quindi a destra per la frazione di Testana. Ma, conoscendomi, chiedo informazioni... E guai a chi dice che i Liguri sono scorbutici; questi due signori sono gentilissimi e mi spediscono diretta verso il bed&breakfast. Ancora un paio di rampe in salita e trovo l'indicazione: si tratta di salire su per una lunga scalinata. Ma no, mi dico: questo sarà l'ingresso pedonale, ma, se vado ancora un po' avanti, troverò senz'altro un tornante che mi porta ad un qualche ingresso per le auto, più su... La mia certezza vacilla dopo un altro km di salita senza alcun tornante; niente da fare, devo proprio rassegnarmi a portar su la bici a spalle lungo la scalinata: il che non sarebbe nulla di tragico, se solo non avessi le scarpe da bici, quindi gli scivolosissimi tacchetti!

Miracolosamente indenne, arrivo all'ingresso della casa attraverso una meravigliosa volta di glicini in fiore; finalmente la doccia calda, la stanza tutta per me... Asciutta! Giornata conclusa con 165 km e poco meno di 3.500 m di dislivello. Tra un po' arriverà Matteo, si tornerà fuori a spasso sotto la pioggia, ma almeno a piedi non dovrò temere le discese!

giovedì 2 aprile 2009

2 aprile 09 - Cronaca di un pomeriggio di ordinaria follia!

Già da qualche giorno sapevo che stasera, alle sei, avrei dovuto essere a Savigliano, presso la palestra di un amico, per fare una prova che ha a che vedere con il programma di preparazione ciclistica che sto seguendo. E già da qualche giorno piove a dirotto. Cielo grigio, cupo, gonfio d'acqua anche nei rari momenti in cui dall'alto non casca nulla; umido che ti entra nel naso, nelle ossa, negli abiti, nell'umore, che tende anch'esso alle tinte fosche della luce. Par d'essere precipitati in una triste settimana di novembre, non fosse per la temperatura, un po' più alta, anche se io non ci credo poi molto.
Però io voglio andarci in bici. In fondo, che sarà mai? E' un po' d'acqua. Anzi, questa è un'ottima occasione per costringersi fuori e fare un po' di allenamento, non al pedale, che non ne ho bisogno direi, ma al disagio, al freddo, all'umido, agli occhiali bagnati che non ti lasciano vedere dove vai. In fondo sono venticinque chilometri ad andare, altrettanti a tornare; una prova di coraggio, sì, ma con tutte le attenuanti del caso, in pianura, su strada statale, facile facile.
Intorno a mezzogiorno, sembra quasi che Giove Pluvio voglia concedere una tregua. La luce che filtra dalla finestra dell'ufficio è un po' più chiara; pare addirittura di scorgere qualche chiazza di azzurro. Toh, stiamo a vedere che stasera riesco anche a mettermi in marcia all'asciutto: sì, perché va bene la prova da duri... Ma se posso scamparla, è pur sempre meglio! Purtroppo l'ottimismo però ha vita breve; le nuvole tornano a chiudersi, anzi, si tingono di un grigio sempre più scuro e minaccioso, di quelli da temporale estivo, da rovescio rabbioso, vento che ti ribalta per terra. Ed anche questo è un falso allarme; alla fine, tutto quel che succede è che ricomincia a piovere, pioggia battente, pesante, ma semplice pioggia.

Alle cinque meno dieci, bardata di tutto punto, con giacca e pantaloni impermeabili, sono in sella. Mi chiudo il cancello alle spalle sotto l'occhio perplesso e sconcertato di mezzo parentado, perché si sa che, quando meno gradiresti avere spettatori, di certo ti ritrovi attorno la folla dello stadio di San Siro quando si gioca il derby. Faccio spallucce, li compatisco, non possono capire loro, non son ciclisti... E parto, in compagnia dello scroscio dell'acqua fredda sulla giacca GoreTex. Imbocco la statale e realizzo il primo dei problemi: il bordo della strada non esiste più. Ci sono degli oceani al suo posto, gigantesche pozze di acqua limacciosa, una in fila all'altra. Impossibile pedalare sulla destra: tocca stare a metà della corsia, con gran gioia degli automobilisti tutti presi dalla frenesia del rientro ed ancor più rabbiosi per via del meteo. Pazienza, me ne infischio, lascio che suonino e spero che non mi passino sopra. In fondo son pochi quelli che s'arrabbiano davvero... A loro concedo, con eleganza e stile tutti miei, l'aggraziato gesto di saluto che fa ricorso al dito medio.
Il torrente appena fuori Carmagnola, di solito in secca o quasi, è gonfio da far paura, fangoso, quasi rasente al piano del ponte; i campi ed i pioppeti attorno hanno l'aspetto di risaie, tutto dello stesso colore della terra. Probabilmente questa notte la strada verrà chiusa.

