sabato 27 marzo 2010

27 marzo 2010 - Trail Autogestito "Dalla Guardia alla Guardia"

Dover cedere il volante e rassegnarmi al ruolo di passeggero è un amaro destino che spero sempre di poter evitare: non si può certo dire che io sia una gran pilota, ad onta del mio cognome, e nemmeno che io sia sempre irreprensibile e prudente ed attenta alla strada; però, se guido io, ho la situazione più o meno sotto controllo, o almeno questa è la mia sensazione. Non così quando lo scettro del comando spetta ad altri: passo dalla strisciante inquietudine, se l'automobilista di turno si dimostra cauto e rispettoso della serenità del mio stomaco, al terrore panico se chi siede alla mia sinistra dà l'idea di non curarsi troppo dei punti della sua patente. Per carità, non posso dire di non essere stata avvertita. "Tu trovati al parcheggio di Mondovicino alle 5.10, e vedrai che un'ora dopo siamo a Varazze", mi ha scritto Isacco ieri sera via messaggio sul cellulare. "Naturalmente guiderò come un criminale", ha aggiunto. Lì per lì, il piano d'azione non mi è sembrato così malvagio... Ma adesso mi sento rinchiusa in una di quelle automobiline impazzite nei videogiochi, vedo la strada strettissima davanti a me per la velocità: braccia tese allo spasimo, unghie conficcate nella maniglia della portiera, piede destro che si tende nella vana ricerca di un pedale del freno inesistente... E consapevole che questa macchinina su cui stiamo per decollare, una via di mezzo tra la 313 di Paperino ed una scatola di sardine, potrebbe offrire ben poca protezione nel malaugurato caso di incidente. Quando viaggio sul sedile del passeggero, mi sforzo di soffrire in silenzio, ma questa volta non ce la faccio. Tengo famiglia, ho una mamma ed un meraviglioso cagnone che mi aspettano a casa; con buona pace dell'orgoglio, quasi imploro: "Dai non fare il cretino, vai piano!". Ecco, l'ho detto... Mi sa che l'ha capito, poverello, che ho paura sul serio, perché rallenta all'istante la corsa della Cinquecento. Ed io a masticare rimorso: pena del contrappasso... Sono stata io stessa ad infliggere a lui il più disgraziato dei miei viaggi in auto, l'unico in cui abbia mai causato un danno alla povera Opel – solo una strisciata, per fortuna – e l'unico in cui abbia rischiato di schiantarmi, anzi di schiantarci, per ben due volte. Mi sento un po' come quella che ha colto la pagliuzza nell'occhio altrui, ignorando la trave nel proprio...

Inspiegabilmente, alle sei e dieci siamo a Varazze, vivi e illesi. Parcheggiamo alla stazione la trappola per topi, poi di gran carriera andiamo a caccia del Municipio: attraversiamo la stradina centrale del paese, in mezzo alle vetrine, che fa da galleria del vento e c'investe di aria gelida, da brividi. La giornata si annuncia serena e chissà, forse anche calda, ma solo tra qualche ora... Il manipolo di arditi è già al gran completo: imboscati al riparo sotto il colonnato dell'edificio, cinque bipedi e due quadrupedi: Lorenzo, il capobranco, Giuseppe, Enzo, Roberto, Mario, Billi e la piccola Dori. I miei occhi son tutti per loro, è ovvio: per Billi, in ottima forma, il pelo nero corto sempre lucidissimo, che smania per partire, e per Dori, piccolina, bianca, quasi timida. La cagnetta dalle sette vite, sopravvissuta ad un volo di ben quattordici metri giù da un ponte sotto cui passa la ferrovia... Frizzi e lazzi per allietare il risveglio degli indigeni, un buon caffé e poi via, si parte: alla nostra destra, ma ben più in alto, la prima meta intermedia, la chiesetta della Madonna della Guardia. Dovremo raggiungere poi, alla fine della gita, un'altra Madonna della Guardia, più rinomata, quella sopra Genova. Ma là non sono mai stata; qui invece, alla Madonnina della Guardia, sono salita una sera di quest'inverno con Matteo. Un posticino stupendo.

Ho una gran voglia di partire, camminare, far fatica. Eccola, la mia solita euforia. Ci avviamo in branco lungo una stradina asfaltata, faccia alla montagna, sulla testa il viadotto dell'autostrada. Fiato alle trombe, finché ce n'è, per ridere e chiacchierare; ben presto abbandoniamo la strada per arrampicarci su per una ripida scalinata: il fiato cede il passo, almeno per me, al soffio di un mantice; alla fine della prima rampa, sono già in debito di ossigeno. Non così i quadrupedi: finalmente liberi dal guinzaglio, schizzano su come proiettili, soprattutto la piccolina, che sembra davvero un missile terra-aria. Purtroppo non ho le loro zampe; ne ho solo due, molto più lente e pesanti... Così, a capo chino, posso osservare con calma gli scalini e le pietre ricoperti di muffa, talvolta persino scivolosi. Passiamo accanto a recinzioni di giardini e muretti in pietra, c'impigliamo ogni tanto nei rovi. Qua e là scoppiano liti canine furibonde, con Billi che, libero come l'aria e forte del gruppo di umani che lo protegge, sbeffeggia con fare da bullo i grossi e feroci cani da guardia rinchiusi dietro reti ed inferriate. Enzo tira la comitiva con un passo che per me, soprattutto all'inizio, così, a freddo, è quasi insostenibile: ma non sia mai che io rinunci senza combattere almeno un po'. Sento il fiato degli avversari sul collo: manco fossimo in gara...

Ci lasciamo alle spalle anche le ultime case: la vista si apre, spazia sulle alture, senza più alberi né arbusti; ci incamminiamo lungo una strada sterrata che a tratti diventa un grosso sentiero, mezzo allagato, un mare di pietre e fango. Nella conca alla mia destra, alcune costruzioni: è una discarica, o meglio, è quel che resta di una discarica, dopo la chiusura. In effetti, tutt'intorno si vedono pezzi di borse di plastica, e poi il naso non tradisce... L'odore della discarica è inconfondibile. Certo, non si può dire che tutto ciò sia bello: ma è inevitabile, con buona pace dei cosiddetti ecologisti, che "la discarica no, l'inceneritore meno che mai", ed evidentemente i loro rifiuti se li mangiano.

Il sole quassù fa sentire il suo tepore. Arriviamo alla chiesetta e passiamo oltre, senza indugio, lungo la strada sterrata, sempre preceduti dai due cagnotti che, a fine giornata, avranno incamerato almeno il doppio dei km di noi camminatori: si rincorrono, piantano il naso ovunque, spariscono e poi ricompaiono all'improvviso; talvolta, schizzano in mezzo alle caviglie, roba da mandarti a gambe all'aria. Non basta la salita a mettere a freno le lingue; in compenso, basta la breve discesa a farmi rotolare ignominiosamente al fondo del gruppo: mentre studio con cautela ogni punto d'appoggio, la valanga umana mi travolge e se ne va. E' solo grazie a qualche metro d'asfalto che torno a guadagnare la mia posizione.

C'infiliamo tra le case di una piccola frazione, un gioiellino, con il solito indicibile frastuono, canino ed umano, che, ne sono certa, riempirà di gioia i residenti, mentre Roberto racconta di un suo recente viaggio oltre il Circolo Polare Artico ed in particolare di un albergo tutto di ghiaccio... Lo ascolto con orrore, io che adoro il clima torrido umido delle estati nella conca carmagnolese, umida ed asfissiante. Ad un tratto, improvvisa, un'immagine già vista: strada asfaltata, un bivio, Le Faie. Ci son già passata, da queste parti, ci sono stata in bici! Oltre le case, una strada sterrata, dapprima ampia, che poi va restringendosi a semplice sentiero. C'infiliamo ancora nel bosco; Billi e Dori si sbizzarriscono, spariscono di qua, ricompaiono di là... Ad essere sinceri, fremo per loro; non permetterei mai che il mio cane se ne andasse a zondo senza guinzaglio. Ma è anche vero che io sono una mamma ansiosa al limite del paranoico; ho il terrore che a Skipper possa capitare un incidente. I latrati si spostano ai quattro punti cardinali; non si riesce mai a capire dove si siano infilati i due piccoli satanassi. Fango e umidità ovunque; sembra proprio che oggi l'acqua non ci mancherà. Ho con me una borraccia minuscola, più o meno il contenuto di un bicchiere, ma potrò riempirla spesso.

Tutti fermi. All'appello manca un componente della banda: non c'è più traccia della piccola Dori. Billi arriva, di gran carriera, lungo il sentiero, di fronte a noi, ma è solo. Strano, perché Dori, per quel che ho potuto osservare, non si allontana mai troppo dal padrone. Enzo decide di tornare indietro a cercarla, e Roberto con lui: il resto del gruppo, cinque umani ed un quadrupede, si rimette in marcia. Sono preoccupata; sarei tentata di tornare indietro anch'io. Non mi intrometto, ovvio, nelle relazioni cane – padrone che non mi coinvolgono, ma mai e poi mai permetterei che il mio Skipper se ne andasse libero per boschi. Sono già inquieta quando lo porto al guinzaglio: temo aggressioni canine, bocconi avvelenati, insomma, sono una mamma iperprotettiva ed ossessiva! Sono quasi tranquilla solo nel chiuso del mio giardino...

La salita ci riserva ben presto una sorpresa che ci spiazza un po'. Uno dei tanti torrentelli che attraversano il sentiero è gonfio a tal punto che non s'intravede possibilità di attraversarlo senza bagnarsi i piedi, e parecchio, anche. Mi assale il terrore: troppo fresco il ricordo del mio rocambolesco guado, con la corrente forte e gelida fino alle ginocchia... Qui, occhio e croce, la situazione sembra meno drammatica, ma toccherà comunque riempirsi le scarpe d'acqua e restare per tutto il giorno con i piedi a mollo.
La soluzione arriva come un fulmine a ciel sereno. Non so nemmeno chi sia il genio, tra noi, ma una voce intima di togliersi le calze e le scarpe. Passare a piedi nudi? Un attimo di incertezza: l'acqua limpidissima lascia ben vedere il fondo di ciottoli e terra; non sembra nascondere insidie per le piante dei poveri piedini. Giuseppe e Mario sono già all'opera; accolgo l'illuminazione e provvedo anch'io a slacciare le scarpe. "Cavoli, non mi sono data lo smalto...". Lo dico con tono scherzoso, ma un po' di rammarico lo provo davvero; ho timore che le mie unghie nere, martoriate dalle scarpe da corsa e pure da quelle da bici, possano suscitare disgusto. "Neanche io mi sono dato lo smalto, guarda...", ribatte il buon Mario. Ah bè, allora siamo in due...
Il manipolo di eroi affronta d'impeto la furia delle correnti. Soprattutto, il gelo delle correnti. Se anche posassi il piede su un gomitolo di filo spinato, non me ne accorgerei; la sensibilità è andata. Guaiti, ululati e bestemmie in antiche lingue asiatiche accompagnano la breve eppure interminabile traversata. Poi il rito si ripete al contrario: su le calze, su le scarpe e via, di gran carriera. Ora il sentiero ha davvero l'aspetto di sentiero. E il sole si sente sulla schiena, anche se poi si va a bagno ancora qualche volta, in torrentelli un po' meno impetuosi; ringrazio le scarpe in GoreTex, che non lasciano passare nemmeno una goccia, e non è solo quel che dicono alla pubblicità, è proprio vero!

A Prariondo, manco a dirlo, siamo immersi nella nebbia. Ci avvolge pian piano, lungo la ripida salita; nebbia pesante, fitta, che mi fa tirare su i manicotti e chiudere per bene il colletto del gilet antivento. Anche il resto della comitiva ha avvertito l'effetto del brivido: in un attimo, spuntano felpe, berretti e guanti lunghi. L'ultimo a cedere alla debolezza dell'uomo mortale è Lorenzo, che fino all'ultimo resta imperterrito in canotta, tanto da farmi avanzare l'ipotesi che si sia rivestito, prima di partire, di un sottile strato d'amianto. Alla fine, però, capitola anche lui. Peccato; la canotta bianca non era affatto uno spettacolo malvagio, tutt'altro! Ma tanto, ormai, qui non si vede più un tubo...
Sfiliamo davanti al rifugio di Prariondo: il cuore non può che andare al bicchiere di the caldo che un volontario, spuntato dalla nebbia come una visione paradisiaca, mi porse durante il magnifico Gran Trail Rensen di due anni fa. Pioggia e nebbia fitta, quel giorno, ben peggio di oggi, e vento gelido, e l'angoscia di non riuscire a portare a termine il percorso, in quelle condizioni. Non vedevo nulla di nulla, con gli occhiali appannati e gli occhi miopi; se non fosse stato per l'aiuto di un concorrente che mi ha segnato la strada, sarei stata incapace di muovermi. E viene spontaneo pensare all'edizione del GTR di quest'anno, che al momento è in forse, perché l'entusiasmo pure sconfinato del buon Lorenzo, il creatore della corsa, da solo, non basta...

Trottiamo tutti lungo questo tratto, quasi in piano, dell'Alta Via. Un paio di nevai ci rallentano la marcia: per me, poi, è una catastrofe... Laddove il resto della ciurma segue senza problemi la linea della strada, incurante della pendenza impressionante della superficie, io preferisco seguire l'itinerario del saggio Billi ed andare ad aggirare i nevai "da sotto"; poi, che faticaccia per riguadagnare il terreno perduto...
Il panorama, da quassù, sarebbe splendido, se solo ci fosse dato di vederlo. Invece troviamo la neve, che è solo un assaggio di quel che ci toccherà poco più avanti. Il pianoro lerboso, uniforme, lascia spazio alla roccia, quelle lame di roccia piantate nel terreno in obliquo, e poi ai pini modellati dalla forza del vento, bassi, piegati.
La traccia qui è fango, acqua che scorre, un sottile strato di ghiaccio ancora teso qua e là tra le zolle; la fatica della salita c'impedisce di rendercene conto, ma la temperatura dev'essere di poco sopra lo zero. La neve, in alcuni punti, è durissima e regge il peso della persona: "Neve trasformata", commenta Isacco, come se fosse l'osservazione più ovvia del mondo. Nella mia ignoranza, credo voglia dire che è neve in parte sciolta e poi ricongelata, ma mi censuro, meglio risparmiare il fiato e non inquinare l'aria di boiate.
Sui nevai, manco a dirlo, perdo terreno. Non capisco come sia possibile; i miei compagni continuano a marciare, come se nulla fosse, mentre io inciampo e sprofondo ad ogni piè sospinto. Eppure non posso essere più pesante di loro... Non sono certo una piuma, ma insomma, c'è un limite! Quasi mi meraviglio quando il piede resta su; il più delle volte, sparisce nella neve, che, con la sua crosta gelata, mi graffia i polpacci, senza misericordia. Per fortuna, il freddo anestetizza il dolore. Annaspo ed ho paura: non tanto perché il gruppo è già sparito tra gli alberi, da un po' – restano pur sempre le loro orme da seguire – ma perché temo di cadere malamente e lasciarci qualche ossicino, che so, qualche tendine... Tutto potrei rompermi, ma le gambe sono la cosa più preziosa che ho! E troppi sogni in testa, sogni di corsa e di bici; inorridisco al solo pensiero. Il cuore impazzisce in quei punti in cui la neve è evidentemente sospesa rispetto al terreno, forma un arco, magari su un rigagnolo o tra due rocce; lì non riesco a capire dove sia il confine, dove il manto bianco torni ad appoggiarsi saldamente sul terreno; e poi, se finissi con la gamba a reggere il peso su un punto del genere, ma nascosto? L'ansia moltiplica i rischi; spesso mi fermo, esito, finisco per buttarmi in avanti malamente, per la fretta di raggiungere gli altri, per non farmi aspettare, e pazienza se il ghiaccio ed i rami che spuntano mi s'impigliano addosso, mi graffiano. Di tanto in tanto, in lontananza, spunta la testa di Isacco, forse l'unico che può rendersi conto delle mie difficoltà abnormi, perché in montagna insieme siamo già stati, qualche volta. Mi maledico per la mia inettitudine, maledico il momento in cui ho aderito a questa giornata, e, al contempo, mi sforzo di tenere i nervi sotto controllo, dare un'impressione di calma...

