martedì 23 giugno 2009

Race Across the Alps 2009

"Ho scoperto distanza e dislivello di questa corsa solo due settimane fa": con queste parole si presenta sul palco la ciclista americana. "La mia gara più dura, la Race Across America; 11 giorni e 22 ore, con 14 ore di sonno in tutto". Sono le poche frasi spese in inglese nel corso della solita pantomima di presentazione, tutta rigorosamente in tedesco, di cui non afferro che qualche inutile spezzone. Però... Beata tu che la prendi così alla leggera. Sarà perché io non ho il tuo curriculum, ma son qui per il terzo anno consecutivo e sono, al contrario di te, molto, ma molto preoccupata. Già il viaggio fin qui è stato un'impresa ciclopica. Si era detto "Prendiamo l'autostrada fino a Bolzano, faremo prima"; già, peccato che i pannelli luminosi segnalino traffico fermo tra Trento Sud e Trento Nord; peccato che noi, viaggiatori arguti e responsabili, si esca a Rovereto e ci si infogni lungo la strada statale insieme a decine di altri viaggiatori arguti e responsabili; peccato che si sbagli pure strada... Morale della favola, a Nauders approdiamo dopo oltre sette ore di viaggio. Ed ora siamo qui, seduti intorno ad uno dei tanti tavoli piazzati nell'ampio salone del centro sportivo, ad ascoltare un po' stravolti le giaculatorie in tedesco di un tizio che sul palco parla della gara, ma chissà in che termini. Non so bene perché: in fondo, il numero di corsa l'ho già ritirato, le formalità son già sbrigate, qui non si capisce un'acca, tanto varrebbe andar via, a cercare la Haus Kroner dove ho prenotato un mini alloggio. Invece sono qui, inchiodata alla seggiola, insensibile agli sguardi un po' perplessi delle due persone che quest'anno si sono fatte carico dell'ingrato compito di scortare la mia gara: mia sorella, Stefania, e Flavio. Sono certa che, in cuor loro, preferirebbero andare a fare una doccia ed a mangiare un piatto di pasta, anche se mi ripetono "Fai come vuoi, per noi non c'è problema".
Sul palco si susseguono i ciclisti, uno via l'altro all'appello del presentatore. E' già toccato a me, per prima; per fortuna è stato un supplizio breve. Non è cosa che mi faccia felice, tutt'altro, anche perché mi tocca andare lì a dire che sono a Nauders per il terzo anno e ci riprovo dopo due fallimenti... Se fossi in platea, mi verrebbe da rispondermi: "Alla faccia, e non l'hai ancora capito, dopo due batoste, che non ci hai il fisico per una cosa del genere?". Continuo a non capire una parola, ad eccezione di quei pochi attimi in cui qualcuno infrange il dominio del tedesco e si esprime in inglese, o persino in italiano. Dopo la virago americana, in ordine sparso, salgono sul palco i protagonisti delle edizioni passate e qualche volto nuovo. Tra questi ultimi, un giovanissimo ciclista inglese che non risparmia la frecciata di protesta per il dispotismo della lingua teutonica: "I can't learn German in two or three days"... Ha ragione! Poi tocca a Patricia Berthelier, validissima ciclista da ultradistanze di cui ho già avuto modo di apprezzare il valore, la simpatia e la modestia al Raid Provence Extreme. Gli altri passano così, uno via l'altro, mentre i miei occhi sono fissi sul palco ma la testa viaggia da tutt'altra parte. Tutti tranne uno, un gran bel pezzo di ciclista per giunta italiano, brizzolato, con uno splendido sorriso deciso, da cui raccatto anche i complimenti per i miei racconti: beh che dire... E' pur vero che il mio cuoricino è saldamente ancorato, ma so che il mio ormeggio, pur leggendo, non se la prende di certo; l'occhio cade, e non è mica un delitto! In fondo, potrebbe essere qualcosa tipo l'ultimo desiderio del condannato a morte...

In extremis, al centro sportivo arriva anche Ennio, alla fine di un viaggio ben più rocambolesco del mio. Nella coda in autostrada, a Trento, lui c'è finito in pieno; così, scendendo dall'auto, presa a noleggio, ha notato che l'assicurazione era tragicamente scaduta. Tra le mille peripezie per contattare l'autonoleggio, recuperare un'altra auto in località più o meno comoda e ripartire, è arrivato qui al pelo per il ritiro del numero di gara. Poi si va tutti alla Haus Kroner, dove ho prenotato un alloggetto anche per la squadra di Ennio: una dose industriale di pasta tutti insieme, un po' di macedonia senza zucchero perché ce lo siamo dimenticato, un caffé dalla splendida macchina da caffé che l'organizzatissimo Ennio s'è portato come bagaglio, e via. A nanna, a fare il pieno di sonno perché poi la notte prossima non si dormirà, e chissà se si riuscirà a dormire adesso, sarebbe già una gran cosa. Ma sì, in fondo un po' di tranquillità me l'infonde la rassegnazione. Le previsioni meteo sbagliano spesso, tranne nei rari casi in cui vorresti con tutto il cuore che sbagliassero. Tutti, ma proprio tutti i siti meteo, fino a questa mattina un attimo prima della partenza, annunciano tempo da tregenda. Sarà così e non c'è nulla da fare; le 32 ore di tempo massimo, che questa volta avrei anche nelle gambe, se ne andranno tra discese sotto l'acqua, tempo perso per cambiarsi e scaldarsi, freddo, difficoltà di ogni genere. Sperare che accada qualcosa di diverso è da sciocchi illusi.

Avevo puntato la sveglia, in un impeto di ottimismo, alle nove e mezza. Alle sette son già sveglia a fissare il soffitto. Mi giro, mi rigiro, vorrei ancora prendere sonno, ma non c'è verso. La partenza a mezzogiorno è un incubo, costringe ad ore di inutile attesa, di tensione, di pensieri cattivi. Pensano a tutto Stefania e Flavio, presto anche loro operativi, mentre io mi aggiro per la stanza come uno zombie. Per fortuna, al bagaglio da piazzare sull'auto scorta durante la gara ho già provveduto nei giorni scorsi. Ricontrollo il contenuto del borsone: due maglie estive e tre invernali, tre paia di calze, tre di pantaloni, due giacche impermeabili, due paia di guanti lunghi, un berretto. E poi c'è la cassa delle scorte alimentari: pane, Nutella, marmellata, miele, succhi di frutta, Coca Cola, barrette, Mars, Bounty, frutta, Parmigiano, chi più ne ha più ne metta. Roba che, se anche dovessimo restare bloccati sul Gavia, potremmo sopravvivere una settimana in tre e sfamare anche la popolazione di marmotte della zona. Eppure mi conosco, ormai so a memoria la lista delle voglie più strane che mi assalgono quando il numero dei chilometri percorsi è a tre cifre già da un po'. Ci sono momenti in cui vorrei sempre qualcosa di diverso da quel che ho a disposizione, e non c'è verso di buttar giù nulla.
Si va a fare la spesa, per ammazzare l'attesa, ma in centro paese stanno già montando l'arco e così l'ansia cresce. Alle dieci e mezza già salgo in bici e vado a cacciare il naso, l'arco è su, ma non c'è ancora nessuno oltre ai tecnici, com'è ovvio. Le bici però sono pronte, le ruote gonfie, gli ingranaggi ben oliati. Certo che sembro quasi una ciclista vera: viaggio con due bici, una sotto il sedere, l'altra, la Ridley, appesa al portabici sull'auto. Così, in caso di guai meccanici, ho la via d'emergenza. E poi la Ridley servirà in discesa: se davvero cadrà tutta l'acqua che è stata annunciata, i freni della bici da corsa normale saranno del tutto inutili.

Alle undici la zona della partenza comincia ad affollarsi. Rispetto alla mia prima partecipazione, nel 2007, il numero di ciclisti è cresciuto molto; erano 29, oggi sono 49 iscritti. Nonostante il cielo plumbeo che minaccia di dare sfogo alla sua rabbia da un momento all'altro, c'è un sacco di gente lungo le transenne. Stefania e Flavio mettono alla frusta la macchina fotografica, su di me e sulla scena del delitto; io resto a guardare, un po' in disparte perché in fondo continuo a sentire di non essere al mio posto: non potrò essere davvero parte di questo splendido mondo finché sotto l'arco non riuscirò a passare in entrambe le direzioni, andata e ritorno. Il sole è sparito definitivamente e la temperatura s'è abbassata di colpo. Così sentenziava il meteo, infatti: peggioramento dal pomeriggio di venerdì, violenti temporali in serata e nella notte. Siamo sulla buona strada. L'altimetro di Stefania, nelle ultime due ore, ha cominciato a segnare una quota più alta di quella a cui ci troviamo. Che dire, la migliore delle combinazioni possibili. Intanto guardo certe bici equipaggiate con le ruote a razze o in carbonio a profilo alto, le le corna da cronometro, e scuoto la testa... Ma qualcuno, a questi signori, l'ha mostrata l'altimetria?

Quattro chiacchiere aiutano a stemperare la tensione: in griglia si forma il gruppetto degli Italiani, almeno di quelli umani; in prima fila poi c'è Vandelli, italiano pure lui ma in realtà alieno sotto mentite spoglie. Battute, risate nervose, ma almeno si tira avanti il tempo; un refolo di vento gelido accoglie il conto alla rovescia, urla applausi ed il via, un istante di terrore e via. Il pavè, i tombini, le curve: la strada del passo Resia, comincia l'avventura. Il gruppone si allontana subito, ma questa volta non sparisce dalla vista. Partire forte mi pesa un po' meno: in realtà non serve a nulla, se non come minimo conforto per me stessa. Pochi chilometri in leggerissima salita, in cui riesco a restare a distanza decente dal grosso dei ciclisti e addirittura a lasciare indietro qualche tapino; peccato solo non poter godere della vista del lago, ma sono costretta a moltiplicare gli occhi e tenerli tutti ben aperti. Infatti, dietro alla corsa s'è formata una lunga colonna di auto, che supero rigorosamente sulla destra, in spregio al codice della strada; onde evitare che a qualcuno tocchi l'ingrato compito di grattare via quel che resta di me dalla carrozzeria, però, devo esser pronta a prevedere il pericolo. Pesto sui pedali e riesco, con mia sorpresa, a mantenere una buona andatura, senza che la gola vada in fiamme ed il cuore salti in mezzo alle orecchie; solo, devo ficcarmi nella capoccia, fin da subito, che le forze vanno centellinate. Lo so bene, ma ogni tanto me ne scordo...
Poi, la lunga discesa dal Resia a Spondigna fa spietata giustizia della mia baldanza: in un attimo, appesa ai freni, resto sola come un cane. Pazienza, non è proprio il caso che mi affanni. Scruto le nuvole sempre più fitte, che hanno ingoiato anche quei pochi pallidi raggi di sole della mattina e, con loro, anche le mie speranze di gloria. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare: facile dirlo, quando si è a cena di fronte ad un piatto di pasta fumante. Lunghi chilometri in mezzo al traffico, cartelli bilingui ed irrigatori ostinati in funzione anche se tra poco al verde dei campi provvederà madre natura; il tempo di svoltare a destra al bivio di Spondigna, verso Prato, e si aprono le cateratte del cielo. Capperi, che puntualità. Goccioloni pesanti che impregnano in un attimo i manicotti ed il giacchino, una madama che fugge riparandosi la testa con un giornale, ciclisti che scendono tutti bardati ed intirizziti: chissà cosa troverò, lassù. Dove dovrebbe esserci lo Stelvio si vedono solo nuvole.

Stefania scende dall'auto, appena oltre il paese, e mi porge la giacca impermeabile. Prima, sgraditissima sosta; odio metter piede a terra, interrompere il ritmo, perdere anche solo pochi secondi che, sommati ad altri pochi secondi ed altri ancora, alla fine son quelli che mi buttano fuori dal tempo massimo. Ma non posso farne a meno, sarebbe una follia continuare senza coprirmi. Un'alternativa ci sarebbe: imparare ad andare avanti senza tenere le mani sul manubrio, in modo da potermi vestire e svestire comodamente. Ma per me è fantascienza!

Inizio la salita sotto una pesante cappa di nebbia, cercando di valutare dal ritmo dei tergicristallo delle auto che scendono la situazione che dovrò affrontare più su. Frotte di ciclisti in fuga, acqua a catinelle che fa i laghetti nelle pieghe delle maniche e le bolle nelle pozze per strada, ma qui siamo bassi di quota e non fa freddo. I miei due custodi restano sempre nelle vicinanze, fermi qua e là sulle piazzole. L'unica nota positiva è che, mentre soffro il disagio della pioggia, patisco un po' meno l'odio per i lunghi traversi iniziali, odiosamente dritti. E pazienza se, proprio in uno di questi tratti, mi sorpassa di gran carriera uno dei miei avversari, con le gambe immobili e la mano sinistra saldamente agganciata al finestrino dell'auto scorta. Con le lenti bagnate, non riesco a mettere a fuoco il numero di gara, e in fondo non m'importa; non sono certo il tipo che va a sollevare polemiche. Certo che questo tizio è patetico, però. Pagare un sacco di soldi e macinare chissà quanta strada per essere alla partenza... Per poi far le salite con il motore? Mah...
A Trafoi, repentina com'è arrivata, la pioggia se ne va. Si aprono squarci di cielo azzurro, da non credere: un raggio di sole trasforma in un istante la mia giacca in una serra. Altra brevissima sosta per levarla e restituirla alla custodia dell'equipaggio; mi ci vogliono un paio di chilometri per riuscire a reinfilare il gilet, tenendo sempre una mano sul manubrio, ma è un equilibrismo in cui mi impegno volentieri. Questa è la più gradita delle sorprese, per due ottime ragioni: le ossa si asciugheranno un po'... Ed i miei gregari motorizzati potranno vedere con i loro occhi cos'è che intendo, quando sproloquio ossessivamente della bellezza delle mie strade da bici. L'aria resa limpida dall'acquazzone regala uno spettacolo da favola, sempre più bello man mano che i tornanti portano su verso l'alto, man mano che le nuvole si diradano.
Uno dei pochissimi vantaggi del tempo incerto è il fatto che ha scoraggiato i merenderos motorizzati: in una normale domenica di giugno, su per questi tornanti ci sarebbe mezzo mondo... Invece incontro poche anime, per lo più motociclisti in sella a luccicanti bastimenti con tanto di radio. Per me è una lotta continua tra le gambe, che scalpitano e smaniano per girare un po' più rapide, ed il buonsenso che impone di risparmiare le energie; alla malga, a circa sei km dalla fine, la tentazione è davvero fortissima, per me che adoro le salite a tornanti e che divento matta quando vedo lassù la mia meta. I miei custodi si appostano qua e là lungo la strada, ancora freschi ed entusiasti. So però che non posso illudermi: dal colle spuntano nuvoloni che lasciano ben poco spazio all'ottimismo; non posso essere certa di quel che troverò dall'altra parte, ma l'immagino. Gli ultimi quattordici tornanti sono concentrati in quattro km; sembra d'essere su una scala. Appena dopo l'ultimo tornante, vedo Stefania che mi viene incontro con un bicchiere di plastica: è caffé preso ad uno dei bar in cima... Sono commossa, questa sì che è una squadra eccezionale! Mi dice "Butta via il bicchiere, lo raccolgo io", ed obbedisco volentieri. In vetta passo senza fermarmi; chiudo i manicotti e la cerniera del gilet. E' un azzardo scendere così da quota 2.700 e rotti, per giunta con gli abiti ancora umidicci, ma sono già in piena fobia da perdita di tempo inutile. Con mia immensa sorpresa, sul colle c'è Patricia, di cui i suoi custodi stanno prendendosi cura con massaggi e pappatoria: significa che non è salita poi tanto più in fretta di me, e non posso che esserne contenta. Non del fatto che lei sia ancora qui, beninteso, ma di aver retto, anche solo su questa prima salita, il confronto con una ciclista del suo calibro.

