martedì 26 maggio 2009

16 maggio 2008 - Le Porte di Pietra

Chi si è permesso di cambiarmi l'accesso al parcheggio? Insomma, io son già in preda alla più nera agitazione, e qui mi sconvolgono anche le carte in tavola... Devo protestare! Prima però devo cercare un buon posto per abbandonare la Opel: mi metto ordinatamente in fila con chi mi ha preceduto, che guardacaso – piccolo il mondo delle corse in montagna! - è anche un volto noto.
Cantalupo Ligure, per la terza volta di fila al via delle Porte di Pietra: solo che, per questa edizione della corsa, i boss hanno scelto la primavera. E la partenza alle otto del mattino, in luogo del buio delle quattro. Meglio o peggio? Non so. Avrei preferito senza dubbio la data di settembre, ottobre, come sempre; sono abitudinaria, io, poco incline ai cambiamenti, amo le manifestazioni che restano sempre uguali a se stesse e proprio per questo caratteristiche.

Mi sforzo di frenare l'emozione per non saltare i passaggi fondamentali: la pasta di Fissan da spalmare in abbondanza sui piedi, due paia di calze, lo zaino in cui mettere l'equipaggiamento obbligatorio, la chiave dell'auto possibilmente da riporre in luogo sicuro, che poi dover scassinare la serratura e collegare i fili è una scocciatura... Mi avvio verso il palazzetto dello sport, per raccattare il numero di gara, occhi fissi sulle punte dei piedi, testa che viaggia chissà dove. Cielo plumbeo, promette ben poco di buono: ma ormai non è una novità, vista l'annata! Non faccio a tempo a muovere tre passi che qualcuno mi chiama a destra ed a manca: ormai ci si conosce tutti e, anzi, l'abbonata alla figuraccia di non riconoscere i compagni di sventura di precedenti gare sono sempre io! Incontro l'inossidabile Isacco, poi Gianluca, Gaetano, Alessandro e tanti altri del forum di Quotazero; una parola di qua, una di là, battute e risate che stemperano la tensione. E poi gli organizzatori, il gruppo degli Orsi, di cui ormai so vita morte e miracoli anche se non oso ancora chieder loro gli autografi. Parto con il numero 1, nientemeno: non è un merito, è solo il caso dell'assegnazione dei pettorali in ordine alfabetico; speriamo che sia di buon auspicio! Sono tesa, come sempre, ma un po' meno degli anni scorsi. Forse sono presuntuosa, ma ormai credo di potermi dire abbastanza tranquilla sulle sorti della gara; non saprei prevedere il tempo, ma penso d'essere comunque in grado di rotolare fino allo striscione dell'arrivo, in un modo o nell'altro. Settanta km, quattromila metri di salita: numeri da non prendere sottogamba, ma ampiamente provati e digeriti ormai. Tranquilla Gian, a meno di imprevisti, se stai bene ce la fai. Torno all'auto a posare la borsa del pacco gara, attaccando un buon numero di bottoni a destra ed a manca; poi via, in griglia, pronti per la partenza, anche se mancano ancora venti minuti. Intorno a me è festa grande: certo, la partenza notturna alla luce delle frontali sarebbe stata più suggestiva, ma devo ammettere che anche questa nuova soluzione del via alla luce del sole ha i suoi bei vantaggi. Posso ammirare in tutta la loro bellezza i tanti completini da corsa iperaderenti che lasciano poco, anzi pochissimo all'immaginazione... Io stessa oggi sono molto molto professionale: di già che non valgo una cippalippa come corridora, almeno mi atteggio! Scarpe nuove di pacca La Sportiva, identiche a quelle che ho già usato per un anno e quasi demolito; pantaloncino ¾ attillatissimo Montura; top microscopico Cassin, coperto ahimé dalla maglietta a manica corta, almeno per ora, onde evitare una polmonite fulminante, e zainetto un po' più piccolo degli anni precedenti. Tutto, tranne la maglietta, arriva dal negozio del mio spacciatore genovese! Gli ho già chiesto un adesivo del negozio da appiccicarmi alla chiappa... Eppure Matteo si ostina a non voler cogliere quest'imperdibile occasione di pubblicità! Chissà perché!

Manca davvero l'arringa del Colonnello. Era una forza della natura, se n'è andato troppo presto... Sincera commozione aleggia nel minuto di silenzio in sua memoria. Poi le note della Marcia di Radetzky, come da tradizione: finalmente si parte, via. Di corsa per i primi duecento metri, fino all'arco in mezzo al paese; poi, la prima rampa ripida in cemento fa da strettoia e calma i bollenti spiriti. Il lungo prologo, cinque km, che precede la prima vera salita è tutto un su e giù su strade, in mezzo a prati e tratturi, nella nebbia a mezz'altezza di questa mattina che pare tutta autunnale, non fosse per i fiori. Tanti partono correndo, lasciamoli correre: i chilometri sono tanti, troppi, per fiaccare inutilmente le gambe. Calma e sangue freddo, Gian, di già che il tuo cuoricino si sta comportando bene, non è schizzato su in mezzo alle orecchie, questa volta. Salite e discese si susseguono ripide e cattive; passiamo tra le case sparse della collina, tra anziani che ci osservano e cani spaesati ed irritati da tanto viavai, tra campi verdissimi di pioggia e fango appiccicoso. In salita vado al passo, sempre; in discesa provo a correre un po': almeno qui, dove il fondo è morbido ma non scivoloso, non ci sono pietre, non dovrei correre grossi rischi di farmi male. E per quanto io corra, comunque, sono sempre molto incerta ed impacciata rispetto ai più. Ma non importa, non è il caso di preoccuparsi ora: ci sarà tutto il tempo per recuperare.
Il gruppone si sgrana subito; resto in fondo, ma, con mia sorpresa, non così in fondo come l'anno scorso, in cui ero l'ultima ultimissima prima della scopa. C'è da dire che l'anno scorso in questo tratto era buio ed io vedevo poco e male; quest'anno, il problema non si pone. E pazienza se ogni tanto scende minacciosa qualche goccia di pioggia. Il meteo ha promesso meglio nel pomeriggio.

Il prologo si chiude nientemeno che con il guado di un torrente: poi la terribile passerella di Pertusio, ad arco sul fiume. Ecco, questa l'avrei superata mille volte più volentieri al buio, così come il successivo tratto di sentiero a picco sulla corrente, attrezzato con le corde fisse. Tutto questo, mi lagno, di notte non l'avrei visto: invece oggi lo vedo e mi terrorizzo! Ma la paura dura poco. In fila insieme a me lungo la prima durissima vera salita c'è come sempre Isacco: ormai siamo l'uno l'incubo dell'altra; abbiamo un ritmo di camminata simile, ci ritroviamo spesso, anche se poi lui ha un netto vantaggio in discesa. Isacco ed un altro paio di mattoidi suoi pari: ed ecco che la faticaccia della salita se ne va... Rischio sì il soffocamento, ma per colpa delle risate convulse che non riesco più a frenare, investita dalla marea di boiate che questi tre riescono a rovesciare nonostante l'arrampicata; più rido e più le gambe cedono, rischio quasi di dovermi fermare... Il guaio è che Isacco ha una fervida fantasia comica, unita ad una capacità di recitazione sorprendente! Riesce a farti scompisciare con le battutacce più orribili... Salgo a fatica, aggrappandomi a tutto quel che capita, dai tronchi degli alberelli alle pietre ai fili d'erba che immediatamente, poverelli, si strappano a causa del mio dolce peso. C'è un profumo fortissimo, inebriante, di fiori; in effetti ci sono fiori ovunque, di tutti i colori e di tutte le forme.
L'itinerario in questo tratto costringe ad alcuni passaggi molto esposti, a picco sul fondovalle, a dire poco impressionanti. Ci sono persone dell'assistenza ad ogni piè sospinto, ma faccio fatica a costringermi a non guardare giù, a camminare in posizione eretta senza avvinghiarmi di continuo alle corde fisse; a poco valgono i rimproveri del buon Isacco, "Molla le corde, devi imparare!". Recupero un buon numero di posizioni prima della vetta, anche se so già che perderò tutto in discesa.
La Croce degli Alpini indica la fine della faticaccia più cattiva. Da qui, un lungo susseguirsi di salite e discese su sentiero stretto, single track si chiamerebbe, ma io odio l'abuso di termini stranieri! C'è un bel po' di gente intorno; ancora grigio e nebbia, ma sembra voler migliorare un po'. Corro ancora in discesa; al primo ristoro, Roccaforte, km 11, non mi fermo: mi butto all'inseguimento di Isacco, poco avanti a me. Corriamo insieme il tratto di asfalto che precede la salita ai mille metri del Bric Camere: non vorrei esagerare, ma per ora le gambe rispondono bene; mi azzardo a correre dove posso, rallentando però immediatamente il passo al minimo accenno di salita. Qui si va su gradatamente in mezzo al bosco, ancora verde, ancora fiori; non riesco a decidere se ho caldo oppure no. Oggi ho lasciato a casa i bastoncini e ne sono più che contenta: con tutti questi tratti da correre, avrei avuto solo problemi.

Il ristoro di Costa Salata arriva dopo una lunga galoppata su pendenza molto facile: avrei dovuto sfruttare un po' meglio l'occasione... Ma, com'era prevedibile, le gambe han già qualcosa da ridire a proposito della corsa. Ed è troppo presto. Ho dovuto rallentare e prendere fiato, lasciare ai muscoli un po' di recupero. Inutile, il mio corpaccione è toppo goffo e pesante per poter correre così su un sentiero. Se solo la foschia mi avesse permesso di godermi un po' il paesaggio! Invece nulla, o quasi. Il ristoro di Costa Salata è al km 21: ormai più o meno ho memorizzato le distanze, anche se non ho più guardato la carta e non ho idea se il percorso di oggi sia esattamente lo stesso delle passate edizioni. Riempo la borraccia e filo, un po' affannata; devo ridurre il ritmo, ma d'altro canto subisco la fibrillazione della gente intorno a me, ancora tanta. Proprio ultima non sono!

Lunga e discontinua la salita ai 1400 m del Monte Buio, alterna strappi e tratti di respiro. E' in una lunga rampa in mezzo al bosco che mi si accoda un corridore. L'ho sentito avvicinarsi, ma non mi sorpassa; gli chiedo se vuol passare, risponde di no. Procediamo così, a lungo, sempre allo stesso ritmo, concentrati sul nostro sforzo ed accompagnati da un muto accordo di viaggio insieme. Per me la presenza del compagno di viaggio è uno sprone a far meglio, a non perdere tempo, a non rompere il ritmo; a lui, non tardo ad accorgermene e sarà poi lui stesso a dirmelo, fa comodo la mia andatura il più possibile costante. Passa un bel po' di tempo prima che si rompa il ghiaccio, o forse si recuperi il fiato, e si passi a scambiare quattro parole. Il mio simpatico collega si chiama Beppe, ha un po' più di cinquant'anni, è di Mondovì: non avevo dubbi, la sua pronuncia tradisce evidenti origini del Cuneese. Ha casa in questa zona ed è alla prima esperienza delle Porte di Pietra. Faccio un po' la ruota del pavone all'idea di essere nei panni del cicerone: volente o nolente, io qui ormai ci ho messo radici... Poi la chiacchiera si fa più fitta, mentre pian piano superiamo o siamo superati. Qua e là poi riacchiappo Isacco, prendendolo in giro e canzonandolo già da lontano; poverino, che pazienza...

Alcuni punti sono indelebili nella mia memoria, come il passaggio al Santuario di San Fermo. Altra vetta della giornata, il Monte Buio; da lì, breve discesa in mezzo ai prati ed ancora un'altra salita, l'Antola. Uno dopo l'altro, passiamo sulla cima di questi enormi cupoloni verdi punteggiati di cespugli fioriti: il buon Beppe non se ne capacita, le cime si potrebbero aggirare... Certo, ma allora tutto questo non avrebbe senso! In fondo siamo qui per soffrire, no?

In effetti io sto già soffrendo un po'. Per scherzo, rimproveriamo un corridore fermo a metter sali da una bustina nella borraccia, insinuando sospetti sulla natura della sostanza; poco oltre, però, è il mio turno. Le gambe danno chiari segni di stanchezza, i muscoli sono induriti, ed è troppo presto. Passato da poco il trentesimo chilometro, c'è ancora troppa strada. Mordo un boccone di barretta e butto giù una pastiglia di antiinfiammatorio: sarà effetto placebo, non so, ma nel giro di un quarto d'ora i fastidi scompaiono. E' un momento critico, questo; alla soglia del ristoro di Capanne di Carrega, il quarantesimo km, l'ottimismo fa a pugni con i timori che nascono dall'aver già fatto tanta strada... Ma dall'averne ancora tanta davanti.