Due edifici in pietra, una fontana, il gruppo lì fermo e riunito. Visione celestiale: mi ci avvicino, sempre incespicando e sprofondando; nessuno mi fa pesare la mia insostenibile lentezza. Anzi, approfitto io stessa di una breve pausa. Poi si riparte, e ancora una volta rotolo in fondo al gruppo; ancora neve, troppa. Ancora nebbia, rumore d'acqua che scorre, gocciola dai rami; le voci allegre della compagnia che mi giungono da lontano. "Adesso prendiamo l'asfalto": poche parole che mi levano un enorme peso dal cuore. L'asfalto, il mio unico vero amore, quel che mi caverà da questo pasticcio! La fame si fa sentire, nel frattempo. Mangio qualche boccone di barretta, in attesa che la nebbia mi riveli la grigia ancora di salvezza: una sbarra sul sentiero, un rifugio. La strada. Un improvviso turbine di latrati e guaiti squarcia l'aria: inferocite, altissime, le voci di Billi e di un altro cane. Lorenzo e Billi sono qualche decina di metri più avanti; mi si blocca il respiro, ho il terrore di vedere il povero Billi nelle fauci dell'aggressore... Il trambusto continua per qualche istante, vani i tentativi di Lorenzo di richiamare il suo pupillo a quattro zampe. Finalmente, arrivo anch'io al piccolo piazzale di fronte al rifugio: un grosso cane, scuro, pacifico, sta seduto proprio nel mezzo, indifferente, come se nulla fosse successo. I Liguri della compagnia lo conoscono già: pare che sia un gran bonaccione con tutti... Ma è maschio, come Billi. E poi, alla fine, viene fuori che il bullo attaccabrighe è stato proprio il nostro compagno di viaggio! Eccolo lì, il manigoldo, che trotta a bordo strada; forse un po' acciaccato, ma non lo dà a vedere.

Asfalto, adesso: in leggera salita, di corsetta, fino al Passo del Faiallo, senza poter vedere altro che pochi metri di strada davanti ai nostri piedi. Tagliamo, via sentiero, ancora un tornante, poi solo più strada, per un po'. Via di corsa, e il gruppo si sgrana subito.. Lorenzo e Giuseppe spariscono nella nebbia; Mario li segue poco dopo. Io rallento un po', perché conosco il mio pollo: infatti, non tardo ad udire il lamento del pastore tibetano; il buon Isacco ha la fobia dell'asfalto, una mania spinta all'estremo, con manifestazioni psicosomatiche che gli fanno percepire dolore alle ginocchia non appena accenna un passo sul bitume. Così, con una costanza che solo una radicata follia maniacale può produrre, si arrangia a correre sui pochi centimetri di erba tra il guard rail e la strada, rischiando tra l'altro di storcersi malamente una caviglia ogni metro. Quand'anche questo minuscolo respiro gli viene sottratto, allora si rassegna e cammina. Abbandonarlo indietro mi dispiace; anche se sono solo pochi chilometri, so che, a parti invertite, mi spiacerebbe restare da sola. Così corricchiamo e camminiamo nella nebbia più fitta che mai: non appena sentiamo il rumore di un motore, ci spalmiamo contro il bordo della strada, perché qui il rischio di essere ignorati e stirati è alto davvero.

Non passa molto tempo prima che ci arrivino alle orecchie le voci dei colleghi. Sono fermi in corrispondenza del punto in cui parte una strada sterrata, in attesa. Isacco quasi si scusa, "E' colpa mia, non posso correre sull'asfalto": mi fa una gran tenerezza, come se ci fosse una colpa da affibbiare a qualcuno. Ma il resto del gruppo non sembra curarsene. E' qualcosa che spesso mi lascia di stucco: io ho sempre la sensazione di dovermi in qualche modo scusare, o difendere da un'accusa, o ancora cercar di evitare che qualcuno sia in diritto di sollevarmi un'obiezione; anche nelle piccole cose, rimesto mille pensieri, e poi spesso va a finire che nessuno aveva nemmeno lontanamente considerato l'ipotesi di rimproverarmi qualche colpa. Vivo sulla difensiva; il guaio è che, purtroppo, spesso è l'unica strategia che paga, e ne ho già avuto anche troppo spesso dimostrazione...

Imbocchiamo al trotto la strada sterrata, ancora tanto fango ed acqua, ma basta neve, per fortuna. Gli alberi sono ancora spogli, senza gemme, ma la terra ha già buttato fuori innumerevoli bucaneve, lilla, teneri e sottili, violette e fiorellini gialli. Se non fosse per queste confortanti presenze, oggi si direbbe una giornata autunnale per eccellenza.
Ci immettiamo per un breve tratto sulla strada asfaltata che dall'Acquasanta sale al Faiallo; strada in salita, non si corre, ma si può approfittare per mangiare un boccone. Mentre armeggio con la barretta ancora confezionata tra i denti, compaiono due corridori vestiti di tutto punto per una gara, dall'aspetto molto combattivo. Chiedono indicazioni a cui rispondono gli autoctoni del gruppo. Poco più su, allo scollinamento, in località Giutte, abbandoniamo del tutto l'asfalto. Ancora strada sterrata. La nebbia s'è alzata; non si può dire che splenda il sole, ma un po' di luce filtra in mezzo al bosco. Lorenzo ed io prendiamo un po' di vantaggio: ma è tutt'altro che facile procedere; il passaggio è invaso da rami ed interi alberi spezzati e crollati a chiudere l'intera via. Un ambiente quasi spettrale: colpa del gelo? Ci vorrebbe un bel lavoro di sega e sgombero... Mi viene in mente una sequenza del bellissimo film "Il Corridore", in cui il protagonista, Marco Olmo, va per sentieri con la motosega nello zaino, a liberarsi il passaggio per potersi allenare di corsa. Noi pigramente ci limitiamo a scavalcare ed aggirare gli ostacoli. Mi accorgo solo ora che Giuseppe ha preso vantaggio. Non l'avevo più visto, pensavo si fosse attardato un po', invece lui ha rosicchiato un bel vantaggio. La strada sterrata è lunga e quasi in piano; si presta alla corsa: faccio del mio meglio, per pietà di Lorenzo che non osa mollarmi lì, ma, di suo, a quest'ora sarebbe già in cima alla prossima vetta, che io nemmeno vedo. E' davvero istruttivo sentirlo parlare della sua esperienza nella corsa in montagna: chissà, magari, tra una trentina d'anni, potrei tornare ad Arenzano ed intervistarlo per scrivere la sua biografia sportiva!

Di colpo, usciamo dal bosco e ci ritroviamo in un ampio pianoro, da cui si gode finalmente una bella vista. Come sempre, ho perso completamente l'orientamento; non saprei dire dov'è che devo aspettarmi di vedere il mare... E comunque non ho tempo di indagare: il sentiero, da qui un vero sentiero, prende a salire in cima a questo collinotto tondo di fronte a me, una scia di terra bianca in mezzo all'erba. Billi fa da apripista, Lorenzo da locomotiva; io dietro, cercando di salvare un po' di dignità. Giuseppe è anni luce avanti; Isacco e Mario sono all'inseguimento. Salita breve, ma aspra, breve tratto in piano e poi, oltre una spalletta del pendio, ecco il fuggiasco, fermo accanto ad una fontanella. L'ultima per un lungo tratto, a quanto pare: ma questo vale per gli escursionisti delicatini di stomaco. Per me non è un problema; mi abbevero a qualsiasi rigagnolo di acqua più o meno corrente; le borracce sono pesanti e fastidiose, non so mai dove metterle.
Il gruppo decide, all'unanimità ed in silenzio, di concedersi una pausa e poggiare le riverite chiappe sull'erba umida. Mi adeguo, in fondo fa piacere anche a me, ma so che la pagherò. Ripartire sarà una pena... A garretti fermi, si mettono in moto le mascelle, per tutti, anche per Billi, che banchetta a crocchette. Festa grande anche per lui: di solito, essendo un cagnotto forte di zampe ma delicatino di stomaco, gli tocca il digiuno assoluto dal primo all'ultimo chilometro di marcia... Il sole è fiacco, appena un lieve tepore sulla pelle, ma il vento mi intirizzisce. Ho le gambe rigide ed un po' congelate quando ripartiamo, il fiato grosso. Ancora bosco, un po' di corsa e un po' di passo; un'infinità di pozzanghere, rigagnoli e torrentelli già più seri, il tallone di chi mi precede sempre a portata di vista, neanche fossimo in gara. Patisco e sconto la pausa.

Lorenzo ci indica, tutt'a un tratto, la meta finale, o meglio, la meta dell'ultima salita. Si vede, contro il cielo, leggermente a destra, il Santuario della Madonna della Guardia sopra Genova, che, al contrario del suo omonimo di Varazze, ha l'aria ben più sostanziosa. So che lassù arriva una cronoscalata in bici da corsa, ma non ci sono mai stata. Un'ora e mezza, più o meno, sentenzia il capospedizione. Ancora un lungo tratto corribile, poi, ahimé, la prima, vera discesa sull'abitato di Lencisa. Quel che spesso mi sorprende è che, per chilometri, queste montagne sembrano deserte, disabitate, dimenticate dal mondo, e poi all'improvviso superi un colletto, svolti una curva e trovi un paese. Purtroppo per me, la vera discesa ristabilisce il giusto equilibrio tra i componenti del gruppo: i quattro umani ed il cane spariscono, ne sento solo più le voci sempre più lontane; io resto indietro, incespico, cerco nei bastoncini quel barlume di stabilità che le mie gambe non possono darmi. Si va giù sul serio: pendenza ripida, sentiero sconnesso, fango, pietre instabili. E come se non bastasse, a tradimento, quella strana sensazione che già conosco per averla provata proprio in altre discese ripide: una specie di capogiro, un senso di freddo, di rumori che sembrano provenire da lontano, anche se è la pietra che rotola sotto i miei piedi... Stare su, e procedere senza danni, richiede questa volta uno sforzo in più. Intravedo i tetti del paese, il campanile, ma ancora troppo lontano; le voci dei miei compari, chissà dove sono svanite. Questa discesa dura un'eternità... Quando arrivo in fondo, nel cuore del minuscolo paese, li trovo comodamente seduti accanto ad una fontanella. Mi siedo anch'io per un momento, mi sforzo di partecipare alla chiacchiera, ma so bene che, se mi rialzassi subito, potrei anche stramazzare per terra. Un po' d'acqua, forse, un sorso di miele... Che sia fame? In effetti, non ho mangiato molto, né oggi né nei due giorni scorsi, reduce dall'estrazione dell'ultimo dente del giudizio, l'altro ieri. Però non ho fame; anzi, l'idea di cacciar giù roba, fosse anche la mia amatissima focaccia, in questo momento mi ripugna.

Osservo a caso tre personaggi che spuntano sulla porta di una casa e di un ristorante; due uomini ed una donna che, a giudicare dal giro vita, assommano in tutto a mezza tonnellata di materia umana. Meglio ammirare invece le case, ben curate e ristrutturate, i ballatoi, persino la piccola 112 che suscita in me tanti ricordi, non sempre lieti. Era l'auto di famiglia, l'unica auto di famiglia, quand'ero piccola. Se penso che oggi, nell'ex famiglia di quattro persone, ora scissa in due alloggi, ci sono quattro automobili... Tutte utilitarie, ma sembrano vagoni del treno in confronto a questa scatolina! Mario, che avanza qualche anno in più di me, ricorda anche il complicato metodo necessario per cambiare marcia, ai tempi: ecco, non si finisce mai d'imparare; non conoscevo il significato dell'espressione "marce sincronizzate".

Ci rimettiamo in cammino: dalla sala del ristorante, esce un gruppo di viandanti da fine settimana, vestiti a festa e probabilmente pieni come uova. Una vite si arrampica su per il colonnato con volute intricatissime del tronco. Già sull'asfalto, la pendenza è severa: il santuario si vede lassù, sopra le nostre teste, e sembra lontanissimo. Mi sforzo di non darlo a vedere, ma nutro qualche dubbio di riuscire ad arrivarci; mi appoggio ai bastoncini non tanto per salire, quanto per reggere il mio stesso peso, quando mi sembra di cadere... Stringere i denti, dai Gian, non manca molto. Abbandoniamo il nastro nero di asfalto sconnesso, per imboccare un ripido sentiero, che torna a spuntare sulla strada, più in alto. Il complesso del santuario, da qui, è già tanto più vicino. Imbocchiamo la via pedonale: qualche scalino, un tratto in cemento, ancora sentiero. Soffro sul serio, adesso; vorrei partecipare al discorso, poter ridere delle battute, ma mi manca il fiato. Passi sempre più corti, per risparmiare le energie; le gambe non vogliono saperne di rispondere, il fiato è sempre più corto, riempe i polmoni ma è come se fosse inutile. Mi rassegno a deporre le armi, già abbastanza spuntate anche in condizioni normali, e mi trascino fino a sentire nuovamente l'asfalto sotto i piedi. Eccoci sul piazzale del santuario: un bazar, ecco cos'è. Bar, ristoranti e venditori di ricordini; turisti e branchi di suore che mi fanno per istinto pensare di compiere il rituale gesto scaramantico, che non potrei compiere nella realtà per mancanza della materia prima da afferrare. Non so se valga lo stesso, prendendo a prestito la materia prima altrui; meglio lasciar perdere...