Mi sforzo di non lasciarmi spaventare, come sempre, dalla discesa su Bormio. Non c'è quasi traffico e questo è già un grande vantaggio; posso tagliare o allargare qualche curva senza patemi, ma di staccare le dita dai freni non si parla proprio. Il cielo qui è tornato, ahimè, quello della partenza, o peggio se possibile: solo un'immensa distesa di cotone nero, livido. Beh, se non altro questa volta l'opera di lavaggio del cervello che mi sono inflitta da sola ha funzionato: niente panico, credo di essere abbastanza pronta ad affrontare quel che mi piomberà in testa da qui in poi. L'auto scorta è sempre fedelmente alle mie spalle, preziosa soprattutto nelle strette gallerie buie. Dopo qualche chilometro di discesa, già nella parte più stretta ed incassata del vallone, mi raggiunge Patricia, che in discesa non teme nulla; la vedo, prima sopra e poi sotto di me, gira i tornanti come fosse una biglia contro i bordi del flipper, ma ha il pieno controllo delle traiettorie, cosa che non ho io. Mi costringo ad allentare un po' i freni almeno nei brevi tratti rettilinei, ma sempre con il dubbio: "La prossima curva, l'azzecco o tiro dritto?". Il freddo morde le dita nude, ma siamo quasi alla fine.
L'ultimo atto di clemenza di Giove Pluvio mi fa giungere asciutta fino a Bormio, e già è molto più di quanto osassi sperare. Non appena svolto verso Santa Caterina Valfurva, cadono le prime gocce. Pioggia leggera che per ora mi fa propendere per rinunciare alla giacca, con cui rischierei solo un'inopportuna sauna. Meglio approfittare dei primi km facili per mangiare qualcosa: è pur vero che la mia colazione è stata luculliana, con due etti di pasta, due pagnotte di pane, due yogurt, caffé, miele, ma son già ottanta km, mal contati, quelli alle mie spalle. Ormai so bene che è opportuno mangiare prima d'aver fame e bere prima d'aver sete. A dire il vero, finora non è mancato il conforto della Coca Cola, che ho chiesto fin dasubito ai miei scudieri; "Metà Coca metà acqua, grazie", perché la Coca da sola sarebbe più buona, ma il gas la farebbe saltar fuori dalla borraccia. Un Mars come primo conforto solido; supero l'auto scorta di Patricia ad inizio salita, ma lei è già ripartita.
I primi dieci km della salita del Gavia da Bormio sono sempre una pena per me; strada larga e quasi sempre dritta, che sale ma non ne dà l'impressione alla vista, quindi sfianca le gambe senza un motivo apparente. Pesto, pesto e mi sembra di non andare avanti. Coraggio Gian, ormai lo sai, c'è poco da fare, devi mettere pazienza. Finirà.
I primi colpi di tuono all'ingresso di Santa Caterina. In paese, come se non bastasse il dislivello che già la gara impone, ecco una bella deviazione per lavori, su una stradina che porta su su in alto e poi giù per rientrare sulla strada principale, un paio di coltellate nei polpacci, ne sentivo proprio il bisogno. Mi conforta sapere che, da qui in poi, avrò a che fare finalmente con una strada alpina. Umida, ma alpina. Affronto i primi tornanti con la pioggia che si fa insistente, i tuoni ancora lontani che si affacciano minacciosi dall'altro lato della valle; colpi non ancora secchi, ma lunghi, trascinati. Non vedo i lampi, sarà perché viaggio con gli occhi fissi alla ruota anteriore. Che ne sarà di questa gara, questa volta? Sarebbe fantastico poterla concludere così; si dice che le conquiste sono tanto più prestigiose quanto più sono combattute... Ma so bene che la pioggia mi farà perdere troppo tempo, so che discesa mi aspetta oltre il colle. Quanti km di salita? A dire il vero non lo so, non ricordo. Leggo a terra un 16: saranno i km già percorsi, o quelli che mancano alla cima? Ma no, non dire fesserie, Gian. Se mancassero 16 km alla cima, anche solo con questa pendenza, arriveresti quasi alla quota del campo base dell'Everest...
Improvviso ed inspiegabile un forte bruciore alla pancia: ma porcaccia miseria, ci mancava anche questa! Provo a cambiar posizione, a cambiare ritmo, a bere, ma no no, non c'è nulla da fare, qui urge una pausa di, ehm, riflessione! Mai come in questo momento mi rallegra la vista dei miei fidi custodi fermi proprio all'imbocco di un sentiero, in un tornante... A gran voce, già da lontano, acclamo il rotolone di papiro, tuffo la bici a terra, afferro al volo la preziosa pergamena che Stefania prontamente mi lancia e mi tuffo nel folto della boscaglia, anzi, nemmeno poi tanto folto, perché non ci arrivo. Se qualcuno dovesse vedermi, pace... In questi momenti di fatica ed angoscia mi sento un essere privo di imbarazzo e vergogna, una forma vivente asessuata, mi faccio pure un po' schifo ma tant'è, non ho mai annusato nessuno che, salendo al Gavia per giunta in un giorno di tregenda, profumasse di mughetto.
Riemergo dal bosco e riconsegno il rotolone; riprendo la bici, via, a recuperare il tempo perso, sperando che il mal di pancia si accontenti del tributo appena avuto. Non passa molto tempo che raggiungo la svolta a destra, quella che prelude ad una rampa niente male, ad un ponticello ed agli ultimi cinque o sei km di salita irregolare, a tratti cattiva a tratti blanda, in mezzo ai prati e poi in vista del lago. Ma oggi non si vede nulla, solo nebbia. Non ho voluto indossare la giacca, perché la pioggia non è forte, ma sono fradicia; il vento mi incolla la maglia umida alla pelle, mi fa rabbrividire. Nuvole ed ancora nuvole: a volte s'intravede appena il bordo della strada. Neve, torrenti d'acqua e fanghiglia; passano un paio di auto, intravedo oltre il parabrezza gli sguardi allibiti di chi sa di aver esagerato con la grappa. Stefania e Flavio poco avanti, chissà cosa ne pensano: scattano foto al lago ancora in parte ghiacciato, alle frange delle nuvole, al rifugio chiuso. Mi fermo proprio lì, afferro la giacca, la infilo; riparto poi per gli ultimi cinquecento metri di blanda salita in mezzo al lago. Proprio nel punto in cui la pendenza s'inverte, c'è un muro di nebbia a bloccare la vista. E c'è il furgone di Patricia, c'è anche Patricia che si veste e si fa un po' coccolare dalla sua eccezionale famiglia, il marito, la figlia. Se penso che io non ho voluto nemmeno i guanti invernali, per non perdere tempo ad infilarli... Tragico errore!
Della discesa non si vede nulla. Nuvole basse avvolgono la strada, stretta e sconnessa, un cimitero di detriti e pericolose crepe. L'auto mi segue il più vicino possibile, ma i fari servono a poco, si riflettono nella nebbia, ed a poco valgono anche i miei occhiali appannati. Scendo a freni tirati; non capisco come possa piovere, tirare vento ed esserci una cortina grigia così immobile e tenace. Tornante dopo tornante, non proprio a passo d'uomo ma quasi, con tutti i nervi tesi e le dita ormai ibernate sulle leve dei freni. Patricia mi supera, scende ovviamente meglio ma non poi così tanto; la cecità penalizza anche lei. La lunga galleria buia di solito fa paura, ma questa volta è un attimo di sollievo, per poi ripiombare nell'ovatta appena usciti da lì. Solo nella pineta torno finalmente a veder qualcosa: incrocio alcuni motociclisti che salgono e proprio non li invidio. Lascio andare un po' la bici, muovo le gambe quasi paralizzate: i muscoli ululano per qualche istante, poi tornano a collaborare, complice anche il tratto di breve risalita prima di Ponte di Legno. Mi sforzo di ingoiare qualche boccone di un panino al formaggio che avevo iniziato a Santa Caterina, ma è proprio una violenza: mangio perché devo, perché non posso farmi fregare dalla fame. Da Ponte di Legno ad Edolo la vita è facile; continua a piovere, ma non troppo forte. Per ora i freni Campagnolo sono ancora sufficienti, e poi qui per fortuna non c'è molto da frenare.

