venerdì 31 luglio 2009

19 luglio 09 - Doppia Lombarda + doppia Bonette

Chi sono? Da dove vengo e perché sono qui? Ma soprattutto: chi diavolo me l'ha fatto fare? Questi, soprattutto l'ultimo, sono i dubbi esistenziali che mi attanagliano quando la sveglia suona all'una e mezza, sì, proprio all'una e mezza. E non è che sia andata a nanna alle otto: qui ad Aisone sono arrivata poco prima delle dieci e mezza, di ieri sera verrebbe da dire, anche se "ieri sera" sembra così lontano nel tempo, invece son passate solo tre ore. Matteo schizza su, arzillo e sveglio come un grillo; io sprofondo ancor più nel mio sacco a pelo, no, oggi proprio non ce la posso fare, mi rifiuto. "Dai che Ivano è già qui"... Già qui? Ma è l'una e mezza, gli avevo detto alle due, che cavolo ci fa già qui? Ma ancora non riesco a riemergere quel tanto che basta a buttare l'occhio dal finestrino del furgone. Certo che, a ben pensarci, mi sto proprio viziando; ronfare nel furgone di Matteo è proprio come dormire in un letto vero: quando il mio gregario preferito si sarà stufato di sopportarmi, mi toccherà riabituarmi al sedile della Opel... Oppure comprare il Volkswagen pure io. E' talmente comodo, dicevo, che io stamattina da qui non esco più. Così entra Ivano, sghignazzando di gusto alla vista della mia faccia allucinata: devo avere gli occhi piccoli come il mio cagnone quando accendo la luce di colpo in camera da letto e lui, spaparanzato sul lettone, si risveglia di colpo. Insomma: s'ha da fare. Mi devo proprio alzare, me la sono voluta, devo trovare il coraggio per compiere questo passo. Brava, furba: mi sono inumata nel sacco a pelo con indosso la maglia che avevo intenzione di usare oggi, pensando che avrei patito freddo nel furgone; così adesso ho la schiena bella fradicia, e meno male che ho una maglietta di ricambio. Cominciamo bene!

Malvolentieri mi vesto, mi tuffo fuori, nel gelo siberiano della notte, anche se i miei due compari sostengono che non faccia affatto freddo. Colazione trangugiata come le oche. Ieri mi sono lanciata in un'impresa culinaria senza precedenti; ho preparato dell'insalata di riso, un po' più ricca per Matteo, un po' più semplice per me perché mi sono stufata di tagliuzzare olive ed aggiungere ammennicoli vari. All'aspetto è un'immonda schifezza: il riso, che dovrebbe presentarsi a chicchi ben divisi, è una sorta di pappa che somiglia più alla polenta; le uova sode si sono sbriciolate; il tonno nella versione per Matteo è una poltiglia. Pover'uomo: lui, che ha un coraggio da leone e soprattutto una fame da lupi reduci da mesi di carestia, trangugia tutto senza battere ciglio, come un lavandino, come un'idrovora; io ci metto un po' meno entusiasmo, ma mangio lo stesso; se non altro so che non ci ho messo dentro nulla di radioattivo.

Fatto ciò, ci si avvia verso il punto di partenza, il bivio con la strada che sale al Colle della Lombarda, a tre o quattro km da qui. Ivano ci va in bici, Matteo ed io con l'auto: non è che ci preoccupino i pochi km adesso... Ma ci preoccupano quegli stessi km che ci toccherebbe percorrere al nostro ritorno, quando saremo già stravolti e sarà dinuovo buio pesto. La scelta di dormire ad Aisone è stata dettata da puro spirito pratico: c'è il bagno pubblico!
Chissà se siamo proprio svegli del tutto. Matteo sì: in un attimo si impadronisce della mia bici e cambia i pattini dei freni, anzi, i portapattini in blocco, con rapidità e precisione degne dei meccanici di Formula 1 quando sostituiscono le gomme ai box durante il Gran Premio. Non ho ancora ben capito che intenzioni abbia, che lui ha già finito. Ricordo vagamente che tempo fa aveva parlato di pattini freni bicolori, rossi e neri, un po' più efficaci nella frenata con la pioggia... Ma era una delle tante informazioni di carattere meccanico che, dato il mio totale disinteresse per la materia, avevo già rimosso da tempo. Insomma, il mio cervellino ha dimensioni e capacità limitate; per fare spazio ai concetti fondamentali, devo eliminare tutto quello che non ha immediata utilità, e già così la vita è dura.

Son le due e mezza quando ci mettiamo in marcia, sotto un firmamento di stelle. Tutt'intorno silenzio, solo il rumore dell'acqua della Stura ed i latrati dei cani che protestano al passaggio di Ivano, partito un po' prima di noi. Abbaieranno ancora al nostro passaggio: speriamo che a qualche indigeno non salti in mente di uscir di casa ed impallinarci! La luna non c'è, ma in salita è sufficiente la poca luce dei fanalini da manubrio, senza scomodare la pila frontale, che pure c'è, pronta all'uso. C'è una sorta di chiarore diffuso, anche se in realtà intorno non si vede nulla; si distingue il profilo delle montagne, solo perché è lì che le stelle finiscono. Potrebbe essere pura poesia, il silenzio della natura che pesa come un macigno... Ma non è il nostro caso, non questa notte, perché provvediamo noi tre a far più cagnara di quanta se ne senta in un corridoio di scuola durante l'intervallo. Schiamazzi, battute da camionista, risate sguaiate, io ho già le lacrime agli occhi e le gambe molli, e non va bene quassù, proprio non va bene!
La prima parte della salita inganna: non fa freddo; la pendenza severa e la valle stretta, incassata, riparata dal vento tengono lontana la pelle d'oca. Non siamo soli: altre lucine punteggiano i tornanti lassù, un po' più in alto; sono i viandanti in pellegrinaggio al Santuario di Sant'Anna, che da lassù domina la valle e di notte è ancora più imperioso, unico faro nel buio. Un po' di disappunto mi coglie al pensiero che qualcuno potrebbe scambiare per pellegrini pure noi, tre mangiapreti impenitenti... Per carità, noi non si sale per fede né per sacrificio o per voto, noi si sale per pura passione e infatti si va molto più in su! Man mano che la valle si apre, sembra quasi di vedere più luce; se guardo con attenzione, quasi riesco a distinguere il profilo dei tornanti, le mucche sonnacchiose nel pianoro, gli alberi. Il tratto in piano mi congela: basta smettere per un attimo di pedalare ed il freddo, quello vero, ghermisce le braccia, le gambe, la schiena, le dita. Qui, lungo il pianoro, son parcheggiate alcune auto di quelli che, domani, si vanteranno con gli amici: "Sono andato al Santuario di Sant'Anna di Vinadio a piedi"... Sì, grazie, è come salire al dodicesimo piano di un palazzo, ma partendo dall'undicesimo!

Al bivio tra il sacro ed il profano, scegliamo senz'ombra di dubbio la via della perdizione: a sinistra, su, verso il colle. Meno male che si riprende a salire, fa un freddo da levare il fiato, anche se i miei due compari sembrano non sentirlo affatto. Ivano poi schiamazza, un po' canta, un po' ride... Ma non è cattivo, è che lo disegnano così, tocca rassegnarsi. Da qui al colle sono ancora otto chilometri. Circa tre nel bosco, in cui gli alberi fanno cupola nera e non lasciano alzar la testa. E quel che rimane è spazio aperto, prati e laghetti che ora formano un tutt'uno. Il Santuario, dall'altro lato della valle, è già più in basso di noi. Un filo di vento muove appena l'erba, tutto tace. D'improvviso uno spettacolo incredibile: alla nostra sinistra, su in cielo, uno spicchio di luna, solo uno spicchio, ma limpidissimo, tanto da vedere anche la sagoma dell'altra parte del cerchio, ed accanto quella splendida stella, o pianeta o chissà cos'è, sono troppo ignorante per indovinare, ma è sempre lì, fida luce compagna. Tento una foto, senza troppa fiducia: qui un buon fotografo ed un buon apparecchio potrebbero creare un capolavoro; a me rimarranno due puntini di luce su una lavagna nera, nulla più, meno male che gli occhi sanno bene quel che hanno visto e che i ricordi durano ben più dello scatto di una foto. Si riparte, subito, perché ormai manca davvero poco: il colle si vede, proprio quando intorno a noi il colore del cielo comincia impercettibilmente a sbiadire verso il grigio, verso un azzurro color metallico, luce fioca che arriva proprio quando serve: all'inizio della discesa.

Ci vestiamo come tre Omini Michelin in cima al colle: ventun chilometri di discesa, da quota 2.300 m, alle cinque del mattino appena passate, tutt'altro che un'esperienza simpatica. Mi avvio, mentre Matteo ed Ivano indugiano nella vestizione; scendo come sempre pianissimo e mi rammarico di non potermi troppo guardare incontro, ora che le cime prendono fuoco e l'aria si fa più che mai tagliente. Dura lotta con le dita che, troppo fredde, faticano a stringere i freni, soprattutto non rispondono ai comandi; conto i chilometri che scorrono sui pannelli segnaletici a lato strada, ma è ancor sempre troppo lunga. I tornanti ci precipitano verso il fondo di quest'imbuto nero che è ancora la parte bassa della valle, dove il sole arriverà eccome, ma chissà tra quante ore. Ed il sonno, fatale, arriva, puntuale come un orologio svizzero, Per me, sempre, l'alba è il momento più tremendo se il mio obiettivo è resistere senza dormire: quell'ora in cui la luce c'è ma non è ancora abbastanza intensa da destare l'attenzione e risvegliare i sensi. Cinque km, quattro km e mi rendo conto che, per qualche frazione di secondo, non sono qui dove dovrei essere; gli occhi sono aperti, sbarrati direi, ma non vedono quel che hanno davanti. Due ore e mezza di sonno, reduce da una settimana in cui, quand'è andata bene, ho dormito cinque ore di fila: quand'è troppo, è troppo, anche se mi spiace ammetterlo e vorrei ancora strappare al mio corpaccione questa concessione. Non basta respirare profondamente, tendere e sciogliere i muscoli ora delle gambe ora delle braccia, non basta nemmeno canticchiare o parlare. La luce , quella della mia coscienza, si sta spegnendo. Manca un chilomatro a fine discesa ma mi devo fermare un attimo: butto la testa sul manubrio, due secondi, mi rialzo, riparto; non arrivo al fondo, mi fermo ancora a due curve dalla fine, riparto. Inizio il tratto in pianura, ma le gambe non obbediscono, come se fossero scollegate dal cervello; parlo con i miei due sventurati compagni d'avventura, spiego loro che non riesco a stare sveglia, che ho sonno, ma la mia stessa voce mi giunge da lontano, rimbomba in testa. Mi fermo, riparto, mi fermo, ed ogni volta che appoggio la testa al manubrio sento che mi addormento, anche solo per un secondo ma mi addormento, prima che la sensazione di cadere dalla bici mi risvegli di soprassalto. Ma non c'è proprio verso: rischio addirittura di cadere a terra. Rinuncio, mi devo per forza fermare un momento, pur con il rammarico per il tempo che faccio perdere a Matteo ed Ivano, che son lì arzilli come grilli e sembrano reduci da una profonda notte di sonno comodo tra due guanciali. Una piazzola, mi appoggio ad un albero, li esorto ad andare, a continuare il giro: io dormirò un po', poi mi rimetterò in marcia per conto mio, a fantasia.

In verità, l'itinerario previsto per oggi è una mostruosità che supera i 250 km e comprende i colli Lombarda, Bonette, Cayolle, Cuillole, Lombarda di ritorno. E non è che io ne fossi proprio convinta, già prima di partire almeno per la parte che comprende la salita alla Cayolle, che dal versante di Jausiers è interminabile, e per quella che riporta all'attacco della Lombarda, odioso falsopiano in salita. Ma 'sta bendetta Cuillole, è una vita che ne sento parlare e non l'ho mai vista! S'ha da percorrere prima o poi. Il guaio è che anche questa volta sarà non "prima" ma "poi". Pur intontita dal sonno, mi rendo conto alla perfezione che è già troppo tardi, che il tempo perso è molto e che non sarà possibile rientrare in Italia ad un'ora decente stasera, almeno non per me. Ma non posso farci nulla; è uno di quei momenti in cui non è la mia volontà a comandare. Matteo fa la spola tra me ed Ivano, che nel frattempo ha proseguito un po' verso St Etienne; si ferma un momento con me, a farmi compagnia ed appoggio per la testa, e propone una variante: un giro altrettanto impegnativo come salite, ma più breve quanto a km. Si va alla Bonette, si scende a Jausiers e si torna indietro, per un totale di 6.500 m di dislivello in salita, circa. Matteo ed Ivano proseguiranno subito verso St Etienne, poi là il primo si avvierà su per la salita della Bonette, incontro a Luca che è partito da Vinadio più tardi in mattinata e sta viaggiando in senso opposto a noi, mentre il secondo mi aspetterà in un bar. In realtà, non credo che sia passato molto tempo tra il momento in cui Matteo mi lascia e quello in cui io riparto. Mi aiuta la luce del sole che ora è piena, forte, mi aiutano i pochi istanti di sonno profondissimo senza sogni; un po' rinfrancata, mi stacco dal tronco dell'albero, acciaccata e dolorante e soprattutto in preda ai tremori per il freddo pungente del mattino. Chissà cos'han pensato gli automobilisti passati qui davanti mentre sonnecchiavo, alla vista di una bici abbandonata malamente a terra e di un fagotto rosso informe appoggiato al tronco di un pino? Forse una sbornia da smaltire... Chissà, non sono mai stata ubriaca al punto di perdere il senno; il mio massimo livello di ubriachezza arriva in fretta, con una lattina di birra che mi fa venir le gambe molli, e non ci tengo a sperimentare cosa accada "oltre". Però credo che i postumi della sbronza non siano molto diversi da quel che si prova quando il sonno prende il sopravvento: pensieri confusi, occhi inutili, testa pesante che sembra voler scoppiare.