I miei compagni di viaggio si dileguano nei pochi istanti in cui approfitto del bagno. Quando torno sul piazzale, c'è solo il povero Billi, legato alla panchina e tutto teso verso la porta del locale dove dev'essersi infilato Lorenzo. Provo a tranquillizzarlo a coccole... Un cane non si spiega l'abbandono, non sa che sarà per qualche minuto; quando lo lasci da solo, in un ambiente estraneo, per lui è come se l'avessi abbandonato per sempre: aspetta il tuo ritorno con l'angoscia negli occhi... Ma Billi non è un cane da coccole; le tollera, forse le gradisce per un istante, ma resta comunque sdegnoso. Non è come il mio Skipper, che ad un minimo accenno di parola gentile ti salta persino in testa per la gioia... Anche i cani hanno il loro preciso carattere. Io sono, come si suol dire, più di là che di qua; trangugio volentieri un caffé con lo zucchero, ma nient'altro, mentre il resto della spedizione, a quanto pare, è satollo quando abbandona il piazzale.

L'originario piano di viaggio avrebbe previsto la discesa a Sestri Ponente, percorribile per due vie. Ma qui spunta un'altra volta la fobia dell'ipocondriaco del gruppo: no, guai, l'asfalto no, io mi rifiuto, ecc. ecc. Dodici chilometri di asfalto, mal contati: si potrebbe andare giù in poco più di un'ora... Niente da fare. La mandria opta per il sentiero contrassegnato dal rombo rosso; discesa verso il paese di San Carlo e, da lì, corriera per Sestri più treno per Varazze. Quindi, ridiscendiamo il sentiero pedonale, poi qualche centinaio di metri di asfalto; rapido consulto delle carte e riordino delle diverse opinioni, poi giù lungo un bel sentiero nel fitto del bosco. Sulle prime, nessuno corre: mi sembra troppo bello per essere vero... Poi il passo accelera; ci ritroviamo ancora una volta al trotto. Ma mi adatto, di buon grado; forse il caffé sta entrando in circolo, mi sembra che vada un po' meglio. Ora sì, è quasi fame...

Attraversiamo un grumo di case, un luogo da favola: c'è un minuscolo agriturismo, una cappelletta in pietra, il rumore di una sega e ciocchi di legno accatastati in un cortile. I primi, timidi fiori sugli alberi da frutto: i filari dei frutteti ed i tubi di gomma per l'irrigazione ci confermano che ormai siamo tornati alla civiltà. Gli autoctoni ci osservano con un punto interrogativo negli occhi.
Ancora discesa, ancora un po' di distacco, ma ormai è quasi fatta. Ben presto ci troviamo ancora sull'asfalto, in un paesello appena più grande del precedente. Poche case, una chiesa, la pensilina del bus. Ci abbandoniamo lì, in attesa della corriera. Ma siamo anche troppo viziati, ormai. Aspettare un'ora la corriera è cosa assai noiosa... Ci pensa Giuseppe, che recluta al telefono la figlia: vittima incolpevole, povera lei, delle manie di fatica e distanza del genitore, e della combriccola del genitore. La fanciulla, suo malgrado, verrà a raccattarci con l'auto: siamo tanti, ma dovremmo starci tutti.

L'attesa finale è un bel momento di soddisfazione e sane risate; il fiato che ci resta, ora, possiamo destinarlo tutto quanto alla lingua. L'avventura è stata bella, semplice, senza fronzoli, vissuta fino all'ultimo passo. Quarantotto km per un dislivello che non saprei calcolare, chissà, forse duemila, forse poco di più.
Così una bella bionda, alta, figura slanciata, gonna corta, calze chiare sottili e tacchi, che ci volge le spalle ed accompagna a spasso il cagnetto, attira la mia attenzione prima di quella della truppa che più ne avrebbe diritto; si sa che la serpeggiante rivalità femminile ha mille e mille risorse in più della cupidigia maschile... Mi attira proprio perché è appariscente e del tutto fuori luogo in questo piccolo borgo, tra i pensionati ed i ragazzini che giocano a pallone nel vicino campo sportivo; vista così, è una farfalla in mezzo alle mosche... Ma il buon Giuseppe, che, zitto zitto, è uno che la sa lunga, ammonisce: "Attenzione... A volte succede che sia, dietro, liceo, e davanti, museo". Un'espressione che appartiene, per me, ai tempi remoti della scuola, e che non sentivo più da tanto... L'effetto scenografico è eccezionale: la presunta fanciulla, alla fine, si volta e viene verso di noi; in effetti, beh, il viso sembra il mantello di uno di quei dolcissimi cani con le grinze. E non provo nemmeno quella vile soddisfazione dettata dall'invidia: penso con orrore che, tra non molto, farò la stessa fine anch'io; e se non avrò sul viso quelle stesse rughe un po' cascanti, sarà solo perché ho, ed avrò, molto più lardo attaccato alle ossa rispetto alla signora. Mi consola la conclusione di qualcuno dei presenti: "Beh dai, in fondo anche così fa la sua figura"... Meno male. C'è ancora speranza.

Il viaggio in auto è anche più comodo del previsto; il bagagliaio accoglie comodamente Lorenzo e Billi, mentre il sedile posteriore basta per me, Mario ed Isacco, quest'ultimo molto interessato all'idea di avere a disposizione una giovane autista, appena ventitreenne. Talmente stralunato che poggia i bastoncini in mezzo alle ginocchia, con la punta rivolta in su, a pochi centimetri dal suo viso: immediatamente mi si materializza davanti agli occhi l'immagine dello spiedo, nel disgraziatissimo caso in cui dovesse toccarci un incidente...

Il caos di Genova c'inghiotte. Io non capirò mai come si possa pensare di spostarsi in auto in una città come quella. E dire che ho sempre pensato che guidare a Torino fosse difficile... Là è difficile, ma qui è un'impresa disperata, criminale e suicida allo stesso tempo.
Il treno sembra pronto per noi. Arriverà tra dieci minuti: salutiamo Giuseppe, che abita qui nei paraggi, e ci accomodiamo sui gradini della scalinata. Tutti impegnati, di cuore, a consolare il povero Billi, costretto ad indossare la museruola. Ha uno sguardo che dice più di un intero discorso: è visibilmente, inequivocabilmente, profondissimamente offeso. Si lascia carezzare senza reagire, ogni tanto lancia uno sguardo supplichevole; si vede che accetta, perché è un cane d'indole buona, ma si sente vittima di un sopruso, e non lo merita. Tutto perché Lorenzo, tempo fa, è stato apostrofato in treno da un controllore i cui neuroni erano partiti per le ferie: il cane non può viaggiare senza museruola e nemmeno senza il libretto sanitario... Sarei proprio curiosa di vedere come si sarebbe comportato, il solenne tutore dell'ordine ferroviario, se, invece di una persona rispettabile con un cane piccolo e mansueto, si fosse trovato davanti un tossico, o un ceffo da patibolo con la stazza di un puglie ed i piedi infangati comodamente distesi sul sedile di fronte. Probabilmente, gli avrebbe aggiustato il cuscino. L'arroganza senza misura di chi si sente investito di chissà quale potere, pur essendo in fondo un semplice controllore... La sindrome dell ausiliario dei vigili urbani, la chiamo io.

In treno, ci sistemiamo a metà nel vagone, lasciando ad altri i sedili. La bestiola si acciambella, stanca ed ormai rassegnata; pure ferita a morte per l'offesa, non manca di lanciare, di tanto in tanto, un'occhiata adorante al suo padrone: quello sguardo che solo chi ha, ed ama, un cane può davvero capire. Nessun essere umano, nemmeno il più appassionato degli amanti., può trasmettere tanto con un semplice sguardo.

Ad Arenzano sccendono Lorenzo e Billi, a Cogoleto scende Mario; ultime briciole, Isacco ed io recuperiamo la 313 a Varazze, destinazione il freddo nord. Il parcheggio del centro commerciale sarà peggio di un girone infernale; spero di ritrovare la Opel e di poterne uscire viva...

domenica 21 marzo 2010

21 marzo 2010 - La 100 km di Seregno

Auto che vanno e vengono, qualche pedone in giacca e valigetta, persino un paio di viandanti in bici: secondo i miei calcoli, dovrebbero essere le tre e un quarto di domenica mattina, ma c'è qualcosa che non mi quadra. "E' pericoloso far benzina al self service di notte; non c'è nessuno in giro, potresti essere aggredita!". Ma quando mai? Mezzo mondo si agita qui intorno! Ripongo la pistola del distributore, salto in auto, controllo sul telefonino la data e l'ora. Vuoi vedere che ho sbagliato a puntare la sveglia e l'ho messa alle sei anziché alle due? E magari oggi non è nemmeno domenica, è lunedì, e questo intorno a me è il traffico lavorativo dei giorni feriali? Eppure no; a meno che il telefonino non abbia preso, a sua volta, un abbaglio, ora e giorno del mondo concordano con i miei. Riempito il pancino alla Opel, si parte, destinazione Brianza, sotto una pioggerella leggera e fitta fitta. Le previsioni meteo l'annunciavano già dallo scorso martedì; per oggi, pioggia, senza speranza. Ed è un guaio: non solo per la gara, di cui dovrò preoccuparmi tra qualche ora, ma anche per la mia vecchietta a quattro ruote. C'è qualche strano contatto tra i comandi dei tergicristallo e dei fari: quando i primi sono in azione, gli abbaglianti, di tanto in tanto, fanno un lampeggio, così, per fantasia. Di per sé, nulla di preoccupante; però, quando mi ritrovo, in direzione della tangenziale di Torino, dietro all'auto dei Carabinieri, sudo freddo... Per fortuna, la Opel mette giudizio e rinuncia, in questa circostanza, ad esibirsi.

Comincio il viaggio sulle note beneaugurali di "I believe I can fly", intercettata per caso alla radio; lo concludo poco prima delle sei. Non possiedo né un navigatore satellitare, né tantomeno un banale atlante stradale, ma anche oggi il foglio volante con la stampa della cartina da Googlemaps ha fatto il suo sporco lavoro. Ho azzeccato sia la direzione "Milano Viale Zara" che l'uscita "Cinisello Balsamo – Sesto San Giovanni", che sono i miei incubi ricorrenti. Guai a sbagliare lì... Sarei stata catapultata direttamente all'inferno! Già la periferia di Torino è caotica ed incomprensibile, ma nei paraggi di Milano è davvero il delirio. Se sbagli direzione, sei un automobilista finito. Oggi è andata bene: SS36, uscita per Seregno San Salvatore. E, da lì, il primo assaggio dell'ottima organizzazione della gara: frecce ad ogni incrocio e ad ogni rotonda, che mi portano dritta al Palazzetto dello Sport di Via Alla Porada.

Lo spiazzo del parcheggio brulica di vita, nell'ombra. Silenzio, nebbia, pioggia lieve; il Palazzetto si vede a malapena. Abbandono la fida vettura e vado a recuperare il mio numero di gara: 130, tassativo, devo appuntarmelo sul petto. E vai a far capire che indosserò la giacca impermeabile e quindi lo nasconderò... Niente da fare, sulla gamba non va bene, bisogna appuntarlo sul petto. D'altronde, si chiama "pettorale". Per carità, non discutiamo. Me l'avevano detto, i bene informati, che le gare Fidal da questo punto di vista sono un po', ehm, "rigide", per usare un eufemismo. Un'ora dopo, sono pronta e scalpitante al via. Mi sono bastate le due precedenti esperienze di gare da 100 km per capire che tanti, tra i visi oggi qui intorno, sono ormai noti, anche se non saprei dar loro un nome. Ripenso con un sorriso al dialogo intercettato poco fa, al palazzetto, tra due accompagnatori non podisti: "Io li guardo, questi qua, li guardo in faccia, sono completamente pazzi, hanno degli occhi che fanno paura!". Chissà, forse è vero, siamo proprio così, invasati al punto da incutere timore. Ma non mi sento così minacciosa, tutt'altro; son qui un po' infreddolita, a scambiare quattro chiacchiere a destra e a manca per sciogliere la mia tensione in quella altrui. Maglietta e giacca GoreTex, pantaloncino tre quarti, guanti e berretto in pile, più lo zainetto sulle spalle: solo se fossi incappata in una splendida giornata di sole, avrei potuto provare a separarmene... Secondo la voce che tuona dall'altoparlante, la temperatura e le condizioni climatiche di oggi sono eccellenti per correre: sarà, ma a me tutto questo grigiume mette una gran tristezza, e poi correre con l'umidità appiccicata addosso non è il massimo delle mie aspirazioni. Ma questo passa il convento, oggi.

Lo sparo coglie tutti di sorpresa. Adoro le partenze delle cento chilometri... Ci si lascia scivolare avanti, con calma; ci si avvia al trotto, pian piano, dando ai muscoli tutto il tempo necessario per scaldarsi. Discorso diverso, è ovvio, per i corridori di punta, i candidati alla classifica, ma la massa se la prende con calma, anche se spesso l'euforia gioca qualche brutto scherzo, pure qui. Vai Gian, comincia l'avventura, e sarà lunga, molto molto lunga. Devi prendere subito il tuo passo, con calma; l'andatura che senti di poter sopportare a lungo, senza la minima fatica. Devi sforzarti di pensare a qualsiasi cosa, al lavoro, a casa, a Skipper, alle prossime gare, alla bici, ai massimi sistemi, qualsiasi cosa che non sia la corsa, perché la mente è la peggiore nemica. Già nei primi km si consolidano alcune posizioni: podisti singoli, coppie, gruppi che vedrò nei miei paraggi per qualche decina di km. Qualcuno corre in pantaloncino e canottiera, e già tremo per lui; qualcuno è ricoperto di cavetti e marchingegni vari, che neanche un malato terminale all'ospedale, bip bip che risuonano ovunque e che decidono per te quand'è che stai bene e quand'è che invece sei lì lì per scoppiare. Nella nebbia si distinguono capannoni dello stesso colore: officine meccaniche, mobilifici, magazzini, cortili e cani da guardia; poche auto, a quest'ora, le sette appena passate. Il primo cartello chilometrico è spietato: km 2/52. Già, perché la corsa percorrerà per due volte lo stesso anello di cinquanta km; ergo, ripasseremo di qua tra... Un bel po'. Novantotto km ancora. Ecco perché non ci devi pensare, Gian. Questa frase, tre semplici parole che possono distruggerti in un attimo. Basta che tu ti renda conto del significato, novantotto km, un'enormità; basta quello per tagliarti le gambe, subito, senza appello. Poco oltre, un podista che corre qualche metro avanti a me richiama, tutto serio, uno dei volontari: "Scusa... Quanto manca?". Scoppiamo a ridere tutti, qui intorno, perché, per ora, il fiato ci basta ancora, per ridere, e il petto non dà ancora spasmi di dolore, se si ride. "Novantasette km, circa!", esclama il ragazzo in casacca rifrangente.