Chissà che ora è? Faccio un rapido conto, una stima del tempo che può esser passato dal via di Nauders; potrebbero essere le otto, all'incirca. Non ho ancora concluso il pensiero che, passando a Temù, sento i rintocchi del campanile: le otto. Ed è già quasi buio, benché siamo nei giorni più lunghi dell'anno; è buio per colpa delle nuvole che proprio non lasciano nemmeno un minimo spiraglio di cielo. Brividi, scuoto via l'acqua dalle maniche della giacca; ad Edolo arrivo irrigidita ed intirizzita. S'inizia la salita ad Aprica: salita per modo di dire, sarà una decina di km, poco più, ma molto blanda. Mi costringo a pedalare con la massima agilità di cui sono capace; mi stupisco di notare che le gambe obbediscono e resistono, senza imballarsi. Anzi, così mi scaldo anche un po'. Procedo a buon ritmo, con l'auto scopa sempre al seguito. Faccio segno di affiancarmi, chiedo agli scudieri di andare un po' avanti e prepararmi l'armamentario per il buio: luci, rifrangenti, lettore mp3, e magari un po' di pappatoria. E' presto, ma la visibilità è scarsa; non sia mai che qualche pilota un po' troppo allegro non si accorga di me! Anche qui, la pausa mi mette agitazione, ma non posso farne a meno. Finisco sempre per cadere preda dell'agitazione e non riuscire a fare tutto quel che dovrei fare; così, per colpa della fretta, mi tocca poi un'altra pausa per rimediare alle dimenticanze. Scavo nelle reminiscenze scolastiche di biologia per cercar di ricordare cos'avesse scoperto questo signor Golgi la cui effigie campeggia su un cartellone a Corteno Golgi... Ma presto mi arrendo: ci penserà Wikipedia a pacificare i miei dubbi.
Lungo la salita mi passano prima uno, poi altri due concorrenti appaiati: capperi, questi qua han già fatto il giro del Mortirolo! Simpatici come un residuo canino calpestato sul marciapiede... Io capisco la tensione, la fatica, la trance agonistica, ma un cenno di saluto non credo che possa prosciugarvi le energie! O forse pedalate talmente in alto che nemmeno vi accorgete della mia infima presenza... Va bè, pazienza, tiriamo avanti. Aprica arriva in un attimo, e, con il cartello d'inizio paese, anche le merendine che avevo chiesto. Vorrei evitare di fermarmi, ma Stefania mi rimprovera: "Metti la giacca, fa un freddo porco!". Obbedisco, poi giù in discesa, ancora pioggia e auto al seguito. La ricordavo più breve, la discesa da Aprica... Invece no, è lunga a sufficienza per farmi patire ancora freddo. E' sceso il buio, si sono accese le luci della valle, sfocate per la nebbia e gli occhiali sempre bagnati. I tremori mi scuotono le spalle e le braccia in modo quasi incontrollabile; non vedo l'ora di arrivare a Tresenda, almeno da lì a Tirano finalmente si pedalerà un po'. Infatti si pedala, ma non è un sollievo: nonostante l'ora tarda, quei dieci km di strada statale sono un vero inferno di traffico. Stefi e Flavio sempre dietro, con le quattro frecce dell'auto accese, ma la maggior parte degli automobilisti non capisce, si inferocisce, sorpassa, si aggrappa al clacson, inveisce. Auto, camion, moto, c'è di tutto, e poi la pioggia: ho i nervi a fior di pelle, mi aspetto da un attimo all'altro che qualcuno chiuda il sorpasso troppo presto e mi butti fuori. Come se non bastasse, non è proprio possibile pedalare sul ciglio della strada; è tutto un rattoppo ed un rattoppo di rattoppo, sembra di stare sulle montagne russe. Avrei voluto approfittare del tratto in piano per mangiare, ma nonc'è verso; a Tirano arrivo con il pancino che già lancia qualche lamento. Quattro occhi aperti nel paese, perché a quanto pare c'è vita mondana, anche troppa per i miei gusti; bar, birrerie, musica a tutto volume, assembramenti di gente ovunque. Mi vien la pelle d'oca al solo pensiero: in fondo, qui in bici di notte sotto il diluvio non si sta poi così male. Nel frattempo mi ha raggiunta Ennio: non sapevo che fosse dietro di me... Lui invece sa un sacco di cose, chi c'è davanti a noi, con quanto vantaggio; è in contatto via sms con un amico che segue la corsa su Internet. Così proseguiamo insieme da Tirano verso Mazzo, togliendoci finalmente dalla stramaledetta strada di fondovalle. La pioggia d'improvviso rinforza, adesso sì che sembra d'essere sotto la doccia. Bivio per Sparso, si salvi chi può: come al solito, ho gestito malissimo il tratto in pianura, non ho mangiato e mi ritrovo anche con la borraccia quasi vuota. Troppo tardi, ci penserò, ora è il momento di salire. Rischiamo uno scontro con un ignaro abitante della frazione, che spunta in auto dal viottolo in mezzo alle case. Poi via. Già il primo km, non ancora pendente, mi fa capire che sarà dura: con la pioggia così intensa, le luci della bici non servono quasi a nulla; in certi tratti dove l'asfalto è stato appena steso mancano le linee bianche a bordo strada ed è un vero disastro. L'auto fa quel che può, ma non illumina oltre le curve; tocca a me mettermi un occhio in mano e capire dove andare.
Quando la pendenza si impenna, Ennio parte di gran carriera e mi stacca; mi guardo bene dall'inseguirlo, perché il Mortirolo è sì una delle mie salite preferite, ma va affrontato con il massimo rispetto. 34X29 e via, una rampa dopo l'altra. La pendenza, la fatica, stanotte sono l'ultimo dei miei problemi. E' proprio il caso di dire che sto salendo alla cieca: seguo finché posso i fari posteriori dell'auto di Ennio, seguo la sua lucina, ma non vedo dov'è che sto appoggiando le ruote. L'auto di Flavio fa i miracoli, mi segue alla mia velocità; ogni tanto si ferma, poi la sento ripartire. Ho l'angoscia che, così facendo, il motore decida di rendere lo spirito: lo so, i miei gregari sono senz'altro consapevoli di quel che è meglio fare in questo momento, ma io ormai sono in preda al panico, e tutto quel che posso è sfogarlo sui pedali. Ogni curva mi strappa un lamento, non so se riuscirò a restare in piedi o se finirò fuori strada; non sarebbe grave, per carità, ma una bella botta la pianterei. E' angosciante procedere senza vedere. Ma forse, quando vedo, è peggio! La strada è un torrente che scende impetuoso seguendo la pendenza; acqua che fa le bolle, rami e fogliame che viaggiano. D'un tratto, un bagliore si riflette contro le lenti bagnate degli occhiali: per un istante penso al flash della macchina fotografica, ma immediatamente un botto fragoroso mi schiaccia il cervello in mezzo alle orecchie. Alla faccia, ci mancava anche il temporale. Il vento, quando può, s'infila in mezzo agli alberi e mi sbatte addosso secchiate d'acqua; continuo a pedalare, di tanto in tanto mi alzo in piedi ma con cautela, continuo ad imboccare i tornanti a caso, sperando che girino proprio di lì, e già ho perso completamente la nozione dello spazio e del tempo. Supero Ennio, fermo in un attimo di crisi; lo incoraggio, continuo, intravedo ancora una luce. E' il furgone di Patricia, lei è lì, ferma; le grido con rabbia, "Dai dai", mi dispiace davvero vederla così: spero sinceramente che si riprenda. Lei non può mollare: se molla, è proprio perché c'è qualcosa di grave! Salgo ancora, con tutto l'impeto di cui sono capace, con l'energia che mi mette addosso la paura, la tensione: l'unico obiettivo ora è levarsi di qui. Ancora lampi, conto i secondi all'arrivo del tuono, con un metro di misura tutto mio; mi sembra che il ritardo sia crescente, forse il temporale si va allontanando, forse la discesa non sarà così. Dietro a me, più nessuno se non la mia auto, fedele come non mai. Eccezionali...
Approfitto di un tratto appena meno pendente per fermarmi un attimo e chiedere qualcosa da mangiare e da bere: Stefania mi passa il latte condensato, perché non riesco nemmeno a pensare di masticare qualcosa. Le consegno la borraccia, chiedo acqua e Red Bull, ma ho le mani così malferme che il tappo mi scivola a terra. E chi lo trova più adesso? Panico... Lo recupero, per fortuna non è rotolato via; richiudo convulsamente la borraccia, aggancio il pedale, riparto a zig zag. "Te la senti di proseguire?", mi chiede Ste. Sì, certo... Devo. Non so a che punto della salita mi trovo; ogni tanto, dal buio spunta qualche casa, qualche ramo illuminato dai fari, qualche tratto di steccato. Me ne accorgo solo quando sento le gambe spingere un po' meno: dall'auto mi comunicano "Cinquanta metri e ci sei". Di dislivello, s'intende: casco dalle nuvole, realizzo che effettivamente son già arrivata in mezzo al prato.
Nell'ultimo tornante, mi spunta accanto Ennio, dal nulla, con espressione un po' stravolta, senza guanti, senza casco: ma non è il momento per fare conversazione. Lui si ferma all'altezza del cartello di legno, io nello spiazzo, poco più avanti. Il diluvio non dà tregua, è più violento che mai. Non ho scelta, almeno qui devo fermarmi un attimo e cambiarmi: sarebbe il momento di prendere fiato... Ma non resisto, sono agitata, furiosa, scavo convulsamente nella borsa, prendo a casaccio la prima maglia asciutta; via la giacca, via la maglia, altra maglia, mi rivesto e ne dimentico un pezzo, mi rimetto il casco e butto a terra gli occhiali... Afferro la Ridley senza nemmeno montare le luci; pronti, i miei angeli custodi subito dietro. Me l'aspettavo terribile, la discesa... Ma non così. La strada si tuffa nel buio con rampe che pendono troppo, con l'acqua che corre e trasporta di tutto; affido la mia pellaccia ai freni Cantilever, che fanno egregiamente il loro dovere, ma sono comunque costretta a procedere davvero, questa volta, a passo d'uomo, col terrore appollaiato sulla mia spalla. Ennio è passato, è andato, io resto inchiodata quassù e non so come fare, con le ruote che di tanto in tanto slittano, con la sensazione di cadere ad ogni metro,di ribaltarmi faccia in avanti. Buio e stanchezza e freddo rendono le paure ancora più enormi ed irrazionali, e poi fa freddo, tanto freddo. Non so quanto riesco a trascinarmi, così, quasi fermandomi in ogni tornante; so solo che, ad un certo punto, non ce la faccio più. Mi fermo, scendo di sella; Stefania subito mi cede il posto, salto in auto tremando come una foglia, tanto che non riesco nemmeno ad articolare una parola di senso compiuto. Quanto resto ferma così? Forse dieci minuti, forse più, mille pensieri sconclusionati, la tentazione di tirare i remi in barca, è proprio il caso di dirlo, e lasciar perdere questa follia. Ma no, non qui, non ora. Ancora fuori, in sella, perché più resto al caldo e peggio è, si scioglierà la rabbia, mi ritirerò, e poi me ne pentirò. Ancora diluvio, ancora discesa e freddo; ancora Edolo, come prima. Poi le gambe si scaldano un po', tornano senza fatica a girare, e con loro la voglia di andare ancora, perché ora il peggio è davvero passato, ora i colpi di tuono sono lontani e sfumati, non fanno più paura. Altro cambio bici, perché mi son fissata così; non so cosa mi autorizzi a pensare che la pioggia perderà intensità, eppure è proprio quel che succede man mano che salgo verso Aprica. Riacchiappo Ennio rifugiato in auto; riparte anche lui, si accoda, provato e silenzioso. Come sempre, dalle difficoltà altrui traggo un po' di forza: come si suol dire, mal comune, mezzo gaudio; mi ringalluzzisco, riprendo un buon ritmo, quasi non mi accorgo d'essere già ad Aprica. Tiro dritto senza soste, probabilmente brucio anche qualche semaforo rosso, perché l'auto scorta si ferma e mi raggiunge di lì a poco; amen, non importa, non è il caso di sottilizzare. La stessa discesa di prima, solo che la pioggia ora è più tenue. Quasi non credo ai miei occhi quando scorgo, in lontananza, uno squarcio di stelle: non sono le luci della vallata, no no, quelle sono proprio stelle! E infatti, nell'ultimo km rettilineo prima dell'incrocio con la statale di fondovalle, volto lo sguardo verso il Bernina e vedo un bellissimo alone azzurro, il primo segno dell'alba che arriva. Lo indico ai miei fidi gregari e mi ci lancio incontro con nuova foga: potrebbero essere quasi le cinque del mattino, meno traffico, meno caos. Quasi quasi il tratto tra Tresenda e Tirano mi sembra persino più breve.

Questo però è il momento critico: l'alba. Perché la temperatura scende molto, perché il sonno aggredisce, perché il Bernina è una salita lunga, interminabile, che ho sempre sofferto molto, sia affrontandola per prima che in gara, dopo tutte le altre già superate. Appena prima della dogana, tolgo la giacca e mi sistemo gli auricolari del lettore MP3. Questa notte il sonno non s'è mai fatto sentire, ucciso dalla tensione, dalla paura che tengono alta la guardia, ma ora il cielo è un po' meno minaccioso, la strada ampia e facile, la vallata quieta e silenziosa. Avrò voglia di dormire. Oltrepasso la dogana, attacco la salita, con ogni cautela. Le prime rampe sono severe, dritte come fusi in mezzo all'abitato; è la luce del primissimo mattino, ma tutt'intorno il mondo normale dorme ancora. Non un bar, non una panetteria, nulla di nulla, tutto chiuso. Alzo il volume della musica, pedalo senza forzare, perché so che il Bernina mi scoppia; Ennio è sempre nei paraggi, anche lui assonnato e silenzioso. Il lago di Poschiavo offre un tratto di falsopiano in cui ingurgito di malavoglia una barretta; l'acqua è mossa, grigia per il riflesso del cielo biancastro. A Poschiavo, il mio unico pensiero è restare ben lontana dai binari, che corrono sulla strada: la mia chiappa destra reca ancora testimonianza del giorno in cui, quasi un anno fa, ho pensato bene di infilare lì in mezzo la ruota e volare per terra! Piuttosto, quando si tratta di attraversarli, mi fermo.
Le cime sono ancora avvolte dalle nuvole. Tira vento forte, freddo, contrario, manco a dirlo: e già questa salita manca di curve per km e km... Calma, Gian, lo sai già, devi rassegnarti. Soffrirai fino in cima, come sempre; porta pazienza e goditi la musica. Scruto le nuvole, non sembrano minacciose ma non vogliono sapere di andarsene; si spostano, si avvinghiano, chiudono il cielo, fan preoccupare. Non basta la felpa a ripararmi dal freddo pungente che s'infila nelle maniche e nel colletto, nelle orecchie e nelle ossa. I pedali girano piano, con fatica, ma non devo forzare; è solo un momento di crisi, se ne andrà. Cerco di mangiare, ho voglia di roba dolce, chiedo un panino con la Nutella; eh sì, c'è anche quella nel bagaglio. Lo stradone ampio si popola pian piano; vedo avvicinarsi con sollievo la testata della valle, finalmente qualche curva tra le chiazze di neve ed i pascoli gialli di freddo. Ed il proverbio scritto sulla facciata di una casa... "S'oggi seren non è, diman seren sarà. Se non sarà seren, si rasserenerà". Suona come un'immensa presa per i fondelli! Che m'importa che si rassereni diman, mannaggia la miseria?
Ancora freddo, nonostante le gambe che spingono per fare in fretta. La dogana verso Livigno, finalmente i tornanti appena sotto il colle, che non si vede ancora; in compenso da quassù si scorge l'intera vallata, Poschiavo ed il lago laggiù in fondo. Stefania propone una sosta in cima per bere qualcosa di caldo; lì per lì, dico che non è il caso... Ma, quando arrivo in vetta, al lago, mezza ibernata e con il vento che mi butta addosso minuscoli aghetti di ghiaccio, convengo che, sì, forse è il caso di prendere una pausa. Ormai so bene che sono in ritardo, troppo: ancora dodici ore e cinque salite... Sono le otto del mattino, non ho speranze di farcela, nonostante gli incoraggiamenti di Flavio che è fiducioso. Ho perso tanto tempo e tanto ancora ne perderò; Giove Pluvio non mi è stato amico. Ma per ora si va avanti; un the bollente, una sosta in un bagno civile e si riparte, discesa, destinazione Pontresina. Discesa per modo di dire, perché c'è parecchio da pedalare, ammirando il passaggio del Trenino Rosso in mezzo ai prati con ancora troppa neve. Il sole c'è, fioco fioco: nemmeno giù, a fondovalle, si fa poi sentire così tanto. Sul passo il termometro segnava due gradi e mezzo.
I tratti di trasferimento, anche brevi, per me sono sempre un cruccio. Fino a La Punt ci sono pochi chilometri di pianura, ma le gambe rifiutano ostinatamente il concetto. Dovrei approfittarne per essere un po' più rapida, invece niente, mi pianto, rallento, non posso fare altro che approfittarne per sgranocchiare qualcosa. La fame ormai è costante, ma non riesco a mangiare come dovrei; mi sostengono le borracce di Coca Cola, sia pure gelate. Meglio di niente. Accolgo il bivio per l'Albula come una liberazione: qui la strada torna a salire sul serio, con pendenze di tutto rispetto, anche se l'ascesa è breve, una dozzina di km, forse meno. Prima tornanti nei prati, poi un po' di strada nella pineta, poi la vallata finalmente ampia, morbida, pendii che sembrano teli sorretti da bastoni di metallo che fan da punta, dolcissimi. Si vede presto, il colle; lo si raggiunge in fretta, in mezzo ai due laghetti. Anche qui, le nuvole basse sferzano la faccia di aghi ghiacciati. Incontro una lunga colonna di motociclisti bardatissimi contro il freddo; con ancora indosso la felpa, la giacca ed i guanti lunghi, affronto la discesa che ricordo, ahimé, parecchio ostica. L'asfalto è inguardabile, tutto gobbe per chilometri; sembra di star sulle montagne russe, sembra di prendere il volo. E continua a fare ostinatamente freddo, benché sia ormai mattino inoltrato. Mi fa talmente paura questa discesa, che mi supera persino il trattore... Solo dopo parecchi km l'asfalto torna a livelli di decenza. Un po' di falsopiano, direzione Filisur, una breve risalita e poi il bivio per Davos. Qui, per la prima volta, i miei incredibili scudieri si staccano da me per qualche momento, per andare a caccia di un panino, mentre io attacco la salita senza nome, non menzionata nella sequenza delle tante salite della corsa, ma a mio parere degna di nota. La strada qui risale e poi scende in picchiata verso una lunga galleria; mi avvio pedalando piano per riscaldare le gambe, ma la testa è ormai poco presente. Ammiro i prati pettinati, verdissimi, ordinati di questa vallata, e penso che anche questa volta è andata storta, non per colpa mia, ma è andata storta; è troppo tardi per arrivare a Nauders non solo in 32, ma anche in 33 o 34 ore. Salgo di buona lena, in piedi sui pedali, ma sento ancora qualche brivido, anche se ora il sole splende ed indosso ancora la felpa. Salgo e raccolgo qualche sorriso, qualche complimento bonario di chi non sa quale storia possano raccontare oggi i miei garretti; salgo finché non vedo la strada che all'improvviso punta verso il basso, giù da questo colle che non ha un nome e sembra non avere nemmeno un senso. La tristezza affonda qui il suo colpo, tutto qui in pochi chilometri: quattro curve in discesa, quasi tre chilometri di gelida galleria in leggera salita, e poi il maledetto falsopiano assassino prima di Davos. Tutta colpa del falsopiano. Se ci fosse stata subito la salita, avrei senz'altro continuato, perché, quando la strada sale davvero, non c'è posto per i cattivi pensieri. Ma sul falsopiano mi trascino, fatico e non avanzo, sento le forze spegnersi, ma non sono più le forze. E' tardi. Che senso ha continuare, e costringere Stefania e Flavio ancora a troppe ore di auto dietro ai miei comodi, quando so che ormai non c'è più nulla da fare per la mia gara? Arriverei alle undici, mezzanotte. Che senso ha? Mi si spegne la luce. Cerco l'auto, la vedo parcheggiata in piazzola; mi ci fermo anch'io, stufa e scornata e triste, sgancio i pedali, non li aggancio più, basta. Avrei potuto compiere l'impresa disperata, ma avrei avuto bisogno di uno scossone, di un insulto, di un calcio nel didietro che certo non avrei potuto attendermi da chi mi vuole bene, e comunque forse non sarebbe bastato. Salgo in auto, verso Davos, verso il Fluelapass; al bivio, come vedo la strada salire, ho un tuffo al cuore: vorrei fermare tutto, tornare giù, scaricare un'altra volta la bici. Fortissimamente. Ma non sarebbe più la gara... Sarebbe una fregatura, un tratto anche se solo di pochi chilometri percorso a bordo dell'auto, sarebbe quello che ho disprezzato e disprezzo senza appello. Gian, ormai è fatta, indietro non si torna. Si può solo tornare a Nauders, e vorrei non vedere la folla di gente al tendone, accanto all'arrivo, vorrei nascondermi sotto il sedile e sparire. Questa volta non ho molto da rimproverarmi, se non il fatto di non essere capace di gestire e sopportare situazioni di tempo difficile: eppure quella è la montagna; chi l'affronta dev'essere pronto a qualsiasi condizione. Poco importa il fatto che si siano ritirati in tanti, molti prima di me, compresa la baldanzosa ciclista americana forte della sua RAAM; alla fine resta un pugno di mosche, il dispiacere. Questa volta non dico "appuntamento al 2010". Credo che una prossima volta non ci sarà, anche se è difficile rinunciare ad un sogno...