Al ristoro mi fermo, come sempre, pochi istanti, il tempo di riempire la borraccia; Beppe mi raggiungerà senza problemi. E' strano che abbia deciso di seguire il mio passo: potrebbe andare ben più forte di me. Imbocco la mulattiera ampia in mezzo al bosco, costellata di grosse pozzanghere che testimoniano piogge recenti ed il passaggio di mandrie stampato nel fango; vorrei affrettarmi, ma devo sforzarmi di stare tranquilla e mangiare un po', anche se non ho fame. Dopo il primo tratto nel bosco, il paesaggio si apre sui prati e sbatte in faccia, proprio di fronte, un altro cupolone, il Monte Carmo, su cui arrampicarsi per un sentiero stretto e diritto come un fuso, che solo più in alto piega a sinistra per circumnavigare la vetta. Isacco è sempre qui nei paraggi, di Beppe ancora nessuna notizia. La discesa in mezzo al prato è molto ripida ma non fa paura; alla peggio, si rimedia una culata nel fango. Lo spettacolo, quel poco che si scorge in mezzo alla nebbia, è impressionante; ombre e vento e grigio. Ho reindossato la maglietta che avevo levato già da un po': quassù fa tutto fuorché caldo, anzi, fa decisamente freddo, soprattutto in discesa. Altra scalata, subito dopo, per una rampa che fa impressione già solo a guardarla da sotto: in mezzo alla nebbia, si intravedono le anime dannate dei corridori che salgono piano, piano, infinitamente piano, in un silenzio contrito di fatica che si legge nelle rughe dei volti e nel ciondolio delle spalle. Io non sono da meno: salgo a passi brevissimi, per risparmiare muscoli e fiato, ed arranco non poco per arrivare fin su, anche se non rinuncio a tentare la chiacchiera anche qui. E' terribilmente bello questo posto, in fondo ormai mi ci sento a casa, anche se il vento qui è forte e raffredda il sudore sulla pelle. Speriamo che il fisicaccio respinga anche questa minaccia! Monte Legna e, subito dopo, altra risalita, Monte Cavalmurone: poi una lunga traversata accanto ad un recinto di filo spinato ed una lunghissima, interminabile discesa in mezzo al bosco, corribile per me solo in alcuni brevi tratti. Ormai è l'euforia che ci guida: sappiamo bene d'essere oltre la metà, e ben oltre la metà del dislivello in salita. Dall'ultimo ristoro, a Capanne di Cosola, manca poco più di venti km. Riempo ancora la borraccia, riparto euforica, Beppe sempre con me; ci attende un lungo tratto di sentiero a mezza costa, su e giù in mezzo ai prati, con la luce del tardo pomeriggio e davanti a noi la salita, dura ma non proibitiva, alla Cima Coppi della giornata, il Monte Ebro, quota 1700.. Una coltellata nelle gambe, ma ormai non sono più loro a dettare legge; è la gioia di essere nei paraggi della fine, la certezza di farcela ormai, la voglia di tornare a Cantalupo con in tasca una piccola vittoria. Anche qui il filo spinato accompagna la nostra marcia, anche qui la processione di corridori al limite delle forze, anche qui la nebbia che avvolge ed inghiotte tutto. Però si vedono le antenne della nostra prossima, ultima meta in salita.

La discesa è lunghissima, anche troppo: ricordavo che il sentiero riprendesse a salire poco dopo il rifugio di Piani di San Lorenzo... Invece no, si continua a correre e correre e correre. Beppe mi chiede se davvero sono sicura che ci sia ancora una salita: ma sì, certo, la ricordo bene... Però dove diamine è finita? Corro e corro e corro... Alla fine, quando già pensavo che il percorso fosse stato cambiato, ecco l'impennata, il sentiero che sale nel bosco e ne riemerge seguendo un recinto sul costone della montagna, passando poi accanto agli impianti di risalita delle piste da sci. Quest'immagine è meravigliosa: il Giarolo sullo sfondo, le ombre lunghe della sera, i corridori che avanzano illuminati dai raggi ormai obliqui, sagome nere in controluce, i fiori, la pelle d'oca, la gioia di sapere che è quasi finita. Arrivo in cima, sotto la croce e le antenne, con un sorriso da un orecchio all'altro; ci sono ancora nove chilometri di discesa, nove km faticosi, ma ormai li voleremo, vero Beppe? L'ultima vetta ci regala lo spettacolo del mare di nuvole sotto di noi, un raggio di sole sulle spalle a darci l'augurio della buona fortuna. Ci lanciamo, si fa per dire, in discesa; un tracciato lungo, un fondo malagevole, roccioni pietre e sfasciumi per la maggior parte del sentiero. Correre è difficile e rischioso; infatti mi trovo male, rallento, perdo tutte le posizioni che avevo guadagnato in salita e anche di più... Mi sorpassa pure Isacco, contento come una Pasqua, strillando "Quando ormai non ci contavo più!!!". Mi sa che stavolta la spunta lui... Io non ho troppa voglia di rischiare le caviglie, le ginocchia, per risparmiare una decina di minuti. Beppe idem: al diavolo, facciamo quel che possiamo! Al ristoro, ancora feste da parte dei volontari ed una valanga di coccole ad un bellissimo fangosissimo Golden Retriever.

Il fondovalle si avvicina, man mano si sentono i rumori delle auto, il gracchiare dell'altoparlante nella zona di arrivo. Non avremo nemmeno da accendere le frontali: il sentiero spaccagambe finalmente si conclude; arriviamo all'asfalto, festeggiati da un gruppo di amici di Beppe giunti apposta ad aspettarlo. Poi si aggrega anche un altro amico, BradipoMissile del Forum di Quotazero: potrebbe bruciarci e scappar via... Invece si aggrega. Caliamo su Cantalupo con l'allegria scanzonata di studenti in gita: forse il mal di gambe c'è, ma chi lo sente ora? Arriviamo al palazzetto, superiamo l'arco tutti insieme: e anche stavolta è fatta. La terza maglietta da "Finisher", un'altra grande soddisfazione. Anche il cronometro, per quel che può valere, stavolta è dalla mia parte; 13h 11', contro le 13h 56' dell'edizione 2008, significa tre quarti d'ora giusti in meno.
Un'altra bellissima edizione, merito dell'organizzazione impeccabile degli Orsi. Non credo di poter nemmeno immaginare la mole di lavoro che sta dietro ad un evento di questo genere!
Mi congedo da Beppe e dagli altri amici; avrei voglia di mangiare qualcosa, ma folla e caos sono cose che davvero non riesco a digerire. Dopo la doccia, il frastuono del palazzetto stracolmo di gente e di tavoli e di musica mi respinge via: me ne vado alla Opel, saluto Isacco, m'incammino. Al casello di Arquata arriverà Matteo: domani è un altro giorno, di bici questa volta, e io speriamo che me la cavo!

23/24 maggio 2009 - Da Cuneo a Ventimiglia in 450 km

Prendete 450 km, purché mi raccomando non ce ne sia nemmeno uno in pianura. Aggiungete 6.000 m di dislivello in salita. Da ultimo, l'ingrediente base: due svirgolatissimi innamorati della bici da corsa e della fatica senza appello. Otterrete un sabato ed una domenica meravigliosi!
La regia questa volta è tutta di Ivano. Mi ha detto, tempo fa, “Il 23/24 maggio sono libero”. “Benissimo – ho replicato – facciamo un giro con la notte in mezzo?”. Della serie, chi è causa del suo mal pianga se stesso... E vale per tutti e due!
A me sarebbe piaciuto andar su, in alto, perché, con tutta la neve caduta l'inverno scorso, sono in crisi di astinenza da alte vette, o meglio, da alti colli. Ci avrei messo volentieri il Vars, il Monginevro, Sestriere, insomma, nulla di esaltante ma tutto ciò che la situazione delle strade in montagna consente in questo momento. Ma Ivano è un omino razionale, sotto sotto, anche se non lo da a vedere. Mi fa notare qualche piccolo particolare irrilevante: il fine settimana successivo ci attendono i 600 km del Raid Provence Extreme, quindi è bene, per il 23/24, pensare un percorso sì duro, ma non proprio distruttivo. Inoltre, salire più volte, anche di notte, intorno a quota 2.000 significa essere costretti a scarrozzarsi un bel bagaglio pesante per affrontare temperature tutt'altro che confortevoli. Infine, sarebbe opportuno seguire un itinerario il più possibile simile a quello del Raid, in preparazione: ergo, salite tante, ma, Colle della Maddalena a parte, lunghe al massimo una decina di km, giù di lì. Insomma: Ivano è uno dei pochi esseri umani al mondo di fronte a cui getto la spugna ancor prima di iniziare una discussione. Per quanto io sia cocciuta, testarda, prepotente, capricciosa, in confronto a lui sono una dilettante: e il peggio è che lui riesce sempre, in un modo o nell'altro, di dimostrarmi con argomenti inattaccabili di aver ragione... Getto subito la spugna: “Va bene, fai tu, basta che ci sia tanta strada e tanta salita”. Su questo punto, so di poter concedere al terribile Vinai, già altrove soprannominato con arguta efficacia “L'Invasato delle Alpi Occidentali, la mia più completa fiducia. Le sue rotelle saranno pure svirgolate, ma, quando serve, funzionano alla grande: le sento girare da qui!
In men che non si dica, da Cuneo mi giunge la proposta di viaggio, via mail: apro il documento, provo a seguire l'itinerario; Cuneo, Colle della Maddalena, Barcellonette, poi una sequela di nomi che non ho mai sentito se non vagamente... Solo alla fine, si rientra in territorio a me noto, zona Nizza – Mentone e dintorni. Ci rinuncio, non leggo neppure: va bene così com'è, approvato in modo incondizionato; Ivano, vai che io sarò la tua ombra!

L'appuntamento è sabato mattina a Cuneo alle 6.30: come al solito, mi ci presento nelle peggiori condizioni possibili per affrontare due giorni ed una notte in bici: ho dormito sei ore e mezza... Idem le notti precedenti. Certo, l'ufficio, i vari impegni... La verità è che sono disorganizzata, ecco tutto. Ivano me l'ha già detto e ripetuto, e non solo lui: una faticaccia del genere va preparata con cura; la si affronta non solo sui pedali, ma anche a casa, nei giorni che la precedono. Altrimenti, a schifìo finisce! Ieri sera ho chiuso l'ufficio alle nove e mezza, ho aderito al materasso alle dieci, ho lasciato lo zaino da preparare per questa mattina e puntato la sveglia alle quattro e venti. Ed è già inaudito che non abbia dimenticato qualcosa di fondamentale! Felpa, giacca impermeabile, cibarie, attrezzi, copertoncino di ricambio, luci, batterie, telo termico... C'è tutto. Ivano è già prontissimo; ripudia lo zaino, ma ha un comodo portapacchi posteriore per il bagaglio, più un inquietante paio di corna piazzate sul manubrio: non le corna da cronometro, no no, proprio due appendici rivolte verso l'alto. Per evitare il mal di schiena, dice lui: sarà...
Si parte sotto un cielo ancora velato: son quelle nuvole destinate però a dissolversi in fretta. Già si notano gli squarci d'azzurro. Si parte di gran chiacchiera: è un po' che non ci vediamo, Ivano ed io; abbiamo dell'arretrato da raccontarci. Non siamo ancora usciti da Cuneo e già ho perso l'orientamento tra strade e stradine secondarie; che l'Invasato voglia già disfarsi di me? Ma no, non credo, siamo entrambi agitati e curiosi come bambini al primo giorno di scuola; teniamo a questa nostra avventura con tutto il cuore. Anzi, mi fa piacere leggere nel mio compagno di viaggio, abituato ad imprese mille volte più folli, una sorta di inquietudine che un po' si accorda con la mia ansia.
Solo a Borgo San Dalmazzo riprendo coscienza della situazione: finalmente si torna su strada nota. Inizia l'interminabile salita al Colle della Maddalena: da qui, ancora una buona cinquantina di km, su uno stradone trafficato che non sale mai. Intorno, le cime ancora imbiancate, troppo! Ma il cielo conforta, è sempre più sgombro. E poi con Ivano non c'è pericolo di annoiarsi, e nemmeno di badare troppo alla fatica. Ha il pregio di riuscire a tener viva l'attenzione dell'uditorio su qualsiasi argomento, anche il più noioso, e poi s'inventa le boiate più elaborate per far ridere. Di rado, poi, capita anche che noi due ci si imbarchi in un discorso serio. I chilometri scorrono bene, per ora; l'idea di averne più di quattrocento davanti a me, per giunta in territorio in buona parte sconosciuto, per ora non mi turba. Anzi, proprio non ci penso. Andiamo per gradi. Intanto Ivano mi parla della Milleuno Miglia che ha concluso la scorsa estate ed io ascolto con otto orecchie dritte: un'impresa al limite dell'umana sopportazione, anzi, ben oltre l'umana sopportazione media! Giorni e notti e giorni e notti... Mi piacerebbe esser capace di un'impresa anche solo simile, ma temo di non avere speranza. Non ne avrei le gambe né la testa.

Chiacchierando del ciclista spaccone bolognese, superiamo Demonte, la via centrale strozzata ed affollata. Uno sguardo al mio centro di gravità permanente, la vetrina della pasticceria Agnello, è d'obbligo... Languo pensando ai pasticcini con la crema al cioccolato e ancora non so che tra pochissimo mi toccherà un incontro molto ma molto meno dolce! Che per un pelo non diventa uno scontro... Appena fuori del paese c'è un tratto di strada a senso unico alternato, con semaforo. Come sempre ormai per istinto, il semaforo non lo guardo nemmeno: un'occhiata dall'altra parte del cantiere, non c'è nessuno, tiro dritto. Tre secondi dopo, una moto, che sopraggiunge in senso contrario, mi schiva per un pelo... Mi rendo conto all'istante di aver corso un grosso rischio, ma ormai sono anestetizzata rispetto ai pericoli della strada; tiro dritto come se niente fosse. Certo, io forse son passata col rosso... Ma il centauro ha imboccato la strettoia di certo non ai cinquanta all'ora, e per giunta tagliando la leggera curva tutto alla sua sinistra! Che diamine, quante volte ho superato questo tratto incrociando auto senza mai aver problemi! Bah, fa niente. Per me... Ma non per il motociclista, che nel frattempo ha invertito la marcia ed è tornato minacciosamente indietro. Aggredisce il povero Ivano, quando in realtà la prima a passare la strettoia sono stata io: pare anche alquanto alterato... Volano parole grosse, poi la minaccia: "La prossima volta ti smonto!". Ivano, come sempre imperturbabile, si ferma, appoggia la bici alla roccia, si erge in tutta la sua imponenza e replica: "No no... Smontami subito!". Al che l'incauto centauro, fatta una rapida valutazione del tonnellaggio del mio compagno di viaggio, nonché del suo occhio perennemente spiritato, ha saggiamente optato per la sepoltura dell'ascia di guerra, proponendo un più diplomatico "Ah! Vuoi anche aver ragione?". Capperi! Ivano è validissimo come arma impropria di difesa... Se fossi stata da sola, probabilmente un ceffone non me l'avrebbe levato nessuno! Il battibecco si chiude con l'augurio, da parte del centauro, di incontrare la prossima volta un camion; augurio da me prontamente ricambiato. Noi poi il camion non l'abbiamo incontrato; lui, chissà!