Le gambe percepiscono un accenno di strada in salita. Il primo paese che raggiungiamo è Giussano: chissà se è il Giussano di quell'Alberto da Giussano di cui ho vaga ed incerta memoria scolastica. Molto vaga e molto incerta; non ricordo assolutamente chi fosse e cos'avesse combinato nella sua vita, ma m'è rimasto impresso il nome. Ad essere sinceri, non si può essere così certi che siamo usciti da un paese per raggiungerne un altro. Qui, capannoni e case si susseguono, senza soluzione di continuità, e la nebbia riempe gli spazi vuoti. Il cuoricino batte senza farsi sentire; le gambe trottano tranquille; la testa vaga, docilmente, altrove. Va tutto bene pur di distrarsi: anche il listino prezzi sulla vetrina della lavanderia – sette euro per far lavare un cappotto? Meno male che la giacca Windstopper si schiaffa in lavatrice! - anche le locandine con i titoli dei giornali locali. Anche scrutare condomini e ville a schiera, con l'occhio deforme dell'amministratore, e tentar d'indovinare le magagne, qui un tetto poco spiovente, lì intonaco che si stacca, laggiù un frontalino scrostato... "Scusa, in quanto tempo pensi di finire?". La domanda, a bruciapelo, mi precipita sulla terraferma. Quanto penso di impiegare? Boh, e che ne so io? Più o meno il tempo della precedente 100 km, insomma, spero di stare sotto le dodici ore, ma non ne ho la certezza. Come faccio a prevedere quel che mi accadrà in cento km? Non è umanamente possibile! Il collega che mi ha interpellata ha invece ben chiaro in mente il confine delle tredici ore; beh, allora, se è così, mi sento di potergli fare, come desidera, da lepre; salvo catastrofi, in tredici ore ce la dovrei fare anch'io. Mi pento immediatamente del mio buon cuore: il collega tira su la manica, squadra il cipollone che porta sul polso, strabuzza gli occhi per la pioggia e sentenzia: "Stiamo andando a 6 e 30", che poi, tradotto in versione comprensibile, significa sei minuti e trenta secondi per percorrere un km. E già a me questo modo di misurare la velocità sta un po' sul gozzo: da che mondo è mondo, per me, la velocità si misura in chilometri all'ora! Metri al secondo, al massimo, ma non è questo il caso. Insomma, ho acquisito così poche certezze, scaldando il banco alle superiori nelle ore di fisica, che ci tengo, a quelle poche! Non calpestatemele... Ma, quel che è peggio, mi dà orrendamente sui nervi sapere a che velocità sto viaggiando. Non sopporto i riferimenti al tempo che scorre: tant'è che distolgo persino lo sguardo se intuisco, nei paraggi, un campanile che potrebbe, per accidente, rendermi edotta sul momento della giornata in cui sto vivendo. Non mi servirebbe a nulla, valutare lo scorrere del tempo: non posso in alcun modo rincorrerlo, correre più veloce per agguantarlo; se anche mi rendessi conto che è tardi, non potrei far proprio niente per porre rimedio. Su una distanza del genere, posso solo correre spendendo quel tanto di energia che basta a svuotare lentamente il serbatoio, e facendo in modo che l'ultima goccia di carburante sparisca appena passata la linea del traguardo. Qualsiasi pedata sull'acceleratore consumerebbe carburante in più che poi verrebbe a mancare al momento buono, chissà, al settantesimo, ottantesimo km. Senza contare che, su un corpaccione pesante come il mio, il minimo allungo è, per i muscoli e le articolazioni, un'offesa che, qualche km più avanti, esigerà la sua vendetta. Insomma: prudenza, calma e sangue freddo.

Nonostante tutto, non mi sento di rimbrottare il podista che mi fa l'onore di considerarmi come lepre. Potere della lusinga: io, proprio io, che posso essere, una volta tanto, di riferimento a qualcun altro... Qui non ci risparmiano proprio nulla; se ad una rotonda bisogna svoltare a sinistra, non possiamo tagliare la rotonda, no; transenne in mezzo alla strada e solerti volontari armati di bandierina rossa. In effetti, con tutte le rotonde che ci sono da queste parti, se ogni volta potessimo seguire la corda anziché la circonferenza, finiremmo per correre novantacinque km anziché cento. Chiacchiero un po', anche se non voglio esagerare: il mio compagno di viaggio non sembra troppo incline, o forse gli manca il fiato. La prima ed unica salitella secca del giro, anche se molto breve, arriva intorno al decimo km, poco prima. Decimo km, significa che devi ancora correre nove volte tanto quel che hai già corso. Pura, elementare matematica. Un abisso: anche se, per ora, sto bene, la sola idea mi angoscia. Bisognerebbe poter spegnere il cervello, ecco. Lasciarlo alla partenza, in un'ampolla, insieme alla borsa con gli indumenti di ricambio ed il necessario per la doccia, e recuperarlo a fine gara. Perché le gambe, da sole, potrebbero svolgere tranquillamente il loro dovere; potrebbero correre, certo, accusando la stanchezza che cresce, ma l'accetterebbero senza pensarci, e continuerebbero a correre finché i muscoli non siano talmente ingolfati ed intasati da costringere alla resa. Fino a quel momento, però, andrebbero avanti senza pensare, senza angosciarsi nell'attesa spasmodica dei crampi, degli indolenzimenti, delle fitte qua e là.. Il cervello non riesce a fare a meno di elaborare intoppi, ostacoli, tragedie, e lo sforzo che a me tocca compiere per contrastare tutto questo è immane. Più mi costringo a non pensarci, più ci rimesto.

Il paesaggio, se così si può definire, non offre distrazioni. Verano Brianza, un nuovo paese di cui mi accorgo proprio perché leggo il cartello; casermoni, casette, capannoni, strade trafficatissime, proprio come tutto ciò che ho visto sinora. Ancora, Carate Brianza, stessa solfa. Anche negli abitati, il percorso è molto tortuoso; vie del centro e viuzze laterali, svolte continue, da mal di testa e disorientamento. Da queste parti, poi, passo con circospezione: ivi risiede un personaggio di mia conoscenza, la cui consorte mi ha bollata, tempo fa, come sfasciafamiglie... Ruolo che nego fieramente di aver mai ricoperto, nella mia pur vivace vita sentimentale: sfasciare famiglie non è mai stato il mio obiettivo, per il semplice fatto che poi mi sarebbe toccato tenere con me parte dei cocci, e lungi da me la sola idea! Al massimo, posso aver causato, in alcune occasioni, qualche crepa, che però poi, dopo il mio passaggio, in un modo o nell'altro è stata stuccata e riparata. Nella maggior parte dei casi, manco quello: troppo faticoso lavorare di piccone... Meglio dirigersi dove la strada è già spianata, molto meno faticoso, fastidioso e pericoloso! In ogni caso, oggi mi rammarico di non aver messo barba e baffi finti nello zainetto. Temo l'attentato kamikaze...
Carate alle spalle, almeno per il primo giro, e mi sento più tranquilla. Albiate, Sovico, Macherio: luoghi che certo non restano impressi nella memoria. Quel che resta impresso, senza dubbio, è lo spiegamento di forze radunato dall'organizzazione di questa corsa. Anche il più insignificante degli incroci è segnalato e presidiato da una o più persone, tra Vigili Urbani, Alpini e volontari di vario genere. E quanti sorrisi, quante feste ai ristori! Per un attimo, tutto questo aiuta ad attenuare l'ansia, perché a quest'ora, nei pressi del km 21, non c'è ancora dolore, solo ansia. Passo sul tappetino della mezza maratona senza avere idea di che ora sia: ancora quattro volte tanto quel che ho corso sinora. E mi sembra di correre già da un'eternità... Forse è la nebbia, questo grigio che assorbe e dissolve tutto. Se solo ci fosse qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere: ma no, nessuno; ormai siamo tutti sparpagliati, distanti l'uno dall'altro, anche se le stesse figure continuano a restare più o meno nei paraggi, più o meno lontane. Il podista che mi accompagnava s'è perso, non so con precisione quando e dove; in ogni caso, qui, mors tua, vita mea... L'unico, assoluto, inviolabile comandamento a cui devo obbedire è: correre un po' meno di quel che mi sentirei di correre, e con andatura il più possibile regolare. Niente soste; pochi metri al passo, dopo i banchetti dei ristori, per bere un bicchiere di Coca Cola o the, graditissimi. "Chi si ferma è perduto", sosteneva un tale che evidentemente aveva buona esperienza di ultramaratone. Lissone, Biassolo: sarà che è mattina, sarà che piove, fatto sta che il tifo è quasi inesistente, fatta eccezione per gli angeli custodi della corsa. Solo strade intasate di auto i cui proprietari, spesso, non hanno l'aria granché entusiasta di quel che sta accadendo. E probabilmente, nonostante le locandine della gara sparse ovunque, non lo capiscono. E, se lo capiscono, di certo non lo apprezzano.

Come sempre, non mi sono curata di consultare la mappa del percorso, prima del via. Così, al km 25, la sorpresa è perfetta: breve discesa lungo un muraglione e, in un attimo, eccomi catapultata in un altro mondo. Un meraviglioso parco, immenso, di cui non avrei mai sospettato l'esistenza. Per un attimo, ne resto quasi frastornata. Alberi altissimi, chiome sospese lassù metri e metri sopra la mia testa; verde, solo verde tutt'intorno, un contrasto radicale con tutto il grigio che mi ha accompagnata sinora. Afferro un po' di zucchero ed un bicchiere di Coca al ristoro, poi via di corsa, ancora. Km 25/75: Gian, un quarto... Devi faticare ancora tre volte quel che hai faticato sinora. E' dura. Per me, la prima metà di gara è un vero tormento. Non è il doping per andar più forte, quello che serve a me; è una forma di doping che mi ottenebri il cervello. Che non faccia pensare. Venticinque, trenta km, il confine più terribile, quando i primi dolori fanno capolino, ma la fine della giornata è ancora tragicamente lontana e disperatamente incerta. Fluttuo da uno stato di euforia irrazionale ad uno stato di altrettanto irrazionale paura di non farcela. Certo, poi a mente fredda si può anche pensare che via, è solo una gara, non è una tragedia, non è un caso di stato; ma, mentre sei lì, la gara è sola e tutta la tua vita, l'unica cosa che esiste e che conta, il sogno a cui aggrapparti con tutto te stesso. Il parco, ecco, in questo momento è un conforto eccellente. E' meraviglioso, ecco. Resto a bocca aperta, non solo per la mancanza di fiato. Nella mia ignoranza, credo di poter tirare ad indovinare ben poche specie tra questi alberi imponenti: vedo platani, ippocastani, querce, un sottobosco spesso poco curato di cespugli e pochi, timidi fiori; violette e nontiscordardime. Se non fosse per il trillo vivace di ogni sorta di uccelletti, e per quelle poche, quasi invisibili macchie di colore che spuntano tra l'erba, si direbbe una piovosa giornata autunnale. Eppure, nonostante il clima ben poco invitante, il luogo brulica di vita: podisti, famiglie a spasso con bambini e cani, tanti cani, di tutte le taglie, di tutte le razze e non razze. Incroci, diramazioni, strade e sentieri che s'incrociano: se non fosse per le frecce della gara, e le fettucce, ci sarebbe da perdersi, senz'altro. Nel parco scorre un corso d'acqua, credo sia il Lambro, che in un punto forma una cascatella

Fragore di motori, sembrerebbero moto lanciate a velocità inaudita: una, due, tre volte... Ma che diamine succede? Poi noto gli spalti, pian piano ricollego la memoria: ma sì, è ovvio, siamo a Monza; c'è l'autodromo! Come dimenticare lo spassosissimo personaggio della "Mmmmmmmmonaca di... Mmmmmmmmonza" nella parodia del trio Lopez, Marchesini, Solenghi? Non me ne voglia il Manzoni, ma la versione dei tre comici è indimenticabile... Quindi, c'è l'autodromo e qualche pilota si sta dilettando in sella al suo bolide.
Di lì a poco, mi affiancano due podisti: "Ma tu stai correndo la 100?". Ebbene, sì... Sono pieni di sincera ammirazione, e simpaticissimi, anche; mi spiegano che loro sono impegnati nel primo allenamento lungo stagionale; ben quattro km e mezzo, al termine dei quali si premieranno con un pranzo luculliano. Chiacchierano volentieri, e non hanno idea di quanto la loro compagnia, per quei pochi km, mi riesca preziosa. Corro per un po' senza nemmeno pensare a quel che sto facendo, impegnata come sono a rispondere a tono a frizzi e lazzi; un occhio, di tanto in tanto, all'alternarsi del bosco, dei prati e di alcune splendide cascine. Le varie stradine hanno tanto di cartello con i nomi delle vie!

Al km 35, l'idillio si conclude, almeno per questo giro. Una porta mi sputa fuori dal parco, nel colmo del traffico. Lissone, Desio. Sono sola e sempre più demoralizzata. Non posso più far finta che le gambe non facciano male. Non è un dolore insopportabile, tutt'altro; ma come posso essere certa che non andrà aumentando, che non si tradurrà in crampo, in fitte all'addome di quelle che ogni tanto, malauguratamente, mi piegano in due? Trentacinque, quaranta km, ancora un abisso. Devo pensare alla metà, ecco. Arrivare al cinquantesimo km. Di lì in poi, si vedrà. Un volontario mi comunica che sono la quarta donna; per fortuna, ormai ho imparato a dare a queste stime di classifica, senz'altro calcolate in perfetta buona fede, il valore che hanno: uno zero tondo. Sarebbe bello, ma so bene che è impossibile che io sia quarta; dalla rapida analisi fisiognomica che ho condotto in griglia, appena prima del via, direi che sono ben più di tre le fanciulle che a me possono far mangiare la polvere come e quando lo desiderano. Ad ogni cartello chilometrico, m'impongo di pensare solo al prossimo, due km più avanti. Di due km in due km. Ormai da un po' sono spuntati anche i corridori della maratona, partiti due ore dopo di noi. Il percorso della maratona si sovrappone in parte a quello del primo giro dell'ultra, salvo per alcuni trati; ovvio, entrambi gli itinerari devono giungere a Seregno in modo tale che quel punto sia la conclusione della maratona, 42,195 km, ed allo stesso tempo la chiusuda dell'anello dell'ultramaratona, da 50 km. Passati i primi, i fenomeni, veloci come missili, le retrovie indugiano un po' più a lungo, mescolandosi con noi centochilometristi. Lissone, Desio, quarantesimo km, ed io arrivo a convincermi che la mia meta, per ora, sia tra dieci km. Cavalcavia, sottopassaggi, marciapiedi, incroci, semafori, vetrine di abiti, scarpe, elettrodomestici; la si potrebbe definire "ultramaratona urbana". Km 45, ristoro, 46, 48... Riconosco finalmente il parco del Palazzetto dello Sport di Seregno, che ho visto di sfuggita stamattina. L'arco è uno solo, segna la fine della sofferenza per i maratoneti, segna la metà, la terribile metà, per me. E' incredibile l'effetto psicologico di quel banale passaggio sul tappetino. Gian, significa che il peggio è alle spalle; significa che, da qui in poi, ogni passo sarà più vicino al traguardo che non alla partenza. "E via, un altro giro", esclamo tra gli applausi della piccola folla presente. "No, non è un altro giro – mi corregge un collega di fatica – quello che hai concluso è andato, non esiste più. Adesso c'è solo questo giro!". E' vero, sacrosante parole, è vero, c'è solo questo. Zucchero e Coca Cola al ristoro, uno spicchio di limone da ciucciare per scacciare la nausea. Da qui in poi, conta solo il prossimo ristoro. Cinque km al prossimo ristoro, le colonne d'Ercole. E ritrovo passo passo tutto quel che ho già visto: mi stupisco io stessa della quantità di particolari che mi è rimasta in mente. Km 2/52, ma stavolta il numero che conta, per me, è il secondo. Troppo, troppo, troppo presto per lasciarsi trascinare dall'entusiasmo: ma la mia lenta rimonta, cominciata già prima del quarantesimo km, continua. Ovvio, non ho velleità di classifica; non è per questo che raggiungo e mi lascio alle spalle, di tanto in tanto, qualche avversario, qualche gruppetto. E' solo perché la mia andatura non ammette variazioni, né in meglio, né in peggio; è la soddisfazione di non subire il tracollo, perlomeno, non ancora. Non certo perché mi sento più forte degli altri, ma semplicemente perché la capacità di correre molto a lungo e sempre allo stesso ritmo, sempre mordendo un po' il freno, è una delle mie poche buone caratteristiche ed è ciò che mi regala un senso di fiducia. Km 55, ristoro; dai Gian, adesso altri 5 km e c'è il prossimo. Uno sforzo sempre teso nel desiderio di quei pochi metri al passo dopo ogni banchetto, quel brevissimo eppure intenso attimo di riposo che concedo alle mie gambe. Guai se fosse più lungo; non potrei mai ripartire...