Altro problema, i camion: quando sorpassano, pur con cautela, sollevano una nube d'acqua che mi avvolge e per diversi metri mi acceca. Non sono ancora a Racconigi, dieci chilometri neanche, e già mi assale il dubbio d'aver fatto una gran boiata... Comunque, boiata o no, ormai sono in ballo e devo ballare. Racconigi, con le curve a gomito lungo il muro del castello, prese a passo di lumaca per non scivolare; il vialone di uscita verso Savigliano. Gli occhiali sono anche un po' meno appannati; meglio di così...

Ma è troppo bello per essere vero. Poco oltre l'abitato, mi sposto sulla destra sfruttando un allargamento della carreggiata; fendo i flutti di questa specie di fiume che è ormai l'asfalto... All'improvviso, sento una gran botta sotto le ruote; per non so quale strana combinazione di eventi, riesco ad evitare di cadere, ma per un pelo. Son finita in una di quelle voragini dai bordi taglienti che si aprono nelle nostre strade, evidentemente di eccezionale qualità tecnica, dopo due-tre giorni di pioggia abbondante. Un senso di ineluttabilità mi pervade: continuo a pedalare ma so già cosa succederà... Infatti, pochi metri dopo, la ruota posteriore è a terra.
Ok Gian. Perfetto. Fermati un attimo e raccogli le idee. Sei sul ciglio di una strada statale ben incasinata. Piove a dirotto. Hai l'appuntamento tra mezz'ora. Cosa devi fare? Elementare Watson, non vedo molte soluzioni possibili: cambi la gomma e riparti. Già. Ma, come dice saggiamente il buon Murphy, prima o poi la peggiore combinazione di cause possibili è destinata a prodursi. E tu sai bene, perché lo sai, sissignora, in che casino ti sei cacciata adesso. Allora, un obiettivo per volta. Oltre la strada c'è uno slargo, il cancello di un capannone. Prima mossa, passare di là; questo è facile, ce la fo. Seconda mossa: levare i guanti fradici. Per fortuna, addosso alla cancellata, c'è una piccola cabina dell'ENEL che può fungere da piano d'appoggio. Perfetto. Levo la ruota posteriore e faccio la prima cosa che non dovrei fare: appoggiare la bici sul cambio. Vaffambagno, non è il luogo né il momento per le finezze. Poi scavo nervosamente nel borsello sottosella, dove so che, ahimé, non troverò i levagomme. Uno l'ho perso, l'altro l'ho rotto, è una vita che mi ripeto di andarli a comprare, ma per pigrizia non l'ho mai fatto. Infatti, cerco qualcosa che possa supplire alla mancanza dei due pezzetti di plastica gialla: trovo una specie di chiave inglese, piatta, nonché le chiavi di casa.
Sempre sotto il diluvio, e sforzandomi di ignorare gli sguardi attoniti di chi passa lungo la strada, che non vedo ma percepisco netti e pesanti sulla schiena, comincio ad armeggiare selvaggiamente con il copertoncino. Eppure me lo ricordavo morbidissimo, tanto che quasi saltava fuori solo usando le mani... Niente da fare, pianto la chiave inglese, provo con le chiavi lunghe e robuste della porta blindata; la spalla esce un po', ma poi ricade dentro il cerchio e non c'è verso di farla saltar fuori quel tanto che basta per poi far presa e toglierla per intero. In più, io son senza occhiali, quindi vedo solo l'immagine sfocata di quel che sto combinando. Non vedo quel che però è abbastanza evidente: di sicuro, così facendo, sto massacrando il cerchio... Va bè, pace, tanto pare che sia da cambiare.
Traffico e traffico, senza risultato; nel contempo però, quasi fossi una spettatrice a guardarmi da fuori, mi meraviglio della calma olimpica con cui sto facendo tutto questo. Non ho ancora abbattuto nemmeno un santo! Anzi, sembra quasi che tutto ciò fosse già scritto... Effettivamente, era abbastanza prevedibile che, a furia di girare senza levagomme, mi sarei trovata nei pasticci. Così come era prevedibile che, sotto la pozza, ci fosse una buca. Insomma, tutto questo non si può imputare alla jella: diciamo che il termine giusto è idiozia... Piccoli atti di idiozia, figli del grande atto di idiozia capostipite, quello di non voler prendere l'auto.
Così rimuginando, un colpo di genio: e se invece provassi l'altra spalla? Averci pensato subito... L'altra spalla getta la spugna subito, è un attimo; via il copertoncino, via la camera bucata. A guardare dove si sia forata provvederò, con calma, a casa. Metto su l'altra camera, risistemo la spalla del copertoncino, che va su come se niente fosse; estraggo la pompetta e mi metto a gonfiare. Come sempre, la ruota resta molliccia, ma nell'emergenza può andare. Chissà che ora s'è fatta; tra una contorsione e l'altra, avrò perso venti minuti. Amen, risistemo la ruota, raccolgo i cocci della mia operazione di soccorso e perdo altri minuti ad aspettare un varco nel traffico, per attraversare e riprendere la marcia. Pedalare con la ruota poco gonfia non è il massimo, costa un sacco di fatica... Però almeno mi scaldo, anche se devo dire di non essermi poi raffreddata molto stando ferma. Altra pioggia, altre nuvole d'acqua, Cavallermaggiore in vista; tempo di arrivare alla rotonda oltre il curvone, ed accade l'irreparabile. Altra foratura, l'anteriore questa volta, a terra di botto.