Altra violazione di semaforo rosso ad Aisone, ma stavolta non c'è gusto, il verde scatta poco dopo il nostro passaggio. In compenso, poco dopo, un pullman ci sorpassa malamente, troppo forte, in mezzo alle curve, stringendoci contro alla parete e per giunta con gran colpi di clacson: a Vinadio, poco oltre, buttiamo l'occhio per vedere se per caso il simpatico autista si sia fermato sul grande piazzale davanti al parco... Buon per lui che non l'ha fatto, perché come minimo i nostri complimenti non glieli avrebbe risparmiati nessuno.
Le gallerie, i lunghi rettilinei in salita, i segni evidenti delle frane; sono stata qui due settimane fa, è un copione che conosco a memoria ormai. Ed ho imparato ad accettare serenamente la sensazione di non riuscire ad andare avanti, su tratti che sembrano falsipiani ma sono appunto tragicamente falsi! La Stura scorre impetuosa tra quel che resta delle sponde scompaginate dalle frane; Sambuco, ancora un po' di salita affannosa, Pietraporzio. Ivano resta al mio passo, non un metro più avanti. E poi qui l'argomento è spinoso, si parla di doping. Certo che è drammatico dover accogliere le ragioni altrui quando non le approvi... Solo perché non hai il fiato per contestare! Proprio sul curvone prima delle Barricate mi devo infervorare? La discussione dura per un po', mentre gli occhi si riempiono dei bellissimi paretoni nella luce del mattino; chissà quando sistemeranno la stradina che passa all'esterno della galleria? Lo spettacolo varrebbe bene il rischio di beccarsi un rocco sulla capoccia! E nella concitazione del combattimento verbale, se ne va in un attimo anche il rettilineo del Villaggio Primavera. "Sono dei disonesti – tuona Ivano – gente che ha raggiunto soldi e successo barando". No, non è vero, o forse può anche darsi ma non m'interessa, non condanno e non condannerò mai un ciclista, foss'anche pieno fino alle orecchie! Anzi, a dire il vero in questo momento un aiutino servirebbe anche a me... Meno male che la valle qui si apre in tutta la sua bellezza, annullando la fatica. A parte l'orrendo obbrobrio di cemento, scheletro pericolante all'inizio del pianoro, che ancora resiste alle offese delle nevi invernali: ma cosa s'aspetta a raderlo al suolo?



Le marmotte, ancora magre ed un po' stordite; le fontane di Argentera, di cui una è la prescelta per fare il pieno; poi via, finalmente i tornanti, che ci prendono e ci lanciano su verso il colle, in compagnia di quel che resta di poche baite, del vallone sulla nostra sinistra, ancora carico di neve, di qualche camion, ma pochi. La fontana di Napoleone, che per l'occasione in questo periodo ha ben due getti, ancora il lago: checché ne dicesse Ivano poco fa, la neve sopra c'è ancora! E' il mio turno di raccontare, ora... Ma io non possiedo l'arte oratoria del mio compare, anzi, tendo alla stretta sintesi, perlomeno a voce: non so creare suspence... Devo andare subito al sodo, dire cos'è successo quando e perché. Ho sempre l'incubo di annoiare: per iscritto no, è diverso, chi mi legge se s'annoia può sempre smettere di leggere...

In cima non mi fermo; tiro su cerniera e manicotti e tiro dritto, sotto l'occhio perplesso di un ciclista con cui invece Ivano attacca bottone. Mi racconterà poi d'essere stato riconosciuto... E ti credo: se lo conosci lo eviti! Discesa serena, qui è facile; anzi, alle volte tocca persino pedalare. Ho ancor sempre lo scrupolo di rallentare al punto in cui, anni fa, a Larche c'era il controllo della Gendarmerie... Ormai il confine non è più un problema. Presto Ivano mi raggiunge e se ne va; lo ritrovo poco prima di La Condamine, sul ponte, accanto al Forte. Il vento ora soffia contrario e fastidioso: già prima, in discesa, ho notato con disappunto che il cielo si stava velando. Ma no, non succederà nulla; MeteoFrance dixit! Alla peggio, un po' d'ombra. Dovrei stare a ruota, ripararmi un po', ma la testa viaggia per conto suo tra mille pensieri, di cui milleuno riguardano ovviamente la bici. A Jausiers il cartello al bivio con la strada per la Bonette è ancora irrimediabilmente rosso. Tirem'innanz verso Barcellonette: ancora un po' di chilometri di traffico e falsopiano, del resto mi ci dovrò abituare, oggi. La cornice di montagne è ormai nota ma sempre bellissima. Incappiamo in un curiosissimo cicloturista a tre ruote: due per la normale bici, più una terza agganciata in qualche modo al mozzo della ruota posteriore ed usata come portapacchi. Sorpasso e fotografo; tocca ad Ivano, il francofono dei due, attaccare bottone. Il ciclista è di Evian, è in viaggio verso la costa; oggi farà solo pochi km e si fermerà in campeggio a Barcellonette. Noi invece procediamo in paese, raggiungendo esattamente il km. 100: breve sosta tecnica, benedette cittadine francesi prodighe di bagni pubblici, e poi via, verso l'ignoto, ciclisticamente parlando.

Litighiamo ancora con il vento fino al lago, benché la strada sia tranquilla ed in leggera discesa. Poi, finalmente, il panorama, la salita, dritta ed infinita. Possiamo dir grazie alle nuvole, perché fin qui avremmo già raggiunto la cottura, garantito! Invece fa caldo, ma non insopportabile. Insopportabili sono solo i miei piedi, che al minimo accenno di calura gonfiano e fanno un male boia, nonostante le scarpe nuove. Lo dicevo, io, che non era colpa delle scarpe... Ogni tanto sgancio un piede e lo scuoto, poi sgancio l'altro e idem; stringo i denti e si va avanti. Ivano mi ricorda che tra un po' potremo godere delle gioie della Coca Cola... Il lago ormai è alle spalle, non lo vediamo più; raggiungiamo il paese, brutto direi, proprio brutto. Pausa e... Mi giro, non credo ai miei occhi: Ivano ha in mano una lattina di Coca Cola! Me l'appoggia sulla spalla, è anche fredda... Meraviglioso!



Sono senza parole, una sorpresa del genere non me la sarei mai aspettata; tracanno la Coca con la foga di chi non beve da settimane e riparto con una marcia in più. Scegliamo di raggiungere Seyne per la stradina secondaria che passa in mezzo al paese di Saint Jean: ancora un po' di salita e di discesa, in mezzo ai pascoli e ad animali di ogni genere, mucche, cavalli, pecore, asini, capre. Su e giù in mezzo al nulla, non si vede anima umana viva qui! E non è affatto un male, anzi.

Discesa su Seyne, ancora una fontana: oggi la calura ci costringerà a parecchie pause. Ne approfitto per mangiare una merendina con la marmellata e bagnarmi la testa. E' la volta del Col de Maure, per il quale il termine "colle" è un tantino esagerato... La risalita infatti è molto breve. Da qui a Digne, secondo Ivano, c'è solo più da scendere; la via è agevole e veloce per qualche chilometro. Passiamo il paese di Grand Puy, il "grande spilorcio" secondo la fantasiosa traduzione franco-piemontese-italiano del mio inossidabile compagno di viaggio. Abbandoniamo la strada principale al bivio per Verdaches; qui la sede stradale si riduce in modo drastico. La nostra via attraversa pochi minuscoli abitati, giardini e profumi di carne alla brace, per poi infilarsi in mezzo ad una bellissima gola, pareti a picco ed a tetto sopra l'asfalto, acqua che scorre e produce un rumore che rimbalza contro i muri di roccia perfettamente verticali.



Mi fermo per qualche foto e l'occhio mi cade su un oggetto curiosissimo: una specie di pigna gigante, alta più di una persona, costruita a secco con pietre piatte impilate, piazzata lì accanto ad un albero ad indicare chissà che cosa. In mancanza di un nome, lo ribattezziamo per il momento "cazzabubbolo": sarà poi nostra cura, domani, indagarne l'origine.



Il viaggio nelle Gorges è lungo ed affollato di ciclisti di ogni ordine e grado; ce lo godiamo anche perché, in discesa, le bici scorrono da sole, senza fatica. E' solo all'uscita delle Gorges, nella piatta verdissima pianura, che ci piomba addosso la caldazza del primo pomeriggio. Siamo a Digne: s'impone una pausa con spesa, gran mangiata e gran bevuta. Infatti saccheggiamo un minimarket e ci accampiamo all'ombra su una panchina del parcheggio dei bus, sollazzandoci con Coca Cola, succo di frutta, yogurt ed una provvidenziale focaccia che Ivano estrae dalla sua borsa posteriore di Mary Poppins. E' inutile, ha ragione lui: è vero che io marcio a barrette e dolciumi vari, ma un bel lenzuolo di focaccia mi sarebbe d'immenso aiuto psicologico. Vedo, memorizzo e copierò: se Ivano non ha mai fallito una rando, nemmeno la più folle delle rando concepibili, una ragione ci sarà.
La pausa si prolunga un po' troppo per i miei gusti: fremo... Ma mi sforzo di star calma, in fondo di tempo ce n'è, nessuno ci corre dietro, non abbiamo un cronometro che ci assilla. Gian, prendila come un viaggio. Goditela come un viaggio. Guardati intorno, cerca di apprezzare il movimento ma anche il riposo. Ti servirà! Ciò che mi consola è che, dopo quasi duecento km, sto bene e mi sento fresca, si fa per dire, vista la temperatura. Sono le tre e mezza del pomeriggio.

Riprendiamo la marcia dopo un'altra sosta tecnica per me: ahi ahi, oggi marca male... Il pancino non pare essere troppo d'accordo allo strapazzo. Ce ne andiamo sotto gli sguardi curiosi di un gruppo di pensionati rifugiati al fresco delle fronde degli alberi, direzione Col de Corobin: poco più di una decina di km di salita. Passando accanto alle terme, un cartello invita a "calma e gesso", come si conviene ad una spiccia ed essenziale traduzione. Tutt'intorno, verde dei prati, verde degli alberi e montagne dai fianchi verticali, dalla forma squadrata. La salita non è dura, ma è costante: quando sembra d'esser giunti in vista di uno scollinamento, ci accorgiamo che non si tratta della meta, bensì di un colletto intermedio, il Col de Pierrebasse. Terribili 'sti Francesi: metterebbero un cartello "Col de Cippirimerlo" a qualsiasi minimo dosso... Lo spettacolo è splendido, anche se d'un tratto ci accorgiamo che la strada serpeggia e sale ben più di quanto ci aspettavamo, dovendo per giunta recuperare un po' di discesa. Il sole picchia con vera crudeltà ora: i miei piedi urlano come non mai... E la testa è pesante, ottusa più del solito. Un caldo rabbioso, che pure mi piace tanto, anche se amplifica la fatica, rende più pesante lo zaino, più duri i pedali. Tornante dietro tornante, da prendere rigorosamente alla larga, fino all'arrivo del colle, quasi insperato. Quota 1230. Discesa veloce su Barreme, godendomi i brividi dell'aria sulla pelle sudata; in paese c'è una fontana... Non possiamo esimerci da una pausa. Ho la testa che scoppia ed i brividi, non è un buon segno; meglio correre ai ripari. Splendida fontana con due getti: ci butto sotto la testa, mi bagno le braccia, i polsi, mi sciacquo la faccia; via le scarpe, dentro anche i piedi. Ivano, senza tanti complimenti, salta nella vasca così com'è. La botta di caldo ha lasciato il segno su entrambi!

Un anziano che passa di lì ci squadra divertito e ci chiede se siamo italiani: ehm... Si vede così tanto? Ci avvisa che il primo che ha osato bere a questa fontana è morto... Eh bin pazienza, ormai è fatta! Attaccano bottone, lui ed Ivano; scopriamo così che il simpatico passante ha sposato una donna di Borgo San Dalmazzo e che conosce bene la zona di Cuneo. Ne salta fuori anche un'informazione utile: il Col de la Cayolle è aperto! Buono a sapersi, per il prossimo giro.

Ancora una volta riprendiamo la marcia, sottraendoci a fatica dal diluvio di parole dell'inatteso interlocutore. Chissà che ora è? Ormai ho perso il senso del tempo. Sarà tardo pomeriggio. Tra un paio di chilometri, dovremmo incontrare il bivio che ci immetterà sulla stradina del Col du Defend: lasciamo la strada principale, per percorrere un lungo ferro di cavallo che ci porterà su al colle e dinuovo giù sulla strada maestra. Stradina meravigliosa che inizia attraversando un ampio pianoro verdissimo; tante cascine, qualche minuscolo borgo, quel che resta di un castello sul costone della montagna, sulla destra. Ivano resta un po' indietro, poi mi raggiunge; siamo entrambi stregati dalla bellezza di questo luogo, incantevole e deserto, nella luce gialla della sera che incalza. Passa un'auto di contadini, nulla più, e la stradina si stringe e si stringe ancora. Incontriamo una borgata, la strada che passa quasi nel cortile delle cascine; fendiamo un piccolo gregge di pecore: tanti cuccioli, il giovanissimo pastorello, il cagnetto bianco ed arruffato del pelo di pochi mesi, gli agnellini belanti e spaventati. Sette, otto chilometri al colle; ancora una pausa, poco più avanti, per coprire di coccole due cagnoni al seguito di un altro gregge, sotto l'occhio perplesso di un pastore dalla pancia prominente. Cani magri, troppo magri, eppure festosi, che quasi non mi lasciano più andar via; poi più nulla, solo verde e montagne dai fianchi sabbiosi. In un tornante, la sorpresa: un'altra "pigna" di pietre impilate, identica a quella che abbiamo visto nelle Gorges prima di arrivare a Digne; un altro "cazzabubbolo". La curiosità cresce!