La salitella poco prima del km 60 mi conferma che, nonostante i timori, oggi è una gran giornata. Recupero qualche posizione e sono l'unica, tra i corridori che l'affrontano in questi momenti, a correre, tutto sommato senza problemi. Gli altri camminano, qualcuno sbuffa come una locomotiva, si volta, mi guarda perplesso, quasi indispettito. Passo avanti senza dire nulla, per timore che un incoraggiamento possa sembrare fuori luogo: imperscrutabili sono i percorsi mentali del podista in affanno. Ancora quaranta, Gian: poco meno di una maratona. Sei stanca, certo, ma vuoi non portare a termine una maratona? Il mio terrore è il dolore improvviso, acuto, quello che può spuntare da un momento all'altro e metterti KO per un bel po'; conosco l'esperienza, anche se, per fortuna, in gara mi è accaduto molto di rado. Meno trentacinque, meno trenta: ecco, trenta è un confine che mi infonde fiducia. Ancora trenta, ma settanta già fatti, dà una bella idea delle proporzioni. E poi, dovrebbe mancare poco al tratto di percorso nel parco: l'ingresso è in corrispondenza di un ristoro, che potrebbe essere già il prossimo, se non ricordo male. Stringo i denti ancora un po', fingo di non sentire i muscoli delle cosce che s'induriscono; respiro a pieni polmoni e m'illudo che sia ossigeno, e non l'orrido concentrato di gas di scarico ed ogni sorta di venefica emissiome. Effetto placebo: se ci credo, funziona!

Un altro splendido giro nel parco. Sola, questa volta, perché è pomeriggio; non saprei dire che ora è, ma credo primo pomeriggio, ora di pranzo e digestione. I podisti sono scomparsi, estinti; a quest'ora, incontro più anziani, in coppia, in gruppo, e poi gli immancabili abbinamenti di cane e padrone, e qualche cavallerizzo. Compaiono anche i primi assistenti in bici accanto ai corridori: non so quanto sia consentita la faccenda, ma non ha molta importanza... I cinque km tra un ristoro e l'altro cominciano a diventare lunghi; l'occhio cerca con cupidigia il cartello chilometrico, vorrebbe poter cogliere una successione molto più rapida. Dai Gian, ormai è fatta, salvo imprevisti. Devi solo continuare così, con calma. E' ovvio che le gambe fanno male, ma, del resto, lo dice persino l'incommensurabile Marco Olmo: se tu sei stanca, non è che gli altri siano freschi come roselline di campo. Qualcosa del genere. Sei tu quella che si sta rosicchiando la rimonta, adesso, guarda. Tanti camminano. Tanti hanno la testa china. Tu no, non ancora, e le curve secche degli incroci tra le stradine le affronti ancora con una buona elasticità. Devi solo fare attenzione a non esagerare, e devi mangiare. Ormai la bocca non accetta altro che zucchero e limone, oltre alle bevande. Ed il gel. Che meraviglia, questi alberi. I più strani di tutti son quelli che hanno la corteccia del platano, ma sono altissimi e slanciati: i platani che sono abituata a vedere io hanno, di solito, tronchi nodosi, enormi, ma tozzi e bassi...

Ormai voglio vedere la fine, solo più la fine. Ristoro nel parco, ancora cinque km. La pioggia di tanto in tanto si fa sentire, ma non so nemmeno più se sia la pioggia o la nebbia che s'appiccica addosso, Il rettilineo che precede l'uscita dal parco, uno splendido viale che però non nasconde le luci dei semafori che spuntano al di sopra del muro di cinta, è infinito, quell'ultimo km prima del ristoro, appena fuori la porta... Un anziano in bicicletta si avvicina sorridendo: "Ma state ancora correndo dalle undici di stamattina?". "Altro che dalle undici – gli rispondo, senza capire perché proprio le undici – dalle sette!". Quanti chilometri, rilancia. "Cento". "Trenta? Eh beh son tanti...". "Ma no, che trenta – m'infervoro – cento, ho detto!". La notizia lascia il mio interlocutore interdetto, come se ancora non fosse certo d'aver capito bene: poi s'illumina, in quattro pedalate è accanto alla moglie, venti metri avanti a me; "Hai sentito? - le riferisce, entusiasta – Cento chilometri!". La reazione della pingue matrona non ricambia il fervore: non distinguo le parole, ma il tono è quello di chi intende esprimere scetticismo e fastidio, per usare un eufemismo. Ma che importa...

Quindici km, Gian, solo più quindici km. Gambe dure, ma nessun problema serio, almeno per ora. Calma Gian, ancora calma, ancora tre ristori. Se proprio vuoi, se proprio non ce la fai più, potrai provare ad allungare negli ultimi 10 km. Ma per ora, calma. Mordi il freno. Ancora zucchero; ho fame, ma null'altro di quel che vedo sul banchetto del ristoro mi attira. I volontari sono più premurosi ed entusiasti che mai; vorrebbero darmi tutto e subito... "Un attimo, che riordino le idee e connetto", li prego. Uno di loro scoppia a ridere: "Ti è rimasto indietro il cervello?". "Sì, - replico divertita – m'è rimasto indietro nel momento in cui ho deciso di iscrivermi!". Un istante dopo, son già via col vento, ancora in mezzo al traffico, io e le mie zollette di zucchero che si sbriciolano in mano e si appiccicano alle dita. Il cuore che scoppia nel petto, il viso bagnato e caldo, le gambe che vorrebbero strappare le catene e correre a perdifiato: ma non posso, non ancora, non reggerei. Al prossimo ristoro, Gian, al prossimo ristoro. Ottantasei, ottantotto, il gazebo bianco, il banchetto. Ho appena superato un'altra donna, l'ho salutata; ne ho apprezzato molto la schiettezza: "Mi dispiace perché sei una donna – mi ha detto – ma complimenti, davvero, onore al merito". "Non ti preoccupare: il podio è lontano sia per te che per me... Ma io voglio solo finire!". Ed è vero, verità sacrosanta, voglio teletrasportarmi sotto l'arco, voglio l'eutanasia. Meno dieci. Non sto più nella pelle... Ancora un ristoro, l'ultimo, ancora una tappa da cinque chilometri. Il prossimo obiettivo sarà il traguardo! Desio, il sottopassaggio, il sovrappasso, l'ultimo ristoro. Poi il bagno di folla: la corsa passa in centro città, nell'ora dello struscio, i volontari a fare largo in mezzo alla gente, qualcuno che applaude, sorride, incita. Non ho più remore ormai, accada quel che vuole. Mi sembra di scoppiare dalla felicità; raccatto ancora un paio di avversari; uno di loro, accompagnato da due amici in bici, sembra provato, ma ancora corre. La ragazza che lo accompagna mi ricopre di complimenti: "Sei l'unica che ho visto correre con quel passo ancora così leggero, sembra che tu sia appena partita!". Se solo potesse immaginare la sferzata di energia che mi infonde con le sue parole... Mi accompagna per un pezzo, poi continua ad incitarmi urlando da lontano. Alzo lo sguardo per caso: inquadro, per la prima volta nella giornata, un orologio. Le cinque e mezza. E mancano, occhio e croce, tre km: stai a vedere che... Stento quasi a crederci, dopotutto quell'orologio potrebbe essere sballato, come capita abbastanza spesso agli orologi pubblici lungo la strada. Ma in fondo crederci mi costa poco... Ora o mai più: accelero, mando nelle gambe tutto il fiato che mi rimane. Come un'indemoniata, curva dopo curva, incrocio dopo incrocio: un volontario mi guarda passare allibito, poi dà di gomito al collega: "Secondo me questa fa un altro giro"... Non sento più nulla, né dolore né fatica né paura, nulla. Il parco del Palazzetto: ancora due avversari davanti a me, un uomo ed una donna, ma non ce n'è per nessuno; li raggiungo, scambio quattro battute, ci prendiamo in giro a vicenda. Posso anche permettermelo, un po' di spirito agonistico, adesso, e pazienza se quel che sto facendo è patetico e ridicolo. Parto con la foga di chi deve correre i cento metri piani, in apnea, a grandi falcate, come se fossi inseguita da una muta di rottweiler inferociti; testa bassa, non mi fermo più, gasata dalla piccola folla che a me sembra lo Stadio di San Siro nelle occasioni di tutto esaurito... L'ultimo salto, un urlo, il tappetino, la medaglia. Finita, tra i complimenti del volontario che mi mette addosso il telo termico. "Scusi – il mio unico pensiero – sa mica dirmi che ora sia?". Mi indica con il dito il cronometro piazzato sopra l'arco d'arrivo: 10h 50'. Pochi secondi di meno per il mio tempo ufficiale. Se me l'avessero detto ieri, che avrei potuto chiudere in meno di undici ore, sarei scoppiata a ridere...

Mi avvio verso l'auto, smanettando furiosamente sul telefonino per raccontare al mondo la mia avventura. Al mio piccolo mondo: a mamma, a Matteo, a pochi amici che, lo so, apprezzeranno la mia fatica. E a Franco e Graziano, con cui tra poco condividerò una succulenta pizza: per una volta che passo dalle loro parti, non posso e non voglio esimermi! Sono reduci, anche loro, da una giornata epica con duecento km di bici sotto l'acqua. Una doccia, e via: avrei persino diritto al premio di categoria, per la terza posizione; ma, ovviamente, quando sento chiamare il mio nome, mi trovo nel posto sbagliato al momento sbagliato, già al parcheggio, dopo la doccia. Tento di tornare indietro, ma la corsa sui tacchi, dopo la sfacchinata di oggi, è chiedere davvero troppo ai miei poveri arti inferiori. Peccato, perché la coppa è bella davvero, anche per il gradino più basso del podio. Provo a chiedere al banchetto dei premi, mentre le premiazioni vanno avanti, ma l'attesa si prolunga e la pizza aspetta. Poco importa il trofeo; vince la ragione della pappa e della compagnia. Salgo in auto che è già buio, son le sette passate, destinazione Villa Cortese. Non ho fame, per ora, ma so che tra poco si aprirà la voragine... E sarà meglio avere di che riempirla, altrimenti saranno guai!

mercoledì 17 marzo 2010

17 marzo 2010 - Passeggiata notturna a Pra 'd Mill

Non smetterò mai di compiacermi dell'idea di chiudere l'ufficio al pubblico, il mercoledì pomeriggio. E' pur vero che, quasi sempre, si finisce per lavorare comunque, approfittando al massimo di un po' di tregua dal viavai dei clienti e dal telefono che squilla. Ma, talvolta, l'occasione è ghiotta per prendersi davvero qualche ora di libertà. Oggi, infatti, ho intenzione di bigiare: non l'ho mai fatto a scuola, ma da quando lavoro mi prendo spesso la rivincita. L'appuntamento con Matteo, di ritorno da una giornata lavorativa ad Aosta, è per le sette e mezza di questa sera, a Bagnolo Piemonte; da lì, saliremo insieme al Monastero di Pra 'd Mill, o perlomeno fino al punto in cui la strada sarà eventualmente interrotta dalla neve.

Però, grazie al fatto che è mercoledì, io posso concedermi qualcosa in più. Un ultimo allenamento di media lunghezza, in vista della 100 km di Seregno della prossima domenica. Il piano è presto definito. Abbandono l'auto a Moretta, intorno alle cinque del pomeriggio; Bagnolo dista da qui poco più di venti km. Considerata la leggera salita ed il fatto che avrò una certa zavorra, due ore e mezza dovrebbe essere una stima prudenziale della durata del viaggio. Lo zainetto pesa: ci metto dentro il necessario per cambiarmi quando arriverò a Bagnolo, più un secondo cambio per la fine della scarpinata, più una giacca, che non si sa mai, ed un po' di pappatoria. Oltre all'indispensabile gilet rifrangente, che però indosserò più tardi, all'imbrunire. La temperatura oggi è, finalmente, piacevolissima: sole tiepido, aria limpida ed immobile; indosso due magliette con le maniche corte, più i manicotti e l'inseparabile paraorecchie di pile, perché fidarsi è bene...

Parto al trotto in direzione di Villafranca Piemonte: curva e controcurva intorno all'edificio del vecchio casello ferroviario, ristrutturato con cura, e poi il lungo rettilineo in mezzo alla campagna. C'è il traffico del tardo pomeriggio, auto e camion non mancano. Davanti a me, il Monviso, che, da questo punto di osservazione, ha ancora un profilo molto simile a quello che si vede dalla finestra di casa. Solo il Visolotto sembra più tozzo e largo in punta. Qualche viandante in bici da corsa mi lancia un'occhiata, forse per via della maglietta da bici con il logo della Jolly, squadra amatoriale abbastanza nota nella zona. Guardano con l'aria di chi si domanda se per caso io abbia rotto la bici.
Leggera salitella al ponte sul Po ed eccomi a Villafranca, a correre sotto i portici, a scatenare le ire di un cagnetto appollaiato sul balcone di casa. Attraverso il paesello, passo sotto la tettoia in centro paese: inevitabile la curiosità del crocchio di anziani, che smettono per un attimo di disquisire di calcio. Tiro dritto in preda ad una strana euforia: sarà il sole, sarà questo adorabile tepore. Supero la rotonda, direzione Cavour.