martedì 16 giugno 2009

Sabato 13 giugno 2009 - Da Demonte a Demonte in sei colli

I fari dell'auto illuminano un oggetto semovente, tondeggiante, in mezzo alla mia corsia. Sterzo per istinto tutto a sinistra, meno male che dall'altra parte non arriva nessuno: per fortuna, lungo la statale della Valle Stura non c'è molto traffico alle tre di notte. L'oggetto tondeggiante guadagna l'erba sul bordo destro della strada e si dilegua: bene, non avrei potuto dare inizio all'avventura con migliore auspicio; per un caso del destino, ho evitato di stirare un riccio. Se penso poi che poco fa ho superato una comitiva di viandanti notturni a piedi, allora direi proprio che quel che sto per fare non è così folle.

Demonte: passo oltre la strettoia nel paese e parcheggio la Opel nella piazza appena successiva. Notte fonda, cielo terso di stelle, non c'è un'anima qui intorno. E non fa nemmeno freddo, anzi! Del resto, l'ora peggiore per il freddo non è questa; arriverà tra poco, con il primissimo chiarore. Indosso due maglie con le maniche corte ed i manicotti: una nuova strategia, da sperimentare. La felpa sarebbe troppo pesante, la giacca mi causerebbe un bagno di sudore. Scarico la bici, sistemo le luci e le borsine. Oggi niente Ridley: viaggerò con una delle mie due bici da corsa "classiche", per l'occasione tutta rinnovata dal mio meccanico e dotata di un bel gruppo Centaur nuovo di pacca, o quasi. Per gentile concessione di un tizio che l'ha comprato, l'ha usato due settimane e l'ha dato indietro! Unico azzardo: ho portato la ruota posteriore con il 26 anziché quella con il 29. Basterà? Speriamo. Deve bastare, perché non ho altro!
Infilo le scarpe, già pronta ad accogliere il male ai piedi che spunterà tra pochissimo e mi accompagnerà fedele per tutto il giorno.

Ultimo controllo generale; ho preso tutto, ho chiuso l'auto: sono le tre e mezza, si parte. Attraverso la piazza, uno sguardo a destra, uno a sinistra, giusto per scrupolo; il cuore si ferma un istante... E sono già in strada. Paura e gioia per un attimo si fondono. C'è un residuo di buonsenso, di istinto di conservazione, chiamatelo come volete, quello che per un attimo mi fa domandare a me stessa "Perché"... Ma non posso sentirlo, ho il vento nelle orecchie e la musica del lettore Mp3 che tiene lontani i rumori della notte, indecifrabili e per questo spaventosi. Ora che pedalo, il freddo si sente un po' di più, sulle gambe nude e nelle maniche; ci vorrà qualche momento prima che io prenda confidenza con il buio, con la strada che devo osservare con attenzione moltiplicata per mille, con le buche e le crepe che posso scorgere solo all'ultimo momento.
Il semaforo appena oltre Demonte è rosso, ma il tratto è breve, luci in arrivo non se ne vede; passo, con equilibrio precario, sull'asfalto grattato dei lavori in corso; poi viaggio nel buio, solo la riga bianca a bordo strada a segnare il mio percorso. Di notte è difficile, quasi impossibile capire se vado forte o vado piano, se faccio fatica o no; assecondo la pendenza con la spinta delle gambe, ma davanti a me la striscia bianca si perde nel nulla. Qualche camion mi arriva incontro, ne vedo già la luminaria da lontano; passano, abbassano gli abbaglianti, ancora più enormi nei contorni incerti.
Quando le fronde a bordo strada si diradano un po', intravedo le luci della valle: è Aisone il primo paese, con il campanile acceso di luce giallognola. La poesia è una gran cosa, ma i ciclisti son fatti anche di bruta materialità... Per la quale casca a fagiuolo la toilette pubblica sulla piazzetta. Sfilo accanto ad un'auto, ferma al semaforo prima della strettoia, dal cui finestrino si affacciano due sguardi a metà tra l'assonnato e l'allibito; breve tappa, poi riparto anch'io. Ancora buio, ancora luci che punteggiano la montagna, o chissà se sono le stelle, non vedo il confine. Le luci di Vinadio sono un momento di conforto, nell'attesa ansiosa dell'alba: la notte, la inseguo ma mi fa così paura. Il piazzale di fronte al parco è affollato di camion, autisti che dormono in cabina e nemmeno s'accorgono di me. Pedalo via, passo il forte, la discesa; un occhio al bivio per la Lombarda: al colle non s'arriva ancora, chiuso closed fermée, ma al Santuario di Sant'Anna si può andare, è verde; buon segno. La prima galleria, quasi non la vedo: in fondo passo da un buio ad un altro buio... Il bivio per le Terme, e qui poi non sono più sola. Due occhietti gialli mi fissano dal centro della strada, è un istante; un camoscio, corre ma non fugge, mi accompagna per qualche metro, galoppa quasi accanto a me e sembra non avere paura; poi forse ricorda che non deve fidarsi, brutta gente i bipedi, anche quando hanno le ruote, e sparisce nel folto della boscaglia. Un altro, poco avanti, lo segue. Dovrò fare attenzione al ritorno, in discesa.

Ancora gallerie, cerco le luci di Sambuco; il segreto è quello, per placare l'inquietudine, cercare le luci. Curva dopo curva, ascoltando le canzoni, cercando di non vedere i rami degli alberi spezzati, che sembrano tentacoli o mani, che vedo muoversi e tendersi verso la strada. E' solo suggestione, eccomi qui, proprio io che alla luce del sole rido di queste sciocchezze, e adesso son qui e posso riderne solo se mi ci costringo. La salita un po' mi riscalda, ma è meglio non levare ancora la maglia; s'è alzato un vento a tratti anche teso. Ancora luci, Pietraporzio, ma questa volta non solo. Il cielo non è più nero; si distinguono appena i contorni delle montagne; ormai la notte cede il passo. Lo sento dall'aria, sempre più frizzante; giro il curvone di Pontebernardo e vedo la vallata in un attimo più luminosa, i lampioni che sfumano nel primo chiarore; di fronte a me le Barricate, la galleria. Tento qualche foto, ma l'impresa è ardua: non sono capace di impedire il flash, così quel che viene fuori è una riproduzione decisamente più buia rispetto all'originale.
La galleria è il primo assaggio di salita un po' severa; i tornanti, il Villaggio Primavera, le cime incappucciate di luce, la pelle d'oca sulle gambe che pure spingono di buona lena. L'allegria cresce man mano che i raggi del sople scendono giù verso il fondovalle, man mano che io salgo loro incontro. Qualche auto, qualche camper, pian piano il mondo si rimette in movimento. E le marmotte, ora vigili a segnalare il mio passaggio attraverso il lungo pianoro prima di Argentera. Questa è una salita orrenda, una salita che non sale mai, ma ripaga con la bellezza del paesaggio e con le fontanelle nel paese. Poi finalmente i tornanti; ogni volta comincio a contarli e perdo il conto dopo tre o quattro curve. Le gambe rispondono bene, non sembrano curarsi del freddo; quando sarò su, dovrò vestirmi per benino. Il vento ogni tanto si fa sentire, tira schiaffi a casaccio, poi sparisce; l'asfalto qui lascia un po' a desiderare, è più sforacchiato di una groviera. Ho sentito dire che sarà risistemato a breve... Speriamo. Osservo con invidia il camion lassù, l'autista che si destreggia nei tornanti come se fosse al volante di una Cinquecento e invece chissà quanti metri di rimorchio porta giù; con la bici io non ho la stessa agilità. Spunto sul pianoro, prima del lago, e mi aspetto la folata di vento: no, mistero, non arriva nulla; anzi, la superficie dell'acqua è placida come olio. Il bar è già all'opera; un pescatore siede sul guard rail e fissa chissà cosa; si risveglia di soprassalto quando gli passo accanto.

In cima: giacca e guanti lunghi, la discesa sarà fredda, la luce di certo non ha ancora raggiunto la strada. Impugno un po' titubante le leve freno nuovissime, parto: pare che tutto funzioni, per fortuna, solo che i pattini sono nuovissimi e la corsa del freno è breve. In altre parole, come tocco le leve, inchiodo. Va bè, basta saperlo. Ormai è giorno fatto, batto i denti ma brucio dalla voglia di arrivare giù, per poi tornare su, ma molto più su. Quanti mesi sono che non vado alla Bonette? Troppi... Scoprire, solo ieri, che il colle è aperto è stata una sorpresa splendida. Maison Meane, Larche, Meyronnes, qui tutti dormono ancora; dorme, come sempre, anche la frana, che vorrebbe vietarmi il passaggio. Solo la minaccia di qualche sasso, filo giù in barba ai divieti; mi ci vorrà però tutto il falsopiano fino a Jausiers per convincermi a togliere la giacca. La strada lungo l'Ubaye è ancora tutta in ombra, gelida. Via il lettore Mp3, conserverò la batteria per la prossima notte; ora non ho più bisogno della musica per restare sveglia, anche se la notte scorsa ho dormito tre ore. Mi basta sapere che sono sulla "Plus haute route d'Europe", e poco importa che non sia più vero; a me piace pensare che sto salendo sul tetto ciclisico d'Europa!

Lungo tratto in mezzo a borghi e cascine e case di artigiani del legno, poi un primo salto a tornanti, un altro salto ancora. Mi sembra impossibile che tutto sia così ostinatamente bello oggi: il cielo blu senza nemmeno la striscia di un aereo, l'erba verde e punteggiata di fiori. L'asfalto perfetto: e sarà perfetto fino in cima, nonostante l'inverno appena concluso, perché quassù l'inverno è molto più lungo. Il rifugio, Halte 2000, i cartelli a bordo strada che segnano lo scorrere dei chilometri. Anche le gambe, in armonia con la giornata, sono in stato di grazia. A farmi compagnia, sciami di motociclisti in assetto da turismo. Altra serie di tornanti, il pianoro con il lago, la neve: qui la strada è stata aperta a forza, schiacciando la neve contro il pendio, creando muri che fanno più impressione di quel che è la realtà; l'acqua scende a rivoli lungo la strada. Il 26 per ora non pesa; sembra quasi che i garretti si divertano ad affrontare i tornanti dell'ultimo salto, i più aspri, perché per guadagnare il premio della cima, laggiù in fondo, bisogna faticare di più. Non posso vedermi, ma so benissimo d'avere un sorriso a trentadue denti, compresi quelli che mi hanno cavato, stampato in volto e già da un bel po'; la mia felicità in questo momento è quasi incontenibile, tanta era la voglia di tornare. Mancano tre chilometri al colle, me li mangio tra le foto; "bravò, bravò", mi strillano dalle moto, e ci manca poco che non scenda dalla bici e non faccia una piroetta. La scruto da lontano, la cima; è come se indossasse un collo di pelliccia, la neve scostata dalla strada ed accumulata giù dal pendio. Sarà possibile farne il giro? La strada che circumnaviga la cima, benché pulita, pare ancora ingombra di neve franata dai lati; perentori cartelli indicano il divieto di passaggio in entrambi i versi. Non è il divieto che mi impressiona, quanto la poca voglia di zampettare nella neve; scendere da qui, quota 2.700 e rotti, con i piedini umidi non sarebbe il massimo del divertimento. Quassù c'è già gente, qualche ciclista, qualche turista pigro in auto, un bellissimo Pastore Tedesco che si sbizzarrisce rotolandosi nella neve; qualche foto, poi mi vesto e rimonto in sella. Dopotutto quel che conta è il viaggio... Quando sei in cima, non ti resta che scendere! A caccia di un altro viaggio. Mi fermo solo un istante per fotografare il ghiaccio: all'ombra la temperatura è ancora siberiana. Poi giù, con calma: che dire, ho preceduto si e no di mezz'ora una fiumana di ciclisti che ora incontro a grappoli in discesa. Mi godo anche il paesaggio che, salendo, era nascosto dietro la mia schiena; tirando i freni, posso distrarmi più o meno quanto voglio. Anche per inquadrare un bellissimo ciclista dal corpo ben tornito, tutt'altro che magro come un attaccapanni, capelli castani lunghi sulle spalle, carnagione scura, maglietta aperta fino a metà della cerniera ed occhi che non posso vedere, ma dietro alle lenti immagino verdi. Tentazione di fare inversione... Ma non si può, l'Allos chiama!