Il colle questa volta ci costa meno fatica; la temperatura è scesa parecchio. La lunga discesa ormai tutta in ombra mette i brividi: aveva ragione Ivano, avrei dovuto infilare la giacca...

A St Andrè des Alpes optiamo per la pausa ristoratrice prima della notte. Ormai sono le otto, più o meno; tra non molto sarà buio. Conviene fermarsi qui, che è l'ultimo baluardo di civiltà raggiungibile ad un'ora tale da trovare ancora qualche bar o pizzeria aperto. In effetti una pizzeria c'è, ma fa solo le pizze intere; a me piacerebbe... Ma Ivano non sembra dell'idea. Mi rassegno all'idea del bar: facciamo fuori qualche Coca Cola ed una crepe al formaggio. In realtà, ho abbondanza di scorte alimentari, ma ho piacere di qualcosa di caldo e salato per spezzare la monotonia delle barrette e della fatica. Ennesima sosta tecnica... La vedo davvero male per la notte! Chissà cos'ho mangiato di tanto sconvolgente?
Una parte di me si ribella alla pausa, vorrebbe alzarsi, andar via, sfruttare ancora quella poca luce che resta. Però, d'altro canto, mi rendo conto che questa sosta è necessaria, perché la notte sarà lunga e, per me, difficile. Distraggo i pensieri negativi chiacchierando con Ivano, che non si sottrae mai e non manca mai di riuscire a farmi sorridere, anche nella tensione. Poi ci congediamo e ci attrezziamo per la notte: luci, rifrangenti e via, si riparte. Prima lungo uno stradone ampio ed angosciante, poi su per una bella salita finalmente deserta. Solo che sta calando il buio e, di pari passo, sta crescendo la mia inquietudine. Buio pesto: a Demandolx non c'è più anima viva, solo due gatti che si rincorrono sorvegliandosi a vicenda e sorvegliando noi. Saliamo e scendiamo lungo strade sperdute in mezzo ai monti ed a case e paesi addormentati; in cielo un diluvio di stelle, ma non posso vederle perché la luce della frontale dà fastidio. Eppure non posso spegnerla, perché ho difficoltà enormi nella vista notturna e già così è difficile. Ivano fa del suo meglio per distrarmi, perché è molto attento ed arguto; non gli è certo sfuggita la mia inquietudine. Per me è terrore puro, contenuto a fatica: mi sembra d'esser chiusa in una stanza buia, non riesco a vedere nulla al di fuori dell'incerto cerchio delle luci della bici; in certi momenti il senso di oppressione è tale che vorrei fermarmi, girare la bici, tornare al più vicino lampione e rannicchiarmi lì, passarci la notte fin quando i primi raggi dell'alba non verranno a salvarmi. Non riesco più a replicare alle battute, anzi non riesco più a sentirle; sto combattendo i miei fantasmi, lasciatemi stare, lasciatemi sola!

Poi pian piano mi abituo, o forse mi rassegno, e con il calare della tensione ecco che arriva il nemico peggiore, il sonno. Gli occhi che si chiudono, e se anche non si chiudono c'è la mente che si spegne; pensare ad altro, cantare a bassa voce, ripetere i versi di una poesia, battere i denti, stringere i pugni: tutte cose che servono per pochi istanti, ma poi il sonno torna prepotente e non c'è nulla da fare. Lo sapevo già, ho dormito troppo poco nei giorni scorsi, come sempre. Provo la pastiglia di caffeina da 200 mg, nulla; provo più avanti quella da 300, nulla. Ivano mi aiuta, si mette a cantare: proprio come gli ho chiesto, pesca dal repertorio in piemontese dei fantastici Trelilu... Ed ha una voce così bella che nulla ha da invidiare agli originali. Inutile, come attore di cabaret avrebbe avuto successo!

Purtroppo le risate valgono solo a ritardare, ma non a cacciar via la crisi. La prima volta sono costretta a fermarmi accanto al muretto di cinta di una casa: appoggio la bici, mi butto a sedere, chiudo gli occhi, la testa contro il muro. Un sonno profondissimo eppure quasi vigile, in cui sogno ma sono cosciente che tra poco Ivano, fermo poco prima, passerà a mi chiamerà. Invece mi risveglio dopo un tempo indefinito e di Ivano non c'è traccia. Torno indietro, apparentemente ben sveglia; lo incrocio che pedala trafelato, reduce da una foratura. Beh, egoisticamente per me, direi che è stata provvidenziale!

Si riparte, ma tra salite e discese in questo nulla mi fermo ancora più e più volte: solo per appoggiare pochi secondi la testa al manubrio, oppure proprio per stendermi od appoggiarmi. Una volta è il muretto a secco basso, a bordo strada, su cui mi allungo stando sulla schiena mentre Ivano si sdraia nell'erba alta del prato; un'altra volta è l'erba anche per me. Nulla, né il freddo, né l'umidità della notte, vale a vincere il bisogno disperato di dormire. E' un sonno sempre profondissimo, istantaneo, quasi accelerato, come se il corpo già sapesse di dover sfruttare all'osso quei pochi minuti di tregua. All'improvviso sento un animale passarmi accanto al fianco, forse una lucertola, forse un topo, ma la stanchezza mi impedisce di restarne inorridita e di muovermi. A fatica, tra il sonno ed il mal di pancia e la difficoltà di vista, procedo a singhiozzo, sempre in compagnia del buon Ivano che, povero lui, credo si sia già pentito di aver accettato di unirsi al viaggio. Lui non patisce nulla, un po' per l'esperienza accumulata negli anni in questo genere di mattane, un po' forse anche per il lavoro sui turni che già di norma lo abitua alla vita notturna. Io sono a pezzi: accolgo come una liberazione il primo accenno di chiarore che stacca la cornice delle montagne dal cielo, ma ancora non riesco a sfuggire al sonno, tanto da dovermi ancora appoggiare una volta al basso parapetto, seduta a terra, appoggiandoci la testa. Ed è già chiaro; mi risveglio con l'animo gonfio di delusione, angoscia ed anche dispiacere per il calvario a cui sto costringendo il mio povero compare di sventure. Che però capisce, non si arrabbia, non parla, ma sa benissimo quanto sia importante per me il suo abbraccio rassicurante.

Nei pressi di S. Martin du Var, quando ormai è mattina fatta ed abbiamo alle spalle paesi e colletti – St Auban, Briançonnet, Collongues, Pont du Miolans, St Antonin, Ascros, Toudon, Collet de Sausses – ci infiliamo nella prima boulangerie che incontriamo, accanto a cui c'è anche un distributore di bibite e di caffetteria. Non credo ci voglia molto a leggermi in faccia lo stravolgimento: stanca, assonnata, preda del mal di pancia, eppure affamata. Sbrano un pezzo di pizza col formaggio, bevo un disgustoso caffé espresso; mi sforzo di star dietro ai discorsi di Ivano ma ho la testa che scoppia. Che disastro... Per fortuna ripartiamo: la salita lunga e dolce verso Castagniers mi rimette immediatamente in sesto. La luce finalmente viva e calda del mattino, l'aria ancora frizzante; finalmente riacquisto coscienza di dove sono, vedo quel che c'è intorno a me. Torna l'allegria, la voglia di andare. E di chiacchierare. Siamo in mezzo alla civiltà: un po' mi spiace, ma non mi lamento, dopo la lunga interminabile solitudine della notte. E si vede il mare. Ville dietro ville, lussuose piscine e tinozze improvvisate per non essere da meno; Castagniers, leggera discesa, poi Aspremont, Tourrette Levens. Ci sono stata da poco, qui, appena lo scorso aprile. Col de Chateauneuf: in cima ci concediamo ancora una pausa; Ivano si sbrodola nel prato, io lavoro di ganasce sulla merendona con l'uvetta che abbiamo comprato stamattina in panetteria. Ennesima sosta tecnica, non ne posso più... Anche perché quassù c'è una certa qual folla; ad un certo punto, da un furgoncino scendono tre persone indaffarate ad allestire un punto di ristoro. Per cosa?, s'informa Ivano: per il passaggio di una corsa a piedi, da 35 km. Bello!

Riprendo la discesa verso Chateauneuf-Villevieille e ancora avanti, a Contes, dove trovo un'invitante fontana. Il sole ha ripreso a scaldare, cattivo; i piedi a far male. Arriva anche Ivano; pieno alle borracce e si riparte. Accolgo con entusiasmo la proposta di una bella salita, a Peille: una salita tutta a tornanti... Musica per le mie orecchie! Infatti, dopo un tratto di avvicinamento noioso ma breve, la strada s'impenna e, rampa dopo rampa, sale su in mezzo a ville ed ulivi, cattiva, bollente di sole. Eppure scopro con soddisfazione che le gambe stanno bene, girano allegre, senza difficoltà, senza indolenzimenti, nulla di tutto ciò. Posso persino permettermi qualche breve allungo. E' come se le difficoltà della notte fossero svanite tutte insieme. Abbiamo quattrocento e rotti km nelle gambe e, a stima, circa seimila metri di dislivello! Come si fa a non essere gaudiosi?
Ivano fatica per il caldo asfissiante, ma non molla. A Peille arriviamo assieme. Accanto ad uno degli ultimi tornanti, una bella fontana: ma no, non ho bisogno d'acqua, non mi fermo... Poi lancio uno sguardo più attento ed approfondito al bell'esemplare di masculo ciclista, carnagione scura e capelli biondi lunghi e raccolti, vestito di maglietta e pinocchietto bianchi, intento a riempire le borracce accanto ad un'improbabile mountain bike: male, ho fatto male a non fermarmi!

Oltre il paese, ancora un breve accenno di salita fino alla galleria, poi la lunghissima discesa vista mare. A La Turbie, ennesima pausa alla fontana, in mezzo alla via centrale straripante di turisti e macchinoni, uomini con le infradito ed il cellulare come prolungamento del lobo dell'orecchio, donne ipertruccate in tacchi alti e pancia di fuori, mocciosi che strepitano, la fiera dell'inutile! Entro in un negozietto, compro una Coca e tre birre come souvenir per Ivano che lamenta la mancanza di quella certa marca in Italia; poi via, per favore, via da qui. La fame ormai morde, ma manca poco alla nostra meta. Ancora lunga la discesa su Mentone, lunga e trafficata; ci fermiamo per un attimo a buttar l'occhio su Montecarlo, la folla di barche vicino alla spiaggia, il caos per il Gran Premio; no, mi spiace, non apprezzo nulla di tutto ciò, né Montecarlo, né Mentone, la sua folla, il caos, le auto, i bagnanti, il rumore che mi batte in testa. Via di qui. Basta seguire la costa: dietro, Ivano non c'è più, sarà rimasto impantanato nel traffico. Semafori e semafori: ricordo con divertimento e brivido la volta in cui, un anno e più fa, in compagnia di un folle gruppo di ciclisti liguri,, s'è attraversata tutta la costa da Arma di Taggia a Montecarlo senza nemmeno considerare l'esistenza di incroci e semafori... Oggi no, me la prendo comoda. So che dopo la dogana mi attende ancora qualche galleria ed un tratto di risalita; proprio lì, dove la strada torna a pendere, mi supera Ivano di gran carriera e sparisce avanti, chissà cosa gli è preso. Mi spiegherà poi che s'era appena ripreso da una cotta memorabile subita attraversando Mentone...