Passo accanto alla baléra, la discoteca: con mia sorpresa, vedo il cortile affollato di lunghissime Limousine parcheggiate in bell'ordine una accanto all'altra. Strabuzzo gli occhi: è in atto un parcheggio... In retro! Prodigio della natura: mi vergogno di esistere, io che tribolo a compiere la stessa manovra con la mia piccola Corsa, e guarda 'sto tizio come se la cava in agilità con quella specie di tronco di sequoia secolare con le ruote...
Da ciclista, ho sempre odiato la pianura con tutto il cuore, forse perché come passista valgo proprio poco e sudo sette camicie per sostenere un'andatura appena appena decente. A piedi, però, è tutta un'altra musica. A piedi posso distrarmi, guardarmi intorno, soffermarmi sui particolari. Sono anni che passo di qui, viaggiando su ruote, ma questa sera mi sembra di trovarmici per la prima volta. E' bellissima, questa campagna, nella luce calda che digrada verso sera; è piatta, ma non monotona, è spezzata da file di alberi, gelsi, pioppi e chissà cos'altro. Tronchi in fila, come soldatini, tutti tranne uno, che non ne vuol sapere e decide di pendere come gli pare. Cascine, molte ristrutturate con gusto e cura, con l'arco in mattoni d'ingresso alla corte, i pesanti portoni in legno, e chissà che meraviglia poter varcare le soglie. Viali d'ingresso sorvegliati da piloni e da piccole targhe da cui il tempo ha cancellato la data. Cani che latrano, acqua che scorre nei canali, il corso regolato dalle chiuse. Le borgate: San Giovanni, san Luca. Casaforte di Marchierù: ne ho spesso notato il cartello, non sono mai stata a vederla. Dovrei procurarmi una piantina delle stradine secondarie; la prossima volta, passerò di lì. Ma la strada principale non mi dispiace; c'è sì un po' di traffico, ma nulla di intollerabile. Rettilineo, accenno di curva, altro rettilineo. Le montagne crescono a dismisura, sempre più alte, più imponenti; il Monviso s'è girato, ora, non è più lui: man mano che procedo, si gira su un fianco, resta solo, perde il Visolotto, si riduce ad un'irriconoscibile piramide, sempre più piccola. Cresce invece la Rocca di Cavour; a Villafranca era appena una sfumatura; pian piano si delinea, massa più scura delle montagne scure alle sue spalle. Chilometro dopo chilometro, la forma appuntita che si vede sulla vetta della Rocca si delinea, sembra quasi un baldacchino; non sono mai stata lassù in cima, non saprei di che edificio si tratta, ma, anche lì, mi riprometto di colmare la lacuna. Non me l'aspettavo così lunga, la strada verso Cavour. Il guaio è che ogni mezza curva nasconde un rettilineo, e quello svela un'altra curva. Seguo le auto che mi sorpassano; le vedo allontanarsi ancora molto. Il bivio per il Canile di Cavour, della Lega del Cane; lì sì, ci sono stata eccome; una struttura stupenda, gestita da persone di vero cuore, anche se è e resta pur sempre un canile, non la famiglia che ogni randagio meriterebbe di avere. Un pensiero al mio adorato Skipper, che a quest'ora se ne sta pacifico in ufficio, sulla cuccia, o forse già a casa, sul lettone.

La mia ombra è già lunghissima quando arrivo alla rotonda di Cavour. Attraverso il paese, un semaforo e qualche incrocio: prima di proseguire, meglio fermarsi un attimo ed indossare il giacchino rifrangente. Non appena il sole si ritira, la temperatura scende; avverto già da un po' il brivido sulle braccia. Il gilet servirà anche a riscaldarmi un po'.
Da Cavour, la strada verso Bagnolo procede in leggera, impercettibile salita. Ancora la stessa bella campagna, i frutteti, oche in un cortile, ma il fianco della montagna ormai incombe. Si accendono pian piano le luci di Bagnolo e le altre, isolate, disperse sul ripido pendio. Ultima tra tutte, la luce blu intenso, lassù in alto: forse è una croce, ma non ne sono certa; il blu così vivace è uno dei colori che, ai miei poveri occhi di miope senza speranza, creano più problemi nel distinguere i contorni.
Le insegne delle imprese di estrazione e lavorazione della pietra mi confermano, ancor prima del cartello del paese, che sono arrivata a Bagnolo. Matteo ha già avvertito, via messaggio, che la coda in tangenziale a Torino gli causerà un po' di ritardo. Nessun problema; sono le sette, poco più: vorrà dire che, alla strada già percorsa, aggiungerò ancora un po' di salita, verso Montoso, magari fino all'abitato di Villar. La prima, lunga rampa delle tante rampe che conducono lassù.

Proseguo la mia corsa sotto gli occhi interrogativi degli avventori del bar. Mi spiace che, questa volta, per ovvie ragioni di spazio e trasporto, non ho potuto portare beni di conforto con cui accogliere Matteo: però, se non ricordo male, appena prima della rotonda per Montoso, c'è una panetteria. E sono appena passate le sette... Ci arrivo a naso, piena di speranza: ne ricevo invece un metaforico, solenne cazzottone sul naso. Il negozio è ancora illuminato, ma la porta desolatamente sprangata con un pannello. CHIUSO. Ma porc... Che delusione per i miei succhi gastrici! Sì, perché una buona dose di fame ce l'ho anch'io... E in tasca ho solo un avanzo di barretta ed un fondo di sacchetto di frutta secca. Pazienza, tiremm'innanz. Alla rotonda, a destra, poi su, in salita, verso Villar. Ci sarebbe un bel marciapiede, ma io ormai sono viziata: quello è in porfido, ed io odio correre su qualcosa che non sia il mio adorato asfalto. Le mie ginocchia esigono il bitume, non c'è niente da fare. Il passo s'accorcia, il respiro si affanna; ormai è buio, notte fatta; più mi allontano dalle luci della città, più mi accorgo delle stelle. Anche se, per vederle, devo piegare il collo all'indietro e superare la barriera della montagna, alta e dritta proprio di fronte a me. Incontro ben due podisti che corrono in senso contrario: uno con passo stanco e pesante, nonostante la forza di gravità giochi a suo favore; l'altro che sembra inseguito da una muta di rottweiler affamati, tanto tuffa in avanti quei piedi, tanto si sbraccia in modo convulso. Questo, mi sa, è uno di quei discesisti folli da sentiero. Nessuno dei due apre bocca, il mio cenno di saluto cade nel vuoto. Di villa in villa, questa dev'essere zona residenziale; raggiungo la chiesa di Villar e faccio dietrofront, una volta tanto con l'occhio all'orologio, ma solo per evitare di lasciare Matteo in attesa. Gli do appuntamento al lavatoio, appena prima della rotonda per Montoso, arrivando dal centro di Bagnolo; ci arrivo io con un po' di anticipo: ne approfitto per cambiarmi maglia e canotta: suscito non poca curiosità nei viandanti... Poi mi siedo comodamente sul bordo della vasca, curando di non finirci dentro; pochi istanti ed il furgone bianco si materializza davanti a me.

Ne scende Matteo, tutto corrucciato per il ritardo: mannaggia alla sua mania di cospargersi il capo di cenere per motivi che non stanno né in cielo né in terra. Sei un po' in ritardo, e allora? Mica dobbiamo bollare il cartellino! Non credo che i monaci, per questo, smantelleranno il monastero senza aspettarci...
Un attimo più tardi siamo in marcia verso Pra 'd Mill. In marcia, questa volta: conosco il mio pollo, cioè, la mia salita... E mi accontento di percorrerla di buon passo, senza strafare. Imbocchiamo il primo bivio sulla sinistra: si potrebbe anche passare da Villar, ma, così, tagliamo un pezzetto di strada principale. Una decina di km di salita, poco meno. Camminiamo lungo il corso d'acqua e le gaggie; la luce della frontale illumina di tanto in tanto due occhietti piccoli, tondi e gialli: sentinelle del popolo felino che ci tiene d'occhio. Breve tratto in mezzo alle case, al tintinnio di posate ed ai profumi della cena; poi, la vera salita comincia. Curve, tornanti e rampe in mezzo alla vegetazione; qualche cascina, qualche casa isolata, cani a cui non par vero di potersi scatenare al passaggio di un'anima. L'aria è quasi tiepida, il cielo terso e senza luna, solo una miriade di lucciole. La pianura che s'allontana, man mano che calchiamo asfalto. Siamo entrambi senz'acqua, uno più sbadato dell'altra; ma ricordo che, più in su, accanto ad una cappelletta, dovremmo trovare una fontana. La vegetazione è fitta; castagni e cespugli d'ogni foggia, fili d'erba su cui scorrono rivoli d'acqua improvvisati: ci sarà neve che si scioglie, più in alto. Lontano, cupo e quasi inquietante, il fischio di un animale notturno, senz'altro un volatile; un fischio breve, ad intervalli di qualche secondo. Fruscii improvvisi di lucertole, forse topolini; ogni rumore giunge all'orecchio, soprattutto stasera che Matteo resta imbronciato e taciturno, ancora tutto preso nello sviscerare le cause più profonde, recondite ed ancestrali del suo ritardo all'appuntamento. Mannaggia, ma non ti basta semplicemente pensare che sei incappato nella coda e finirla lì? Non mi pare il caso di infliggersi le frustate con il gatto a nove code per così poco... E non è che, rimestandoci sopra, riuscirai a tirare indietro le lancette dell'orologio.

Così riflettendo, raggiungiamo l'incrocio con la strada che scende a Bagnolo per altra via, alla luce di un vivace lampione. Ancora circa tre km alla nostra cima. Passiamo accanto alle ultime case, le più isolate: posso immaginare l'inquietudine dei proprietari, nel sentire i cani che latrano a quest'ora, in questo posto dimenticato dal mondo. Alcuni castagni bellissimi, dal tronco enorme; ancora qualche tornante, la cappelletta con la fontanella e, infine, l'ultima curva secca. Tracce di neve, strada sconnessa, fango; da qui, un lungo tratto a mezza costa, nel fitto del bosco, ci conduce ad una sorta di colletto. E' come il passaggio, a teatro, ad un'altra scena sul palcoscenico: la vegetazione si apre; davanti a noi restano le montagne, che il riverbero della neve stacca con contorni netti dal cielo nero, ed un bellissimo firmamento di stelle. Lo dice persino Matteo, sembra di essere sospesi fuori dal mondo. E' una sensazione splendida eppure inquietante, da brivido lungo la schiena; il silenzio è assoluto, tanto da picchiare in testa; il freddo, ora che la strada leggermente scende, ghermisce la faccia ed i muscoli. L'unico legame con il mondo dei vivi resta il cavo dell'energia elettrica, che ci corre accanto, saltando da un palo all'altro. La valle è talmente bella che ci sarebbe da stendere una stuoia, un sacco a pelo, e fermarsi qui, immobili, ad ammirarla. E' poco ecologista il mio pensiero, ma trovo stupendo che in un luogo del genere si arrivi con una comoda strada più o meno asfaltata. Altrimenti, stasera, non sarei qui. Al bivio, una strada sterrata sulla destra conduce ad un agriturismo. Verrebbe voglia di andare a chiedere se hanno posto... Non credo d'essere dura e pura a sufficienza da adattarmi ad una notte in bivacco, ma insomma, una cameretta spartana a mille metri di quota sarebbe un buon compromesso per guardare le stelle.
Avanti, invece, si va al monastero. Procediamo ancora un po', sempre in discesa, nelle anse del pendio, fino a raggiungere l'ingresso vero e proprio dell'area del monastero. Da lontano, improvvisi, i latrati dei cani: tutt'altro che Chiuaua, a giudicare dai tonanti vocioni. Io mi fermo all'istante: non ho certo terrore irrazionale dei cani, tutt'altro, ma so anche che è notte e che stiamo invadendo il loro territorio; ci sono tutte le premesse affinché un buon cane da guardia decida di compiere fino in fondo il suo dovere. Memore dell'incontro ravvicinato notturno con i maremmani a guardia del gregge, decido di non sfidare la sorte un'altra volta. Matteo non è convinto, vorrebbe proseguire ancora un po', ma io sono irremovibile. Metti poi che al cane indispettito si aggiunga il frate munito di fucile a pallettoni... Perché si sa, all'occorrenza bisogna porgere l'altra guancia, ma, se possibile, è meglio evitare di porgere anche la prima!

Controvoglia, Matteo cede alle mie insistenze e fa dietrofront. Ci allontaniamo, seguiti dalle vibrate proteste dei cani, che pian piano si spengono nella valle. Risaliamo fino al colletto: se non altro, ci scaldiamo un po'. Poi, da lì, via di corsa, o meglio, al placido trotto. Con un occhio, da parte mia, alle crepe nell'asfalto: domenica prossima si corre la 100 km di Seregno; non vorrei sinistrarmi una caviglia. Da quassù, le luci della pianura si vedono fino a lontanissimo confine, tanto è limpida la sera. Scendiamo a Bagnolo non per la stessa strada percorsa in salita, bensì per l'altra, quella che va giù con pochi tornanti e passa in mezzo a diverse cascine. Anche qui, gli ululati si scatenano, rimbalzano da un'aia all'altra, ci seguono anche quando siamo ormai lontanissimi. Da quassù, è difficile credere che questa strada conduca a Bagnolo; il paese resta a lungo nascosto, per la conformazione del pendio. Sembra che la strada scenda giù, nel nero, nel nulla. Invece, di lì a poco, incrociamo un fuoristrada che sale e, appena oltre la curva, siamo in vista del campanile di Villar. In lontananza, le luci disegnano il profilo della Rocca di Cavour. Ci ritroviamo allo stesso bivio da cui abbiamo attaccato la salita, anzi, quadrivio, per essere precisi. Torniamo, verso destra, in direzione di Bagnolo. Un guizzo proprio davanti a noi: la folta, lunga coda di una volpe schizza via in un'istante, in mezzo agli arbusti. La inseguo con la luce della frontale, ma è già scomparsa. Ultimi metri verso lo stradone; la ruota in legno di un mulino, che all'andata non avevamo notato. Un attimo dopo, la frontale torna nello zaino, non serve più. Sarà pur vero, come sostiene Matteo, che ormai sarei in grado di camminare e correre indefinitamente, come il pupazzetto delle pile Duracell, ma le mie terga sul sedile del furgone, per questa sera, le appoggio molto, molto volentieri! Ed a Moretta, alla Opel, mi ci riporta lui...

domenica 14 marzo 2010

14 marzo 2010 - Di corsa da Ceva alle Manie, via Melogno

La giornata nasce, al buio pesto delle quattro e mezza del mattino, con una bella illusione. Le mani non congelano all'istante sulla maniglia di metallo, né sul ferro del cancello; la neve, quel poco che ne è rimasto, non crepita più sotto i piedi. La superficie dell'acqua di cui è colmo uno dei tanti secchi sparsi per il giardino è appena una velina di ghiaccio, che si dissolve a sfiorarla. Potremmo essere intorno agli zero gradi, forse addirittura uno, ad essere proprio ottimisti. Il mormorio di un motore: chi è che può aggirarsi nei paraggi a quest'ora? Luce di fari dall'altra parte del giardino della casa accanto; è la cugina che rientra dopo una nottata "in girùla". Mi vien da ridere: ieri sera, cioè qualche ora fa, l'ho vista di sfuggita mentre abbassavo le tapparelle e me ne andavo a nanna; erano neanche le nove e mezza. Ah, questi giovani d'oggi... Che fisico, che resistenza! Ce l'avessi io, quella capacità di ignorare il sonno... Nelle notturne in bici ed a piedi potrei soffrire molto meno, potrei tirare mattina senza dover crollare a dormire sul ciglio della strada.