I brividi di freddo mi scuotono ancora mentre salto in sella e mi avvio. Patisco un freddo che non c'è più, dato solo dall'immobilità; infatti, poche centinaia di metri ed il sabgue torna in circolo: mi fermo, tolgo la giacca, riparto. Pista ciclabile o strada? Qui la pista è bella davvero, realizzata con tutti i crismi, ma in me prevale la fretta, che mi fa scegliere la via più breve. E poi, chissà perché, la pista ciclabile mi dà sempre un po' l'idea di discriminazione... Che diamine, pedalo su una bici da corsa, lasciatemi la strada! Non sono mai stata una tifosa delle piste ciclabili.

Breve risalita prima di St Etienne, che riscalda ossa e muscoli per benino; in paese, chissà dove si sarà fermato Ivano? Proseguo in direzione dell'attacco della Bonette, poi svolto verso il centro, titubante, all'ultimo bivio possibile: che diamine, non sono mica a New York; non credo sia possibile perdersi di vista qui. Infatti Ivano è proprio qui, al tavolino di un bar; c'è anche Matteo... Sono felicissima di vedere che si è fermato anche lui. Mentre i due compari sistemano le loro cose, prendo un po' di vantaggio in salita, ringalluzzita e contenta come non mai, anche se mi sforzo di tenere a freno l'entusiasmo. Il cielo è di un unico intensissimo blu, non un solo baffo di nuvola. Rieccomi, come tutte le estati, ancora una volta a zampettare sui fianchi della montagna mitica, che in fondo ormai bonariamente mi tollera; a schiacciare con le ruote le bollicine nere che il caldo gonfia sull'asfalto delle strade francesi, ad allungare il collo oltre ogni curva dove so già perfettamente cosa vedrò, perché lo conosco meglio delle mie tasche, questo posto. Il bivio per St Dalmas le Selvage, il ponticello con la griglia, Le Pra. Ivano ci allieta con i suoi aneddoti di lavoro in ospedale, infiocchettati di canti e schiamazzi. Fatico un po', complice forse il mal di pancia che da qualche chilometro già si fa sentire: il guaio è che da qui in poi non c'è più nemmeno un cespuglio, non il minimo riparo, nulla che possa dare un po' di sollievo alle pene de panza. E' la solita ribellione del corpaccione alle sveglie notturne, ai maltrattamenti da fuso orario, alla sregolatezza degli orari. Se solo ci fosse un bagno pubblico a Bousieyas... Ma so che non c'è; devo rassegnarmi a soffrire in silenzio. A tenermi tutto dentro... Cosa che, oltre a fare bibi, comporta anche un certo peso superfluo da scarrozzare! E invece... Più o meno con la stessa sorpresa di un disperso nel Sahara che si imbatte un distributore di lattine, nella piazzetta del paese, accanto alla fontana, una porticina ed una scritta: "Toilette". Non ci posso credere, è senz'altro un miraggio... In ogni caso, prima che il miraggio sparisca, ne approfitto. Mi sa che tanta grazia è dovuta al fatto che oggi è in corso una manifestazione cicloturistica che prevede la scalata alla Bonette da uno o da due versanti: il cartello bianco con la scritta nera è comparso solo per quest'occasione; non avevo mai notato nulla, passando di qua.

Con Matteo ed Ivano si riparte: la Bonette ora svetta sopra le nostre teste, anche se mancano tredici km di sole a picco, di caldo sulla schiena, di salita non poi così ripida, ma sfiancante. L'incontenibile cuneese si infila nel dialogo tra due ciclisti francesi che parlano della Fausto Coppi: il mio scarno francese mi permette di capire, ma non di dire la mia, e questo sì che è un dramma. O forse è un bene, perché risparmio il fiato. Scatto qualche foto ad un gregge di pecore che si sposta in massa, come un blob, sull'erba verdissima di questi prati. In un attimo arriva Camp de Fourches: è proprio vero che, a furia di ripetere gli stessi itinerari, le distanze si accorciano, non fanno più paura. Da qui al colle sono ancora sette km: abbiamo già deciso di tagliare il giro della cima, anche perché siamo già in netto ritardo sulla tabella di marcia. Luca rischiamo d'incontrarlo già al colle! Gli ultimi km sono insidiosi: per fortuna, oggi quasi non tira vento, altrimenti sarebbero guai. Strappi e tratti in piano, la vetta è lì, sembra di poterla toccare con mano, il cupolone verde pelato come una zucca, e invece no, ogni curva apre un altro anfiteatro, un altro ampio arco da percorrere, un altro ancora, accanto alla parete scavata per fare spazio ad una strada che qui, oltre quota 2.500 m, è liscia come un biliardo. Penso con disgusto all'asfalto di certe strade carmagnolesi, che sembra un concentrato di campo da golf, tante sono le buche!

Ad un chilometro dal colle, Matteo si lancia in una fuga, come sempre da me del tutto ignorata. Poi in discesa si porta avanti: come Ivano, del resto, che è un pazzo scatenato. Dice lui stesso che un giorno qualcuno lo scollerà dal radiatore di uno Scania: beh, oggi di sicuro non accadrà, ma solo perché gli Scania non salgono alla Bonette. Vedo già più probabile la sua sindone sul metallo cromato di una Harley Davidson. Invece, per fortuna, non accade nemmeno questo. Quando, con un paio di secoli di ritardo rispetto a lui, arrivo a circa metà discesa, trovo la combriccola allegramente riunita e ricomposta con la presenza di Luca. Si scende tutti a Jausiers. Il Cuneese al Rhum mi supera quasi subito: poco oltre, lo vedo in piedi nella posizione della gru, aderente alla porta di una casa per fortuna deserta, faccia contro il legno, braccia aperte e distese; fermo a bordo strada, un ciclista che non capisce, poverello lui, e strabuzza gli occhi scuotendo il capo. Scatto una foto ad Ivano, ma avrei dovuto scattarla alla faccia di quel ciclista...

A Jausiers ci fiondiamo nel primo minimarket che ci capita a tiro, con la foga dell'invasione delle cavallette. Un solo pensiero in testa: la Coca Cola. Ne usciamo carichi come muli: Coca Cola appunto, e poi formaggio, di quello bello grasso e morbido e gustoso, proprio quello studiato per ottenere la massima efficienza nell'otturazione delle arterie; e ancora, biscotti, barrette, un sacco di paninetti morbidi ed uno di "pains au chocolat". Ci accampiamo nella vicina piazzetta ed offriamo al passeggio cel paese lo spettacolo truculento delle nostre fauci di affamati in azione. Con un occhio alle forme di formaggi vari esposte sui banchetti del mercato: quasi quasi...

Il freddo mi assale ancora una volta, come sempre quando mi fermo, ma i tremori che mi scuotono non sono d'impiccio al lavorìo frenetico delle ganasce. Ripartire a stomaco pieno è tutt'altra vita!
Questa volta Luca e Matteo se ne vanno subito, non appena torniamo sui nostri passi e riprendiamo la salita. Con me resta Ivano: beh, non c'è che dire, avrò la distrazione assicurata. Basta dargli un argomento e lui parte, sviscera, disquisisce, insomma tiene compagnia, un po' come Radio Radicale, solo che lui in più ogni tanto canta. Eh sì, ha anche il fiato per fare ciò.
I primi cinque o sei km sono sempre monotoni e faticosi, da questa parte. In più, io patisco sempre la bassa quota: ormai è un dato di fatto; comincio a star bene, a respirare bene, solo quando la strada è salita già un po'. Quando la montagna diventa montagna sul serio.
Saliamo in compagnia di decine di altri ciclisti, di tutte le fogge, da quelli che si atteggiano a prò e pedalano con le tasche vuote, senza nemmeno una mantellina per la discesa – o, se c'è, è nascosta in luoghi innominabili a beneficio dell'aerodinamica - a quelli che cavalcano biciclette da mezzo quintale caricate con un altro mezzo quintale di bagaglio, a quelli che disertano la salita per stendere le gambe sotto i tavolini del rifugio Halte 2000. Per fortuna, il fiato per parlare ce l'ha Ivano: io mi chiudo in un forzato silenzio, non ce la faccio a replicare. Ma è meglio così: quelle rare volte in cui Ivano parla seriamente, vale davvero la pena di starlo a sentire. Questa è la volta di un'iistruttiva disquisizione sulla recente storia politica italiana, in particolare su fatti e misfatti dei Presidenti della Repubblica del dopoguerra: un altro degli innumerevoli argomenti su cui anche le pecore al pascolo qui intorno sono più istruite di me. Pertini, Leone, io so giusto che sono stati Presidenti, e so che Pertini è sepolto a Stella solo perché ci son passata in bici o durante qualche corsa a piedi... Da qui al diritto di voto, alle carceri, e la fatica passa un po' in secondo piano, quasi intimidita anch'essa dalla profondità dei temi di dibattito. Quando poi s'arriva agli edifici militari, allo spiazzo, ai due o tre tornantini in seguito, e si vede la cima, beh, allora è fatta. Poco oltre, contro il cielo azzurro si scorgono le sagome di due loschi figuri, accanto ad una delle ultime chiazze di neve ed al bivio con la strada che scende a St Dalmas Le Selvage. Sono, ovviamente, Matteo e Luca, che hanno già raggiunto la cima, imbandito la tavola, allestito il barbecue, consumato un lauto pasto con caffé e pusacafé, e infine ridiscesi di un paio di chilometri. A questo punto, le coppie scoppiano e si ricompongono: Ivano e Matteo, più temerari, si lanciano verso St Dalmas, affrontando di petto – e speriamo non di testa – i primi tre chilometri di strada sterrata; Luca ed io proseguiamo verso il colle, a poco più di un chilometro ormai quasi piatto, e poi scendiamo lungo la tradizionale e comoda strada asfaltata. L'aria cristallina permette di vedere la serpentina d'asfalto giù, giù, fino a Bousieyas ed anche oltre; è solo perché ormai ci passo da anni, che questa visuale panoramica non mi mette più i brividi.

La mia discesa come al solito è eterna; trovo Luca in attesa a Bousieyas e poi, più avanti, in vari altri punti di sosta. Poverello, proprio lui che per insegnarmi la tecnica della discesa si è fatto in quattro! Il guaio è che io ho paura, non c'è nulla da fare, e poi, in una giornata come oggi, proprio non riesco a concentrarmi sul gesto atletico; è tutto troppo bello, da guardare, da riempirsi gli occhi!
A St Etienne, fine discesa, nessuna traccia dei due compari. E dire che dovrebbero già esser qui da un po'! Speriamo che sia andato tutto bene, lassù su quello sterrato... La discesa da St Dalmas è tutt'altro che riposante, anche nel tratto asfaltato. Ho tempo di saggiare ancora una volta il conforto della civiltà, sotto forma di toilettes pubbliche, prima che i due fenomeni arrivino. E si riparte subito, verso l'ultima fatica della giornata: il rientro in Italia via Colle della Lombarda.

La decina di km verso Isola potrebbe essere persino piacevole, percorsa in questo senso in leggera discesa; peccato che un vento feroce spiri ostinatamente contro di noi. Andiamo bene: speriamo di non subirlo anche in salita, altrimenti sì che diventa un calvario. Matteo mi offre riparo facendo scia, ma io come sempre non sono un asso nel restare a ruota e finisco per viaggiare un po' a fianco; vedo scorrere i chilometri sulle paline segnaletiche e desidero con tutta me stessa l'arrivo di Isola. Da lì, è salita, con la S maiuscola. I primi sei, sette chilometri sono temibili, un po' per la pendenza sostenuta, un po' perché il caldo del pomeriggio, sia pure già avanzato, è tremendo al fondo di quest'imbuto che è la valle di Isola. Infatti i tornanti sembrano accatastati l'uno sull'altro, sono secchi, cattivi. Luca in un attimo sparisce nel nulla: accanto a me resta Matteo, si vede che soffre, vorrebbe lanciarsi all'inseguimento, attacca la solita litania del "non ce la faccio, non sono allenato, non valgo niente" con sottofondo di canto gregoriano. Gli faccio notare che sì, Luca è senz'altro molto allenato e molto ben preparato, questo è fuor di dubbio, ma lui, Matteo, ha una zavorra di bagaglio tale che non credo si tratterebbe di una sfida ad armi pari. Poi lascio perdere: tanto, son sicura che, in fondo, alle sue stesse lamentazioni non crede nemmeno lui. Io so quel che vale, e mi basta!