A Ventimiglia riesco ancora a sbagliare strada una volta, l'unica in cui mi trovo a passare davanti ad Ivano. Allungo di un km la strada per la stazione ferroviaria: ci arriviamo a cifra tonda, chilometri quattrocentocinquanta. Un gelato, ce lo meritiamo, anzi Ivano se ne merita due! Stanchi e felici, soddisfatti, davvero. Ancora la fatica del trasporto delle bici nel sottopassaggio, poi ci accomodiamo sui sedili di un treno che pare una cella frigorifera. Su le giacche e via, ci abbandoniamo cullati dal rumore ritmico delle ruote che ci riporteranno verso Cuneo, contenti e malinconici perché è già finita... Ma con la certezza che ci sarà presto una prossima volta.

venerdì 15 maggio 2009

9 maggio 2009 - Da Carmagnola al Col de Vars e ritorno in giornata

Ormai non manca molto alla data fatidica: 30 e 31 maggio, i giorni del Raid Provence Extreme, sono dietro l'angolo. E' con questo chiodo fisso che, già da una quindicina di giorni, stavo meditando ad un ultimo allenamento di quelli seri, lunghi, con la notte in mezzo da trascorrere in sella. La prima idea, spuntata quasi per caso nelle nebbie di un noioso pomeriggio di ufficio, prevedeva un giro che da Carmagnola mi avrebbe portata al Colle della Maddalena e, da lì, via Col de la Cuillole, Saint Martin Vesubie, Col de Turini ed altri, fino al mare, per poi rientrare via Langhe: peccato che avessi trascurato il piccolissimo particolare che, in mezzo a tutto ciò, c'è anche il Col de la Cayolle... Ovviamente chiuso, in questa stagione; anzi, scoprirò più avanti, chiuso per lavori fino al 2 giugno. Meno male che ci ha pensato Matteo a farmi aprire gli occhi! A dimostrazione della cura meticolosa con cui mi dedico alla pianificazione scientifica del viaggio...
Nessun problema; incassato il colpo, ho già in mente un'idea alternativa. Dalla Maddalena potrei andare al Col de Vars, scendere a Guillestre, svoltare per Embrun, girare attorno al lago di Serre Ponçon, passare a Barcellonette, risalire al Vars e da lì Briançon, Monginevro, Sestriere, Pinerolo, Bibiana, Montoso per gradire, Bagnolo, casa. Circa 520 km, a seconda delle alternative possibili nella zona del lago, per... Dislivello, boh, 7, 8 mila metri, a quel punto lì non fa gran differenza. Un programmino molto ambizioso, certo, ma in fondo non troppo distante, quanto ad impegno e sudore da spendere, da altri percorsi che più o meno ho già visto di poter portare a termine.
Ecco: se riuscissi nell'impresa, allora potrei avvicinarmi all'appuntamento di fine maggio, da quasi 600 km, con un po' di fiducia in più. La data prescelta per l'avventura, da incastrare tra una gara ed un viaggio e mille impegni sportivi già stabiliti, è il fine settimana del 9 e 10 maggio. Una volta tanto, caso più unico che raro, riesco a preparare lo zaino con un giorno di anticipo ed un po' di calma; ci metto un copertoncino di ricambio, il telo termico, una felpa, un berretto e guanti lunghi per la notte, luci, giacchino e bande rifrangenti, corredo di medicinali con antiinfiammatori, Muscoril e qualcosa per eventuali turbe del pancino, pappatoria in forma di barrette e cioccolato e gel energetici, soldini, documenti; in più, borsello anteriore da bici con giacca per la pioggia, macchina fotografica e telefono, e borsello sottosella con due camere d'aria e tutto il necessario per piccole riparazioni di difficoltà elementare. Purtroppo, manca l'elemento che sarebbe più prezioso in assoluto: la ragionevole certezza di trovare bel tempo, per me condizione indispensabile per affrontare sui pedali una notte in mezzo ai monti. Avventura sì, ma suicidio no... Non sarei preparata, né fisicamente né di testa, per una situazione del genere. Purtroppo MeteoFrance annuncia nuvole per sabato e peggio per domenica; idem, al di qua delle Alpi, Meteoitalia. Questo l'ultimo bollettino del venerdì. Ma il dubbio di poter rinunciare non mi sfiora nemmeno: ho deciso che vado e vado, punto e basta. "Torno domenica sera, non preoccupatevi", saluto così mamma e parenti vari, che ormai non si scandalizzano nemmeno più, e parto, fiduciosa che, se riuscirò almeno ad evitare la pioggia fino a domenica mattina, potrò poi andare a cuor leggero oltre il Monginevro. Infatti, da lì avrò comunque a disposizione vie di fuga per un precipitoso rientro a casa via pianura se la situazione dovesse davvero volgere al peggio.

Carica come un mulo da soma, mi chiudo il cancello di casa alle spalle sabato mattina, verso le sei e un quarto, col favore di un cielo appena velato, ma con l'animo listato a lutto per un guaio stupido combinato il giorno prima in ufficio; soprattutto, per la figuraccia barbina che poi ho dovuto affrontare in conseguenza. Confido che la bici porti consiglio e sollievo, ma per lunghi interminabili chilometri di pianura, fin quasi a Cuneo, non riesco a pensare ad altro; pedalo, pedalo, ma la testa è sempre lì, alla telefonata di ieri, quelle parole pesanti, "Non avrebbe dovuto succedere", e infatti è vero, non avrebbe dovuto succedere, non avrei dovuto commettere un pasticcio tanto idiota, non dopo cinque anni e mezzo di questo lavoro che in fondo non ha mai fatto per me. Se l'avesse fatto qualcun altro, avrei commentato "Ma questo la laurea come l'ha presa... Coi punti del Dixan?". E invece no, io l'ho presa con le mie risorse, quindi peggio ancora, non ho proprio scusanti!

Il parco verde e rigoglioso del Castello di Racconigi meriterebbe una foto nella luce del mattino, ma non ne ho voglia, non sono in animo. Anzi, non mi volto nemmeno a guardarlo, il castello; tiro dritto sotto il viale, tutto uno slalom tra buche e rattoppi di un asfalto che nemmeno il Terzo Mondo ci invidia. Cavallermaggiore, i pioppeti che recano ancora i segni dell'allagamento causato dalle piogge dei giorni scorsi, il fango che secca e si spezza con crepe profonde e nette; Savigliano, il negozio di bici nel capannone di periferia, il Maira gonfio d'acqua ancora grigia, torbida; un semaforo, prima pausa della giornata. Ancora rettilineo fino a Genola, ma non si passa in paese, solo in mezzo alla zona commerciale; poi ancora piattume fino a Levaldigi, l'aeroporto in mezzo alla campagna, ma senza aerei che partono o arrivano, peccato. Le montagne da qui dovrebbero già vedersi bene... Ma c'è una cappa grigia che avvolge tutto. Ancora piattissima piattura, Centallo; ancora una decina di km e finalmente Cuneo. E' solo qui, sul primo cavalcavia della giornata, che finalmente mi scrollo di dosso la malinconia: sarà che vedo la Bisalta, lo sento, mi si stampa in viso un sorriso da un orecchio all'altro, e chissà cosa penserà chi mi vede. Le montagne, le mie montagne! La Ridley non le aveva ancora viste così da vicino, lei che è nata a dicembre, in piena stagione di sci.

Il sole è calduccio, picchia qui sulla pianura. I monti però sono tutt'altro che limpidi e sgombri; anzi, c'è una coltre di nubi scure ad incappucciarli. Ma nulla sembra preoccuparmi sul serio, oggi, nulla che abbia a che fare con il mio viaggio. Magari il tempo mi sembra peggio di quel che è in realtà, perché sono ancora in pianura, da qui non posso giudicare; magari poi le nuvole si dissolvono, se ne vanno, chissà. Aggiro Cuneo per la strada che passa davanti all'Ospedale Carle; solo qui, dopo circa sessanta km, le prime tracce di pendenza. Borgo San Dalmazzo, Gaiola, Moiola: ancora saliscendi, traffico sì ma non troppo. Il cartellone luminoso all'uscita di Borgo annuncia solo alcuni lavori in corso: meno male, non dovrei trovare intoppi lungo la mia strada.
Temevo tanto il rettilineo da Festiona a Demonte, in leggera salita, uno di quei terreni su cui soffro l'impossibile: eppure in un attimo mi ritrovo nella via centrale del paese, con l'occhio che guizza tra le vetrine delle panetterie e dei bar, con particolare indugio su quella della celeberrima pasticceria Agnello. Ma chi si ferma è perduto, notoriamente, e in questo caso sarebbe pure condannato all'ingrasso. Procedo stoicamente; ormai la pianura è un ricordo, sono in valle, fa più fresco ma mi ci sento quasi a casa. E poi non sono sola: i camion di Lannutti oggi vanno su e giù in forze! Il loro telone verde è ormai di famiglia per me.

Procedo però con qualche sbadiglio di troppo: sarà che stamattina, a colazione, dopo i due etti e mezzo di tortellini ricotta e spinaci non ho preso il caffé. E' un senso di sonnolenza fastidioso, costante; spalanco le ganasce come i passerottini appena schiusi fanno col becco in attesa del vermiciattolo... Non dev'essere un bello spettacolo! Ma sì, in fondo è già da un po' che viaggio; potrei anche pensare di concedermi una sosta caffé, doppio ovviamente. Supero Aisone, azzeccando una volta nella vita il semaforo verde – ma non è che mi sia mai lasciata intimorire dal rosso, non in bici perlomeno. Ancora qualche km, Vinadio è già lì: sulla piazza centrale, accanto al distributore di carburanti, appoggio la bici al muro di un palazzo ed entro nel bar. Mi accoglie, dopo qualche istante, un signore anziano e simpatico: s'illumina quando mi vede in tenuta da ciclista, "Anche mio figlio va in bici, ieri è andato alla Maddalena, oggi là davanti a Demonte... Come si chiama...". Alla Madonna del Colletto: sono ancora belli gli occhi di quest'uomo, anche tra le rughe; brillano al nome del figlio. Chiedo un caffé doppio, ci annego due buste di zucchero; l'anziano mi chiede da dove arrivo, sussulta quando gli dico che son partita da Carmagnola e che vado al Vars... Tristemente profetico questo annuncio: mi fermo al Vars, perché è inutile che tenti di spiegare l'idea di un viaggio che nessuno potrebbe credere; non immagino ancora, ahimé, quanto ci sarà di vero in questa piccola bugia!
Resterei ancora un po' a chiacchierare; chissà quante cose ha da raccontare questo signore. Ma la strada chiama; lo sa, che io non posso resisterle. Così, zaino in spalla, ancora fuori, sotto un sole sempre più incerto, sotto gli occhi incuriositi di un gruppetto di persone sedute accanto al distributore, che per un attimo interrompono una dotta disquisizione sulle tariffe telefoniche. Col caffè doppio in corpo, spero mi passi la sonnolenza; sarà effetto placebo, sarà realtà, ma mi sento già meglio.

Di fronte al parco di Vinadio ed al Forte c'è un manipolo di ciclisti dall'aria poco agguerrita nonostante l'abbigliamento tecnico e le bici da cassaforte; mi sa che han voglia più di tintarella che di pedali. Breve discesa, passo davanti al bivio per il Colle della Lombarda: inesorabilmente sprangato, sia il colle che la salita al Santuario di Sant'Anna. Poi il falsopiano accanto alla Stura e le prime gallerie: le temevo, invece le salto senza fatica. Ad ogni piè, anzi pedale sospinto, mi è facile far la conta dei danni causati dalle piogge recenti ed abbondanti: ovunque si vedono tracce di frane, sulla strada o dall'altro lato della valle, alberi sradicati, spezzati e rotolati nel greto del fiume, tracce di lavori di contenimento fatti da poco. Piove, per ora solo in galleria; faccio lo slalom tra le pozze. Davvero, non me lo spiego: la salita alla Maddalena, dal lato italiano, è sempre stata per me una delle più indigeste, eppure oggi, malgrado lo zaino, non ho ancora abbattuto nemmeno un paio di santi. Supero Sambuco, raggiungo Pietraporzio; tengo d'occhio il cielo, che offre di tanto in tanto qualche francobollo di azzurro ma subito lo ritira, sdegnoso. Sul curvone che precede le Barricate mi superano due ciclisti più leggeri e veloci di me; come sempre, trattengo un po' il fiato... Per poi tornare a soffiare come un mantice quando ormai sono certa che non mi sentono più. Altrimenti rischio che chiamino il 118!

Le Barricate sono uno spettacolo che mi affascina tantissimo, ogni volta che le vedo, da quando, piccolina, venivo quassù a seguito degli adulti camminatori. Peccato che la galleria le nasconda alla vista, sono imponenti, quasi minacciose. La galleria tra l'altro è gelida ed in leggera salita. Quel che segue, poi, ormai lo conosco a memoria; Prinardo, il rettilineo del Villaggio Primavera, Argentera. Tutti chilometri che scorrono con inaudita leggerezza. Sarà merito dei tortellini al formaggio? O del caffé? Mah... Nell'ampio pianoro successivo, non c'è ancora traccia di campeggiatori; solo mucchi di neve, piccoli torrenti tra i pendii, una splendida fragorosa cascata. E si sentono le marmotte, le primissime: fischiano ossessive, vicine, ma non le vedo tra l'erba ancora secca di gelo. Povere bestie, temo che questa stagione non sia propizia per loro. Chissà se trovano già cibo a sufficienza.

Supero le voragini nell'asfalto di Bersezio, riempo la mia borraccia dal fondo muschiato ed attacco, finalmente, gli ultimi tornanti che portano su al colle, giusto in tempo per ammirare ed invidiare l'abilità di alcuni camionisti con i loro lunghissimi Tir. Un gruppo di scialpinisti torna verso le auto con gli sci in mano: che strano effetto... Ed io in bici! Curva dopo curva, raggiungo la Fontana di Napoleone, solo per accorgermi con tristezza che uno spigolo della vasca in pietra si è spaccato ed è caduto nella canaletta dell'acqua: effetto del freddo, o vandalismo?