A Jausiers approfitto della mia solita fontana, pochi secondi e poi ancora strada. Approfitto dei chilometri più o meno piani verso Barcellonette per mangiare: faccio fuori prima il Mars, che non sopravviverà alla calura. In paese passo con il paraocchi, per non guardare le tome e le pagnotte esposte sui banchetti del mercato; via Gian, che se senti il profumo è finita...
La temperatura ora è rovente. Lo stradone che sale al Col d'Allos, al sole del mezzogiorno, è spietato: c'è un po' d'ombra, ma poca roba, il resto è asfalto nero e bollicine di catrame che ogni tanto scoppiano sotto il peso della ruota. 19 al colle, 18, 17, i chilometri sono scanditi dai segnavia a bordo strada. Qui la pendenza è quanto di più costante si possa immaginare; ci si può mettere lì, prendere un passo, scollegare il cervello. I piedi sono già furiosi, sembra che vogliano scoppiare nelle scarpe; inizia la danza per cambiar posizione, scuoterli, smuovere un po' la circolazione. E' tutto verde, tutto bosco qui intorno, ma inganna, non fa ombra. La fontanella: ci butto la testa e poi i piedi, scarpe e tutto, e pazienza se son le bellissime SIDI nuove, io ho troppo male. Sollievo immediato, anche se durerà poco; mi distraggo con le foto, soprattutto quando la strada raggiunge la testa della valle e sale in mezzo ai pascoli. Supero un gruppone di ciclisti fermi; non capisco che lingua parlino, ma tanto non avrei fiato per chiacchierare. Solo uno di loro mi raggiungerà, più avanti. Intanto mando un messaggio a Matteo, a quest'ora segregato in negozio: solo lui può capire davvero la mia gioia per essere qui!

Ormai conosco ogni metro ed ogni curva; so già che, tra poco, arriverà il passo. Infatti, dietro alla curva, spuntano prima i tavolini, poi il Refuge du Col d'Allos: è qui che, nel maldestro tentativo di fare una foto, rischio di sinistrare sia la macchina fotografica che me stessa medesima. La macchinetta vola, io resto agganciata al pedale, solo per un pelo non rovino sull'asfalto. Con molta nonchalance, mi ricompongo, mi vesto: è ora di scendere. La discesa qui è lunga e nemmeno poi fredda; i primi chilometri verso La Foux sono su strada stretta e sconnessa, un po' troppo per i miei gusti. Mi superano tre auto d'epoca; io sono piantata, riacquisto un minimo di tranquillità solo sullo stradone oltre il paese. Ad Allos poi levo il giacchino, sto bollendo! Mi fermo proprio accanto al dehors di un ristorante da cui si sprigionano profumi assassini... Il falsopiano che segue è un calvario per i piedi; meno male che Colmars arriva in un attimo, o quasi. Un attimo prima del bivio, metto su il rapporto più morbido che ho: so già cosa mi attende! La prima rampa è cattivissima; la salita al Col de Champs prosegue poi sempre severa, almeno per i primi dieci km. Sono novecento metri in poco più di undici chilometri, considerato che, alla fine, la strada spiana. Qui il 26 sì che mi sta un po' stretto: due o tre denti in più ci vorrebbero... Meno male che la fitta pineta concede tratti di splendida ombra. Mi risorpassano le auto d'epoca, che avevo visto ferme giù al bivio, mentre i piloti discutevano animatamente, chini sulla carta stradale. Difficile azzeccare il bivio, se non sai che c'è; è minuscolo!
Sento la fatica, adesso, ma cerco di far finta di nulla. Non posso risparmiare le gambr, non ho denti a sufficienza; sono costretta ad alzarmi spesso in piedi sui pedali, ma per ora, per fortuna, i garretti non sembrano lamentarsi. Una curva, un'altra curva, qui i chilometri già fatti sono segnati a terra, con vernice verde. Al piazzale del parcheggio, a circa 7 km dall'inizio, mi spaventa un cartello giallo: "route barrée" a 200m. Come, route barrée? Scherziamo? Infotrafic diceva ieri che il colle è aperto... Infatti è un bluff, un cartello dimenticato. La strada qui diventa sì un disastro, ma è percorribile, a patto di pedalare su un tappeto di aghi, rami spezzati, pigne, sabbia, pietre, fanghiglia. La situazione poi peggiora quando si esce dal fitto del bosco: lungo i pendii, a destra e sinistra, si vedono solo alberi piegati e spezzati dalla neve, paline abbattute; in mezzo alla strada, torrenti d'acqua della neve che si scioglie. E ancora cielo blu a perdita d'occhio, e caldo, tantissimo caldo. Mangio una barretta per allontanare la cotta, che per fortuna se ne va da sola. L'ultima curva cambia il colore della montagna, che diventa nera come se una nuvola le facesse ombra, ma non è ombra, è il colore della pietra. "Bravissima", questa volta il motociclista è italiano: ringrazio, sgambetto via, ormai è fatta, anche questa. Col de Champs, quota 2.100 circa. Questa volta in discesa metto solo il gilet; mi attedono quindici km, prima pascoli e poi tornanti nel bosco. Patisco un po' il sonno, sarà la calura del primo pomeriggio; la discesa non aiuta. Conto i segnavia; meno male che il fondovalle è già in vista. Saint Martin d'Entraunes: è ora di fare una sosta. Non so quanti chilometri ho alle spalle, ma saranno più o meno duecento; non so nemmeno che ora sia, ma c'è un negozietto già aperto. Entro con la speranza di una Coca Cola e di uno yogurt dolce; mi devo accontentare di un litro di succo di frutta e due tristissimi vasetti di yogurt bianco, nemmeno dolce. Ci aggiungo una scatola di gallette ricoperte di cioccolato; scelta incauta ed infausta. Il cioccolato è già liquefatto prima ancora di uscire dalla bottega. Mi fermo su una panchina al sole, perché in fondo ho l'indole della lucertola; mi ingegno a mangiare gli yogurt, che oltretutto devono essere scaduti all'epoca delle guerre puniche.. Disgustosi e di consistenza gelatinosa. Sono inguardabile, lo so, ma in un modo o nell'altro i vasetti finiscono ripuliti, il succo nella borraccia, i biscotti nella borsina al telaio. Riparto sforzandomi di credere che la pausa mi abbia fatto bene; insieme a me, tre ciclisti francesi alle prese con il Tour de Troi Cols, Quando scoprono che io ci ho aggiunto altri Troi Cols, o meglio li avrò aggiunti quando sarò tornata sulla Maddalena, restano basiti. Però vanno più forte di me: io accuso un po' di stanchezza, li lascio andare. Stranamente i cinque o sei km di salitina noiosa prima di Entraunes passano in fretta; poi la pendenza si fa cattiva, non ce n'è più per nessuno. Le ombre si allungano, ma il sole picchia ancora feroce, anche se qualche tratto di strada finisce già in ombra. Sedici km al colle, Gian risparmia mi raccomando. Scatto ancora foto, misuro le forze; sono un po' abbacchiata, temo per la prima volta di non farcela. Non farcela? Ma non diciamo eresie, Gian. Pian piano, ma ce la farai, anche perché raggiungere Estenc è un pianto, ma da lì in cima i km sono solo più sette e sono meravigliosi. Due dei ciclisti francesi sono sempre lì avanti, in vista. Ancora un po' d'ombra, qualche turista, l'aria della sera, la vallata immersa in una luce ora più dolce e tenue. Meno cinque, meno quattro, anche le gambe sanno che è quasi finita; ancora un messaggio a Matteo... Un tornante, due, in mezzo alla neve, poi il colle, già in ombra. Saranno le sette e mezza, più o meno. Una famiglia in camper mi saluta. Mi vesto, con calma, scendo giù; ventinove km a Barcellonette da quassù. In fondo era questo l'unico mio obbligo: arrivare quassù, al Col de la Cayolle, in modo da poter ancora affrontare la discesa con la luce. Obbligo assolto comodissimamente. Scendere con il buio da quassù mi avrebbe consumato i nervi e mi avrebbe costretta a rischi non indifferenti, soprattutto nei primi chilometri. Invece ora mollo i freni, anche un po' troppo, tale è la voglia di tornare per un attimo con i piedi a fondovalle. Bellissima la vallata della Cayolle, punteggiata di paesini e fontane e chiusa in fondo dalle Gorges, ma io inseguo ora le luci di Barcellonette.

Anche qui, breve pausa, visto che ormai conosco la geografia dei "WC Public" di mezza Francia; ne approfitto per indossare il giacchino rifrangente, le cavigliere e per mangiare qualcosa. Poi mi rimetto in marcia: se mi sbrigo, avrò un po' di luce fino a Meyronnes. Forse.
La strada verso Jausiers e La Condamine è il solito strazio. Passo il tempo sbocconcellando una barretta; devo razionare il cibo, non mi resta molto, e la fame avanza. A La Condamine, ultima sosta; riempo la borraccia aggiungendo una bustona di Polase, sistemo la frontale e le luci sul manubrio, parto. Per un momento mi assale l'angoscia: e se lungo la Maddalena, nel tratto iniziale incriminato, in pieno divieto, incontrassi la Gendarmerie? Se non mi lasciassero proseguire? Sarebbero guai seri: l'auto a Demonte, io qui e la Maddalena in mezzo... Metto la musica per scacciare i pensieri cattivi, ma quei primi quattro o cinque km prima di Meyronnes me li mangio. E' la paura che mi dà energia. Dalle prime curve si vede ancora il salto sul fondovalle, ma al paese è quasi buio. Salgo ancora a lungo con la sola lucina a manubrio, intermittente, per farmi vedere da chi scende; per me, per procedere, non è ancora necessaria la frontale. E così, nell'oscurità, si vedono meglio le stelle, a profusione, si seguono le luci dei camion che mi sorpassano e poi pian piano si arrampicano lassù. L'unico timore è per la discesa; sarà gelida ed io non ho portato nulla per coprire le gambe. Ma bando ai patemi, Gian: te ne preoccuperai quando sarai lassù.
Non avrei mai pensato che lungo la Maddalena ci fosse tanto movimento di camion, di notte. In realtà non è tardi; sento suonare le undici poco dopo Larche; il fatto è che la notte dilata gli spazi e confonde i riferimenti; potrebbe essere mezzanotte, le tre, chissà... D Ormai manca poco; salgo tranquilla, con la testa che va per conto suo, un po' per effetto del buio, un po' per il sonno che fa capolino. Di fronte a me è tutto nero; giro il penultimo tornante... E resto senza fiato. Laggiù, a fondovalle, un ultimo tenue barlume di luce blu spezza il nero e resiste aggrappata alle cime. Il tempo di una foto, l'ultima prima che la batteria della macchina fotografica renda lo spirito. Ho dovuto fermarmi, ma anche ripartire diventa, al buio, un esercizio di equilibrio delicatissimo. Chissà se sono qui davvero o se sto sognando? E' difficile, molto difficile credere di avere un contatto con la realtà, in questi momenti. E' tutto incerto, indefinito, il tempo e le figure che escono dal buio nel cerchio della frontale, che bisogna esserci ben vicini per capire cosa siano davvero.

Anche l'ultimo chilometro rotola via. Al passo mi fermo, al riparo del gabbiotto dei liquori; indosso la giacca, i guanti lunghi, fisso la terza luce. E' la resa dei conti, ora si scende. Calma e sangue freddo, Gian: saranno quaranta km, vedrai che passano in fretta. Devo ragionare per obiettivi. Cercare le luci di Argentera, prima: un tornante via l'altro, brividi sulle gambe, dita che fanno male per quanto tendo i freni senza nemmeno rendermene conto; mi fanno paura le crepe nell'asfalto lungo il senso di marcia. Un'eternità per vedere le luci del paese, illuminato sì ma deserto, Poi il pianoro, e qui mangio un po', l'ultimo Mars che si era sciolto ed ora, al freddo della notte, è tornato solido, miracoli della fisica pasticcera. Devo respingere il sonno: è ancora troppo troppo presto. A Bersezio riprendo la discesa; dai Gian, hai ancora luce per un po'. Vorrei guardare il cielo ma non posso distrarmi; arrivo alle Barricate, alla prima galleria, in compagnia di tre lunghissimi camion. A Pontebernardo poi incrocio alcune auto; com'è tutto relativo, di norma le odio ed ora invece ne desidero il conforto. Pietraporzio e mi gelano le mani: cerco di controllare almeno il tremore delle gambe nude. I piedi sono gelati, almeno il freddo lenisce un po' il dolore. Ma è un gioco di fino, spostare il peso un po' su un piede, un po' sull'altro, un po' sulla sella quando il didietro ormai dà segni di impazienza pure lui. La riga bianca a bordo strada è il mio faro nella notte, soprattutto quando le auto che incrocio non accennano ad abbassare gli abbaglianti. Sambuco, ancora un po' di luce, poi le gallerie. Ed i camosci, quasi fossero rimesti lì ad aspettarmi dalla notte scorsa: stavolta schizzano via subito, agili spariscono dalla mia vista annebbiata. Il falsopiano prima di Vinadio è una tortura per i piedi gonfi: sfrutto la breve risalita per cambiare un po' la posizione. Ancora dodici km, santa pazienza e sforzo sovrumano per tenere gli occhi aperti. Che le palpebre stanno anche su... Ma il cervello si stacca, vuole riposo e non c'è niente da fare. Aisone, anche stavolta la vedo al buio; ancora interminabili curve, quasi non mi sembra vero quando raggiungo finalmente il semaforo del senso alternato a Demonte. Entro in paese, spengo le luci, la Opel è ancora lì. Mezzanotte e mezza. Sono stanca, sono incommensurabilmente felice ed ho una gran voglia di una vasca colma d'acqua: ma dovrò attendere ancora un po'... Dopo circa 330 km e quasi 7000 m di dislivello, i 70 km di ritorno a casa in auto mi costeranno cinque e più ore: baldanzosamente decido di partire... Ma alla prima piazzola sono già ferma, nel mondo dei sogni. Quasi pronta per un altro viaggio!

venerdì 5 giugno 2009

30/31 maggio 2009 - Raid Provence Extreme

Patrick parla in francese, ma ormai non mi frega più... Non saprei come rispondere, ma capisco alla perfezione il senso del suo discorso. Guarda fisso verso di me, sorride: “Quest'anno, chi non ce la fa più dovrà ingegnarsi a tornare al capolinea con i propri mezzi. L'organizzazione interverrà per riportare alla base chi ha avuto un incidente o un problema meccanico... Ma se l'ostacolo è la stanchezza, saranno affari vostri, perché dovete sapervi gestire”. Guarda me perché sa che, l'anno scorso, io ho gettato la spugna dopo 530 km, e poi non per colpa della stanchezza, almeno, non quella fisica; è la testa che ha ceduto, che non ha saputo resistere dopo aver sbagliato strada ed aggiunto inutili chilometri ai già troppi chilometri, dopo essersi convinta che ormai non ci sarebbe più stato nulla da fare. Guarda me perché, nella platea di cinquanta ciclisti ed altrettanti accompagnatori, più o meno, sono in fondo l'unica per cui le probabilità di fallimento surclassano quelle di successo, ridotte queste ultime al caso miracoloso. Del resto lo so, è la pura innegabile verità; non me la prendo, ricambio il sorriso.