Ivano segue, non molla, la vecchia roccia. Beh insomma, vecchia, se mi pesca mi sinistra! Approdiamo al tratto di falsopiano, unico punto in chilometri e chilometri di salita in cui è possibile raggiungere dell'acqua. Se poi si tratti di acqua davvero potabile, non lo so, magari venti metri più su c'è un allevamento suino... Ma non è che la cosa mi sconvolga, in fondo basta non saperlo. Arsi dalla sete, riempiamo le borracce con l'acqua che scende parsimoniosa da un gradino a bordo strada, poi riprendiamo il nostro cammino. Ormai per me è quasi fatta, anche se mancano dieci chilometri circa; le gambe faticheranno ancora, ma io sono già in cima con il cuore, contentissima e soddisfatta della giornata. Ad Isola 2000 ritroviamo Luca, che ci ha attesi prima di giustiziarci per il salto finale: quattro risate tutti insieme, poi lo spirito competitivo ancora una volta spezza il gruppo. Luca riparte, Matteo gli va dietro, Ivano ed io, da buoni anziani che han raggiunto la pace ciclistica dei sensi, restiamo indietro, impassibili, al ritmo delle tartarughe nell'imminenza del letargo.
Mi tocca ammettere, con dispiacere, che il terzultimo chilometro mi sembra più pendente del solito; anche Ivano ha la stessa impressione. Ma è così bella la luce della sera; i colori dell'erba e del cielo si fanno più caldi, più intensi, le poche striature di nuvole brillano di rosa, le ombre s'allungano a dismisura, tanto che anche un bucaneve diventa lungo come un bambù. L'aria è più fresca, l'ultimo km è lungo, interminabile, ma passa, anche lui. E non so se sia l'effetto della fatica che mi fa vedere, su in cima, un porcellino d'India al guinzaglio di una turista francese...

Discesa, lunga gelida discesa. La valle è già quasi tutta in ombra; sento già i brividi, le mani che si fanno rigide, la pelle d'oca, saranno ventun km di sofferenza; son le sette di sera, i tre compari spariscono avanti, a farmi compagnia restano il colore metallico dei laghetti, le crepe insidiose dell'asfalto nel bosco, l'insolito viavai di camper verso un accampameno improvvisato un paio di km prima del bivio per il Santuario. Da qui in poi mi attende Matteo, ora appagato dal testa a testa con Luca fino alla Lombarda; per fortuna la sfida in discesa non lo attrae altrettanto. Batto i denti, conto i km, imploro la fine del supplizio: a ben pensarci, oggi abbiamo subito escursioni termiche impressionanti! A fondovalle avremo sfiorato i quaranta gradi, mentre stamattina, o meglio la scorsa notte, siamo di certo scesi parecchio sotto i dieci. Ma è bello scendere al freddo senza più patire, parlando delle mattane future, fantasticando di UTMB e vacanze d'agosto. Quasi non tremo più.

Ci separiamo al bivio: Matteo ed io saliamo in auto, Ivano torna ad Aisone in bici, Luca ha la macchina a Vinadio. Gli ottanta chilometri fino a casa poi sono una lotta furiosa contro il sonno: però,anche questa volta, ne è valsa davvero la pena!

venerdì 17 luglio 2009

11/12 luglio 2009 - Gran Trail Valdigne

Più l'auto è grande, più è confortevole dormirci dentro. Sembra la scoperta dell'acqua calda, ma no: non è affatto una scemenza, almeno per me che spesso trascorro la notte prima di una competizione ronfando sul sedile della Opel Corsa ed invece, questa volta, ho potuto approfittare del comodissimo simil-lettone del furgone Volkswagen di Matteo. Almeno si riposa con tutte le estremità più o meno alla stessa altezza... Se penso che sulla Opel, quando mi capita di avere anche la bici, non posso nemmeno abbassare lo schienale del sedile!
Anche la sveglia è ad ora umana: le sette meno un quarto, e solo in onore della distribuzione pettorali, prevista tra le sette e le otto. Caso strano, nel panorama delle partenze delle corse in montagna ad ore antelucane. Il via sarà alle dieci: è uno dei pochi aspetti di questa gara che non mi va giù. Io che ho l'ossessione di voler sfruttare sempre al massimo tutte le ore di luce... E qui se ne buttano via almeno cinque, costringendo poi i più lenti a sciropparsi tutta la notte su sentiero, perché i km sono tanti, sono 87, sono lunghi.

Riemergere dal calduccio del sacco a pelo è un trauma. Avevo scordato che siamo pur sempre a quota 1.200 e proprio sotto il Monte Bianco. Microjeans e canottiera, alle sette del mattino, non sono esattamente l'abbigliamento più indicato da queste parti. Tantovale indossare subito la divisa da combattimento, pontalone sotto il ginocchio, maglietta tecnica, manicotti, giacca. Matteo ed io ci avviamo verso il palazzetto dello sport, proprio qui accanto, con gli zaini, rassegnati alla penosa tortura del controllo del materiale obbligatorio. Con nostra sorpresa, invece, nessuno controllerà nulla: con la firma sul modulo di liberatoria, abbiamo in pratica dichiarato di avere con noi tutto il necessario; che poi sia vero o no, sono cavoli nostri. Profonda gratitudine da parte mia a chi ha preso questa decisione; sono una fiera tifosa della libertà di ciascun corridore di gestirsi come vuole... Poi in realtà io ho spulciato almeno un paio di volte l'elenco per controllare di avere tutto, ma ad esempio della benda elastica non saprei che farmene, idem di un intero litro d'acqua con un itinerario che pullula di ruscelli e ruscelletti e ben organizzato con una miriade di punti acqua e Coca Cola. Sono contenta che oggi mi sia risparmiata quella sottile ansia che mi attanaglia quando attendo il responso di chi fruga nel mio zaino, con il terrore che il pollice verso faccia giustizia di me e delle mie ambizioni corsaiole. Un po' quel che succede quando per strada ti fermano i Carabinieri, quel sottile brivido che corre lungo la schiena mentre il gendarme fissa con espressione impassibile ed impenetrabile la tua patente, per interminabili istanti..

327. Esco con il mio numero di pettorale e faccio lo slalom tra tutti i volti ormai noti di questi appuntamenti: ormai ci si conosce tutti o quasi; Andrea, candidato alle primissime posizioni ma fiaccato da una cura di antibiotici per il mal di denti – mamma mia quant'è smagrito! - Roberto titubante sulla propria condizione fisica, Lorenzo che pronostica 14 ore, TeoMat e consorte diretti verso la colazione, Isacco che c'è: nonostante non abbia potuto iscriversi! Comincio a pensare che la malattia abbia raggiunto in lui uno stadio di gravità incurabile. E poi tanti altri che mi salutano per nome senza che io ricordi chi siano e dove li abbia incontrati, che bello!
Invoco ancora mezz'oretta di nanna, ma alla fine è il pancino che prende il controllo della situazoone. Ho fame, è ora di colazione: come sempre, pasto nel pieno stile del rigore atletico, a base di focaccia al formaggio, focaccia alle olive, focaccia bianca, niente focaccia al pomodoro perché quella l'ho già spazzolata in viaggio ieri sera. Puri agglomerati di grassi che probabilmente mi serviranno come energia da spendere nell'edizione 2010: se non altro, però, lo stomaco non s'azzarderà a chiedere altro, oggi, per un bel po'. Matteo, forse più saggio di me, fagocita la solita dose industriale di pasta.

Non sembra, ma tra un preparativo e l'altro il tempo scorre in fretta: ricontrollo il bagaglio, aggiungo una maglia per la notte, affogo i piedi in un oceano di pasta di Fissan, metto su due paia di calze, controllo di avere tutto. Calma olimpica: ormai ci ho fatto l'abitudine, l'agitazione e l'ansia non le sento più. I primi tempi è difficile capirlo, ma in effetti, su quasi novanta chilometri di corsa, può davvero succedere di tutto, il previsto e l'imprevedibile; agitarsi non serve a nulla, per chi, come me, non può fare altro che immergersi nella dimensione di un lungo, lunghissimo viaggio. Matteo è un po' più teso, ma ne ha ben donde, lui che può permettersi ambizioni di classifica; lo vedo, in griglia, sforzarsi di sorridere ma con lo sguardo che porta altrove, già lontano al colle Liconi, o chissà, forse più avanti. Ostinatamente si sminuisce con una modestia che ogni tanto mi fa prudere le mani dalla voglia di mollare un ceffone... Ma lascio perdere, tanto non c'è nulla da fare, e poi è ora di andare. Il Monte Bianco, con la stola di nuvole intorno al collo, vigila su di noi, affascinante e spaventoso insieme, come sempre lo sento quando arrivo quassù. Parenti, amici, semplici curiosi si scatenano con le macchine fotografiche; dall'alto ci tiene d'occhio nientemeno che l'elicottero. Non si può proprio dire che i Courmayeur Trailers, il gruppo organizzatore della gara, si facciano mancare qualcosa!
Un ultimo saluto, un attimo sospeso, mani che si sfiorano: in bocca al lupo, ci si rivedrà alla fine. Arrivandoci con le nostre gambe, speriamo: il dubbio non è per Matteo ma per me, che l'anno scorso ad Arpy ho gettato la spugna dopo 57 km ed ore di diluvio. Oggi però il meteo sembra essere dalla parte dei corridori, almeno in teoria, anche se il cielo è ancora un po' troppo pezzato per i miei gusti. Corro il primo chilometro, giusto per dovere di minimo sindacale, giusto per la gloria della sfilata in Courmayeur, sotto gli occhi dei turisti che suonano divertiti i campanacci da mucca. E già nel primo chilometro riesco ad attaccare qualche bottone. Tanti temono il caldo, io inorridisco: per il momento, non ho affatto caldo, e vorrei davvero sperare di patirne molto! Quest'anno, la pioggia ha fatto da compagna e guastafeste di tutte le mie migliori occasioni sportive... Penso di essere in credito con Giove Pluvio.

Rispetto all'edizione 2009, il tratto iniziale su asfalto è stato abbreviato. Ben presto si lascia l'abitato di Courmayeur imboccando un sentiero che sale in mezzo ai campi e s'infila nel bosco. Piano, pianissimo, siamo già in salita e sarà molto, molto lunga. Prendo il mio passo, metto subito alla frusta i bastoncini, scaricando su di loro il maggior peso possibile, onde risparmiare i muscoli delle gambe e della schiena. Davanti a me, due "lepri" che per il momento non intendo seguire: camminano appena appena più lesti di me, ma quella differenza che ora, da freschi, sembra nulla, potrebbe poi pesare come un macigno tra qualche ora e qualche salita. Per qualche momento, continuo a chiacchierare, ma poi cala il silenzio sulla lenta processione tra sassi e terra sabbiosa.
Poi qualcuno già comincia a cedere, a voltarsi in continuazione, a fermarsi per prendere fiato; uno ad uno li passo, li sento ripartire, poi ancora fermarsi, poi riprendere, ma il distacco è sempre più ampio. Non è che la cosa mi interessi, anzi: proprio non m'importa nulla di guadagnare vantaggio su chicchessia; so bene che qualsiasi mio sforzo in salita sarebbe comunque vanificato in discesa, dove mi sorpassano tutti ma proprio tutti; quindi, tantovale star tranquilla. E' solo che è curioso osservare come tanti si ostinino a partire "a tutta" per poi scoppiare già nella prima parte della prima ascesa. Ma perché?

Per un tempo indefinito si calpestano pigne, poi il bosco scompare, lasciando spazio ad un bell'alpeggio dov'è piazzato il primo punto acqua. Un bicchiere di acqua e menta non può che far piacere, anche se non sono ancora in viaggio da molto tempo. Poi una lunga traversata con salita dolce, in mezzo ai prati, un sentiero appena accennato al cospetto dei ghiacci del Bianco, ancora incappucciato da nuvole grigie che però non sembrano voler fare danni: sono leggere, frastagliate, e restano lì, proprio come un collo di pelliccia. Lunga processione, mi ritrovo a camminare alle spalle di una signora con i capelli scuri, raccolti in due codini, che ha un buon ritmo: mi avvicino un po' quando il sentiero pende di più, resto indietro nei tratti in falsopiano, o nei punti in cui si deve attraversare il ruscello od il nevaietto, lì dove è richiesto un po' di equilibrio. Rimango alle sue spalle, è un buon passo. Insieme superiamo un po' di avversari, finché arriviamo al tratto finale della salita al Colle Liconi, quello più aspro, quello che fa salire con il naso incollato al sentiero e le scarpe che ogni tanto scivolano, quello che costringe ad arrangiarsi con le mani ed a sputare i polmoni per lo sforzo. Qui raggiungiamo un'altra donna, che sale appena più lentamente di noi: penso che forse potrei tentare il sorpasso... Ma è meglio che non mi lasci prendere dall'entusiasmo; questo tratto è lungo, severo e può lasciare il segno per il resto della corsa. Meglio che metta un po' di pazienza e resti qui; ne guadagnerà il prosieguo della corsa.