L'ultimo chilometro prima del colle è spazzato da un vento gelido; intorno è ancora tutto bianco, il lago non si vede, ancora sepolto da uno strato di neve. Tutto tace, non c'è nessuno: tempo di indossare giacca e berretto e sono già in discesa, pensando che sì, tra poco pioverà, ma non ho intenzione di gettare la spugna solo per un sospetto. Discesa veloce, da brividi ma solo per il freddo; una comitiva di escursionisti protetti da spesse giacche a vento a Larche, qualche temerario ciclista in salita, qualche marmotta ancora intontita che resta a lungo immobile in mezzo alla strada prima di sparire in qualche invisibile buco nel terreno.
Come al solito, non c'è ombra di gendarme a sollecitare il rispetto del divieto di passaggio ai ciclisti; i semafori sono spenti, la frana non sembra aver voglia di scomodarsi, non oggi. Passo tranquilla, fino in fondo: al bivio per il Vars, svolto a destra, breve pausa per svestirmi e poi mi rimetto in cammino. Che emozione intensa, essere qui, ancora, dopo mesi e mesi. Eppure mi par d'esserci passata ieri: ormai sono le mie strade, queste; è casa mia. Anche qui, i primi chilometri, che di norma odio con tutto il cuore, scorrono e vanno via; il bivio per Tournoux, il ponte sul greto di un torrente che oggi, credo una delle rarissime volte da quando ci passo, accoglie un po' d'acqua, le due gallerie, il bivio per Saint Paul. Da qui si può dire che inizi la salita, a 8 km dalla cima, anche se poi quelli duri sono gli ultimi 5. Il cielo, boh, adesso non se ne vede più. Solo nuvoloni gonfi e scuri. Eppure non riesco ad essere preoccupata: sono semplicemente felice di essere qui. E' tutto bellissimo, anche se qualche goccia sta già scendendo: anzi, altro che qualche goccia, questa è una doccia in piena regola! Un minuto o poco più di solenne lavata, manco fossi finita sotto il getto di un irrigatore da giardino. Ma no, non è ancora ora: io sul colle ci arrivo, punto e basta! Poi mi sa che mi fermerò lì, tornerò indietro, perché la prospettiva della notte sui pedali in queste condizioni è un'idea che va al di fuori delle mie capacità di sopportazione. Certo, dovrei prima o poi vivere anche quell'esperienza. Ma poi? Se scendo a Guillestre e mi ritrovo sotto il diluvio, al freddo? Che faccio? Non sarei in grado di continuare. Sarebbe pericoloso e basta. No, va bene la fatica... Ma cacciarmi nei pasticci, no.

Ponticello, poche case, siamo a meno cinque. Sono pronta a stringere i denti... Ma non ce n'è bisogno, oggi le mie gambe accettano davvero ogni maltrattamento; anche qui, con la pendenza secca e costante, lavorano di buona lena, senza lagnarsi. Mi fa compagnia qualche motociclista avventuroso; ciclisti, per ora, nessuno. In un battibaleno sono su, al colle: il bar qui è aperto, ne approfittano due turisti tedeschi in cerca di conforto alimentare. Io no, devo decidere hic et nunc: Guillestre e l'ignoto, oppure indietro e casa? In realtà la risposta la conosco già. Sollevo la bici, la ruoto di 180°; mi metto la giacca e riparto. Piove. Beh... Almeno mi tolgo il dubbio.

Al primo tornante in discesa, incrocio una ciclista che sale con passo impressionante: molto alta, magrissima, tutta vestita di nero, maglia e pantaloni lunghi. Alla faccia del bicarbonato, che ritmo! Beata lei... Scendo abbastanza tranquilla grazie ai freni della Ridley, che anche sul bagnato non tradiscono. Il tratto finale, prima del bivio con la strada che va alla Maddalena, offre un momento di tregua dall'acqua, ma illusorio. Faccio appena in tempo a notare, in direzione di Jausiers, un cartellone giallo che annuncia la chiusura del Col de la Cayolle fino al due giugno: ah ecco... Non è colpa della neve bensì dei lavori in corso.

Mestamente riprendo la salita: 16 km al colle, poco più. Pioviggina. E mi basta superare i primi due tornanti ed infilarmi nel vallone, per scoprire, con sommo disappunto, che tira un odiosissimo vento contrario. E' forte, agita le fronde dei pini, respinge i miei sforzi per andare su; quando incrocio un camion, la somma dei due spostamenti d'aria fa paura. Solo una pausa alla prima fontanella sulla sinistra: riempo la borraccia e ci metto dentro un avanzo di maltodestrine di una busta raccattata a chissà quale gara di chissà quanti anni fa. Non so se servirà a qualcosa... Ma il gusto dell'acqua pura non lo sopporto più. E' già da un bel po' che sogno la Coca.
Riparto litigando con il vento e la pioggia sulle gambe, mannaggia a me che proprio oggi ho abbandonato i ¾; ripasso a Meyronnes, salgo ancora, e intanto faccio i conti per la sera: dunque, una campana ha appena suonato le quattro; sarò su alle cinque meno un quarto-cinque, poi con quest'acqua impiegherò una vita a scendere, e una tappa da Agnello già che ci ripasso davanti vuoi che non la faccia? Insomma, va a finire che una parte almeno della statale tra Cuneo e Carmagnola me la sciroppo al buio. E va bè, pazienza, di qualcosa bisogna pur morire prima o poi.

A Larche qualche anima viva ed infreddolita c'è, per quel poco che riesco a vedere attraverso le lenti degli occhiali bagnate. In realtà non penso che la temperatura sia poi così bassa; il guaio è che io sono bagnata e, come se non bastasse, il vento raffredda ancora la pelle. Eppure, anche ora, per l'ennesima volta nella giornata, ho la sensazione che le distanze si siano accorciate; di solito, da Maison Meane fino al colle, quei tre o quattro km mi parevano eterni... Incrocio qualche camion che, suo malgrado, contribuisce a farmi la doccia; guard rail e bastoni segnaneve a bordo strada divelti ed abbandonati giù per il pendio: dev'esserne scesa tanta di neve, quest'anno!

Un po' stufa ed infreddolita, arrivo finalmente al colle; intorno a me è tutto grigio e sembra già tarda sera, quando in realtà non saranno nemmeno le 5. Cerco un minimo riparo, del tutto illusorio, sotto lo spiovente del tetto del piccolo chiosco di liquori, ovviamente chiuso; solo per scuotere via un po' d'acqua ed aggiungere la felpa sotto la giacca. Da un camper parcheggiato sul piazzale scende un omino tutto intirizzito, chiuso nel suo giaccone: mi scruta un po' da lontano, mi gira intorno, poi conclude evidentemente che non mordo, perché cauto si avvicina: "Coraggiosa", osserva strabuzzando gli occhi... "Ma non fa troppo freddo?". Ecco, mannaggia a me che non conosco il francese. Altrimenti gli risponderei: "Ma no, si figuri, io vengo quassù ogni volta che piove, adoro il clima tropicale caldo-umido di questo posto"... Li mortacci tua, certo che fa freddo; fa un freddo porco, ma io son quassù e non posso fare altro che scendere! E non è coraggio... Il coraggio c'è quando puoi scegliere se fare o non fare qualcosa di rischioso o comunque disagevole, e scegli di farlo; io di scelte qui non ne ho, sono obbligata ad andar giù. Anzi, l'imperativo è sbrigarsi, perdere quota il più in fretta possibile, perché già solo a Pietraporzio la temperatura sarà più umana, il vento meno violento. Più mi fermo quassù, più mi raffreddo.
Lo spettacolo è inquietante: si vedono solo sfumature di grigio, l'asfalto, la neve sul lago, la nebbia, tutto grigio. Vado incontro alla Siberia, forse così la supererò più in fretta! Confido nei freni Cantilever, l'osso del collo qui dipende solo da loro! Infatti non mi tradiscono; nonostante la pioggia battente, fanno imperterriti il loro dovere. Uno, due tornanti: è un guaio cercare la traiettoria quando non si vede un cappero... Maledetta miopia. Ancora un tornante e strabuzzo gli occhi: ci sono ciclisti che salgono, in tenuta estiva... Non mi sembra che siano esattamente il ritratto del benessere, anzi, mi sembrano proprio male in arnese! Avranno al massimo un giacchino antivento leggero nelle tasche, ammesso che ce l'abbiano... Uno di loro, chiuso faticosamente il curvone, mi fa "Com'è su?". Ma dico io... Ci sei o ci fai? Come vuoi che sia, su, ad un chilometro e mezzo da qui? Diluvia, esattamente come qui! Di peggio sul colle c'è il vento più forte... Ma non sono certo in animo di restare qui a consigliar loro il da farsi: sono in quattro, che s'arrangino! Io me la squaglio... Tornante dopo tornante, scendo giù e di tanto in tanto ho l'impressione che l'intensità della pioggia si attenui, ma è solo un'illusione: dipende dalla direzione del vento.

Le buche in mezzo all'abitato di Bersezio sono ora dei veri laghi; lungo la strada che attraversa il pianoro incontro qualche viandante a spasso con gli ombrelli, chissà da dove arriva e dove va! Nuvole basse e sfilacciate avvolgono le cime, solo ad Argentera qualche traccia di vita. Il lungo rettilineo del Villaggio Primavera, quegli obbrobri costruiti chissà quando, lasciati lì a metà, a perenne monito; le barricate, la galleria, unico momento asciutto. Scendo con cautela, ma sicura della morsa dei freni; ancora Pietraporzio, Sambuco, le altre gallerie. Questa volta sta smettendo davvero: la giacca non cola più; il Goretex si asciuga in pochi minuti! Fosse vero... Ne ho abbastanza, per oggi, di pioggia. Beh, se smette potrei... Potrei, cosa? Forse salvare l'idea della notte in bici? Potrei forse salire alla Madonna del Colletto, poi tornare giù, magari andare verso Caraglio e Montemale e poi nel Saluzzese... La tentazione è forte. Ma, c'è un ma. Il cielo sta concedendo una tregua, ma non pare avere in animo di tornare sereno. Se non torni a casa subito, Gian, rischi che la pioggia riprenda, magari si estenda alla pianura, visto che le previsioni meteo per domani annunciavano un peggioramento; rischi di ritrovarti a dover comunque tornare per la via più diretta, la statale, con la visibilità ridotta ad un nulla, sia per te che per gli automobilisti. Insomma, rischi di farti passar sopra. Ne vale la pena? No, non ho ancora concluso la domanda che mi sono già data la risposta da sola.

La breve risalita di Vinadio mi riscalda un po' le ossa; le mani riprendono una parvenza di vita. Da lì ad Aisone c'è da pedalare un po'; idem verso Demonte. Ci arrivo dopo aver superato una Cinquecento ferma in mezzo alla corsia con le quattro frecce: l'ho superata lentamente, guardando nell'abitacolo per capire se qualcuno potesse avere bisogno di aiuto... Ma mi sono sbagliata: la madama al volante ha bisogno sì, ma di un ottimo psichiatra! Ma guarda tu se 'sta deficiente si deve inchiodare in mezzo alla strada per appendersi al telefonino... Insomma, donna al volante, ho detto tutto!

Adesso però niente eroismi. E' vero che sono le sei e mezza del pomeriggio passate da un po' e non mi restano molte ore di luce, e che sono a più di ottanta km da casa, ma sono anche fradicia, infreddolita ed affamata. Sì, anche affamata; è un bel po' che non metto nulla sotto i denti. Qui non fa più molto freddo, ma gli abiti umidi non aiutano. Insomma: una bella sequela di scuse per giustificare la sosta da Agnello. Appoggio la bici alla vetrina, con tutte le cautele, per la vetrina, non certo per la bici che non patisce; così da dentro potrò vederla. C'è un certo viavai sotto i portici; non si sa mai... Mi tuffo al caldo del bar, ordino una cioccolata calda bollente: il barista mi mette sotto il naso una tazza che potrei quasi tuffarmici a bagno; caldissima, buona da matti, farei già il bis ancor prima di aver dato fondo a questa. Mi scalda lo stomaco ed il cuore...
All'improvviso, un inconfondibile rumore di bici che si sposta. D'istinto, guardo fuori: c'è un tizio che ha per mano la mia Ridley! A rischio di ustione di terzo grado, mollo la tazza sul bancone e mi fiondo fuori, poco ci manca che gli metta le mani addosso: "Giù le zampe dalla mia bici, cosa diavolo sta facendo?". Mi guarda, impassibile: "Lì non deve stare". Ma dico io, pezzo di imbecille che non sei altro... "Scusi ma Lei è il proprietario del bar? No? E allora si faccia gli affari suoi e non si azzardi a toccare un'altra volta la mia bici!". Imbestialita, rimetto la mia Ridley dov'era prima, cioè appoggiata alla vetrina; rientro a finire in fretta e furia la mia cioccolata, sotto lo sguardo perplesso del barista che, evidentemente, non può capire la ragione della mia rabbia. Ma non riparto senza una piccola scorta alimentare: quattro dolcetti, due con la marmellata e due con il cioccolato, saranno il mio sostentamento fino a casa. Uno fa immediatamente una pessima fine: che buono... Spero che il pancino, per un po', smetta di reclamare.