Il sole obliquo della sera illumina la piazza in terra battuta, bianca, livellata dalle ruote delle auto e dalle partite di bocce, chissà quante ogni giorno, giocate all'ombra paterna ed accondiscendente dei meravigliosi platani. Esaurite le spiegazioni, gli avvertimenti, le domande, la piccola folla si disperde, alla spicciolata. Matteo è già tornato al furgone da un po': deve finir di cuocere la pasta... Entro le sette e mezza stasera bisogna consegnare le bici, che domattina saranno trasportate a Bedoin, al punto della partenza, ed i rifornimenti che ciascun ciclista “autonomo” potrà poi ritirare al punto di ristoro prescelto lungo il percorso. La corsa quest'anno prevede 590 km per 9.400 m di dislivello in salita, tra il Mont Ventoux, le Gorges du Verdon, il Luberon; tracciato più impegnativo dell'anno scorso, ma il tempo massimo è rimasto invariato, 34 ore. Impossibile per me, certo: ma, chissà perché, la preoccupazione non mi sfiora. Sarà che sto diventando vecchia ed un po' meno scalmanata, sarà che sono già stata qui e più o meno so quel che mi attende; fatto sta che non riesco a lasciarmi travolgere dall'onda di entusiasmo e terrore che fino a qualche tempo fa mi assaliva in questi momenti. Sono a ore ed ore di auto da casa, eppure c'è un bel po' di gente che conosco: Ivano, Neria, Patricia, Silke... Ivano poi come al solito è il teatrante della situazione, perenne dongiovanni sempre pronto ad attaccar bottone con ogni fanciulla nel raggio di dieci metri, con quel suo fascino rude da uomo vissuto; cattivo, cattivissimo, se la porta sempre appresso quella sua scorza da giustiziere della notte, ma a me ormai non la dà più a bere... Io so bene che lì sotto l'armatura da cavaliere a pedali batte un cuore, non solo d'atleta!
L'ambiente è simpatico, alla mano, tutto sorrisi e pacche sulle spalle e scoppi di ilarità in ogni lingua ed ibrido linguistico possibile. Benché siano quasi tutti alieni, gli atleti qui intorno, nessuno si comporta come tale. Sorrido dell'ansia di Matteo: è talmente concreta che potrei tagliarla con un coltello... In fondo rivedo me stessa l'anno scorso, la stessa inquietudine, lo stesso senso di smarrimento, di essere qui ma senza sapere bene perché, per fare cosa; il timore di una distanza mai percorsa tutta insieme, di uno sforzo che non si può nemmeno ben prevedere. Poi, come sempre, il mio compagno di viaggio è ossessionato dal cibo e dalle crisi di fame; macina più numeri di un registratore di cassa a furia di contare e ricontare le calorie dei cibi, di valutare il consumo ipotetico di energia su ogni tratto di strada; ha in testa un unico pensiero, la pasta. Quella che ha appena finito di cucinare va a comporre il bagaglio che gli sarà traghettato al secondo ristoro; più tardi, in agriturismo, ne cucinerà altra per cena. Va bè, pazienza, lasciamolo fare: se serve per la sua tranquillità, ben venga.

La truppa di ciclisti ed accompagnatori rompe definitivamente le righe poco prima delle otto; se ne vanno tutti, alla spicciolata. Domani mattina, l'appuntamento sarà qui alle sette e un quarto: i ciclisti che correranno senza assistenza, nella cosiddetta versione “Grands Randonneurs”, potranno approfittare del trasporto fino a Bedoin, alla linea di partenza. E così faremo anche noi: visto che la gara si conclude a St Remy, almeno avremo già qui il nostro bagaglio a fine corsa. Resta la sensazione che partenza ed arrivo in località diverse sia una scelta tattica infelice, ma tant'è.
Matteo ed io ce ne andiamo alla ricerca dell'affittacamere presso cui ho prenotato la stanza per questa sera: è a cinque minuti dalla sede del circolo ciclistico ed è un posto meraviglioso, una delle tante splendide case immerse nella campagna, nel verde e negli alberi, presidiato da un micione grigio, pingue e pigro che sbadiglia svogliato al nostro arrivo. La padrona di casa interrompe la cena in veranda, ci accoglie cortese; non sa nulla di quel che accade a pochi metri da casa sua... Non sa della corsa; strabuzza gli occhi quando le spiego, in inglese, di cosa si tratti, e poi, non convinta, ne chiede conferma a Matteo, mentre io,già in camera, li sento discutere attraverso la finestra aperta. Preparo al tavolino un tot di panini con le fette di pane confezionato e le sottilette; seziono un paio di ettari di focaccia per ridurli alle dimensioni di comode barrette da stipare nel borsello da manubrio della bici. Il cumulo di pacchettini di carta stagnola stride con l'aspetto severo del tavolo di legno, la specchiera, il divano, le pareti che sanno di antico e di ordine e di studio o lettura. Sembra uno di quegli ambienti da servizio fotografico matrimoniale, bellissimo ma finto. Matteo entra, rovescia parte del suo bagaglio sul divano, poi torna giù, nel furgone, a cucinarsi 'sta benedetta pasta. Mi vien da sorridere, lo guardo chiudere la porta trafelato; penso che, senza di lui, questo viaggio pur bellissimo non potrebbe essere la stessa cosa. Penso che vorrei che questi giorni non finissero mai, penso che penserò che non arriverà martedì sera, che, per qualche strano fenomeno paranormale, il tempo si fermerà qui in Provenza. Sì, mi va di credere così, posso farlo finché sono qui. Mi accade di rado di vivere un giorno come quello che sta finendo: viaggio con la bici, ma senza starci in sella; è forse l'unica occasione in cui sono capace di godermi una giornata senza la mia dose di fatica, perché so che domani ne avrò da vendere e da appendere, e riesco ad apprezzare il riposo e la compagnia. Nei giorni normali, se accade qualcosa per cui mi tocca rinunciare alla mia razione quotidiana di corsa o bici, do di matto, verso me stessa e verso chiunque mi stia intorno.
La mia cena è caotica, un avanzo di formaggio e focaccia, dopo tutto quel che ho già piluccato nelle lunghe ore di auto; la fame non c'è più, resta solo da dare un ultimo sguardo alla carta di viaggio della gara e spegnere la luce.

La padrona di casa, alle sei e mezza in punto, ci fa trovare una colazione luculliana: sul tavolo della cucina, caffé, the, torte, marmellata, burro, succo di frutta. Ed ammirazione ed incoraggiamento per quel che ci attende.

Il micio ci osserva allontanarci lungo il vialetto d'ingresso, più assonnato e distratto di ieri sera, appallottolato all'ombra di un pioppo. E' giunta l'ora: a St Remy abbandoniamo il furgone; una carovana di auto dell'organizzazione ci raccatta, insieme agli altri mattoidi, e ci proietta in un viaggio breve eppure interminabile verso Bedoin. Matteo è sorprendentemente silenzioso: se non ne conoscessi il motivo, direi che sta male, malissimo, anzi. Lo guardo ogni tanto di sbieco; ha l'occhio perso nel vuoto, tipo tossico in crisi di astinenza, solo più tranquillo, anzi immobile. Se potesse calare il silenzio perfetto nell'abitacolo, credo che il suo respiro non si sentirebbe. Dev'essere una forma di rallentamento dell'attività fisiologica, qualcosa tipo il letargo degli animali... Mi verrebbe da dir qualcosa, per stemperare la tensione, ma credo sarebbe inutile. So bene che basterà far girare i pedali, perché tutto si sistemi. Mi assopisco e mi sveglio più volte anch'io, cullata dalla monotonia del viaggio e del paesaggio sempre piatto, finché non s'intravede l'inconfondibile vetta bianchissima illuminata dal sole. Su e giù per colline dolcissime, ormai siamo a Bedoin: posto che conosco come le mie tasche e forse anche meglio. Sciami di ciclisti ovunque, tutti concordi verso un'unica meta. Che beffa: anche noi partiremo da Bedoin, ma non per la salita classica da questo versante, bensì in direzione del Col de la Madeleine e di Malaucene. Per carità, nulla togliere a quest'altra ascesa, che pure ha il suo bel perché ed offre, negli ultimi tre km, uno spettacolo mozzafiato sulla vetta, ma il Ventoux vero è quello da Bedoin e basta. Comunque, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...

Le bici dei Grands Randonneurs sono ordinariamente disposte sul piazzale proprio all'attacco della salita, di fronte al capannone di un negozio di bici che ha messo a disposizione i cavalletti, lo spazio ed anche i bagni. Ciascuno raccatta la propria: solo un istante di ansia perché sembra di non trovarla più, sepolta tra le altre... Ritrovo la Ridley, provvedo subito a zavorrarla per bene con il borsello anteriore e quello al telaio, pieni di cibarie. Per il resto, il bagaglio è sulla schiena: preferisco avere sempre con me tutto quel che può servirmi, sarà assurdo e un po' paranoico ma è così. E poi stavolta sono stata brava; lo zaino sulla schiena è grosso, ma non è affatto pesante, anche se fa inorridire i puristi. In effetti i miei colleghi partono quasi tutti senza carico, a parte Matteo che nelle tasche ha infilato di tutto, forchetta compresa. Eh si capisce: nel bagaglio che ha spedito a non so quale ristoro c'è anche la pasta, come si fa a mangiar la pasta senza forchetta? E' agitatissimo, il povero Matteo; ride, ma si vede lontano un miglio che è un riso forzato, di nervoso. Eppure non posso farci nulla, anche se vorrei vederlo un po' meno angosciato; io lo so, che a lui andrà tutto bene. Se non altro, però, è riuscito a comprare, in extremis, una luce rossa posteriore con cui sostituire la sua, deceduta proprio ieri sera. Almeno questo è un motivo di agitazione rimosso. Anche Neria è tesa, ma contiene la sua ansia. Ivano no, lui continua imperterrito a fare il buffone. Sono un po' preoccupata perché ho dimenticato di lubrificare catena e ruota libera dopo averle pulite; colgo la palla al balzo: "Senti Ivano, tu che hai la faccia come il cù, puoi mica chiedere qui al negozio se hanno dell'olio?". Con la sua solita aria sorniona, esclama: "Aspetta e vedrai". E sparisce dietro al capannone: chi lo vede più? Seduta sulla rampa di cemento, sbafo un panino e chiacchiero, guardo le altre bici, tutte equipaggiate nei modi più fantasiosi. Di lì a poco, il cuneese folle ricompare. Brandisce uno spray che, a quanto ho capito, serve proprio per quel che ho chiesto io: solo che, sotto gli occhi allibiti e divertiti degli astanti, e in bella mostra davanti al fotografo, se lo infila nella salopette e se lo spruzza, con gnerosità, là dove non batte il sole ma in compenso sfrega la sella... Sono piegata in due dal ridere, al limite del soffocamento: "Piantala, imbecille, dammi 'sto coso che mi serve per la catena!". Dovrò penare un bel po' per vedere finalmente esaudito il mio desiderio... L'ho sempre detto io, che quest'uomo ha gli attributi d'acciaio! E' anche giusto che vadano lubrificati.

Si avvicina l'ora X; è il momento delle foto di gruppo, prima per tutti, poi per le sole fanciulle. Sei o sette donne in tutto. Le auto dell'organizzazione scaldano i motori, ormai è questione di pochi minuti. Cerco Matteo, è perso nel gruppo e nei suoi pensieri; lo chiamo vicino a me, per augurargli buona fortuna a modo mio. Poi non ce n'è più per nessuno: via, si parte. Mi ritrovo capofila dietro all'auto del Big Boss della corsa, Patrick, non so bene perché: tutti gli altri restano un po' indietro, li sento chiacchierare alle mie spalle. Ma non dura... Tempo che la strada prenda una leggerissima pendenza in salita ed io sono fatta, da prima scivolo ultima e staccata su per la dolce salita della Madeleine, tra verde e vigneti. Solo Ivano e Matteo aspettano; poi resta soltanto Matteo: non capisco perché, vorrei che andasse, che non stesse qui a perder tempo, ma lui nulla, si volta, mi controlla, rallenta. Mi sorpassa anche l'auto di fine corsa: dai Matteo, vai... "No, fino alla salita restiamo insieme". E la salita arriva: Malaucene, bivio a destra, stavolta davvero comincia l'avventura. Saluto Matteo, so che lo rivedrò a St Remy: e comunque ci arrivi io, so che lui ci arriverà con i suoi pedali. Poi 34x27 e marcia da carro funebre: la salita è lunga, più o meno venti km; la conosco bene, so che non è il caso di scherzare. Tira vento oggi, si sente già di qua. Si pedala in un'interminabile processione di ciclisti: i miei compagni di gara sono già chissà quanto avanti, ma qui c'è di tutto, ciclisti turisti ed anche i partecipanti alla Granfondo Ventoux-Baumes de Venise, che si svolge oggi sullo stesso itinerario. Quelle che raggiungo io sono le retrovie, gli ultimi derelitti: insomma mi sento a casa!
Le raffiche di vento, da cui per ora il bosco ripara un po', mitigano il caldo feroce che altrimenti mi incollerebbe all'asfalto nero; la luce è limpida, anche se qualche velatura in cielo c'è. Sento di star bene, gambe fresche, tanto che vorrebbero concedermi un po' di vivacità in più, ma no, non si può: non devo sprecare nemmeno la minima stilla d'energia. Ho ben più di 500 km davanti a me.
Il versante di Malaucene alterna tratti di ampi curvoni a spietati chilometri di strada dritta e con pendenza cattiva, soprattutto perché non sembra di salire così tanto, per effetto proprio della direzione sempre uguale. Soprattutto nella seconda parte, appena prima del bivio per Mont Serein e poi nei sei chilometri successivi. La soddisfazione di percorrere salite così affollate è quella, magra, di godersi persino qualche sorpasso, anche se è evidente che sto sparando sulla Croce Rossa e sono crocerossina pure io. Il vento, verso la cima, rinforza e colpisce all'improvviso, a tradimento: mi chiedo come facciano, i ciclisti che incrocio, a scendere a simile velocità. So già che quei chilometri dalla vetta a Chalet Reynard saranno per me un calvario! Pedalo e mi guardo intorno, ad ogni metro di questa strada riaffiora un ricordo. Gian, certo che ne hai già calpestato, di asfalto, nella tua vita! Puoi davvero ritenerti fortunata... E' la settima volta che sgambetti sulle pendici del Ventoux, è l'ennesima volta che gli salti in testa, considerato che in qualche occasione hai fatto due se non tre salite. Ed il Ventoux per molti è il sogno di un'intera vita ciclistica!