Attacchiamo bottone: l'atleta in testa è reduce dal percorso corto della scorsa edizione e si è lanciata, oggi, nel suo primo "lunghissimo"; la conforto per quel che so: questa è la più dura tra le salite; il resto sarà un po' meno massacrante, tranquilla. Anche risalendo il canalino, avviciniamo qualche avversario: significa poco, ma è un fatto che dà fiducia... Punto di continuo il naso in su, il colle si avvicina, ci sono lassù i volontari che controllano i passaggi, incitano, applaudono.
Si scollina sul lago, panorama ben più dolce e tranquillo; la prima parte della discesa è in realtà un tratto di falsopiano che costeggia lo specchio d'acqua e dà la possibilità di riposare i muscoli e mangiare qualcosa. La signora con le due code schizza subito via; l'altra, a cui stupidamente non ho proprio pensato di chiedere il nome, resta con me: scendiamo insieme per un tratto, in compagnia di un altro habituè dei trail , raccattato lungo la salita. Confido nel punto acqua che dovrebbe essere giù nel pianoro: infatti c'è... La copertura bianca dei gazebo si vede già non appena il piano del lago si tuffa giù per la montagna. Serpentina di tornanti e sassi e ruscelli, sole che ora picchia sul serio e rende ancor più gradita la Coca Cola che i volontari distribuiscono con generosità ai ristori. C'è qualche vantaggio ad essere gli ultimi: tutto quel che resta da mangiare e da bere viene concesso senza parsimonia. Ci chiedono se siamo, appunto, gli ultimi; il collega di marcia annuncia, tutto serio: "Guardi, io ho fatto un conto... Se torno indietro, sono il primo!". Ce ne andiamo tra le risate generali; un breve tratto di strada militare, poi il sentiero sulla sinistra e l'interminabile discesa nel bosco verso Planaval. Ritrovo il punto in cui, passando l'anno scorso, di notte, in perlustrazione del percorso con Matteo, ci siamo imbattuti in una mandria di mucche, una delle quali non ha per niente gradito l'intrusione. Guardo il canalone verso cui ci siamo lanciati per sfuggire alla cornata e mi vengono i brividi: c'è mancato poco che, nel buio, finissimo dalla padella della mucca nella brace della forza di gravità. Ci avrebbero raccolti a fondovalle con il cucchiaino da gelato, se fossimo scivolati!

Lunga marcia solitaria, in lontananza i campanacci del bestiame; una breve risalita mi porta poi finalmente in vista di Planaval, borgata ove è piazzato il primo vero ristoro: oltre a bere, qui se magna! Planaval, nomen omen, è un ampio pianoro attraversato dal torrente. Sul piazzale della frazione è stato allestito un banchetto con i fiocchi; pane, formaggio, frutta secca, biscotti, affettati, cioccolato e bevande d'ogni genere. Peccato che il mio pancino non sia affatto d'accordo: anche qui, perdo il conto dei bicchieri di Coca che riesco a far fuori, ma per mangiare qualcosa di solido devo proprio costringermi. Qualche albicocca secca, un po' di cioccolato, qualche biscotto; per non perdere tempo, riempo la tazza; mangerò camminando, con il favore del lungo tratto in piano. Si riparte, direzione Punta Fetita.
Poco oltre il ristoro, ritrovo Andrea, uno dei favoriti, addirittura menzionato come tale dal presentatore prima della gara; purtroppo ha deciso per il ritiro: la settimana di tormento del mal di denti ed i medicinali hanno proprio lasciato il segno. Ciononostante, Andrea mi accompagna per un po'; chiacchiera volentieri, finché la strada riprende a salire. Qui ci salutiamo. Il punto in cui, sempre in quella terribile e fantastica notte della scorsa estate, Matteo ed io abbiamo incontrato il lupo.

Recupero ancora qualche posizione, ritrovo la fanciulla che era rimasta con me per un tratto della precedente discesa, salvo poi allungare il passo. Procediamo insieme alla volta del secondo, ed ultimo, tratto di vera salita ripida, comunque più breve e meno aspro del precedente. Il sentiero si inerpica su per il ripidissimo pendio e va a scomparire oltre un gradino; da lì si sbuca in un altro pianoro, per poi immettersi su una strada sterrata che conduce ad un alpeggio, a quota 2.300 circa. Sole caldo e splendide cime selvagge fanno da contorno alla nostra marcia tutto sommato ancora allegra; laggiù in fondo, sulla destra, l'abitato di Planaval. Passiamo oltre l'alpeggio deserto; casa e stalla sprangate, la fontanella asciutta, nessun latrare di cani. Chissà come mai quest'anno i pastori non sono venuti su. Poi si sale lungo un sentiero sulla sinistra, risalendo ancora il pendio in mezzo al prato; un giro intorno ad una cima senza nome ci svela poi il secondo alpeggio, dov'è piazzato un altro punto acqua. Ci accoglie nientemeno che una telecamera, oltre al consueto sorriso dei volontari che porgono a me ed alla mia collega Coca Cola e the. Dovremmo essere, occhio e croce, intorno al venticinquesimo chilometro: il primo corridore, ci dicono, era già qui dopo tre ore di gara... Va bè, oggi ci sentiamo buone, non lo inseguiamo.

La Punta Fetita adesso è proprio davanti a noi: si tratta di salire ancora fino ad un colletto, occhio e croce un centinaio di metri più in alto, da saltare con qualche tornante in mezzo all'erba, e poi passare in cresta con qualche accortezza in più, perché bisogna usar le mani. Il punto più delicato è ben sorvegliato dagli incaricati dell'organizzazione, ma oggi è una passeggiata: l'anno scorso, in questo punto, piombavano fulmini e saette!

Ci attende, da qui, una lunghissima discesa da 1500 m di dislivello. Infinita. Il primo tratto è tutto attraverso il prato, lungo una cresta tondeggiante che ci espone alla forza del vento; se non ci fossero le bandierine, trovare la via sarebbe davvero impossibile qui. Conviene bere, mangiare qualcosa, anche se il mio pancino ahimè è in subbuglio già da un po' ed ha tutt'altra intenzione. La mia collega reclama un posto strategico dove fermarsi per una sosta altrettanto strategica; sono d'accordo... Lo troviamo, per forza, appena rientriamo nel folto degli alberi. Larici splendidi; uno di essi, come recita la targa piazzata proprio lì davanti, ha cinquecento anni. Il tronco, contorto e nodoso, è davvero immenso, i rami sembrano immensi tentacoli di un mostro marino, il colore degli aghi e della corteccia tende più al grigio che non al verde degli altri esemplari. Peccato non potersi fermare in contemplazione.

La mia collega scende un po' più piano di me: onde evitare di indolenzirmi troppo i muscoli frenando, la sorpasso, convinta che sarò raggiunta più avanti quando la pendenza della discesa sarà meno severa, o magari nel tratto in piano tra La Salle e Morgex. Invece non la rivedrò più. Un passo dopo l'altro, punto i bastoncini e salto, punto e salto, cercando di ridurre al minimo l'impatto sulle ginocchia e sui piedi. Qualche tratto è ripido sul serio, ma, in caso di scivolata, si atterra su un soffice strato di aghi dei larici che attutisce la botta. Intravedo a sprazzi il fondovalle in mezzo ai rami, ma sono istanti troppo brevi perché possa valutare quanto manca ancora. So che, quando incontrerò i primi tetti, sarò al punto acqua, pochi secondi di respiro prima di ripartire verso Morgex. Infatti il grigio delle lose non tarda ad arrivare: una signora suona la campana di una minuscola cappelletta al passaggio di ogni concorrente, suona anche per me: ecco cos'erano quei rintocchi confusi che sentivo durante la discesa! Ed io che cercavo invano di capire che ora fosse... Questo luogo è magico. Un pugno di case in pietra, belle ed ordinate tanto da sembrare finte, un piccolo paradiso; al tavolo del punto di ristoro, i soliti volontari, gentilissimi, sorridenti, anche se chissà da quanto tempo sono quassù. Faccio il pieno di Coca Cola e bevo la prima, graditissima tazzona di caffé: non sarà certo l'espresso del bar, ma a me pare buonissimo. Rubo qualche pezzo di cioccolata, saluto e riparto; la mia collega non è ancora arrivata.

Giù a rotta di collo, per quanto sia possibile a me che non sono certo una discesista coi fiocchi, verso la pianura e l'abitato di La Salle. Qui troviamo ancora un punto acqua, ed anche qui non disdegno la Coca Cola; solo un istante, poi via verso la lunga galoppata in pianura. Qualche chilometro verso Morgex, parte su asfalto e parte su strada sterrata: si dovrebbe correre, qui, ma io non ci provo nemmeno. Mi sforzo di tenere un buon passo, mala corsa no, causerebbe sui miei muscoli troppi danni rispetto al beneficio che potrei ottenere dal risparmio di tempo.
Dall'altra parte della valle sui vede l'autostrada; ci passerò sotto, tra non molto. Seguo a pochi passi di distanza un altro corridore; talvolta mi avvicino, lo affianco, talvolta resto indietro. Non una parola tra noi; mi piacerebbe attaccar bottone, ma so anche che sono io la prima ad avere spesso desiderio, in questi frangenti, di concentrazione e silenzio. Può darsi che questo valga, adesso, per il collega; meglio non disturbare.

Ancora tanta gente è ferma ad attendere il nostro passaggio. Salutano, incitano; io rispondo a tutti: "Sei l'unica che ancora parla!", e a me vien da ridere: certo che parlo... Mica arrivo al punto da non avere più fiato, me ne guardo bene! "Fin dove dovete andare?", chiede una signora: "Uh, fino a Courmayeur... Ne abbiamo ancora per un po'!". Poi la strada sterrata muore su un ponticello che conduce a Morgex. Anche qui cerco il getto degli irrigatori nei giardini; fosse anche la nebbiolina che il vento strappa dal getto d'acqua e porta fuori dal confine del giardino, a me basta già.
Una vasca nel centro del paese; ne approfitto per accendere il telefonino. Ricevo un messaggio di Matteo che dice d'essere nei primi 30 e di essere passato qui, a Morgex, alle 16.30; oltre due ore di vantaggio su di me, visto che adesso sono le 19 passate. Sono felice per lui, so che può fare molto bene, come del resto ha già dimostrato in passato; ha doti fisiche incredibili, e di certo non è uno che s'allena in modo ossessivo.
Poi chiamo mammà, la tranquillizzo che va tutto bene.

Nel centro del piazzale spunta il grosso tendone bianco del punto di ristoro: qui, volendo, si può mangiare qualcosa di caldo, anche la pasta. Ma non voglio perdere tempo: sto bene, non ho dolori né stanchezza; preferisco tracannare la solita Coca Cola, bere un caffé, mangiare un po' di frutta secca e rimpolpare la mia scorta di quadretti di cioccolato. E' importante che io riesca ad arrivare almeno ad Arpy prima che il buio sia completo, e da qui a su ci sono ancora dodici km ed almeno 800 m di dislivello in salita. Saluto, riparto: già so che il mio pancino mi costringerà presto ad una tappa strategica... Porca miseriaccia, speriamo che la situazione non peggiori.

Ancora pianura, lunga pianura, strada sterrata lungo la quale incontro gente a passeggio, podisti che s'allenano, anziani seduti a prendere gli ultimi raggi del sole. Sopra la mia testa, imponenti, i pilastri del viadotto autostradale, così sottili e slanciati che sembra impossibile riescano a svolgere il loro compito di sostegno. Meno male che, quando viaggio in auto, non posso vedere cosa c'è, o meglio cosa non c'è, sotto. Un bivio sulla sinistra mi fa risalire un po'; ascesa breve ma secca: il cuore reagisce bene, segno che "ce n'è ancora". Poi si scende a tornantini in mezzo al folto della boscaglia, giù verso il torrente; si sente il rumore delle auto che passano lungo la vicinissima strada asfaltata. Trovo il mio luogo ideale per la sosta, che si sa deve sempre essere fatta al riparo di un bunker antiatomico come minimo; riparto dopo aver offerto a rituale sacrificio una mezza chiappa alle ortiche. ma tant'è, non è che qui si possa badare alle finezze. Sopravviverò!