Bene... Stavolta son panata. Camere d'aria di ricambio non ne ho più. Fermissimo proposito è prendere questi copertoncini e condurli il più lontano possibile dalla mia vista, perché, se è vero che poco fa ho centrato un cratere in velocità e non è che potessi sperare di farla franca, questa volta avrò preso una pietruzza, una cavolatina, ed è già l'ennesima foratura di questo tipo in si e no tremila chilometri. Ma a parte questo proposito, che metterò in pratica in un secondo tempo, la domanda che ora sorge spontanea è: è mo' che caxxo faccio? Strano, il panico non mi coglie nemmeno ora... In fondo, sono sul ciglio di una rotonda, con la bici inservibile e le scarpette su cui camminare è una vera impresa, sotto il diluvio universale, accanto a quello che, fino a pochi giorni fa, era un pioppeto, mentre ora è un vero e proprio fiume di acqua fangosa in piena, e meno male che il piano della strada è un buon metro e mezzo più in alto di quello delle radici; rami sterpi e tronchetti navigano come se fossero barchette di carta. Non mi resta, ahimè, che la più invisa delle possibili scelte; alzare il telefonino e chiamare mammà. Eppure, nella situazione critica, mi vien da sorridere: che bella idea ho avuto, ad insistere perché riprendesse la patente... Non la sento entusiasta, ma non m'abbandona; promette di partire subito. So che, con un braccio solo, ci metterà un po' di tempo ad aprire il garage, il cancello, chiudere il garage, il cancello, venire fin qui, ma non importa; in santa pace, resto in piedi ad osservare il viavai, auto camion trattori camion auto, tantissima gente che va e che viene. Uno solo che si ferma a chiedermi se ho bisogno di aiuto; è già più di quanto mi aspettassi... Declino gentilmente, c'è già chi sta arrivando in soccorso; in ogni caso, avrei preferito una lunga attesa sotto la pioggia, dove in fondo l'unico, e relativo, pericolo è il freddo, piuttosto che un dubbio viaggio in auto con un perfetto sconosciuto. Anche sem nello stato in cui sono, credo di solleticare più la fantasia di un appassionato di film horror, che non quella di un maniaco.
Osservo lontano una striscia di cielo azzurro che si allarga, mentre qui continua a piovere. Le auto di passaggio rallentano ed i nasi dietro ai finestrini osservano stupefatti un po' me, un po' la piena del torrente dietro di me; qualcuno addirittura si ferma, scatta una foto con il cellulare per portare a casa un'apocalisse in miniatura di cui chiacchierare stasera a cena, riparte, se ne va. Levo i guanti, li strizzo, colano; arriva il freddo, a furia di star ferma. Basterebbe almeno muovere un po' le braccia, ma ho la sensazione che, se cominciassi a battermi le palme sulla schiena incrociando i gomiti, qualcuno finirebbe per chiamare la Neuro! Son già a rischio così...

Mammà arriva abbastanza in fretta a prevenire quello che comunque non avrebbe mai potuto essere assideramento; anche stavolta, in ogni caso, penso agli alpinisti che bivaccano o piantano campi sul tetto del mondo, a temperature inimmaginabili... E mi domando come sia possibile.
Raggiungo l'Agila, con i suoi bei sedili immacolati; meno male che ho raccomandato di prender delle coperte. Apro la portiera posteriore, m'investe lo spostamento d'aria del pesantissimo "Te l'avevo detto": sottintende tante cose, te l'avevo detto che stavi facendo una boiata, te l'avevo detto che avresti dovuto andare in auto, te l'avevo detto che sei pazza, te l'avevo detto che quando sei nei guai devi sempre rompere l'anima a qualcun altro... Con la solidità di una quercia secolare, resisto all'impeto del rimprovero. Anzi, scelgo la strategia dell'ostinazione: avanti così, sempre. Ho perso una battaglia, mica la guerra! Stavolta è andata così... Ho solo il rammarico di aver macinato un sacco di chilometri nei luoghi più sperduti, sotto i diluvi universali, senza che mi capitasse nulla del genere, ed oggi mi faccio mettere ko da un ridicolo giro di cinquanta chilometri in tutto. L'appuntamento ormai è andato, mi vergogno un po' della figuraccia, telefono, mi scuso, rimedierò: torno a casa, cornuta e mazziata, ma soprattutto fradicia fino alle ossa, grazie al pronto intervento della guida monobraccio di mammà. La degna conclusione spetta a mia sorella: "Possibile, un'altra al posto tuo avrebbe incontrato come minimo una banda di aggressori, tu invece sei una pazza furiosa e non ti capita mai niente!". E che ti devo dire Ste... Si vede che faccio più paura io!