A tre km dalla cima, proprio dietro una curva, ecco la vetta in tutta la sua inquietante ed imponente bellezza. Sparisce il verde, resta il bianco della pietra, solo qua e là interrotto dal bianco ancor più lucente della neve: ogni volta è una sorpresa che mozza il fiato già corto. Questa è fatta, o quasi, anzi è proprio fatta, sempre che il vento non decida di coricarmi per terra. Data la mia velocità, non sarebbe poi nemmeno una gran botta: probabilmente finirei per appoggiarmi all'asfalto. Una foto al cupolone dell'Osservatorio, un'altra alla torre in cima, miracoli di equilibrismo; l'ultimo tornante, l'ultimo strappo e via, senza fermarsi nemmeno un istante, via dall'irritante folla di auto e turisti a passeggio quassù. Comincia l'incubo!
A scendere fino a Chalet Reynard impiego, come previsto, un'eternità. mi ripeto ossessivamente "Gian, stai tranquilla, vai piano, non succede niente", ma il senso di vuoto che mi assale in questa landa desolatissima e bianca, che si affaccia a picco sulla pianura oltre mille metri più in giù, mi dà alla testa. E, come se non bastasse il vuoto, come se non bastasse la strada che pende e sembra volermi tuffare giù da un baratro, c'è anche il vento che sposta letteralmente la bici. Scendo con le dita avvinghiate ai freni, al punto che, allo Chalet, ho le dita completamente insensibili. Da lì a Sault, la vita è un po' più facile; se non altro, il bosco nasconde alla vista il salto nel nulla. Però sarebbero chilometri favorevoli da sfruttare: invece io non ne sono capace, mi attardo, magari accelero un po' in rettilineo ma devo poi inesorabilmente frenare anche nella più insignificante delle curve. E il vento continua a disturbarmi. Ma non finisce più questa discesa? Tanti sono i ciclisti che salgono anche di qua, il versante forse meno interessante perché lungo e molto facile.

Finalmente si apre il fondovalle: qualche tornante di risalita mi permette di rimettere un po' in sesto le gambe infreddolite dalla discesa. La temperatura è mite, ma molto inferiore a quel che mi aspettavo. Dietro di me è in arrivo il primo degli "Ultra", i ciclisti che corrono la gara con l'assistenza delle auto: ha nientemeno che un grosso monovolume al seguito, con tanto di altoparlanti sul tettuccio! Però non mi supera: si ferma al primo tornante. Da Sault svolto a sinistra verso Aurel; qualche chilometro in falsopiano ed ecco il primo ristoro. Mi ci fermo il minimo indispensabile perché gli addetti al controllo segnino il mio passaggio; intanto afferro qualcosa da mangiare, una fetta di formaggio, un vasetto di passata di frutta, il tutto rigorosamente mischiato insieme, a mò di struzzo. Saluto, riparto; in quell'istante arriva il primo degli Ultra.

Una breve ma severa rampa che si stacca dalla strada principale e va verso St Trinit è ora la mia direzione. Il primo Ultra mi sorpassa, finalmente: ha un casco da crono con la punta, le ruote a razze e non spiccica nemmeno mezzo saluto. Sarai pure un campione, figlio mio, ma te la tiri giusto giusto un po'! La pendenza si attenua, la stradina prosegue in mezzo ai campi di lavanda ed a colline appena accennate. Quel che colpisce di questi luoghi sono gli spazi immensi e deserti: si vedono solo campi e boschi e campi e boschi, qua e là una cascina; paesini distanti decine di chilometri l'uno dall'altro, nastri d'asfalto che si srotolano nel nulla. Raggiungo il bivio che, a sinistra, manderebbe verso il Col de l'Homme Mort e Sederon: due località dai nomi quantomeno curiosi! Ma io non vado né all'uno né all'altro, vado a destra, mi reimmetto sulla strada principale, direzione St Trinit. Da qui, infiniti lunghissimi saliscendi su strade ampie, bellissime, quasi biliardi. Ed anche qui, altri ricordi: ci sono stata con Matteo, solo la scorsa primavera; abbiamo percorso questo tratto nella notte, il mio calvario di sonno ed allucinazioni, pochi minuti di sonno rubati qua e là sul ciglio della strada, poi il crollo, la nanna per un'ora buona stesi in un fazzoletto di prato e protetti solo dal telo termico. Che follia, la rifarei subito!

Uno ad uno, mi sorpassano gli Ultra; un saluto ed un incoraggiamento arrivano quasi da tutti. Tra non molto, sarò sola. Revest du Bion, Banon, Revest de Brousses, St Michel l'Observatoire. Mi fermo a fare il pieno d'acqua ad una delle tante fontane di "eau non potable": un turista in mountain bike mi fa notare che al bar posso trovare l'acqua potabile; replico che questa qua l'ho già provata... "E a quanto pare non sei morta", conclude lui. Da St Michel a Manosque c'è ancora la salitella di St Martin les Eaux, dove l'unica forma di vita che incontro sono i Gendarmes. A Manosque, invece, di vita ce n'è fin troppa: un gran caos, traffico, semafori, rotonde. Ovviamente violo tutto il violabile del codice della strada: voglio solo togliermi di qui il più in fretta possibile, destinazione Valensole, una decina di km più in là. C'è un lungo tratto che, secondo i miei standard, definirei "falsopiano in salita": stradone dritto ed a pendenza dolcissima. Ricordo ancora quanto ho sofferto ed imprecato qui, poco più di un anno fa, la prima volta che ho percorso questo tratto; oggi invece mi sento pimpante, sto bene; complice forse anche un po' di vento nella schiena. La salita va a morire in mezzo ai campi di lavanda dalle file pettinate, ordinatissime; all'orizzonte si vedono ora nitidi, finalmente, i profili delle montagne. Al fresco del tardo pomeriggio raggiungo Valensole, il punto di controllo e ristoro: mangio un po' di formaggio, una sorta di crema dolcissima di nocciole, bevo il primo caffè. Poi riparto: sono le sei in punto. Riez è la prossima meta; qualche tratto di breve salita e discesa, in mezzo a colline appena più aspre e ravvicinate man mano che si va verso le Gorges. Le ombre sono nette e lunghissime ormai, i colori accesi dalla luce gialla intensa della sera; l'aria frizzante, il traffico intorno a Moustiers già placato. Spettacolare come sempre l'immagine del paese arroccato all'ingresso dei giganti di pietra che custodiscono la meraviglia delle Gorges; scendo lungo la strada del lago, frotte di motociclisti, turisti della sera a caccia di luci e sfumature. Il bivio per Aiguines: si sale. Finalmente. Poco più di sei km dolci, a tornanti, che mi portano su su a godere il panorama del sole che si abbassa sul lago, a tentare improbabili miracoli d'immagine con la mia macchinina fotografica. Aiguines, ancora una breve sosta al ristoro, ancora un boccone da mangiare, ma in realtà non ne ho voglia. Chiedo un caffè, me ne danno due, mentre copro di coccole la splendida Bea, la cagnona che allunga il tartufo verso il tavolino delle vettovaglie. Chiedo se sono l'ultima, domanda retorica: sì... Mi scuso per aver prolungato l'attesa dei due addetti al ristoro; alle nove meno un quarto me ne vo. Da qui, al chilometro 194, si entra nelle Gorges, finalmente. Non resisto più alla tentazione di mandare un messaggio a Matteo: un occhio al tramonto sul lago, un altro allo schermo del telefonino. "Riparto ora da Aiguines". Mi risponde poco dopo: "Sto per iniziare la Route des Cretes". Un abisso, quasi cinquanta km più avanti rispetto a me. Risalgo lungo la Corniche Sublime, deserta al calar della sera; contorni e colori si fanno sempre più indefiniti; la pendenza ora non si vede più, si percepisce solo con lo sforzo dei pedali. L'auto dell'assistenza, con a bordo i due personaggi dell'ultimo ristoro, mi sorpassa una volta, si ferma, mi risorpassa, se ne va. Non la vedrò più, per un bel po'. Percorro la lunga discesa fidandomi ancora dell'ultimo barlume di luce del giorno, sempre più fioca; ho acceso il lampeggiante sul manubrio, ma è solo per farmi vedere. Da chi, non so, visto che qui non c'è più nessuno... Ora il buio è completo, il silenzio assoluto. Dall'altro lato delle Gorges, così vicino che sembra di poterlo toccare allungando una mano, si vede solo la processione di lucine che scendono lentamente la Route des Cretes verso La Palud, ciclisti ed auto al seguito. E' una scena irreale, quasi dolcissima; quelle lucine mi fanno sentire un po' meno sola, anche se in questo momento la mia solitudine è meravigliosa, anche se sono lontanissime da me. Procedo nel buio, vedo appena la striscia bianca a bordo strada; per ora non fa freddo, anzi. Accendo la musica, scelgo una delle più belle tra le mie canzoni, il pianoforte, Bruce Hornsby, "That's just the way it is", e davvero per un istante mi sembra di essere in paradiso, nel mio paradiso.

Poi, purtroppo, il sonno non tarda a farsi sentire. Sonno ed insofferenza perché sono costretta a guardare sempre e solo lì, il cerchio di luce davanti a me; in salita posso spegnere le luci e sfruttare quello spicchio di limpidissima luna che brilla stasera e sottolinea appena i contorni delle montagne, ma in piano ed in discesa devo per forza accendere frontale e fanalino e, paradossalmente, è peggio. Ormai sono scivolata in uno stato di parziale incoscienza: so più o meno dove mi trovo e cosa sto facendo, ma non riesco a capire se sto viaggiando bene, se sto perdendo tempo, se sono stanca o se sto bene, se davvero ho voglia di correre oppure no. Buio e silenzio, silenzio e buio, solo ogni tanto il fruscio dei pipistrelli, lo schiocco degli zoccoli dei camosci che scappano dalla strada, ma saranno proprio camosci o qualcos'altro? Chissà, il mio neurone è troppo stanco per disquisire di regno animale.
Solo le luci di Trigance interrompono la monotonia del mondo nero. Il paese è illuminato come a festa, ma non c'è anima viva, solo il latrato di qualche cane. Lunga discesa, mi avvicino all'abitato; d'improvviso, appena oltre il bivio, sento abbaiare cani che sembrano ben più grossi, arrabbiati e liberi: quasi mi pare di sentirli avvicinare, anche se non capisco da dove... A quest'ora della notte, non è più la ragione che governa le reazioni; è solo l'istinto che fa schizzare il cuore in petto, che dice "Molla i freni, scappa, vai!!!". Salvo poi inchiodare alla prima curva, al limite del volo parabolico fino al Pont de Soleils... Meno male, per questa volta riesco ad arrivarci via strada. Altra svolta a sinistra; c'è un gruppo di persone appena uscite dal vicino ristorante, sembrano alticci, sbraitano qualcosa al mio indirizzo: speriamo non venga loro in mente qualche strana idea... Li ignoro, tiro dritto. Se fossi pienamente cosciente, avrei forse paura; per fortuna non lo sono. Resto in bilico tra sonno e veglia, combatto per aprire le palpebre che si serrano; sbando, di tanto in tanto. Strizzo gli occhi che spesso non riescono a vedere dove vada la strada. Vedo cose, persone, animali che schizzano a destra ed a manca: quasi sempre il parto della mia fantasia... Massi che sembrano mucche, alberi che tendono le braccia verso di me, dita estranee che s'infilano nel borsello sul manubrio: giuro che, se qualcuno mi raccontasse tutto questo, non ci crederei, eppure lo sto vivendo io stessa. Il fragore del fiume è un rumore di sottofondo che non sento più; l'unico barlume di lucidità è per la strada. Devo imboccare la salita della Route des Cretes: so che il bivio è vicinissimo a La Palud... Eppure mi ci sto avvicinando proprio troppo, a La Palud: tre km, due, uno, possibile? Che l'abbia saltato? Che fosse più indietro? Gian, nello stato in cui sei, tutto è possibile... Poi il ristorante sul bivio appare come una liberazione dalla mia angoscia. Ci sono, è giusto, è qui! Curioso che, per raggiungere La Palud, poche centinaia di metri avanti a me, io debba fare un giro di venti e più km...

La salita mi aiuta a riprendere un po' di coscienza. Sono così sollevata dal fatto di aver trovato la strada giusta, che quasi quasi affronto i tornanti con entusiasmo. So che, di là del parapetto, il baratro è impressionante, ma non me ne preoccupo, finché non vedo: ci sono luci sulla montagna, dall'altra parte delle Gorges, e in mezzo un salto profondo centinaia di metri, ma io non lo posso vedere e questo mi basta. Ancora buio, ancora silenzio; qualche camper custodisce il riposo dei "climber", almeno a me piace pensare così; mi piace immaginare che sia gente venuta fin quassù per faticare, arrampicare, per vivere una passione, diversa dalla mia magari, ma con la stessa intensità. Occhi, tante paia di occhi gialli spuntano dal nero del bosco: occhi di gatti che mi fissano, che schizzano a nascondersi quando li punto con il fascio della frontale, che tornano su, curiosi, non appena mi volto. Fruscii di piante, crepitio di rami spezzati, qualunque cosa li produca, speriamo che non decida di saltare sulla strada. Non conto più i belvedere, ma un cartello in francese ammonisce: "Da qui al fondo ci sono settecento metri, non è il caso che tu ti metta a fare il conto". E chissà come continua... Non ho il tempo di fermarmi a leggere il lunghissimo pannello. Non ho bisogno dei numeri per sapere che la cima è vicina, vicinissima, che ci sono sopra. Mi fermo, indosso la giacca e mi costringo ad una lunga, terrificante discesa. Non lo vedo, ma so che appena oltre il bordo della strada c'è il nulla, il baratro, un tratto di pennarello blu laggiù in fondo, tremendamente in fondo. Scendo a freni serrati, restando rigorosamente dalla parte della parete. Il sonno mi assale subito, traditore; scarto una volta, due, poi la paura risveglia l'attenzione. Sento un'auto che si avvicina, di fronte, ne vedo i fanali: è l'auto dell'organizzazione. Chiedono se voglio fermarmi, ritirarmi qua: "Non se ne parla nemmeno". Scendo con esasperante lentezza, non posso farne a meno, approfittando dei fanali dell'auto che mi segue. La pendenza rabbiosa, l'asfalto in pessime condizioni, la scarsa predisposizione al volo acrobatico e la mancanza di un paracadute mi costringono a frenare senza interruzione, finché la strada non si allontana dalle Gorges e si addentra verso la montagna. Ancora camosci in mezzo alla strada, temerari, restano lì fin quando l'auto non è troppo vicina, poi schizzano a destra ed a manda; ancora gatti, il popolo della notte da queste parti. Sono appena un po' più sveglia, ora che intorno c'è qualcuno; al ristoro di La Palud arrivo con le gambe sorprendentemente fresche. Km 271. Qui l'amara sorpresa, anche se in fondo un po' me l'aspettavo. Chiedo un caffé, ingoio un po' di cibo a casaccio, non ne ho voglia in realtà: palpabile la noia nell'animo degli addetti al ristoro. Uno di loro mi passa un cellulare, è Patrick, il capo, che mi vuol parlare. Mi dice che sono molto in ritardo e che probabilmente i prossimi ristori non mi aspetteranno più: è vero, sono le tre e venti, chissà da quanto tempo è passato l'ultimo corridore prima di me... Però ci rimango malissimo: so che non potrei arrivare a fine gara entro l'orario limite, ma sono abbastanza certa di riuscire comunque ad arrivarci; e poi, nessuno ha mai parlato di cancelli orari intermedi, né nel regolamento, né tantomeno ieri sera, alla riunione informativa. "Non se ne parla nemmeno", replico a Patrick che vorrebbe farmi salire sull'auto. "Voi fate quello che vi pare. Io continuo per i cavoli miei". Chiudo la chiamata, saluto, mi ributto nella notte: Col d'Ayens, poi la lunga discesa su Moustiers, a chiudere il giro delle Gorges. Ciao Verdon, alla prossima! Mando un messaggio a Matteo: Patrick mi ha detto che è fermo a Moustiers... Ma io so che non può essere vero, so che non può aver perso tutto il vantaggio che aveva su di me. So che sta andando bene ed è molto più avanti. La rotonda a fine discesa arriva senza che io me ne renda conto: ho perso la nozione del tempo, dello spazio, della fatica. Fa molto freddo ora: per scrupolo, provo a passare nell'interno di Moustiers, ma non vedo nessuno, come previsto. Allora tiro dritto. Probabilmente sto viaggiando davvero come una lumaca, anche se non me ne rendo conto: alla risalita appena oltre l'abitato arrivo un po' prima delle cinque... Qui non riesco più a resistere. Ormai sono fuori gara, tantovale che mi conceda qualche minuto di sonno, altrimenti rischio davvero di cascare addormentata a terra. Sul prato a bordo strada, appoggio la bici, butto lo zaino a mo' di cuscino, mi addormento all'istante, un sonno greve, profondissimo, pieno di sogni concreti, di sensazioni vive. Mi rialzo dopo una mezz'oretta, a giudicare dal suono della campana; sta facendo chiaro, finalmente. La successiva salitella mi aiuta a scaldarmi; ancora intontita, la testa pesante, mi riavvio, direzione Puimoissons e, da lì, ancora Valensole. Qualche saliscendi; appena prima di Puimoissons, lungo la strada mi corrono incontro, abbaiando, due cagnoni: mi fermo, spezzo in due una "barretta" di focaccia, ne getto loro un pezzo per uno; immediatamente l'atteggiamento cambia, mi osservano e scodinzolano... Che belli. Ci sono solo loro in giro, tutto tace; solo a poca distanza da Valensole, mentre mi godo la leggera discesa ed il panorama della Provenza e della lavanda, incontro la prima auto della giornata. Chissà se a Valensole troverò ancora qualcuno?