Ancora un po' di saliscendi, poi raggiungo il bivio: da qui, devo scendere a Pré St Didier, passare al punto di controllo e tornare su, svoltando poi a destra. In tre o quattro tornanti sono giù al fiume; incrocio alcuni corridori che già risalgono. Con calma seguo le indicazioni e raggiungo il ristoro: anche qui, Coca Cola e caffè, poi via. Ancora il fiume e si torna a salire. Da qui, circa 800 m di dislivello fino ad Arpy, un gruppo di case raggiungibile con una strada sterrata che in parte percorriamo. Prima, però, un bel salto su sentiero, al seguito dei due corridori partiti un istante prima di me dal controllo di Pré. Vanno un po' più veloce di me, ma mi fanno da lepri. Intanto la luce è sempre più gialla, le ombre sempre più lunghe; il cielo digrada verso il blu, le sagome delle montagne si fanno scure. Non è ancora il caso di estrarre la luce frontale, ma tra poco lo sarà. Ci superiamo a vicenda quando il sentiero diventa strada sterrata, passa accanto ad una splendida casetta con la finestra illuminata, di quelle che pensavo potessero esistere solo nei cartoni animati di Heidi; l'aria diventa un po' più frizzante. Devo stare molto attenta a non esagerare, ora che la pendenza invita ad osare un po' di più. E' ancora lunga, Gian, dannatamente lunga. Il dislivello alle spalle potrebbe essere di 3.000 metri, poco più; è vero, è già più della metà, ma c'è ancora tanto da faticare. Calma e sangue freddo.
Il vero "trail runner", per dirla all'inglese che fa tanto moda, non ama tutto ciò che sa di strada, nemmeno se è sterrata; non so esattamente quale sia il criterio distintivo: forse, la via su cui un mezzo a motore può passare oppure no. Poco importa, a me la strada invece piace, e molto. Permette alle gambe di riposare, anche se si va in salita, con un passo finalmente regolare, senza affaticare troppo il ginocchio. E' quasi buio ormai, ma qui si può camminare anche senza quasi veder nulla. I miei muti compagni di viaggio son sempre lì, poco avanti.
Raggiungiamo l'ennesimo punto acqua: qui i volontari ci fanno deviare su per un tratto di sentiero in mezzo al bosco, che inizia con una rampa spaccagambe. Non prima di aver approfittato di un'altra tazza di Coca: così, per rimettere a posto il mio bicchiere, traffico nello zaino in salita e vado in apnea. I miei rivali guadagnano qualche metro, ma non mi preoccupo, li riprenderò... E se anche non dovessi riprenderli, chissefrega!
Il sentiero, ma sarebbe meglio definirlo solco, si arrampica tra gli alberi con pendenza da camosci; in più, come se non bastasse, c'è un bel tubo di plastica che lo percorre per l'intera lunghezza: bisogna far bene attenzione a non inciamparsi, altrimenti qui una storta, come minimo, è garantita. Si sta in equilibrio su pochi centimetri di terra. Gli occhi, poi, devono ancora adattarsi alla luce forte e finta della pila frontale, che riflette sulle foglie, altera le distanze e le dimensioni. Chissà cosa corre in questo tubo? Acqua, cavi elettrici, boh. Si sente un ronzio forte, continuo: da dove arriva? Poi ecco spiegato l'arcano: sto passando proprio sotto all'elettrodotto... Ah, il bello della natura incontaminata!
Un chilometro e mezzo, han detto i volontari, ma la stima è eccessiva. In un attimo spuntiamo sul pianoro di Arpy, sulla strada: è notte fatta e c'è ancora gente ad accoglierci, ad incitarci.

Il punto di controllo è all'interno dell'ostello, un bel locale caldo in fondo alla borgata, in gran parte occupato da un tavolo con ogni delizia: caffé, Coca, acqua, più le solite cose da mangiare, frutta secca, cioccolato, formaggio, pane... Qui mi costringo a qualche minuto di pausa. Ho di fronte a me una lunga notte: è sensato che mi fermi un attimo, mi sforzi di mangiare qualcosa, soprattutto mi vesta. Caffé, frutta secca, più un po' di cioccolato da mettere in tasca. Sono a tal punto persa nei miei pensieri, che una voce sembra giungere dall'aldilà quando mi sveglia: "Giancarla, Lorenzo è a La Thuile". E porca paletta, beato lui! E' una salita ed una discesa avanti a me, venti km dalla fine credo. Ricordo questa stessa panca: l'anno scorso, qui mi sono abbattuta dopo ore di marcia sotto il diluvio; scoraggiata ed in preda ai tremori, non me la sono sentita, allora, di ributtarmi fuori, in marcia, andare su a quota 2.500 e rotti, nella notte, a rischio di non veder nulla e di ibernare lì. Stasera mi ci siedo solo un attimo, tempo di tirare fuori dallo zaino il gilet a collo alto ed il berretto di pile. Qualcuno dice che "su non fa freddo": può anche darsi, ma, non so perché, mi sento di dissentire.
Infilo gli auricolari del lettore Mp3: sono pronta per ripartire. Vado incontro alla notte, mangiando uno spicchio di limone che spero possa placare un po' le ire del mio pancino tormentato. Un lungo tratto di strada sterrata attraversa il pianoro; qui la frontale non serve, anzi, disturba la bellezza della miriade di stelle sopra di me. Passo oltre l'ultima casa, uno chalet graziosissimo ma anche qui, non so perché, dall'aspetto finto. La porta d'ingresso è a filo del terreno: chissà cosa succede lì dentro quando quassù si scatena un temporale come si deve! Mi sa che vanno a bagno... Oh insomma, non insistete, una casa fatta così non la voglio!

Oltre il ponte, si sale sul serio. Strada sconnessa e fangosa; un'altra frontale segue la mia frontale, mentre di fronte a me, in qualche punto indefinito della montagna, altri bagliori spuntano di tanto in tanto in mezzo al nero. E chissà se ci sono sul serio, o se è la mia testa che li immagina. La musica mi accompagna, mi mette di buon umore, mi tiene sveglia; i bastoncini mi tirano su conficcandosi nella terra molle. Passo regolare, sempre; chi mi seguiva è rimasto un po' indietro. Un altro ponte, si ripassa il torrente... E poi si finisce a salire in mezzo ad un altro torrente, perché nel letto del sentiero scorre acqua in abbondanza che ha trovato una comoda via verso valle. Per fortuna le mie ottime scarpe sono anche impermeabili, almeno finché non vado a bagno fino a metà polpaccio – e mi pare anche normale, visto che sono scarpe e non stivali da pescatore. Qualche difficoltà a salire ce l'ho, perché pietre e fango ora sono insidiosi, soprattutto per la pendenza severa; mi spiacerebbe mettere a bagno anche il didietro. Per fortuna, il tratto è breve, poi il sentiero torna più o meno asciutto. Non c'è più lo scintillio dell'acqua, ma ora si distingue appena la sagoma della montagna e su, a disegnare la linea dei tornanti, si scorgono le luci dei corridori che mi precedono. Una lenta, lunga processione. Il Lago d'Arpy, nero e placido, offre un po' di respiro finché il sentiero lo accompagna, in pianura; poi si torna a salire, superando il punto di controllo custodito da un gruppo di volontari. Un potente faro, alimentato da un compressore, illumina un bel tratto di sentiero da qui in poi; si sale ancora, sempre nel buio, sempre seguendo il cerchio di luce della frontale, mentre gli alberi si fanno via via più radi: stiamo passando oltre i duemila metri di quota. Il vento rinforza, è freddo, ulula, fa volare i bastoncini se li tengo sospesi; andrebbe tutto bene, se non fosse per il mal di pancia che è tornato, al primo accenno di freddo, più fastidioso che mai. Ma questa volta cerco di resistere; non ho voglia di fermarmi, qui, anche se siamo nel pieno della notte, anche se chi mi segue è ancora molto distante. Ora il fianco della montagna è sgombro di vegetazione, solo l'erba fa da contorno alla processione di lumini sopra la mia testa. Ogni tanto capita che uno dei lumini punti diretto verso di me; ci si controlla a vicenda, anche se qui, almeno per me, la presenza degli altri concorrenti non è fonte di antipatia agonistica, tutt'altro, è conforto ed incoraggiamento. Chissà se sarei capace di essere qui, adesso, di notte, da sola? No, non credo proprio che ne avrei il fegato, anche se certo una passeggiata notturna a Torino Porta Nuova, come esperienza da film dell'orrore, è molto più spaventosa

La meta, almeno per questa salita, è vicina: si intuisce appena la testa della valle, la linea di una sella su cui svetta una delle tende dell'organizzazione, anch'essa illuminata dal fascio di luce gialla di un faro. Man mano che si sale, il vento è più freddo ed impetuoso; istintivamente tento di chiudere ancora il gilet al collo, ma confesso che sto soffrendo, soprattutto per il pancino che non trova pace. Ma in fondo non ne ho poi diritto: penso ai volontari che stanno quassù, fermi, da chissà quanto!
Finalmente scollino. Colle Croce, quota 2.500 e rotti. Entro nella tenda solo per pochi secondi, il tempo di una tazza di the caldo, che, incredibile, si trova persino quassù, preparato e tenuto in temperatura con un pentolone ed un fornelletto a gas. Intorno alla fiamma, un cerchio di assistenti in tenuta militare e di corridori a caccia di un po' di conforto: chissà che ora è, forse mezzanotte. Molto meglio non fermarsi: indugiare qui è pericoloso; si rischia di non ripartire. Mi ricaccio fuori lungo un sentierino che è appena una vaga traccia, un pendio ripido di cui non vedo la fine, confusa con il nero della notte. Inizia la lunga discesa su La Thiule: bene, manca solo l'ultima salita, che non è dura. A questo punto potrei anche essere fiduciosa. Potrei anche farcela!. Da lassù si vedevano le luci di fondovalle; ora solo nero, ma almeno, man mano che scendo, patisco meno il freddo, perché il vento non si sente più. Avrei anche potuto indossare la giacca, ma sarebbe stata una perdita di tempo. Ancora una volta affido ai bastoncini l'ingrato compito di alleviare, in discesa, la fatica delle ginocchia, memore del monito che spesso mi sento lanciare dai "bene informati": corri corri, prima o poi le ginocchia ti faranno male e addio... Verò, è probabile che andrà a finire proprio così. Certo, c'è gente come Olmo che a sessant'anni corre e vince: ma Olmo, primo, è già di suo un atleta fuori del comune, di un altro pianeta; secondo, è magro al punto che certo non costringe le articolazioni a sopportare peso in eccesso; terzo, forse non ha iniziato a correre a quattordici anni.
Bah, non fasciamoci la testa prima d'averla rotta, che intanto La Thiule si avvicina; in un attimo, la pineta mi butta fuori, sulla strada, in vista delle luci della città. Certo, conoscere il percorso è un vantaggio enorme. Ora sono tranquilla perché so alla perfezione quel che ancora mi attende da qui in poi.

Approfitto del breve tratto di strada statale per dare un'occhiata al telefonino senza rischiare di volare a terra: c'è un messaggio... E' Matteo! Mi dice che ha concluso la gara e che è decimo assoluto... Il primissimo pensiero è poco lusinghiero, anzi direi decisamente offensivo: lo sapevo, eccolo qui il solito dispensatore di lagne, colui che si cosparge il capo di cenere, si sminuisce, frigna... Adorabile testa di &%$£#!!!! Son così contenta che mi metterei a correre, ma è meglio di no, io sono ancora qui con venti chilometri e credo mille e più metri di dislivello da superare, mentre lui a quest'ora è a tavola, o forse in doccia, e poi si godrà qualche ora di nanna. Spero che rinunci all'idea di venirmi un po' incontro: avrà senz'altro bisogno di riposo, poverello.

Seguo le bandierine attraverso un prato acquitrinoso e mi ritrovo in mezzo al paese, illuminato e per nulla sonnacchioso. Il passaggio al ristoro è d'obbligo per via del controllo: ancora saluti, sorrisi, incoraggiamenti, sono inarrestabili questi volontari! A disposizione dei corridori qui c'è un locale ampio, con tanto di bagni a cui non mi par vero di poter rendere omaggio; vorrei afferrare solo un po' di frutta secca, ma i personaggi addetti al ristoro sono travolgenti con il loro entusiasmo: mi costringono ad un po' di sosta per un piatto, non previsto ma graditissimo, di brodo caldo. Poi, tra frizzi e lazzi, riparto. E' passata da poco la mezzanotte, ma in cielo si diffonde un chiarore che preannuncia l'arrivo della luna. Oltre il ponte a destra, mi dicono i volontari lungo la strada: un altro bel tratto di sentiero, anche ripido. Qui mi rendo subito conto di accusare un po' la fatica: il cuoricino protesta, stenta un po' a rimettersi in moto. Beh, niente di cui preoccuparsi; è normale che la crisi, prima o poi, su quasi novanta chilometri, arrivi. Rallento un po', lascio che i due corridori dietro di me mi sorpassino e che il terzo, nella foga di correre avanti, quasi si spalmi a terra inciampandosi nel mio bastoncino senza darmi il tempo di spostarmi. Ma dove vuoi andare, sant'uomo? Se sei qui dove sono io, adesso, guarda che ormai sei panato esattamente come me... Il gruppetto passa avanti ma non troppo; io accorcio un po' il passo ma non troppo. Sbuchiamo sulla strada asfaltata, di cui dobbiamo percorrere qualche tornante: poco dopo, incappiamo in un gruppetto di corridori fermi, una signora a terra avvolta nel telo termico, con problemi pure lei de panza, ma credo ben più seri dei miei. C'è già chi chiama i soccorsi con il telefonino; visto che non serve altro, ripartiamo. Il gruppetto resta più o meno compatto fino all'abitato, quando una freccia perentoria ci intima di arrampicarci lungo una traccia di sentiero a sinistra, per tagliare il tornante, passando accanto ad alcune case. La strada che ritroviamo, più su, di asfalto ha solo più qualche traccia. Continuo a sentire troppa fatica, a misurare i passi e le distanze dagli altri corridori che comunque sono sempre lì, metro più, metro meno. Forse non sono l'unica. Ancora qualche tornante fra gli alpeggi, ripido, le ultime luci del fondovalle che scompaiono, poi la direzione piega decis a verso destra. Come si entra nel vallone laterale, il vento torna a scatenarsi, gelando il sudore sulla pelle. Proprio all'inizio dell'ampio pianoro c'è un altro punto acqua: l'annunciano da lontano un alone di luce ed il rumore continuo del compressore. Chissà, magari un po' di Coca ed un caffé mi aiuteranno a riprendermi. Approfitto della pausa per indossare la giacca, quella invernale da bici: la temperatura quassù, complice il vento, è siberiana. Poi riparto lasciandomi indietro un paio di colleghi che restano a scaldarsi un po'. Alzo lo sguardo quasi per caso, alla mia destra: la luna sta spuntando da dietro una vetta, è lì luminosissima e tagliata a metà, è meravigliosa; illumina l'intera conca, quasi a giorno, tanto che ora si distinguono i colori sotto forma di tonalità di grigio; i nevai spiccano e riflettono, l'acqua che si calpesta di tanto in tanto luccica. E' infido questo tratto di salita; aumenta pian piano, sempre su sentiero stretto e sconnesso in mezzo al nulla;. La processione di lucine guida ancora una volta il mio sguardo verso la meta, Col d'Arp, ma manca ancora un bel salto, anche se il rifugio dei volontari lassù si vede già e pare così vicino da poterlo toccare. Pancia a parte, mi sento meglio, ora che so che manca poco. Tornanti e ancora tornanti, qualche vittima che resta indietro, qualche luce che allunga il passo. Mi sforzo di rivedere questo luogo come l'ho visto l'estate scorsa, in pieno giorno; ritrovo la sella del colle, ricordo che nei paraggi c'era una struttura, forse un rifugio, ma ora non si vede. C'è solo la capannetta di plastica trasparente dei volontari, veri eroi, che sembra volersi allontanare sempre più, come per bieco scherzo della prospettiva, ma alla fine non può più scappare. Ci arrivo sotto con il cuore che scoppia, non di fatica ma di gioia; il tempo di una tazza di the caldo a quota 2.300 m. Ora non resta altro che scendere, faccia al vento gelido, alla nebbia che si vede, poco più sotto, spuntare da un salto oltre un pianoro. Speriamo si diradi.