Sotto gli occhi interrogativi dei turisti della domenica pomeriggio, improvviso un rapido spogliarello: via i pantaloni invernali, tra l'altro un vecchio paio di due taglie più grande rispetto alla mia; via la giacca fradicia; finisce tutto nello zaino, alla rinfusa. Sette e dieci, dal bar di fronte mi squadrano: tra un po' chiedo se qualcuno vuole dieci euro...
Riparto di gran carriera per la parte più odiosa del viaggio. Il cielo è ancora bigio, ma non piove più. L'asfalto è bagnato, l'aria pesante, carica di umidità. Falsopiano, tratti in leggera salita, vento contrario, inquietudine che sale: chissà fin dove riesco ad arrivare con un po' di luce? Ormai sono abituata a pedalare al buio, è vero, ma la strada tra Cuneo e Carmagnola fa paura già in pieno giorno... Borgo San Dalmazzo, il bivio a sinistra che taglia fuori l'abitato; a ritroso la strada di stamattina, le nuove rotonde della circonvallazione di Cuneo, l'Ospedale Carle, fino ad arrivare alla rotonda del Ponte dei Sospiri: pesto sui pedali come una forsennata; sono nel pieno del traffico serale, devo avere dieci occhi. Il giorno se ne sta andando; le nuvole lasciano spazio ad un po' di azzurro molto tenue, adesso. Malinconica mi lascio Cuneo alle spalle: guardo il cartello, 31 km a Savigliano. Bene dai Gian, Savigliano, prendila come meta intermedia. Di qui in poi è tutto piattume e lunghi rettilinei; vento, maledetto vento contrario, provo a forzare ma non serve a nulla, troppo forte, troppo teso contro di me. I rami degli alberi si piegano, lo spostamento d'aria causato dai veicoli più grossi è amplificato; l'ansia cresce, il timore di non farcela, non farcela poi a far cosa? Qualche decina di km in pianura? Solo passando nei paesi mi tranquillizzo un po': Centallo, Levaldigi, poi Genola che non arriva mai, ancora vento e rabbia e cuore che batte troppo forte. Mi fermo a bordo strada, indosso il giacchino e le bande rifrangenti, sistemo le luci. Telefono a casa: "controordine, rientro stasera, credo verso le dieci e mezza". Dall'altra parte, un semplice OK: beh, finalmente non c'è più nessuno che si stupisca, né che stia in pena per me. Riparto, appena più serena: è quasi buio quando arrivo a Savigliano, è buio del tutto quando supero la discoteca di Cavallermaggiore. Passo in mezzo al paese: per quanto posso, sfrutto le luci dell'illuminazione pubblica evitando la statale. Quasi mi diverto a guardar le facce del popolo del sabato sera che si sta accalcando all'ingresso di bar e birrerie... E mi sento immensamente felice di essere nei miei panni, non nei loro! Anche se ora mi rituffo sulla statale. Adesso sì, viene il bello. Da qui a casa ci saranno venti km, ma il primo tratto non si può definire "strada": è un'accozzaglia continua di rattoppi, rattoppi dei rattoppi, buche, fessure, a cui fare la massima attenzione servendosi solo della luce del manubrio e di quella frontale. Ho il cuore in gola: conto i metri che mancano all'imbocco della nuova circonvallazione di Racconigi. Le auto mi sorpassano con una certa cautela, indubbiamente superiore a quella che usano di giorno, ma io ho il terrore di cadere su questa specie di pista delle montagne russe; sarei rovinata...
La rotonda, finalmente. Qui sulla circonvallazione, l'asfalto è perfetto; non mi illudo che duri, ma forse per qualche mese dall'inaugurazione terrà. Non passa nessuno, la carreggiata poi è molto ampia; posso prendere fiato, ascoltare il buio, i grilli ed il fruscio dell'erba. In cielo, persino qualche stella; laggiù in fondo, piccole piccole, le luci di Carmagnola. L'ultimo tratto insidioso è proprio quello tra la fine della circonvallazione e la mia città: ma è solo un chilometro... Ci siamo, è fatta, anche stavolta m'è andata bene. Sono le dieci: meno di tre ore per ottanta e rotti km, non me lo sarei mai aspettato; potere della fifa! In tutto, 315 km per circa 3.400 m di dislivello in salita e meno di 16 ore. Per il momento, il naufragio del mio progetto di viaggio non riesce proprio ad affliggermi: e, se anche ci riuscisse, la porzione di risotto con i fagiolini, gentil pensiero di mia sorella, basterebbe senz'altro a lenirlo. Il tempo di meditare il giro in bici di domani... E si va a nanna. Con un pensiero fisso però: ci riprovo, oh se ci riprovo!

domenica 10 maggio 2009

6 maggio 2009, sera - Genova, camminata notturna a Punta Martin

"Due pezzi di quella lì con il pomodoro... Due di quella con il formaggio... E ancora due di farinata". Il mio cagnone e Matteo hanno una caratteristica in comune: per farli contenti, basta metter loro qualcosa di buono tra i denti. Con la differenza che per Skipper vado a caccia di biscotti a forma di osso, mentre con Matteo vado sul sicuro con un bel carico di focaccia. Che poi, diciamola tutta, stasera farà molto comodo anche a me. Io di pizze focacce & affini vado letteralmente matta e, per giunta, sono senza cena dopo un pranzo a base di pomodori con olio aceto e sale: ottimi ma non proprio energetici. Ormai ad Arenzano sono di casa; le focaccerie le becco a colpo sicuro. Anzi, le esploro con tale dedizione che all'appuntamento sul piazzale dei bus di Voltri, alle 19, riesco ad arrivare un po' in ritardo rispetto a Matteo. Puntualissimo, lui: è già lì con la bici, che in un attimo e qualche tribolazione meccanica scompare inghiottita dal bagagliaio della Opel. Si parte per gli ultimi, per me, km di auto: destinazione Acquasanta, il paese che un giorno al mio compare ciclopodista dedicherà una targa, "Qui visse Matteo...". Una stradina infame, minuscola eppure con un traffico degno della tangenziale di Milano all'ora di punta!

Sulla piazzetta del minuscolo paese, con vista sui bellissimi archi dell'imponente ponte della ferrovia, mettiamo in moto le ganasce per far sparire la prima rata di focaccia: meglio consumare prima quella al formaggio, sentenzia Matteo, che poi se s'asciuga non è più buona. Ho la bocca troppo piena per ribattere, ma, tra me e me, penso che questa roba qui sia talmente libidinosa che resterebbe ottima anche dopo due giorni!
Son quasi le sette e mezza quando abbandoniamo la Opel. Pieno alle borracce e via: passiamo di fronte al Santuario, che ovviamente non può che chiamarsi "Nostra Signora dell'Acquasanta", e ci arrampichiamo per un sentierino di cui mai avrei indovinato l'esistenza. Dal giardinetto della casa accanto, un grosso micio dal pelo lunghissimo ci squadra con aria interrogativa. Si litiga un po' con i rovi e s'arriva ai binari, da superare con atletico salto della ringhiera e rapida corsa dall'altra parte. Ma guarda tu... Non avrei mai e poi mai detto che in questo buco di posto, non me ne voglia Matteo che ci vive – lo sa, che mi ci trasferirei di corsa anch'io, in un posto così – ci fosse una stazione. E pare anche ben servita! Da lì in poi, il sentiero alterna tratti chiusi nel bosco a tratti che offrono una bella vista sulla vallata e sul mare; la pendenza per ora non si sente, la fatica nemmeno, distratta dal racconto della partecipazione di Matteo in Sardegna ad una sorta di raduno di speleologia, o qualcosa del genere, nel ponte del 1° maggio. Raduno ben riuscito sia dal punto di vista del lavoro che dell'esperienza personale, a quanto pare: però, tre giorni di festa e di forzata lontananza dalla bici io non li potrei mai e poi mai concepire!

Matteo è sempre di compagnia, chiacchiera volentieri anche quando io non ho più gran fiato per rispondergli. Superiamo una casa isolata in cui fa la guardia uno splendido pastore tedesco che ci accompagna per tutto il perimetro della recinzione.
Rumori di foglie e rami spezzati: dall'altra parte del canalone saltano via alcuni camosci, forse disturbati dal nostro passaggio. Per ora riesco più o meno a tenere il passo di Matteo, che si preoccupa di non esagerare: meno male, perché ho una gran voglia di camminare, ma non di far le corse come se fossi in gara. Qui il sentiero lo consentirebbe ancora, ma io preferisco distrarmi con i fiori ed i profumi portati dal vento. La temperatura è gradevole: pensavo, a dire il vero, che avrei trovato più caldo... Nel profondo della piana carmagnolese, oggi il sole era feroce, per non parlare poi della cappa di umidità!
Sembra di non guadagnare quota, eppure le luci del mare sono sempre più lontane, laggiù in fondo. Si vede la costa, mentre la luce pian piano perde d'intensità e noi sbuchiamo fuori dal bosco, su sentiero ormai scoperto che si fa via via più impervio. Osservo con invidia ed ammirazione Matteo che si muove da una roccia all'altra con sicurezza e passi leggeri, come se davvero non avesse peso, come se avesse per chissà quale inspiegabile ragione la certezza che non inciamperà e non cadrà: io invece inciampo e cado anche procedendo a quattro zampe. Ho dimenticato i guantini da bici e mi sto già scorticando le mani, preziose tanto quanto i piedi, in queste circostanze, se non di più. C'è davvero qualcosa che mi sfugge; l'equilibrio è una dote che non mi è stata consegnata, proprio mai, nemmeno un briciolo. Se su queste rocce provo a camminare in posizione eretta, come sarebbe appena normale, ho la sensazione di barcollare ed infatti rischio ad ogni piè sospinto un incontro molto, troppo ravvicinato con il sentiero; inoltre, più il tracciato si fa scosceso e leggermente esposto, più devo concentrarmi per non guardare altro che la punta dei miei piedi, a pena di sentire subito il senso di vertigini e le gambe molli. Ora che il gioco si fa duro, i duri rallentano a dismisura, anche perché ad ogni metro devo studiare prima dove mettere i piedi, poi dove piazzare le mani, spesso anche dove posare il didietro che, data la dimensione importante, è un ottimo punto d'appoggio con cui sollevare il mondo, o almeno me stessa. Il mio povero compagno d'avventura si allontana un po', poi si ferma desolato, aspetta con la pazienza di Giobbe, e la barba sul suo viso intanto s'allunga a vista d'occhio. Ogni tanto mi porge un appiglio caritatevole in più... Meno male che ci distrae il tramonto, la cerchia delle montagne sempre più scure, il sole che va giù, si nasconde dietro alle cime, fino a ridursi ad un minuscolo spicchio color rosso fuoco, che in un attimo ci lascia, pure lui. Non possiamo fare a meno di fermarci un attimo ad ammirare lo spettacolo. "Arriviamo in cima con la luce", Matteo è fiducioso: io un po' meno... Anche perché non so bene dove sia, la cima; ho rinunciato ad individuarla, anche perché tutto ciò che sembra cima non lo è, ne nasconde un'altra ed un'altra ancora. Qui il vento è più forte e gelido; in cima mi vestirò, per ora lascio che la pelle d'oca si faccia spazio sulle braccia, ho altro a cui pensare. In un paio di passaggi un po' delicati ed esposti, Matteo deve far ricorso a tutta la sua diplomazia per convincermi a passare in un certo modo, che poi è quello giusto: "Girati... Appoggia il piede qui... La mano là...". Se qualcuno potesse ascoltare, ma non vedere, giurerebbe che ci troviamo su un sesto grado, come minimo; invece, l'unica cosa che sia di sesto grado o superiore è la mia inettitudine quassù! Questa poi è la condizione di luce peggiore per me e per la mia miopia. Ma pare che ci siamo quasi. Ancora un paio di passaggi articolati: "Ma siamo poi sicuri che la discesa non è così?". Sono scettica... Matteo però mi assicura di sì e, una volta tanto, gli credo. Mi conviene, credergli: in fondo, se in questo istante non sono ancora in preda al terrore più cupo, è solo per la sua presenza, che ha sempre su di me un effetto calmante: a maggior ragione, oggi che so che lui è proprio a casa sua.
Finalmente la cima, Punta Martin: non perché sia stufa di salire, tutt'altro, ma perché significa la fine della mia tribolazione. Dovremmo aver fatto un salto di poco meno di 800 m di dislivello, circa. E' vero, è sorprendente: da qui in poi, siamo su un sentiero in mezzo al prato... Pare incredibile! Ed anche un po' beffardo. Matteo mi spiega che da qui faremo un giro: non cerco di capire, mi fido... Tanto io ormai qui potrei essere dovunque; mi godo le luci del mare e la luna, bellissima, alta, quasi piena. Dal vento freddo mi difendo con giacca e berretto. La mia guida prosegue sicura senza luce, mentre a me riesce già ben difficile vedere dove metto i piedi con l'aiuto della frontale, ovviamente a scrocco perché la mia è rimasta a casa. Doppia invidia. Il sentiero scende leggermente, si rituffa nella vegetazione; sarebbe da correre, se ne fossi capace, ma per carità! Anzi, non vedo l'ora che arrivi la seconda salita promessa: arriva infatti, ad una palina segnaletica, con una secca svolta a destra. Saliamo con il sottofondo di un cane che abbaia, inconsolabile; sembra molto vicino. Ci sono alcune luci sulla montagna, un po' più in basso rispetto a noi, forse c'è qualche casa. Siamo quasi su una strada, tanto è bello e dolce questo sentiero, ma mi sa che è troppo facile, perché all'improvviso Matteo taglia su per il prato e scompare nel buio. Ossignur, speriamo bene... Mi chiama, deve aver trovato la retta via; salgo anch'io, un po' titubante.
Alle volte si ha l'illusione di essere persi in un luogo dimenticato dal mondo, sperduto chissà dove... E invece no, come per magia ci si ritrova di fronte ad un tavolino da picnic. Ne approfittiamo per qualche attimo di riposo e tranquillità... Ed anche per far fuori quel che resta della focaccia: pomodoro e formaggio, nonché farinata. Io ho una fame che pare che non mangi da una settimana: l'ho sempre detto, che sono un motore poco efficiente; consumo davvero troppo. E sono mezza ibernata quando ci rimettiamo in marcia, dopo aver approfittato della fontanella. C'è ancora un brevissimo tratto di salita, appena sufficiente a farmi passare i brividi; da qui, boh... Si distinguono, alla luce della luna, tracce di sentieri che passano sulle cime di queste collinone arrotondate; Matteo mi fa notare, "Siamo dov'eravamo prima": ah sì? Ne prendo atto, potrei davvero essere ovunque.