La bella illusione della partenza si sgretola in un istante, come un malfermo castello di carte, non appena estraggo la zampa dal finestrino, al casello di Ceva, per pagare il pedaggio. Stavolta la mano congela, eccome, e una folata d'aria gelida invade il caotico abitacolo. Non è possibile, rimugino sconsolata. Non c'è niente da fare, questo posto è l'apertura terminale del tubo digerente del mondo, climaticamente parlando. Rapida e spietata la sentenza: -7°C. Fantastico, non avrei potuto desiderare di meglio. Significa che congelerò almeno per i primi venti km, quando già mi ero ingenuamente fidata delle promesse del calendario, metà marzo. Pazienza: la consolazione è che farà chiaro presto.
Abbandono la Opel nel piazzale accanto all'ospedale, a quest'ora in buona parte occupato dai camion con le tendine tirate in cabina. Ronfano della grossa, i loro autisti. Sono pronta in un attimo: zaino ben stretto sulle spalle e in vita, perché non balli; rifrangenti ovunque, modello albero di Natale tardivo, faretto in mano, alle sei meno un quarto si parte. Per dove, non lo so con precisione. So che Matteo oggi è di corvée come accompagnatore in grotta, dalle parti delle Manie, e che dovrebbe essere libero più o meno a metà pomeriggio; ci sentiremo via cellulare per capire dove incontrarci. Al momento, non mi preoccupo: è bellissimo partire senza un'idea precisa di quanto e fino a quando avrò da scarpinare. In ogni caso, la prima tappa ideale è Bagnasco. Mi avvio al trotto lungo la strada principale; non appena mi lascio alle spalle le luci del casello dell'autostrada, mi accorgo, solo ora, di un cielo nero stellato che più non si può. L'ultima volta in cui sono passata di qui a piedi, la vallata era illuminata a giorno dalla luna; oggi no, non ce n'è traccia, solo puntini scintillanti ed aria limpida e gelida. Tanto fredda che, in un attimo, mi ritrovo con il mento e le labbra gelidi al punto da far male; non parliamo delle mani, pure protette dai guantini in simil-seta sotto i guanti in pile. Anche i polpacci, lasciati scoperti dai pantaloni ¾, hanno perso sensibilità... La neve rimasta a bordo strada è durissima e scivolosa, devo fare attenzione a dove poggio i piedi.

Il cielo mostra ben presto una sfumatura appena più chiara del nero pesto della notte. In questi giorni, alle sei e mezza si può dire che sia già giorno; con la prima, debolissima scia di luce, riesco a distinguere alla mia destra il fondovalle, le chiazze appena percettibili della neve, i tronchi degli alberi. Mi accompagnano i versi sgraziati delle cornacchie; i rumori ed i segni della vita animale, i cinguettii, stridono con la temperatura ancora così disperatamente rigida. Un fruscio convulso a sinistra: alzo il naso e riesco appena a scorgere un bell'animale slanciato, credo un capriolo, che mi osserva per un istante e poi si inerpica su per il pendio, oltre la rete paravalanghe.
La luce del sole è il miglior conforto. Il freddo resta pungente, ma ora si sopporta meglio, anche se le gambe sembrano tempestate da centinaia di minuscoli spilli. Poco traffico, oggi; qualche auto con gli sci sul tettuccio, qualche furgone del mercato. A Nucetto, i primi cenni di vita umana: una finestra illuminata, profumo di legna che arde nella stufa, ma il bar è ancora chiuso. Ovvio, non è che ci sia gran massa di avventori in questo mucchietto di case all'alba. E' solo che la sala illuminata, la saracinesca alzata, sarebbero un po' di compagnia in quei pochi secondi del mio passaggio. E' già operativa, in compenso, l'area di servizio all'uscita del paese.

Accanto alla strada, quindi insieme a me, corrono i binari su cui non ricordo d'aver mai visto passare un treno. Lungo questo interminabile rettilineo, scandito dai cartelli chilometrici, soffia un venticello leggero ma gelido; tiro su il collare di pile a riparare la bocca ed il naso, con lo spiacevole effetto collaterale degli occhiali che si appannano. Mai luogo fu più inospitale della Valle Tanaro, a parte la vicina Valle Bormida: un interminabile inverno fatto di ombra, umidità che impregna il midollo, gelo siberiano da staccar le dita delle mani. Il panorama però è dolcissimo: le cime qui intorno son tutte rosa. L'ultima "S" in fondo al rettilineo, poi ancora un rettilineo, più breve, verso Bagnasco. Il mio passaggio, di corsa lenta, scatena le ire dei tre o quattro cagnoni, di buona stazza a giudicare dalle voci, nel cortile di una cascina a mezza altezza sul pendio alla mia destra; li vedo, ombre scure che schizzano impazzite da un capo all'altro della recinzione che non distinguo ma immagino ci sia. Altrimenti, a quest'ora, avrei già i loro denti nei miei polpacci! Anche i tre splendidi pastori tedeschi che abitano il giardino dell'ultima casa isolata prima di Bagnasco hanno qualcosa da ridire, e lo dicono con gran strepito, e continuano ancora quando io son già lontana, all'ingresso del paese.

Al semaforo, svolto a sinistra, direzione Finale, come indica il cartello, con troppo ottimismo. Finale, da qui, è ancora lontana anni luce. Sono tormentata dal freddo, alle mani, alle braccia, alla schiena; è strano, ho già affrontato di peggio, ma oggi non gira. Supero il ponticello stretto; i campi sono bianchi di gelo, la neve sciolta e ricongelata in mezzo alla strada rende insidioso anche il passaggio a piedi. Il pancino reclamerebbe una sosta, ma proprio non me la sento; mezza congelata come sono, fermarsi sarebbe un vero supplizio. Meglio rimandare; più avanti troverò qualche altro luogo idoneo alla sosta. Se solo potessi immaginare cosa mi costerà quest'errore... Neve ovunque, sui prati, sulle cataste di legna pericolosamente pendenti, a cappuccio sui paracarri, sui tetti delle case di Massimino. Vecchi attrezzi agricoli consunti dal tempo e dall'umidità stridono con una villetta moderna, dal prato ben curato e pettinato. Incontro un uomo dall'aspetto burbero, intabarrato con giacca, berretto e stivaloni, che trasporta un secchio e risponde, un po' sconcertato, al mio saluto. Sono appena entrata in Liguria, ma non si direbbe; il freddo, nonostante la salita, non dà tregua. Bisognerebbe potersi cambiare almeno la maglia alla pelle, ogni venti km, ma come potrei trasportare il bagaglio? Già così, lo zaino è gonfio e pesante, e ci ho messo solo un ricambio per quando avrò finito la mia fatica. Stringo i denti. Dal primo tornante secco in poi, alterno passo e corsa; il peso del mio ingombrante lato B non concede prestazioni atletiche particolarmente brillanti. Calare di dieci chili, o crescere in altezza di dieci centimetri: per come sono fatta io, vedo la seconda alternativa decisamente più realizzabile. A proposito, avrei anche fame, ma dovrei levare i guanti per frugare nello zaino, e togliere lo zaino che funge da calda protezione per la schiena; non ci penso nemmeno. Osservo con desiderio le montagne tutt'intorno, illuminate dal sole; ne vorrei un po' anche per me, ma non c'è speranza; questa salita, al mattino presto, è tutta ostinatamente in ombra. Non mi resta che scrutare la linea della strada, davanti a me, quando il bosco si apre appena un po', e valutare, ad occhio, quanto manca al colle. In realtà, basta leggere i cartelli chilometrici, ma la percezione della distanza spesso ha ben poco a che fare con la fredda matematica. Tempo e chilometri possono dilatarsi o restringersi a dismisura, a seconda delle circostanze, della condizione fisica e di quella dei pensieri.
Nulla muove tra gli alberi; passano un paio di auto, rallentano, tirano oltre. Per quanto non abbia un'andatura brillante, non credo di dare l'impressione di chi si trova qui per sbaglio; l'abbigliamento, almeno quello, è quasi professionale. Non c'è traccia di vita animale né vegetale, non una gemma, non un fiore, nulla, solo ghiaccio che lentamente si scioglie e si allunga seguendo la pendenza della strada. Significa che la temperatura è positiva, anche se di poco, ma non riesco ad accorgermene; il freddo non vuol saperne di mollarmi. L'ultimo chilometro prima del colle è più aperto e luminoso; la neve alta accumulata a bordo strada forma veri e propri muretti. Sulla facciata dell'albergo in cima al colle, solo una finestra ha la tapparella alzata.

Ma è qui che ha inizio il mio dramma. La panza, messa a tacere all'inizio della salita, reclama imperiosamente il suo sfogo, e non pare disposta a concedere dilazioni. Ma possibile? Mi vengono in mente gli ultimi versi della canzone di De Andrè, Carlo Martello: per il povero Re Carlo, "le avventure in codesto reame" sembrano "risolversi tutte con grandi...", passeggiatrici, ecco. Ma per me non è che si risolvano in modo molto più glorioso, ecco. Anzi: magari si risolvessero; potrei trovare pace solo se sul colle, per magia, si materializzasse uno di quei parallelepipedi colorati, alti e stretti, con la porticina e, all'interno, la voragine che tutto ingoia e fa sparire... In un'altra stagione, il problema non si porrebbe neppure; qui intorno ci sono ettari di bosco pronti ad accogliere il sollievo delle viscere dei podisti. Ma oggi, ogni centimetro quadrato di terra è sepolto sotto mezzo metro di neve, ad andar bene. Ed è neve che non regge il peso della persona: provo un paio di volte a salire sul manto, sprofondo fino al ginocchio. Rimane, davvero, solo la strada. Ma il mal di pancia, per quanto tormentoso, non riesce a vincere il pudore, quell'unico che credo mi sia rimasto ben radicato, che chiede riservatezza assoluta durante le sedute sul trono. Chilometri e chilometri di discesa, tornanti, alberi, parapetti di pietra e neve. Il sole, sì, qui e là lambisce la strada, ma i miei sensi son tutti concentrati negli occhi, a caccia di un angolino un po' appartato con la stessa implacabile attenzione con cui un periscopio setaccerebbe la superficie del mare a caccia della nave nemica. Nulla, di nulla, di nulla. Il pendio è sempre scoperto ed esposto, e comunque inaccessibile per via della neve. Più volte mi fermo in preda agli spasmi, convinta che "basta, adesso mi fermo qui e se qualcuno mi vede pazienza". Poi riparto. Che situazione imbarazzante... Ecco, in questi istanti comprendo a fondo quale sia il significato di "relatività del tempo". Nemmeno mi accorgerei di sentirlo scorrere, se stessi bene; ma ora lo sento eccome, scorre con lentezza esasperante...

Caragna, le poche case della frazione; una botteguccia già aperta, da cui esce una donna anziana, curva, robusta, coperta da un golf di lana ma con i polpacci nudi sotto la lunga gonna scura di panno. Ci osserviamo, l'una marziana per l'altra, ma è solo un istante. Continuo la mia corsa, stringo i denti, riprendo l'osservazione del territorio: se inventassero un nuovo sport, il "WC-watching", potrei ambire al podio. Poco più avanti, appena passato il ponte sul fiume, l'irripetibile occasione, tra una cascina ed un agriturismo che sembra chiuso. Qualche cespuglio che mi offre un po' di riparo dalla vista dei pochi automobilisti...

Riparto di corsa, poco dopo; va un po' meglio, ma mi sento tutt'altro che rinfrancata. Mi accorgo, ora sì, del freddo che, nei pochi minuti di pausa, mi ha gelato sulla pelle gli abiti bagnati, e del sole che, qui in fondo alla valle, nella gola, non arriva ancora. Il pancino non cessa il suo dolore acuto, come di una contrattura; ogni falcata mi costa un lungo sospiro, per cercare di respirare senza interessare troppi muscoli nella zona. Intorno a me, l'inverno è ancora pieno: nessuna traccia nemmeno dei pochi fiorellini che ho incontrato lungo la salita; i colori sono sempre il grigio ed il marrone, i profumi non si sentono, cristallizzati a terra. Ho una fame che mi rode, ma mi disgusta la sola idea di buttar giù qualcosa.

Al trotto, cercando di non pensare, raggiungo Calizzano. Potrei anche fermarmi in un bar... Ma no: in fondo non ne ho bisogno, adesso. Ho male, e basta, inutile tergiversare. Direzione Finale: sotto un sole finalmente presente, pallido ma c'è, mi avvio lungo la salita: a destra il cimitero e la pineta, a sinistra il capannone dei mezzi spartineve invernali. Corro ancora, fino alla prima frazione: poi il dolore si fa troppo intenso, c'è qualcosa che non va, mi sento le braccia molli, la testa che gira. Sotto l'occhio interrogativo di una comitiva di sciatori – c'è gente che improvvisa percorsi di sci di fondo qui intorno – sfilo via, al passo, lungo la strada principale, più svelta che posso, cercando però di tenere a bada il malessere. Gli occhi per un po' vedono spirali blu, poi pian piano tornano alla luce abbagliante del sole finalmente limpido. Avrei necessità di un'altra sosta, ma qui è la stessa storia: come nella discesa dei Giovetti, non c'è traccia di un posto idoneo, nemmeno l'ombra. Vorrei almeno riprendere a correre, ma la debolezza che sento addosso mi consiglia caldamente prudenza. Via, di passo veloce. Mi distraggo osservando le stalattiti: vere e proprie cascate di guglie rovesciate, alcune sottili, altre imponenti, tutte sgocciolanti, perché la temperatura sembra voler salire un po'. Giochi di luce e scintillii; le reti metalliche che riparano la strada dalla caduta di sassi sono merletti che brillano al sole, inglobate dal ghiaccio. Faggi spogli a perdita d'occhio, fitti, poche auto, silenzio. Devo raggiungere il bar in cima al colle, è la mia unica speranza di potermi riprendere un po'. Devo arrivare su, confortare lo stomaco con qualcosa di ben caldo, approfittare di un bagno civile. Speriamo solo che sia aperto, quel bar.