Mi butto giù, ma per modo di dire; questa volta non è più così facile scendere rapidi, un po' perché le gambe danno segni di affaticamento ed un po' perché il sentiero, almeno nella parte iniziale, non è altro che un'incerta traccia in mezzo a prato e pietraia. La tensione è forte: qui, ahimé, a mio parere si è peccato di taccagneria nel piazzare le bandierine; i segnavia sono troppo distanti l'uno dall'altro, tanto che speso non capisco quale sia l'esatta traiettoria da tenere e finisco per incespicare fuori dalla retta via. La tensione è forte, si somma alla stanchezza, al buio che non lascia distinguere sentiero e prato; non posso pensare di farmi male proprio qui, proprio adesso! Mi aiutano un po' le lucine dei due che sono partiti appena prima di me dalla vetta, ma scendono con tutt'altra sicurezza; mi consola il fatto che, dietro di me, ben distaccato, c'è un gruppo che vaga un po' alla disperata... Mi sa che questi mi hanno presa come riferimento per la traccia, e ciò non mi consola affatto. Calma, Gian, calma che ormai è fatta; burroni qui in mezzo non ce ne dovrebbe essere; cerca di non infilare il piede in qualche tana di marmotta, che se no ti disintegri una caviglia, e poi dovresti essere a posto.
Con mio immenso sollievo, la rocambolesca calata si conclude su una ben più agevole strada sterrata, dove, anche qui, il perfetto "trail runner" si lancerebbe di corsa. Io non sono un perfetto trail runner, ma vedo che, intorno a me, di personaggi del genere ne son rimasti pochi. Qualcuno accenna un passo di corsa che muore ignominiosamente pochi metri più in là. Però la marcia è sicura, allegra, ottimista, ora che non si sente più né il sonno né la paura, ora che le luci del fondovalle chiamano per l'ultima volta.-La notte cede il passo ormai, l'aria si fa di colpo frizzante, le cime si delineano una dopo l'altra. Potrebbero essere quasi le cinque, cammino e vorrei che fosse finita, cammino e spero che Matteo sia rimasto a dormire, ma allo stesso tempo spero di vederlo spuntare dietro la prossima curva. Strada e ancora strada, finché un lampeggiante arancio non segnala la deviazione: giù, a sinistra, prato e sentiero e bosco, altro lavoro per i bastoncini. Quanto potrà mancare, cinque, sei chilometri? Mi risponde l'addetto all'ultimo punto acqua: due e mezzo. Che splendida notizia! E' vero che è stata una corsa bellissima, ma le gambe cominciano a chiedere pietà... E' quasi chiaro ormai, ma nel sottobosco meglio approfittare ancora un po' della frontale. Con la stanchezza e la vista annebbiata, il ruzzolone è dietro l'angolo. Tornantini e salti fra i tronchi. là in fondo sembra di vedere una sagoma; mi avvicino, ancora un po', ed è proprio una sagoma, è una persona, è Matteo! Felicissima di vederlo, di chiedergli subito della sua gara, felicissima di sentirlo raccontare con un entusiasmo che mi contagia. Giorno, spengo la frontale: dietro di me piomba di corsa un avversario: "Corri, che non ti voglio superare!". Manco per idea... Vai tranquillo, fratello, che io sto tanto bene così! Percorro le ultime centinaia di metri chiacchierando, con Matteo che non si dà pace della mia quiete e vorrebbe vedere un arrivo in volata: non lo accontento, son già più che soddisfatta così. Ore 5.40, dopo 19 ore e 40 di marcia, tra gli applausi dei presenti all'arrivo, stringo la mia maglietta bianca da Finisher, saluto, scappo via verso il furgone e la doccia. Domani, cioé oggi, è un altro giorno, da onorare con un paio d'ore di nanna nel furgone ed un paio di camminata nella direzione del Rifugio Bertone, ma solo fino ad un punto chiamato "Belvedere". Tanto per aggiungere 400 m di dislivello alla fatica, tanto per vedere come reagiscono le gambe. Matteo è tutto un lamento, ma so che sta mentendo spudoratamente; io non ho problemi in salita, e tutto sommato nemmeno in discesa, una volta che i muscoli si sono riscaldati. Però il cuoricino patisce la mancanza di sonno, batte in modo inconsulto. Chissà, forse se marciassi abbastanza a lungo da dargli il tempo di riscaldarsi un po'...

A mezzogiorno la cerimonia di premiazione: l'abbiamo attesa perché Matteo, oltre ad essere decimo assoluto, è terzo di categoria... Ed alla fine sul podio ci finisco pure io, prima di categoria, ma solo perché unica. Anch'io, ironia della sorte, sono decima assoluta sulle donne; peccato che Matteo sia decimo su centosettanta uomini classificati, mentre io sia decima su quindici donne... Ma in fondo, non sottilizziamo... Sono particolari irrilevanti!

venerdì 10 luglio 2009

28 giugno 2008 - A spasso sul Marguareis

Come sempre, non ho idea di quale sarà il mio destino di oggi. Matteo ci ha provato, a spiegarmelo, ma, tra le tante cose a cui sono refrattaria, c'è la geografia, perlomeno quella dei sentieri di montagna. Mi basta che ci sia lui: io mi fido e lo seguo, dovunque vada; almeno finora, non ne ha mai approfittato per abbandonarmi da qualche parte e liberarsi di me. Inspiegabile!

Siamo a Viozene con la prima luce del mattino, che arriva prestissimo, ora che siamo nel periodo dei giorni più lunghi dell'anno. Rabbrividisco pensando che tornerà dicembre. Destinazione, Marguareis & dintorni: Matteo conosce bene la zona, io per niente, ma ci sono già stata e la ricordo molto bella. Per me è sufficiente; infilo le scarpe e via, si parte su per la stradina in mezzo alle case del paese: case che sanno di vecchio, vecchissimo; qualcuna dall'aspetto un po' instabile, qualcuna invece più curata. Una splendida scala esterna è il particolare più curioso: in legno, a forma di arco; le due parti laterali, in cui sono incastrati gli scalini, sono formate da due mezzo tronchi piegati, non so come; non immaginavo si potesse dare ad un tronco la forma di un arco di cerchio senza spezzarlo. Finestrelle e portoni troppo bassi, cataste di legna accanto alle soglie, una provvidenziale fontana in pietra di cui approfittiamo per fare il pieno alle borracce. Matteo è già preoccupato: "Se non vuoi fermarti, vai, te la riempo io"... Ehi, calma, non cominciamo eh! Non saranno questi due nanosecondi di stop a rovinarmi il ritmo, che tra l'altro non c'è ancora; siamo partiti da un minuto!

Saliamo in direzione del Mongioie: man mano che ci alziamo, la vista si apre su un cielo blu, terso, non una mezza nuvola, solo lo spettacolo della verdissima corona di montagne, solo il suono confuso dei campanacci delle mucche. Quando si è giù, lungo la strada di fondovalle che arriva a Viozene, uno spettacolo così non si potrebbe proprio intuire: il vallone ove passa l'asfalto è profondo, chiuso, incassato, affascinante ed allo stesso tempo opprimente; ha l'aria di uno di quei posti che vedono il sole per poche ore al giorno.
Mi porto dietro uno zaino che pesa troppo e l'umore ancora bigio per qualche bega familiare della sera precedente; per fortuna a Matteo non manca il fiato e nemmeno la voglia di chiacchierare. Mi lascio distrarre, come sempre, fino a diventare parte di quel che mi racconta, delle vicissitudini divertenti della sua vita di negozio; così mi allontano dalle mie, che trovo molto meno divertenti. Sarà che ho un caratteraccio buio, tendo a rimuginare troppo su ogni sciocchezza. Ecco, questo bisognarebbe imparare a fare; quando la rabbia sale, chiedersi sempre: "Ne vale la pena?". La risposta è inevitabilmente "no", solo che non è facile indovinarla. O forse sarà che il mio motto è "vivi e lascia vivere", e che io lasci vivere è indubbio, visto che amo starmene per conto mio o con quelle poche persone che sono orsi come me, ma talvolta c'è qualcuno che non lascia vivere me e allora sì che mi inalbero, per usare un eufemismo! Siamo sempre lì: io vivo nella mia boccia di vetro, che sarà pure piccola e limitata, ma è la mia bellissima boccia ed io ci tengo molto, ci sto bene. Se qualcuno, o qualcosa, scuote, sposta o rovescia la boccia, per me è un dramma, io fuori di lì non respiro più... In questi momenti penso ad una bellissima poesia, scritta com'è ovvio in un contesto ben più grave e pesante, che recita "...Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata". Lasciatemi così, come un escursionista disperso su un sentiero, o un ciclista lungo una salita, e dimenticato...

Stamattina fatico. Non posso dire di avere il fiatone o di sentire dolore, no; è proprio come se le gambe fossero vuote, senza forza. Ripongo tante speranze nei bastoncini, su cui cerco di scaricare tutto il peso possibile; procedo, ma è chiaro fin da subito che, se oggi voglio giungere a fine giro, devo andare al risparmio. Sento il bisogno di mangiare qualcosa di dolcissimo, ma non una merendina, più una bustina di zucchero, uno di quei disgustosissimi gel iperconcentrati: ma non ho né l'uno, né l'altro. Mi mette ansia questa condizione; se fossi da sola, sarebbe nulla, ma oggi sono in compagnia e rischio di creare problemi anche a Matteo, che è partito con intenzioni bellicose, almeno in fatto di distanza. E pensare che ieri zampettavo in bici senza il minimo problema... Colle della Lombarda prima da Vinadio e poi da Isola, più Colle di Fauniera da Demonte, fino a 4 km dalla cima, quando la pioggia mi ha immediatamente convinta ad una rapidissima ritirata strategica. Forse la mia cotta vien da lì? Ma no...

Camminando a capo chino, non mi sfugge nulla; potrei fare il censimento degli insetti, dei fiorellini dai colori così sgargianti da sembrare finti, ma sono troppo impegnata a badare a dove metto i piedi. Matteo sostiene che sia sbagliato fissare gli occhi sullo spazio troppo vicino alle proprie scarpe; sarebbe meglio camminare guardando più avanti; già, facile a dirsi... Io riesco ad inciamparmi già solo se alzo un attimo lo sguardo al panorama! E ci riesco in salita, figuriamoci poi in discesa.
Cerco con gli occhi la direzione del nostro sentiero: sembra lassù, ma so già che, di solito, quello che sembra un colle non è altro che una sella, e che, più in là, la traccia continua a salire, magari lungo una traiettoria diversa. Mai illudersi che la fine sia vicina; a parte il fatto che per me, più che un'illusione, è un timore: finché sono in salita va tutto bene; è con la discesa che cominciano i dolori. E poi c'è anche il pancino che ci si mette, a far le bizze; a furia disveglie ben prima dell'alba – stanotte alle due e mezza – non riesce più a regolarsi nemmeno lui! Per fortuna siamo en plen air; alla peggio, a quest'ora, solo qualche mucca potrà accorgersi del mio roseo mappamondo al vento.