La discesa è sempre troppo lunga per i miei gusti. Ad un tratto abbandoniamo il sentiero bello per scendere giù lungo un tratto più scosceso, che sembra puntare dritto verso il fondo di un canalone nero: mi consolano i segni dell'Alta Via, l'unica traccia di direzione in messo ai salti ed al fitto del bosco. Seguo la mia guida incespicando come sempre, guardando le pigne che vorrei raccogliere ma non è il momento, qualche insetto che illumino con il cerchio della frontale. Poi la via torna ampia ma... In un attimo in cui sono immersa nei miei pensieri, vedo Matteo fermarsi all'improvviso. Davanti a noi, ad una decina di metri di distanza, due punti luminosi, quasi immobili. Attimi interminabili, l'essere ignoto sembra spostarsi ma no, resta sul sentiero. Lì per lì non capisco: "Cos'è, un camoscio?". "No, una mucca"... In un istante sento mancare il sostegno delle gambe. Troppo vivo ancora il ricordo della mucca che ci ha "puntati", durante la notte della prova del Trail Valdigne in Val d'Aosta, il terrore di scappare ed il rischio, scampato per un pelo, di finire giù per un pendio troppo ripido. Adesso metto a fuoco anch'io: non c'è una sola mucca, ovvio; c'è la mandria, bestie quasi tutte a terra, che riposano, ma troppi occhi che ci fissano. Sono terrorizzata, muovo indietro qualche passo, ma Matteo mi fa notare che no, non è l'idea migliore. Basta fare il giro largo: mi prende per un braccio, cerca di tranquillizzarmi... Ma ho il cuore che scoppia, continuo a fissare le bestie, pronta a cogliere il minimo cenno di movimento: ma se anche lo cogliessi? Cosa potrei fare? Una mucca è di certo ben più ferma sulle zampe rispetto a me; se mi mettessi a correre, al terzo passo sarei già lunga distesa per terra e adios, sarei il primo caso di macellazione bovina al contrario. E poi c'è un'altra paura ancora peggiore, quella per Matteo. Ma lui non batte ciglio... Lo seguo col cuore in gola; dopo aver descritto un ampio arco, torniamo su quello che sembra essere il sentiero, ripido e scivoloso. Non lo è, perché non ci sono le tracce colorate sulle rocce; ma, spostandosi ancora un po' a sinistra, Matteo ritrova la traccia dell'Alta Via. Che senso dell'orientamento!

Davanti a noi, un'altra collinetta: chissà se ci saliamo? La risposta arriva subito; no... Giriamo a sinistra, abbandoniamo l'Alta Via ed iniziamo una lunga discesa in mezzo al bosco, seguendo il perimetro di una proprietà recintata. Mi sembra di sentire ancora lo scampanìo delle mucche... Beh, se ci sono, spero che stiano oltre la rete, e che la rete basti a contenerne l'irruenza. Qui sotto la luna non aiuta più, troppo fitto il bosco; attraversiamo qualche traccia di ruscello che si sente, più impetuoso, in lontananza. Anche qui riesco a restare indietro, inciampandomi in qualsiasi cosa. Raggiungiamo una casa ancora illuminata, nonostante l'ora; due cani inferociti strepitano e ringhiano contro di noi... Spero che il padrone di casa non decida di uscire con la carabina! Per fortuna, poco dopo, l'asfalto, il mio amato asfalto. Di solito, chi apprezza i sentieri detesta il bitume; per me invece significa la fine delle difficoltà. Da qui si cammina, per qualche km, scendendo lungo la strada che alle nostre spalle raggiunge il Passo del Turchino: una delle mete di allenamento ciclistico di Matteo. Che fortunaccia sfacciata, lui esce di casa e sulla soglia si trova una salita! Altra ragione di invidia bruciante. Passiamo in mezzo ad un gruppo di case sonnacchiose, alle finestre però ancora qualche luce; tutt'intorno i pendii e la luce bianca della luna. In discesa, se non c'è da faticare, ci si raffredda in un attimo; ma non c'è tempo di soffrire troppo: si vede già Acquasanta, il ponte della ferrovia, sotto cui passiamo un attimo dopo, per chiudere l'anello. A dire il vero, avrei sofferto volentieri ancora un po'; mi spiace che sia già finita, mi spiace dover salutare Matteo e tornare a casa. Sono le due passate, il viaggio sarà lungo ed io ho già voglia di tornare, già penso quando potrò chiedere il bis, sempre che il mio compare abbia voglia di trascinarmi a spasso un'altra volta.

L'ultimo ostacolo è il posto di blocco dei Carabinieri a Voltri; ho l'assicurazione scaduta... Ma solo da oggi, cioè da due ore e mezza; sudo come non ho sudato in tutta la camminata, ma mi danno via libera. "Lei da dove viene?" "Vicino a Torino" "Ah, e come mai è a Genova?" "Per fare una camminata notturna sui monti". Il gendarme è perplesso ma, forse temendo un attacco di follia violenta, mi spedisce... Rientro a casa alle cinque, dopo un primo antipasto di sonno in autostrada; in ufficio alle otto, mezza rintronata, ma ne è valsa la pena!

1-2 maggio 2009 - Ricognizione Raid Vosgien Extreme - secondo giorno

Il secondo giorno non comincia sotto i migliori auspici: ieri sera abbiamo dimenticato di pagare la camera e, così, oggi ci tocca sprecare parte del beneficio della levataccia per rintracciare via telefono la titolare dell'albergo. Perdiamo mezz'ora buona; quando saltiamo in sella, ci accoglie un cielo un po' velato. Le previsioni di MeteoFrance annunciavano, per oggi, un po' di pioggia, almeno fino a giovedì; che dire... Speriamo che sbaglino. Infausto il meteo ed infausto l'umore del mio compare di viaggio, che fa finta di nulla ma ha al posto del viso un libro aperto: e non si tratta di un romanzo comico. Mah... Le necessità del corpo prevalgono subito su quelle dello spirito: passiamo davanti alla vetrina di una boulangerie e restiamo intrappolati dal suo campo gravitazionale. Dobbiamo integrare la magra colazione, avanzo di pane e marmellata, e procurarci scorte per la giornata, che, sulla carta, si annuncia lunga e faticosa.

Da Le Thillot ci spostiamo verso Saint Maurice s/Moselle, in un'alternanza di saliscendi e paesi ancora sonnacchiosi, ma, per ora, con il favore del sole. Da Saint Maurice saliamo, ancora una volta, al Ballon d'Alsace, finora il fulcro di tutte le nostre peregrinazioni; una salita che definire meravigliosa è poco. Strada ampia e liscia in mezzo alle pinete che ormai sono diventate la cornice naturale del viaggio; acqua che corre lungo la strada, acqua a profusione, tant'è che non ho difficoltà a fare il primo rifornimento della giornata; pochissimo traffico, automobilisti pacifici, qualche gruppone di boy scout un po' cresciutelli, escursionisti che, ad occhio, mi sembrano più da tavola che non da sentiero. Sento parlare una lingua strana ed indefinibile, una via di mezzo tra il francese ed il tedesco, però gli incoraggiamenti mi arrivano in chiarissimo francese e gli applausi, poi, sono internazionali!
Provo un profondo senso di pace, tanto da non sentire nemmeno più così gravoso il peso dello zaino, né la fatica della salita. Ieri l'ho pensato, oggi lo confermo, sono innamorata di questo posto, così come l'anno scorso mi sono innamorata delle strade della Provenza.

Quando la pineta lascia il posto ai pascoli, capisco che alla cima, se così si può chiamare, non manca molto. Ai 1.200 m circa del Col du Ballon d'Alsace ritrovo Mik in paziente attesa; si torna a scendere, direzione Maseveaux, attraversando gli abitati di Sewen e Niederbruck tra gli altri, da cui siamo già passati ieri. E qui, nell'interminabile tratto di falsopiano che segue la fine della vera discesa, accade l'irreparabile. A dire il vero, me lo sentivo già da un po': Mik, che da troppo tempo resta inspiegabilmente alle mie spalle anziché, come d'abitudine, duecento metri avanti, mi affianca, chiedendomi di rientrare stasera, in anticipo di un giorno rispetto a quanto previsto.

Nonostante i tanti tanti km, in bici ed a piedi, ed i tanti viaggi che abbiamo diviso da aprile dello scorso anno, cioè da quando abbiamo cominciato a pedalare insieme, Mik ed io non siamo mai stati grandi chiacchieroni, forse perché siamo entrambi, per carattere, abbastanza schivi e taciturni. O meglio: saremmo probabilmente più loquaci, perlomeno questo vale senza dubbio per me, se fossimo ciascuno in compagnia di una persona d'indole opposta, una persona che fa domande, ascolta volentieri, scherza, induce a raccontare e raccontarsi. Mi è accaduto spesso di pensare alla stranezza di questa situazione, e di chiedermi se fosse opportuno comportarsi in maniera diversa; però son fatta così, non riesco ad assumere un atteggiamento diverso da quello che sento, e men che meno vorrei passare per ficcanaso impicciona, fine che rischierei di fare se mi ostinassi a cercare la confidenza di chi non ama la confidenza. Io stessa, a parti invertite, ne sarei molto infastidita.
Nonostante tutto ciò, vedo bene, e non ci vuole una laurea in astrofisica per questo, che Mik è teso, come ammette lui stesso; mi accontento della sua scarna spiegazione, "Sono preoccupato", anche perché posso ben immaginare la ragione del suo stato. Non capisco, quello no, proprio non riesco ad immedesimarmi, ma del resto non sono affari miei. Certo, non sono felice di abbandonare anzitempo questo paese delle meraviglie: ma non sono nemmeno il tipo da puntare i piedi e costringere a restare, a tutti i costi, chi non è in animo di continuare.

Mi piacerebbe, solo, non perdere la giornata: insomma, rientrare sì, ma dopo un bel giro che mi faccia stancare per bene, oggi, e mi renda meno penoso il ritorno. Consultiamo la carta: l'idea è, da Maseveaux, percorrere un tratto del giro del Raid che va a Grosmagny e Giromagny e, da lì, sale dal terzo versante al Ballon d'Alsace. Dopodiché si ridiscende a Sewen, si ripercorre la stessa strada che ci siamo appena lasciati alle spalle e si punta verso Thann, per poi tornare a Cernay. Aggiudicato.

Ci avviamo dopo aver riempito le borracce alla consueta fontana di "eau non potable", con somma indignazione dell'autista di un furgone che ci assale a colpi di clacson: "Dev'essere velenosa davvero", conclude Mik. Poi lunghissimi km di saliscendi in mezzo alla campagna: i monti qui sono sullo sfondo; intorno a noi, distese di prati verdi o gialli di fittissimi fiori, cavalli e mucche al pascolo, borghi da attraversare, traffico sempre poco e disciplinato. Soffro tantissimo qui: non riesco a mantenere un'andatura decente, perdo terreno di continuo; ogni leggera risalita è peggio di un Mortirolo. E guardo i monti con apprensione: le nuvole lassù si stanno addensando e sono sempre più scure. Man mano che ci avviciniamo a Giromagny, la cappa di nubi si estende e si gonfia, avvolge anche il cielo sopra di noi; si leva un vento ancora leggero ma freddo, che non lascia presagire nulla di buono. Così, dopo esserci sciroppati venti e più km di piattume da Maseveaux a qui, facciamo appena in tempo ad imboccare la salita, che il cielo ormai livido di rabbia e di pioggia scarica su di noi il primo scroscio, accompagnato da rombi di tuono e fulmini. Qualche ciclista in fuga ci avvisa del diluvio che si sta abbattendo poco più avanti. Non stento a crederci. La decisione da prendere purtroppo è una sola: andare avanti significa finire sotto la tempesta, che, vista la situazione, potrebbe tranquillamente essere grandine. Non ci resta che battere in ritirata il più in fretta possibile, tornando indietro per la stessa strada e sorbendoci, un'altra volta, i venti km di saliscendi fino a Maseveaux. Più quelli che restano, in pianura, fino a Cernay. Ci saranno in tutto 40 km, poco più, da qui all'auto.
Non lesiniamo di pestare sui pedali: le nuvole nerissime si stanno estendendo con velocità impressionante verso la pianura; i Vosgi non si vedono più, già inghiottiti e neri come i nembi. Faccio del mio meglio, anche se le gambe si ribellano, anche se ora al disgusto per la pianura si aggiunge il dispiacere del giro abortito; più vado avanti e più odio queste impercettibili salitelle, queste brevi discese, cambi di ritmo continui ed incroci che ogni tanto sbaglio. Faccio buon viso a cattivo gioco, cerco di sorridere perché tanto prendersela con il meteo sarebbe inutile; combatto la fame sbocconcellando la seconda delle tre leccornie dolci che ho comprato stamattina in boulangerie. In compenso, il mio compagno di viaggio è visibilmente sollevato.

Vorrei riempirmi gli occhi delle montagne che ora non si vedono più. Vorrei almeno poter aggiungere ancora qualche breve tratto di salita, arrivare a Cernay da Maseveaux via Bourbach e Thann, ove la carta indica una salita... Ma il temporale incombe, la tristezza pure; tagliamo per la strada direttissima ed odiosissima, fino all'abitato di Guewenheim: qui, arriviamo quasi ad infilarci in una sorta di superstrada... Ma ho il sospetto, anche se non ho visto alcun segnale di divieto, che noi si stia per fare una gran boiata. Rapido consulto della carta e dietrofront sullo svincolo: dopo qualche breve ma faticosissimo km piatto, controvento, fino al centro del paesello, troviamo sulla destra una strada che ci condurrà, in una decina di km ed una brevissima salita, fino a Cernay. St André, l'ultimo assaggio di un paesino che davvero non può essere reale, così perfetto lindo ed ordinato, con colori delle case vivi che sembrano appena stesi, e colori così improbabili poi, lilla, verde acceso, blu! Poi il caos di Cernay, la zona industriale, infine la Y. Ed il tuono che ci raggiunge mentre ci cambiamo, e la pioggia che ci dà giusto il tempo per chiuderci in auto prima di avere finalmente sfogo.

E' il primissimo pomeriggio; ripartiamo, dopo un pieno di carburante e di Coca Cola per il viaggio, come sempre con un sorriso a nascondere la malinconia, torniamo in Italia e ci accoglie il sole. Con un pensiero fisso di saluto e congedo, che poi non uscirà in parole: questa volta non ti dico "Alla prossima"... Perché mi sa tanto che non potrà esserci, una prossima. Così è la vita, a volte!