Il mio dubbio è presto fugato: sulla piazza di Valensole non c'è più nulla. Tavolo, gazebo, persone dell'organizzazione, spariti tutti. Non è rimasta nemmeno una buccia di banana. Non che m'illudessi... Ora però si pone il problema di decidere cosa fare. A St Remy torno con le mie ruote, questo è sicuro; del resto, qui a quota 320 km mi sento bene, ora che è passato anche il sonno, come per miracolo, al sorgere del sole. Per ora faccio il pieno alla fontana e leggo il messaggio finalmente arrivato da Matteo: sta bene, sta andando alla grande, è ad anni luce da qui ormai... Sono felice per lui; questo vale a mitigare un po' il mio dispiacere, che non è nemmeno rabbia, ma profonda amarezza. Sconforto, disillusione, chiamiamola come si vuole. Qualche lacrima scende sulle guance, ma lascio che sia il vento ad asciugarla. Seguo per ora il tracciato della corsa, nei lunghissimi venti km di piatta piattura verso il Pont de Mirabeau. Attraverso Greoux Les Bains con la sua rampa feroce; c'è un assembramento enorme di ciclisti: a giudicare dai numeri sulle bici, direi che sta per svolgersi una corsa; un circuito, se ho ben capito, da Greoux a Greoux via Manosque e Valensole. La mia bici stracarica di borsine, il mio zaino sulle spalle, la luce sul casco stridono con l'equipaggiamento essenziale, ciclista più bici, di questi cavalli da corsa; il mio passaggio suscita in effetti una certa curiosità. Assumo l'atteggiamento del turista in viaggio: e, se qualcuno dovesse chiedermi come mai sto viaggiando così, posso sempre appellarmi alla scusa di non conoscere il francese...

Un momento di pausa all'ombra di una pianta, consulto la carta per decidere il da farsi. Per me, il massimo sarebbe poter percorrere l'intero giro del RPE, pazienza se sono fuori gara e per conto mio. Però, ci sarebbero dei però. E' già tardi ormai; sdovrei indubbiamente sobbarcarmi un'altra notte, o almeno un pezzo, visto che, ormai fuori corsa, me la sono presa fin qui molto comoda. E poi costringerei il povero Matteo, che nel frattempo sarà arrivato a fine corsa e sarà distrutto, ad un'interminabile distruttiva attesa. Infine, dovrei accettare il rischio di viaggiare senza rifornimento né appoggio alcuno. Propendo quindi, a malincuore, per una decisione un po' più ragionevole: tagliare una bella fetta della seconda parte del percorso e raggiungere St Remy esplorando qualche salitella nuova nei dintorni.
Riprendo il viaggio con il cuore in tumulto, un turbinio di pensieri cupi, di dispetto, di disillusione. E' evidente ormai che sono troppo troppo lenta per questo genere di competizioni; ho nelle gambe la distanza, ma non la rapidità, purtroppo. E' dura ammetterlo, perché queste corse sono il mio sogno, la mia passione, e proprio loro mi stanno cacciando via, mi hanno già cacciata, solo che io non l'ho mai voluto capire né ammettere. Ho voglia di prender la bici e buttarla giù nel primo fosso, hovoglia di arrivare a casa e metterle in vendita tutte e tre, le bici, di indossare le scarpe e di lenire il dispiacere su per qualche sentiero. So già che questi son propositi destinati a sparire nel nulla domani, se non già stasera, ma non posso fare a meno di esserne proprio convinta, adesso.

L'aria stamattina sembra non voler scaldare. Ho ancora i brividi, nonostante la giacca; in lontananza si vedono nuvole grigie, sottili, che han tutta l'intenzione di volersi avvicinare. E ci sto andando incontro. Boh, pazienza; alla quota a cui posso salire, di certo un temporale non mi impensierirà.
La lunga pianura si conclude al Pont de Mirabeau. Lo oltrepasso e svolto a sinistra alla prima strada che indica Mirabeau: breve dolcissima salita che finalmente mi riscalda un po'. Poi, al paese, giro a sinistra, per tornare verso l'itinerario del Raid a Beaumont de Pertuis: altra discesa e risalita in mezzo a boscaglia, frutteti e vigne. Da Beaumont, zona nota, proseguo in direzione La Bastide, ma, al primo bivio significativo dopo qualche chilometro di leggera risalita, svolto a destra, direzione Grambois. Raggiungo così uno splendido paesino di poche case, una ripida rampa che mi porta sulla piazzetta del paese, con una bellissima fontana e l'edificio in pietra del Municipio. E' tutto qui, raccolto intorno ad una piazza, un negozietto, un viale. Pochissime anime. Ora dovrei seguire la direzione di Saint Martin de la Brasque: già... Ma dove? Giro un po' qua e là, come una trottola, poi mi rassegno a chiedere indicazioni, il che, dato il mio scarno francese, significa scegliere un personaggio dall'aria cartograficamente affidabile, mettergli sotto il naso la carta, mettere il dito sul paese che voglio raggiungere e dire: "Pour aller ici... ???". Il malcapitato mi capisce e mi guida anche bene. Trovo la retta via ed attacco un'altra bella salita, molto lieve, alla luce di un sole sempre più malaticcio. Quando lo sguardo può spaziare in alto, vedo che alla mia destra, cioè nella zona dove passa il Raid, marca male: nuvoloni spessi e neri come la pece. Infatti Matteo, via messaggio, mi dice che è nelle Gorges de Murs e che sta addirittura grandinando. Dice che non sa se ce la farà... Ma non ci credo, e so benissimo che non ci crede neppure lui. Gli mando un messaggio che spero serva a fargli coraggio, cercando nel contempo di non perdere la mia retta via verso il paese di Cucuron. Ci arrivo per la via, del tutto casuale, che passa per un altro paese indicato sulla carta, Cabrieres. Da Cucuron poi punto dritto su Lourmarin, per andarmi a ricongiungere ancora una volta con il giro del Raid. Qui mi ritrovo in mezzo al traffico un po' più sostenuto; facile infastidirsi delle auto, quando da ore si pedala nel nulla... Cielo ormai coperto, tra poco pioverà anche qui. Almeno si abbasserà la temperatura ed avrò un po' di sollievo dal dolore ai piedi che mi tormenta da ieri: ormai è diventato il mio compagno di viaggio fisso, ufficiale; quasi quasi non mi sembra nemmeno più strano. Punte dei piedi gonfi, dita irrigidite, non appena il sole scalda un po'. E non c'è verso, non c'è niente da fare!
Passo il Pont de Cadenet, svolto verso La Roque d'Antheron. Mi piacerebbe seguire il percorso della gara ed affrontare la brevissima ma cattivissima salita che c'è qui. Ma prevalgono lo sconforto e la poca voglia di incontrare i corridori della gara; qualcuno lo troverei di sicuro, perché, abbreviando molto il percorso, arrivo qui prima di molti di loro. Chissà che ora è, ancora mattina o già pomeriggio? Boh, ho ormai perso la nozione del tempo. No, non tornerò sul percorso di gara; se adesso, da sola, riesco a controllare un po' la tristezza, in compagnia so già che non potrei trattenere le lacrime, e non ho voglia di dare spettacolo. Tanto, tra poco, sul percorso ufficiale dovrò immettermi comunque. Per ora, tiro dritto lungo l'orrido stradone piatto, o meglio a saliscendi, verso Charleval: terribile, ampio, dritto, fiacca le forze ed il morale, già fiacco di suo. Se non altro, ad Alleins, dove mi ricongiungo all'itinerario della corsa, la strada diventa un po' più piccolina, torna ad essere una bella strada di campagna tra viali di platani, nei paesi, ed ulivi. Alleins, Lamanon, Eyguieres: piove a scrosci, una lavata e un raggio di sole ed un'altra lavata. Chissà gli altri, Matteo, Ivano. Mi prende un tremendo abbiocco, colpa di questa piattissima piattura: va bè, adesso un momento di pace me lo posso anche permettere, di già che la pioggia offre una tregua. Appoggio la bici per terra, la schiena e la testa al tronco di un giovane ulivo e sono già nel mondo dei sogni.

Mi risveglia, non so quanto tempo dopo, il trillo di un messaggio: è Matteo, a 80 km circa dalla fine. Ormai è fatta! Mi rialzo, gli rispondo che lo attenderò sull'ultimo colle e riparto. Ancora tanta, troppa pianura; Mouries, Maussane Les Alpilles. La mia marcia ora è resa più penosa, oltre che dalla piattura, anche da una dolorosa piaga che dev'essersi formata proprio dove la gamba sfrega sul bordo della sella: brucia, fa male. Se potessi fermarmi e sistemare un po' la faccenda... Ma, con le mani sporche e senza disinfettante, rischio di peggiorare la situazione. Stringo i denti e tiro avanti, in improbabili equilibrismi e posizioni monochiappa sulla sella; in fondo, si tratta ancora di qualche decina di chilometri.
Il bivio per Les Baux de Provence arriva quando ormai non ci speravo più. Una salita, a questo punto, ha il sapore di una liberazione, anche se saranno in tutto cento metri di dislivello o poco più. Il paese, arroccato sulla montagna bianca e bucherellata, è bellissimo: peccato solo che pulluli di gente, di auto, di pullman. Ha evidentemente un interesse turistico; peccato, se solo fosse deserto, sarebbe perfetto. Supero la pendenza con vigorose pendenze in fuorisella, non per vanto ma per necessità... Devo risparmiare l'appoggio! E comunque mi accorgo che le gambe rispondono bene, senza nessun problema, a questo ennesimo maltrattamento. La strada, oltre l'abitato, si inerpica tra rocce squadrate, credo tagliate apposta per farcela passare in mezzo. Al colle di Val d'Enfer, anonimo, senza nemmeno un cartello – strano, i Francesi danno un nome anche al più insignificante dei dossi! - mi fermo, appoggio la bici e mi sdraio su una pietra. Solo adesso guardo l'ora: sono le quattro e mezza passate da poco. Incurante degli sguardi interrogativi dei turisti, tolgo le scarpe, calo il casco – orrida costrizione da regolamento – sugli occhi e mi addormento. Immagino che qualcuno si domandi perché sono salita fin quassù per dormire... Ma io mi godo il caldo del sole tornato prepotente e recupero un po' della notte insonne. Mi svegliano prima Romina, una delle altre Grands Randonneuses, ritirata a causa di un dolore al ginocchio ed arrivata quassù in auto, e poi uno degli addetti al seguito della corsa, con cui scambio qualche foto e quattro chiacchiere in anglo – franco – italiano. Ma è sorprendente quanto io riesca a ripiombare in fretta nel sonno più profondo. Infatti non mi accorgo nemmeno dell'arrivo, finalmente, di Matteo: è lui a svegliarmi, sorridente, raggiante; quattro parole veloci, poi riparte, se ne va. Pochi minuti e sarà a St Remy. Contentissima anch'io, anche se con un fondo irrinunciabile di amarezza per non aver potuto festeggiare in due; lo esorto ad andare via veloce. Che finisca la corsa, si faccia la doccia, mangi con tutta calma; quando avrà finito, mi farà uno squillo sul cellulare ed io scenderò. Apparirò maleducata, ma non ho alcuna voglia di andare all'arrivo e veder gente felice di aver avuto successo laddove io ho miseramente fallito. Per carità, è solo una corsa in bici, ma tant'è. Resto ancora un po' qui sulla mia pietra, a prendere gli ultimi raggi del sole. Circa un'ora dopo Matteo, passa Ivano, ancora ben pimpante; gli scatto una foto. Poi, siccome ormai qui è arrivata l'ombra, decido a malincuore di rimettere le scarpe e scendere giù, a St Remy. Aspetterò Matteo all'incrocio in paese, con circa 500 km nelle gambe e tanta delusione in cuore. Anche se mi imporrò di fare il possibile per non rovinare la festa a Matteo.

L'ultima discesa è un calvario per colpa della piaga ormai dolentissima: sulla sella non mi appoggio più... Per fortuna, i chilometri son pochi; il campanile arriva in fretta, scendo di sella e per oggi è finita. Matteo arriva poco dopo, stravolto e contento; non ci resta che filare in campeggio, montare la tenda – fa sempre tutto lui, poveretto – goderci una doccia ed una breve passeggiata. Domani si tornerà a casa... Ma non senza una camminata nelle Gorges! Perché non ne abbiamo mai abbastanza...