Sfiliamo sotto la vetta tozza del Mongioie: mi torna in mente la tristissima cronoscalata dello scorso autunno... Dal rifugio alla vetta, 4 km ed un bel po' di dislivello; peccato che le corse brevi e di pura velocità siano, tra tutte le prove non adatte a me, le meno adatte in assoluto. Resta da capire quali siano quelle adatte: ma per questa domanda cercherò risposta la prossima volta, magari. Insomma, in quella gara lì mi son classificata quasi ultima. E ricordo bene che la discesa per la stessa via è stata ben più lunga e straziante della salita... Oggi però tiriamo dritto, niente cima. Ci affacciamo su una vallata costellata di nevai, alcuni ancora molto ampi. Ecco, meno male che avevo detto di non avere alcuna voglia di neve. Il guaio è che quest'anno la neve c'è, niente da fare, e chissà fino a quando resterà. Matteo è alla ricerca di un lago: qui però non se ne vedono. Per me potremmo essere ovunque, ho già perso l'orientamento; in base a cosa la mia guida sostenga che dobbiamo dirigerci verso sinistra, lo ignoro, ma mi fido. Tocca proprio passarli, i nevai; qualcuno tentiamo di aggirarlo, perché la pendenza è tale che, in caso di scivolata, si vince un viaggio premio per la direttissima in fondo al canalone; qualcuno lo attraversiamo, con Matteo in avanscoperta a gradinare con i piedi di taglio, manco fossimo in arrampicata su parete coperta di ghiaccio: in effetti siamo messi molto peggio... Basti pensare che ci sono io!

Ho la sensazione che tutto ciò rallenterà a dismisura la mia già lentissima progressione. Sono quasi sorpresa della calma che fino ad ora non mi ha abbandonata: in altri momenti, avrei già ceduto al panico da un bel po', invece oggi nulla. Forse la fiacca attutisce anche gli impeti dell'animo, oltre alla foga delle gambe. La neve è ghiacciata e scivolosa solo in alcuni punti; in altri cede senza problemi, offrendo quello che a me sembra un sicuro ricovero per il piede. Quanto ai passaggi un po' delicati su sentiero, per dirla con gli scienziati, abbasso il baricentro... Che poi, tradotto nella lingua del volgo, significa che procedo a quattro zampe, spalmata con tutta me stessa sulla roccia.
A furia di pattinare, incespicare e fendere incolpevoli distese di rododendri, riguadagnamo una traccia di sentiero che finalmente ci guida in vista di un laghetto. Bello, anche se ha il colore della muffa. Mi bruciano gli occhi, irritati dal riverbero della limpidissima luce di oggi sulla neve: sarebbe stato saggio portare gli occhiali scuri, ma proprio non ci ho pensato. Non è nella mia natura proteggermi dal sole: io lo amo, il sole! Lo desidero con forza nei lunghi mesi di ore ed ore di buio e raggi freddi...

Dal lago si torna a salire un po'. Alzo il naso verso le cime davanti a me; chissà quale mi toccherà adesso. Prato, nevaio, traccia, ma solo ogni tanto: "Seguiamo il sentiero solo quando lui incontra noi", osserva Matteo. Piano con gli accessi di megalomania, che tra un po' va a finire male, lo sento... Seguo a fatica la mia guida, mi sento come se pesassi una tonnellata. In effetti non è che io sia un peso piuma, ma oggi è proprio una giornataccia. Attraversiamo un nevaio, saliamo ad un colletto: dobbiamo raggiungere quota 2.500, a quanto pare. Dal colletto in su, sono dolori. Il sentiero si impenna, lascia il prato e diventa segno appena accennato nella pietraia; se all'inizio si cammina con fatica, ben presto non si cammina proprio più. Anche qui, è Matteo a fare strada; io davvero non capisco come, qui è tutto uguale. Sarà che sono già troppo impegnata a restare in equilibrio, con i piedi che proprio non riescono a fare perno; piedi, mani, denti, serve tutto per salire quassù. Ma sei sicuro che dobbiamo proprio passar di qua? E, quando mi sembra d'essere quasi al buono... Ecco una pietraia di schegge scure e sottili, che scivolano via sotto i piedi con il rumore che fanno i frammenti di vetro quando i camion della nettezza urbana scaricano le campane della raccollta differenziata; solo, meno fragoroso, ma più subdolo, perché tu appoggi il piede e credi di poter fare forza, e come ti muovi tutto sfarina giù... Certo, è vero, se scivoli qui, ti fermi, giustamente osserva Matteo. Peccato che ometta di precisare che paghi alla pietraia un tributo di strati di pelle che ci lasci! "Era segnato come sentiero"... Meglio che io non risponda. In fondo, dai, non ho nemmeno così paura. La stessa sensazione di prima: non sono terrorizzata come mi aspetterei da me stessa. Affondo le dita tra i sassi, invento curve e controcurve in un'immaginaria traiettoria verso la vetta, scivolo e torno su. L'importante è che io tenga gli occhi ben incollati al terreno. Non devo guardarmi intorno, e nemmeno devo indagare cosa ci sia sotto di me. Altrimenti è finita. E come diavolo sarà la discesa? Se è così, sono ben messa!

Matteo zampetta come se stesse camminando sul pavimento di casa; neanche quello in marmo, dove tutto sommato capita di scivolare, no, un bel pavimento ruvido in pietra grezza, o in cotto. Se non fosse lui, se fosse chiunque altro, l'avrei già catapultato giù nel laghetto, solo per la stizza di vederlo così sprezzante della mia ignobile fatica.
La cima finalmente arriva, anzi no: è una cima, ma non è la nostra. Il sentiero, quello giusto, spunta alla nostra sinistra... Com'è ovvio, passando da lì saremmo arrivati quassù con le mani in tasca. Va bè, dai, è stata un'esperienza. Ora si va alla cima vera, quella con la croce, che è a pochi minuti di marcia davanti a noi, lungo una traccia finalmente agevole. Scruto il cielo, da quassù se ne vede un bel po'; è terso, limpido. Non mi lascio comunque ingannare; le previsioni meteo hanno promesso pioggia e temporali dal pomeriggio e, ormai, difficilmente sbagliano. So bene che, dalla comparsa della prima virgola bianca in cielo, tuoni & fulmini non si faranno attendere molto.

Solo una velocissima sosta per un paio di foto: non è proprio il caso di perdere altro tempo; già quest'incedere lento e faticoso mi mette ansia. Dobbiamo scendere giù per questo ampio vallone, sembra un unico dolcissimo prato, verso il Rifugio Mondovì, che già si vede in lontananza. Vista così, la faccenda pare facile e di tutto riposo: scendiamo seguendo gli ometti, i piccoli ciciu; a volte lungo una traccia di sentiero, a volte nel prato, calpestando piante dalla foglia enorme, larga, che mi dà l'idea di abbondanza di acqua. Infatti l'acqua non manca di certo, tra ruscelli ufficiali, pozze e semplici rigagnoli. Sulla destra all'improvviso si apre la vista su... Un paese: per un attimo resto a fissarlo incredula. Dev'essere Frabosa, dice Matteo. Non so perché, ma a me par di vedere una di quelle città del futuro, tutte torri e strade sopraelevate... Insomma, un'allucinazione, non è possibile vedere una città qui in mezzo al nulla, quando già camminiamo da un bel po' e non abbiamo ancora incontrato anima viva! Solo i camosci che corrono su e giù per i nevai, traditi alla vista dal mantello scuro che risalta sulla chiazza immacolata. Sarà la stanchezza, o forse la quota.

La discesa verso il rifugioè eterna, interminabile. E' sempre così in montagna: ciò che pare facile da raggiungere in quattro e quattr'otto, di solito in realtà richiede un tempo interminabile per arrivarci... E quando è possibile raggiungerla, quella meta, va già di lusso! Camminiamo, e camminiamo, e camminiamo; sembra di scendere ma non c'è verso di vedere quel puntino là in fondo gonfiarsi. Resta piccolo, irraggiungibile.

La prima forma umana che incontriamo è un personaggio chino a trafficare in mezzo ad una distesa di quelle piante con la foglia larga. Chissà cosa raccoglie? Mi viene in mente che lì sotto possano esserci solo sanguisughe... Rododendri e cardi si fanno beffe dei miei polpacci scoperti; tra il prato ed il solco della valanga, che adottiamo come sentiero, di scendere non ne posso proprio più. Invece, mio malgrado, mi tocca anche il guado acrobatico del torrente. Di fronte a me, dall'altro versante della valle, vette arcigne che spuntano fuori dalle pietraie; non so dove si vada ora, ma di certo non lassù. Punto dritto verso la strada sterrata, popolata di camminatori più e meno seri, escursionisti con la pancia, della comunissima specie "da tavola", e viandanti oberati di zaini dalle dimensioni inquietanti. Penso al mio zainetto semivuoto: ormai io ho fatto il gran salto; in montagna vado solo più con scarpette da corsa e bagaglio super leggero. Ma che diavolo ci mettono in quegli zaini... L'intera batteria di pentole?

L'ultimo guado appena prima del rifugio. Non mi preoccupo, in fondo fa caldo: non riuscirei a mantenere l'equilibrio sulle pietre; non ci provo nemmeno, metto i piedi a bagno e via. Fa persino piacere adesso: infatti c'è qualcuno che è d'accordo con me... Uno splendido massiccio Labrador che, sdegnoso delle coccole, si tuffa a mo' di sottomarino in ogni pozza che incontra sul percorso. Un po' meno convinto è Matteo: lui il guado sulle pietre l'ha tentato, ma con esito infausto e soprattutto umido.

Confesso che una cioccolata calda mi farebbe tanto tanto piacere... Ma sopprimo il pensiero distogliendo lo sguardo dalla porta d'ingresso del rifugio: insomma, non ci si può mica lasciare andare a simili debolezze! Le consumazioni in rifugio costano, credo giustamente, uno sproposito – chissà quale spesa e quale disagio per portare tutta la mercanzia fin quassù! - e poi non si può mica perdere tempo così. C'è chi sostiene che la montagna vada gustata con spirito contemplativo, ma io non sono per niente d'accordo: una volta che le gambe si mettono in moto, preferisco evitare, per quanto possibile, di fermarle o anche solo rallentarne il lavoro, fin quando non si rientra alla base.

Ci sono due tracce di sentiero; per fortuna, si prende quello che, sulla sinistra, va in salita. Seguo, anzi precedo, Matteo che mi cede sempre il privilegio di impostare l'andatura. La fiacca non mi molla, ce l'ho sempre lì appollaiata sulla spalla, ma mi difendo, cercando di non farmi saltare il cuore in mezzo alle orecchie. Questa salita è breve, ancora baciata dal sole; qualche tornantino e la tentazione di lanciarmi all'inseguimento degli escursionisti che vedo poco più in su. Per la verità, spesso è come sparare sulla Croce Rossa: del resto, questi sono gli avversari che posso permettermi io... Le vittime degli insulti del tempo e degli eccessi di polenta e salsiccia! Senza contare che, comunque, anche questa categoria include eccezioni che potrebbero farmi mangiar la polvere in qualsiasi momento. Oppure le famiglole: anche se, ad onor del vero, incontriamo tra gli altri una bimba dall'aria molto combattiva, per nulla intimorita dal guado del torrente, di certo molto meno afflitta della mamma. Si sale ancora, su percorso irregolare, che un po' spiana e un po' salta; c'è ancora qualche tratto su neve. Osservo una bella escursionista con la pancia scoperta ed un po' la invidio: Matteo suggerisce che anch'io dovrei cedere all'esibizionismo, ma il mio esibizionismo prende coraggio solo a livello del mare, o poco più su, nelle ore più calde delle più calde giornate estive. Oggi indosso canotta traforata, maglietta e manicotti: rabbrividisco al solo pensiero della temperatura dell'aria sulla pelle nuda a quota duemila e rotti. Non credo che il mio pancino apprezzerebbe, né i miei bronchi.

Il colle – Porta Sestrera, se non ho capito male – è una sella dolce ed erbosa. Matteo punta il naso in su, alla ricerca di una vetta su cui forse si potrebbe salire: io però già da un'oretta tengo d'occhio le nuvole che si stanno gonfiando velocemente alle nostre spalle. Già al Mondovì avevo notato una virgoletta bianca... E, memore delle previsioni meteo che annunciavano temporali nel pomeriggio, sono già un po' in agitazione. Per fortuna, la mia guida si volta, stupisce e concorda: meglio scendere direttamente al Rifugio Garelli. La costruzione si intravede poco dopo l'inizio della discesa: grossa, scura, sembra formata da tre triangoloni addossati l'uno all'altro. Beh sì, non è che sia una bellezza. Scendo con un po' di preoccupazione, perché non so bene cosa ancora mi attenda, ma ho la netta sensazione che sarà comunque marcia all'umido. Anche qui non manca la compagnia: gente sparpagliata sui sentieri, ma soprattutto, orrore orrore, stuoli di merenderos che affollano il prato intorno al rifugio come un variopinto formicaio. Quintali di pance e salami di lardo spiattellati ovunque senza pudore... Che spettacolo raccapricciante! Ma in fondo è meglio così, a pensarci bene... Significa che la gente non si cura troppo del giudizio altrui!

Matteo ed io facciamo rifornimento d'acqua al torrente. Chissà se qui il cellulare prende? Potrei mandare un messaggio a casa... Già, il cellulare. Dov'è il cellulare? Faccio due più due... Non ci metto molto a realizzare che lì dove l'avevo messo, nella tasca laterale dello zaino, non c'è più. Scavo nella parte interna, ma senza convinzione; ricordo perfettamente di averlo spostato nella tasca esterna per averlo a portata di mano. Sarà saltato via chissà dove... Ma porca miseria, è l'ennesimo telefonino che mando in malora nel giro di un anno. Meno male che l'ultima volta, alla Metro, ne ho comprati due al prezzo infimo di uno, approfittando dell'offerta; almeno non ci perdo gran che. Sarà il caso di bloccare la scheda? Mah. Osserva giustamente Matteo che, con tutta probabilità, non lo troverà nessuno; se poi qualcuno lo trovasse, trattandosi di viandante con la passione dei monti, difficilmente sarà un farabutto che approfitta del mio contratto per fare un paio di telefonate da qui alla Terra del Fuoco... Pace, non ci penso più, tanto è inutile arrabbiarsi. Finché i guai sono solo di questa entità, va tutto bene.

Fendiamo il mare di merenderos, impegnati a rosolarsi a quel che resta del sole, e prendiamo un sentiero che piega verso sinistra in uno splendido ampio vallone profondo. La linea chiara del sentiero percorre, sempre più o meno alla stessa quota, la testa della valle e poi continua, dall'altro versante, scendendo poi verso chissà dove; è lì che dobbiamo andare noi? I miei occhi seguono un percorso ideale per tagliare il curvone ed attraversare il vallone per via più diretta; mi sa però che l'impresa sia alquanto impervia. Ma non ha importanza; la nostra direzione, spiega Matteo, è diretta, verso la testa della valle. Raggiungiamo un laghetto sormontato da un ampio nevaio... Da qui, il nulla. La cartina di Matteo indica un sentiero che porta, appunto, verso la testa della valle, ma, a perdita d'occhio, vediamo solo neve, rododendri ed un'immensa pietraia. Lassù, indica la mia guida: lassù... Tento invano di seguire il prolungamento del suo dito, ma tutto quel che vedo sono vette aguzze e pendii orrendamente ripidi. Lassù dove? Che diamine stai dicendo? No, aspetta un momento, ragioniamo. Sfodero sguardo implorante, vocina querula ed atteggiamento da cane bastonato: chissà che non riesca in questo modo a suscitare pietà... Ma non si può tornare indietro ed imboccare una via alternativa? Sì, si potrebbe tornare al Garelli, su fino al colle e svalicare da lì... Ecco, allora, almeno lì c'è un sentiero definito, l'abbiamo già percorso, non dovremmo correre rischi. Guardo salire dal fondo della valle i nuvoloni gonfi e grigi che forse a me sembrano più minacciosi di quanto siano in realtà, li vedo correre, arrotolarsi, allungare i tentacoli verso la fetta di cielo azzurro che ancora ci sovrasta. E se ci arrivano addosso mentre attraversiamo la pietraia? E se scoppia il temporale proprio mentre siamo quassù? Tutti pensieri che provo ad esprimere, smozzicati... Matteo sembra proprio deciso. Io no, assolutamente no, combattuta come sono tra la razionalità e la paura, tra la fiducia nell'esperienza di Matteo, di certo superiore alla mia, e la profondissima sfiducia nel mio equilibrio. Va bene, cedo senza opporre resistenza. Tanto non è che abbia molta scelta: se anche mi ammutinassi, non saprei tornare all'auto da sola, nemmeno per la via alternativa.
Matteo guada il laghetto e si lancia su in mezzo ai rododendri, seguendo una traccia ideale che vede solo lui. Io ci provo, ma di fatto è come se muovessi due passi avanti e tre indietro: mani, piedi, bastoncini, quasi quasi anche i denti, tutto vien buono per cercare di avanzare in questo mare di rami, foglie e spine che mordono i polpacci. Mi rammarico di aver indossato i pantaloni ¾ anziché quelli lunghi. L'agitazione cresce: più avanzo e più la testa della valle si allontana; Matteo ogni tanto sparisce dietro un balzo di roccia, io snocciolo nella mia mente i più orrendi improperi, ed è solo per mancanza di fiato che non do loro voce. Che diavolo ci faccio qui? Ma chi me l'ha fatto fare? Calma, Gian, calma e sangue freddo, perché qui se ti saltano i nervi è fatta. Insomma, Matteo non è mica un novellino, e nemmeno un incosciente; saprà ben quello che sta facendo. Sì... Però temo che non sempre si renda conto di quanto tragica sia la mia condizione, e di quanto nulle siano le mie doti, fisiche e di coraggio, in queste condizioni. Di male in peggio, poi, quando passiamo dalla vegetazione alla pietraia: immensa, infinita. massi enormi che stanno lì da chissà quanto tempo, ma guardacaso muovono proprio se io ci metto sopra il piede. Ho i nervi a fior di pelle, procedo a stento, a quattro zampe, appoggio mani, piedi, ginocchia, didietro, e davvero non capisco come sia possibile restare in posizione eretta qui sopra. I nuvoloni avanzano, certo molto più in fretta di me. Matteo, se sono qui è proprio solo perché ti voglio bene... Ma tanto... Perché se tu fossi chiunque altro, ti avrei mandato al diavolo, già da un po', me ne sarei andata a costo di ripercorrere tutta la strada già macinata oggi, a costo di fermarmi al rifugio e restare lì fino a miglioramento delle condizioni meteo. Spero che tu lo capisca, questo! Lui si ferma spesso, mi aspetta, chissà se mi legge nel pensiero; secondo me sì, ci legge qualcosa di spiacevole. Lassù, o forse no: il dubbio coglie anche lui, che ritratta almeno un paio di volte prima di sentenziare, per certo, che la nostra direzione è il canalino davanti al nostro naso, sulla sinistra guardando verso la testa della valle. Ecco, perfetto, nel caso non fossi già abbastanza terrorizzata. Se noi andiamo fin lassù, e poi scopriamo che non è la via giusta? Elementare, secondo Matteo; torniamo indietro ed andiamo a ripassare dal Garelli.

Indietro? Tu sei pazzo, caro mio... Ridiscendere, riattraversare la pietraia? No, non sarà possibile, perché nel frattempo i primi fulmini avranno fatto giustizia di noi, e poi io da qui non scendo più, non mi muovo più, vado rassegnata incontro alla fine della mummia di Similaun! Almeno un giorno qualcuno pagherà per vedermi...
Lascio la pietraia con un sospiro di sollievo che mi si strozza in gola. Il salto che mi separa dall'ipotetico colle lassù è una roba approssimabile al verticale. Matteo ci si butta con la noncuranza di chi sta uscendo a passeggio col gelato; mi ci butto anch'io, di rabbia, con la paura che ormai la fa da padrone; mi aggrappo a tutto, anche ai fili d'erba, muovo un passo, scivolo, salgo ancora, e guardo in su, ma il colle non s'è mosso di un millimetro, Sembra impossibile, sembra una congiura, più salgo e più mi resta da salire; forse dovrei vergognarmi ma ormai non trattengo più i singhiozzi... Ho paura del vuoto sotto di me, delle scarpe che non fanno presa, delle dita che non sanno dove conficcarsi, e del colle che potrebbe non essere il colle... Tornare indietro di qua? No, davvero questo sarebbe impossibile per me, tanto varrebbe spiccare un balzo ed atterrare di testa! Mi vien quasi rabbia a guardare Matteo che sale su come una capra, mi chiedo quanto mi tratterrò ancora dal coprirlo di miserie. E non ne avrei alcun diritto, visto che, dopotutto, quassù sono salita da sola, non certo con il fucile puntato nella schiena. Avrei dovuto rifiutarmi. La prossima volta mi rifiuterò. Anzi no, non ci sarà una prossima volta, giuro, mai più! Basta montagna, basta sentieri, basta cacciarsi in queste situazioni del cappero, basta, se io arrivo viva lassù, giuro che le uniche salite che frequenterò da qui in poi saranno le scale mobili all'Ikea!

Insieme al controllo, perdo via via quel poco di equilibrio che mi resta, tanto che il mio compagno di sventure, più volte, scende a fare sicurezza per l'appoggio dei miei piedi. E non è che la cosa mi conforti, tutt'altro: così la paura raddoppia; se dovessi scivolare, trascinerei con me anche lui, che, pur con tutta la fiducia, non credo sia in grado di arrestare la caduta libera di un grave tanto grave come la sottoscritta.
Sono ormai sull'orlo della crisi di nervi quando lo vedo in piedi sul colle. Con il groppo in gola, dopo un attimo di esitazione, chiedo se sia proprio questa la via giusta... Sì, lo è. Per un attimo mi si ferma il cuore. Ai polsi ed alle caviglie spuntano mazzi di palloncini colorati, gonfiati ad elio che mi fanno superare l'ultimo metro senza la benché minima fatica; spariscono le nuvole, il canalino diventa d'improvviso una distesa piatta come un biliardo, oserei dire persino asfaltata... Matteo mi abbraccia, ha fatto finta di nulla finora, ma so che era preoccupato pure lui. E già comincio ad odiarlo un po' meno, ed anche la discesa in mezzo al prato, ripida ed un po' sconnessa, mi sembra una sciocchezza, anche se la mia guida si affanna ad assicurarmi che "migliora". Ma no, non importa, se sono sopravvissuta alla salita tragicomica, sopravviverò a qualsiasi cosa.

Capanna Saracco-Volante: e dire che c'ero già stata... Ma continuo ad avere il dubbio che "Volante" sia un aggettivo di "Saracco", ma allora cosa diavolo sarà un "Saracco"? Mah, non importa, non è fondamentale adesso. A fugare i miei dubbi provvederà Wikipedia. Bisogna salire, e in fretta; il cielo non sembra voler pazientare ancora molto. Tra poco, reclamerà giustizia.

Accanto alla capanna, due curiosi personaggi intenti a prendere il sole: già, ma quale? Tra un po' Giove Pluvio dà inizio alle danze, altro che sole! Ci affrettiamo lungo la breve e facile salita al Colle del Pas, dove ancora una volta sbuffo e soffro: ma ormai è finita. Ci avvolge la nebbia nella lunga discesa, parte su sentiero, parte attraverso un ampio pianoro, il Solai, dove fedelmente seguo Matteo che deve avere nascosto da qualche parte un GPS.
Memore di altri incontri del tutto casuali in posti lontanissimi sia da casa mia che da casa sua, faccio notare a Matteo: "Oggi non hai ancora incontrato nessuno che conosci!". Come per magia, in mezzo alla nebbia spuntano quattro ombre che ci vengono incontro e salutano... Come non detto. Mentre loro chiacchierano, io ne approfitto per una foto ad un masso che pare in equilibrio molto precario. Poi la lunga discesa, bella ripida, che sarebbe molto ma molto bella nell'altro senso. Si vede tutto il vallone, finché poi non ci si immerge nella pineta. Confesso che ho voglia dell'auto: un po' per l'eccesso di emozioni, un po' per questa fiacca che mi annienta. Non è male alle gambe, è proprio sensazione di vuoto, mal di testa, debolezza. Da Carnino si potrebbe poi andare a Viozene via sentiero: ma è un'ipotesi che scarto subito. Matteo non insiste: se una volta ha scampato il linciaggio, di oggi, è comunque meglio che non sfidi troppo la sorte, Asfalto, voglio solo l'asfalto; si parte, di buon passo, sette, otto chilometri di puro grigio amatissimo bitume fino a Viozene. In fondo io sono nata come corridora da asfalto e non disdegno di tornare ogni tanto al mio primo amore, così inviso agli escursionisti puri. Superficie regolare, non si corre il rischio di inciampare, niente movimenti né appoggi strani... Procediamo di buon passo; ora che la salvezza è stata raggiunta, ho ritrovato tutto il mio buon umore. E ritrovo anche un bel coltellino svizzero, perso sul ciglio della strada da chissà chi: eh bè, ho abbandonato tra i monti il cellulare, ma ho guadagnato un Victorinox, insomma, meglio di niente. Camminiamo lungo il vallone fondo, aspro, scuro e minaccioso; l'enorme galleria che all'improvviso ci si para davanti ci lascia di stucco. Una galleria immensa, ancora in costruzione... Per tagliare una curva, lungo una strada dove passeranno si e no gli abitanti qui delle frazioni? E poi, per evitare una curva che non è altro che un'agilissima, tranquillissima curva? Per risparmiare cento metri? Ci sfugge il senso di tutto ciò, ammesso che un senso ci sia. Oltre la curva, due operai appesi alla volta manovrano rumorosissimi strumenti che incidono la pietra; più avanti, macchinari imponenti parcheggiati a bordo strada, uno spiegamento di mezzi e forze e risorse economiche che, visto così, sembra davvero assurdo. E poi una grotta lassù, sospesa a metà parete dall'altro versante della valle: Matteo la punta, per deformazione professionale; già, ma come ci si potrebbe arrivare? Forse con un elicottero... No, non fa per me, io mi accontento di arrivare, dopo circa 45 km di marcia e poco più di 3000 m di dislivello, a Viozene, alla Opel, di scolarmi il tarocco di Red Bull per combattere i postumi della sveglia alle due e mezza, e, di lì in poi di tenere a bada i morsi della fame fino a casa. Il piacere della scoperta lo lascio volentieri a qualcun altro!