Mentre cammino con tutta l'energia che riesco a dedicare al passo, mi cade l'occhio su una stranissima formazione naturale. Strabuzzo gli occhi, la guardo e la riguardo, mi avvicino e mi allontano: i tronchi di due faggi, due alberi distinti ed indipendenti, sono collegati tra loro, a poco più di due metri da terra, da un grosso ramo, quasi un tronchetto, fuso ad uno dei tronchi per ciascuna estremità. Quasi un ponte, un passaggio sospeso tra le due piante. Scatto qualche foto: conosco una persona che certo potrà illuminarmi sulla natura di questo curioso fenomeno. A questo punto, manca meno di due km al colle. Ben presto, mi trovo a sinistra i muri in pietra del Forte, i cartelli perentori che indicano la zona militare, nonché il cartello "MELOGNO", semisepolto da un cumulo di neve più alto di me. Attraverso il piazzale, verso l'edificio che ospita la trattoria: un filo di fumo sale dal comignolo; speriamo bene... Sì, sollievo, la porta si apre. Entro al calduccio, mi godo una meravigliosa cioccolata calda, densa al punto tale che il cucchiaino ci sta in piedi da solo, ed un attimo di pausa; metto nello zaino una lattina di Coca Cola. E' un'eresia, lo so, proprio io che sono più tirchia di zio Paperone: comprare una lattina al bar equivale a dissanguarsi. Ma è un caso disperato; so già che la Coca rimetterà un po' in sesto il pancino martoriato. E mi avvio verso il mare.

Il passaggio sotto la volta del Forte, come sempre, è l'ingresso in un altro mondo. Ormai lo so e non me ne stupisco più. Dal metro e mezzo di neve alla terra, nuda quasi ovunque, inondata di sole tiepido. E il mare sullo sfondo, e il caldo sulla pelle. Basta il primo chilometro di discesa, di corsa, in questo stato e, al bivio, mi sembra già di sentirmi meglio. Il piano prevede la discesa al mare da Pian dei Corsi. Infatti, al bivio svolto a sinistra. Ma un'auto oltremodo rumorosa e variopinta fa nascere in me un orrendo sospetto, rafforzato dal cartello, che di qui non riesco a leggere, con un grande cerchio rosso in campo bianco. Mi avvicino: la mia funesta impressione è confermata. La strada di Pian dei Corsi, oggi, 14 marzo, è chiusa al traffico, qualsiasi traffico, sia di veicoli che di pedoni: c'è il rally.

Bene: non mi resta che seguire la strada principale, giù verso Finale; vorrà dire che imboccherò poi il bivio per Eze e Calice, itinerario di certo più tranquillo e panoramico. Via, di corsa, mi godo il caldo ed il lento ritorno delle forze. Non tardo a dare fondo alla lattina di Coca, graditissima. E sarebbe davvero una situazione idilliaca... Se solo le auto da rally non avessero prescelto questa strada, tra l'altro aperta al traffico ordinario, per dare spettacolo al di fuori dalla competizione. Le sento arrivare alle spalle, rombano fragorosamente: so che quei motori sono conciati in modo tale da produrre un fracasso d'inferno anche se viaggiano ai venti all'ora, ma questi filano davvero come indemoniati, impostano le curve a filo del guard rail, oppure le tagliano clamorosamente in centro strada. Il terrore si dipinge sui volti degli ignari automobilisti della domenica, ed anche sul mio. Per ben due volte, in una strettoia, li sento arrivare sparati alle mie spalle: mi sbraccio all'indirizzo delle auto che stanno salendo, persino un pulmino; mi capiscono, inchiodano: i rallysti passano ad un pelo da me e dal muso delle loro vetture; guai se non si fossero fermati... Ho fiducia nelle capacità automobilistiche di un pilota di rally, ci mancherebbe; penso che, se non fossero più che abili ed accorti, si sarebbero già uccisi tutti. Però, in effetti, non è così ovvio prevedere che, lungo la discesa del Melogno, si possa incontrare una persona a piedi. E speriamo che a nessun ciclista venga la fantasia di passar di qui...

La lunghissima discesa trova un piccolo diversivo al bivio per Eze. La neve è un lontano ricordo, ciononostante, qualche mucchietto ne resta anche qui. Il bosco è fitto, sgombro, emana profumo di umido e di verde, finalmente. Ancora una sosta, improvvisa ed impellente, ma qui la faccenda è molto meno drammatica. Di angoli appartati ce n'è a iosa!
Raggiungo Eze, le case dai muri chiari illuminate dal sole, alberelli carichi di limoni e, finalmente, i primi, timidi fiori. Le mimose, che, una settimana dopo la festa della donna, cominciano appena a fiorire: i doveri contrattuali quest'anno sono stati trascurati, anzi, bellamente ignorati. Un tornante via l'altro, profumi di pranzo; a Calice ritrovo la fontanella ove già mi ero fermata tempo fa. E' il momento di restare in maglietta, gilet e manicotti; via la felpa, via i guanti, via il berretto.

La strada da Calice al mare è piatta e noiosa ed antipatica, perché molto trafficata. E poi, me ne rendo conto con orrore, solo ora: in una giornata come questa, così tiepida ed invitante, la Riviera sarà preda dei turisti. No... Mi sfugge un gemito, mentre alzo gli occhi al cielo, sconsolata, ed incrocio l'altissimo viadotto dell'autostrada. Ai primi capannoni della zona industriale, il timore diventa realtà: gente, gente dappertutto, troppa, chiassosa, un'invasione. C'è qualche centro commerciale, qualche spaccio di mobili e di calzature; il passaggio pedonale è ostaggio della massa informe, che avanza ondeggiante, che fa impressione. E, quando ormai speravo che tutto si fosse risolto... L'ennesima fitta alla pancia. Non so più se ridere o piangere: come me la cavo, adesso? Qui siamo in mezzo al mondo... Come faccio? Cerco un bar? E quante altre soste mi toccheranno ancora? Mentre rimugino in preda all'angoscia, raggiungo, tra un turista e l'altro, l'ingresso di Finalborgo. E non mi pare vero: quasi non credo ai miei occhi, lui è lì, bellissimo, invitante, tutto per me... Il parallelepipedo rosso Sebach! Allora i miracoli esistono davvero...

Ne esco finalmente rinfrancata e piena di speranza. Dunque: passare in Finalborgo, nemmeno per idea, escluso; mi affaccio sotto l'arco, c'è tanta gente che la sola vista mi dà la nausea. Supero, a mio rischio e pericolo, il ponticello e la rotonda: una bella boccata di puro smog e sono già a Finale. Dovendo scegliere, preferisco il caos delle auto a quello degli esseri umani. Anche nelle auto ci sono esseri umani, ma sono isolati tra loro e rinchiusi da un adeguato strato di lamiera.

Attraverso Finale che, oggi, forse per la prima volta assume i tratti di una cittadina turistica di mare. Ma il profumo incontenibile di pizza calda, che evade dalla vetrina di un negozio di pizza al taglio, per la prima volta nella mia vita non mi attrae; anzi, mi disgusta. Devo star proprio male, anche se la salita lungo la strada in centro paese mi riesce senza difficoltà. Slalom tra auto e motorini e ciclisti, finché raggiungo, finalmente, la passeggiata sul mare. Respiro a pieni polmoni, qui: l'acqua è placida come un'olio, la spiaggia brulica di vita. Ogni genere di vita: chi passeggia ancora con giacca e stivali, chi mette in mostra le proprie pallide nudità, chi gioca a palla, chi accompagna il cane. La stessa passeggiata è affollata. Corro finalmente di buona lena, ristabilita e senza gran fatica; solo, di quando in quando, inveisco silenziosamente contro i branchi di tre o quattro persone, di solito troppo pingui, che camminano affiancati, occupando tutto lo spazio della passerella, senza curarsi minimamente del fatto che io stia viaggiando verso di loro. Peggio per voi, sappiate che io non mi fermo! Solo all'ultimo, con malagrazia, si spostano. Le orecchie captano parlata piemontese e parlata milanese: eccoli qui, gli abitanti della nebbia che migrano a sud. Proprio come me.

Nel lungo tratto verso Varigotti, osservo una coppia di mezz'età che accompagna due splendidi cani, due segugi, sugli scogli bagnati, e la piccola boa di un sub che riemerge per un attimo e poi torna giù a caccia di chissà che. Qualche nuvola impercettibile, in lontananza.
A Varigotti trovo finalmente una fontanella per placare l'arsura; le due precedenti erano chiuse... Odori di pizza e di pesce, ma tutto ciò che mi sento di mangiare, ora come ora, è la frutta secca che mi sono portata appresso. Ananas secco, per la precisione, ghiotto, buonissimo. Sento un bisogno anomalo di dolce e di acqua. Fendo la folla, riparto verso il mio tratto preferito: le bellissime pareti e gli scogli che, tra Varigotti e Spotorno, scendono a picco sul mare. Con la luce di questo sole c'oggi, lo spettacolo è abbagliante, davvero maestoso. Peccato che qui si possa correre solo sull'Aurelia: non c'è spazio per farci stare la passeggiata. Lungo la breve risalita, osservo le peripezie di due giovani che si arrampicano su per una roccia a picco sul mare; sono già quasi in cima. Guardo giù, con timore reverenziale; l'acqua è verde, limpidissima, placida. Scatto una foto alla roccia che sembra una testa d'uomo, di profilo: è nota, quell'immagine. Corro e mi sento, finalmente, bene, anche se credo di aver accumulato un discreto ritardo sulla tabella di marcia. Sono già le tre passate e non ho ancora settanta km nelle gambe...

Quando sono quasi a Noli, il cellulare annuncia il messaggio di Matteo: mi avvisa che sarà libero per le quattro, quattro e mezza, e mi chiede quale sia il mio programma. Io posso andare più o meno ovunque: concordiamo per incontrarci lungo la salita che da Spotorno sale alle Manie. Noli, altro bagno di folla, altra fontanella; allungo il passo, ora che vedo la fine. Ancora un po' di lungomare, poi il cartello "Spotorno" che arriva quasi troppo in fretta. C'è gran fermento: l'Aurelia, per quel che posso capire, è chiusa a tratti. Sento il rombo dei motori da rally: non è possibile, anche qui... Coda di auto, interminabile. Mi avvicino ad uno dei personaggi in casacca rifrangente che dirigono il traffico: "Mi scusi, la strada per Le Manie?". "Guardi, deve prendere quella via lì, in salita, sempre dritto. Ma – aggiunge dopo avermi squadrata un istante – a piedi?". "Sì certo, a piedi!". Vista la confusione che regna qui intorno, mi sa tanto che questo è comunque il mezzo di trasporto più efficace, in quest'istante. Attraverso la strada, salto un basso muretto; con mia gran meraviglia, il gesto atletico non è nemmeno troppo legnoso. Poi, affronto la salita di petto, di corsa: le prime rampe sono ripide davvero. Respiro a pieni polmini, però, il profumo del mare. Curva dopo curva, mi ritrovo in pochi minuti, e in poca distanza, ad ammirare il mare dall'alto. Una bici mi passa accanto; per un attimo, resto interdetta: c'è in sella una persona che tutto potrebbe essere, fuorché uno scalatore; pedala con leggerezza e senza alcun fiatone... L'arcano è presto svelato: è una bici "a pedalata assistita"! Ecco, perché...

I raggi del sole sono già più gialli ed obliqui. Mi ostino a correre sulle rampe, o meglio, a portare un piede avanti l'altro nel gesto della corsa, ma il risultato è patetico. Troppo ripida, la strada. E troppo vuoto il pancino. Mi rassegno a camminare, sempre di buon passo, con i primi brividi della brezza sulla pelle, ed a ingurgitare, a mò di oca, qualche pezzetto d'ananas, che mi impiastriccia le mani e la faccia. Un occhio sempre oltre la prossima curva, in attesa di veder comparire il furgone bianco di Matteo. Vorrei che mi vedesse ancora correre, ma è inutile fingere; qui, al massimo, posso alternare tratti al passo a tratti di corsa. C'è un certo viavai di auto, ma nessuna traccia del vecchio Volkswagen.

A Voza sono un po' incerta sulla direzione; sono già passata di qui, in bici, ma altri facevano da navigatore per me. Opto per girare a destra: ancora salita dura, passo e corsa. Sempre dritto, perché il bivio che incontro mi porterebbe ancora giù, a Spotorno. Salgo ancora, di buona lena, incontro auto e moto, respiro. Mi sorpassa un ciclista in mountain bike, che accompagna un bel cagnone al guinzaglio; mi sa che è un aiuto indebito. E, subito dopo, da una viuzza laterale, spunta il furgone bianco. Eccolo, è Matteo.

Per oggi, è la fine della mia fatica. Settantadue km, più o meno, molto molto sofferti. Ora tocca a lui, è già tutto programmato, anche se io lo apprendo ora. Andremo entrambi a Ceva, passando per il Melogno: lungo la salita, io guiderò il furgone, mentre lui salirà in bici. Dobbiamo affrettarci, prima che faccia buio. Sono un po' perplessa: io non l'ho mai guidato, un catafalco del genere; non so se ne sarò in grado. E poi, la salita del Melogno non è esattamente il luogo più agevole dove far pratica... Ma vince la curiosità. Fermi in coda tra Finale ed il casello dell'autostrada, Matteo scarica la bici e parte. Io supero l'ingorgo, pian piano, con santa pazienza, e do inizio all'opera di tortura e distruzione delle marce e della frizione. Povero VW: io mi diverto, ma lui mica tanto, mi sa... Curva, controcurva; raggiungo Matteo, lo supero con tutti i crismi, una mano sul volante, l'altra a smanettare sull'autoradio. Lo attendo più avanti, al bivio per Eze, unico slargo disponibile; mi passa a fianco come un missile. Però, che bello: ora che sono discretamente demolita, con la coscienza a posto e la consapevolezza di "aver già dato", trovo piacevole e divertente un'attività che, altrimenti, mi renderebbe incontenibilmente furiosa: stare a guardare mentre qualcun altro fatica!

Rimetto in moto, riparto, raggiungo Matteo che mena sui pedali come un forsennato. Qualche auto da rally è ancora in giro; una che cerca di portarmi via una fetta di cofano... Questi sono tutti pazzi! Non trovo altro luogo idoneo al parcheggio del DC9, fino al bivio per Pian dei Corsi, che poi significa quasi in cima. Quassù le nuvole avvolgono il colle e la strada: chi l'avrebbe mai detto... La nebbia scende, fitta, fredda e rapida, a chiudere la visuale sulla curva da cui dovrei veder spuntare Matteo: cavoli, speriamo che gli automobilisti lo vedano... La preoccupazione cresce fin quando non lo vedo, o meglio lo intuisco appena, spuntare. Riavvio, lo seguo in cima al colle: quel mattoide c'è arrivato a tempo di record... Lo recupero e, su sua insistenza, conservo il posto di comando per la discesa, e poi per salita e discesa dei Giovetti, fino a Ceva. Ormai lo domino alla perfezione, il bestio. Ci trasferiamo sulla Opel, rimasta pazientemente lì in attesa; direzione Carmagnola, entrambi affamati. Per fortuna, il ristoro non dovrebbe mancare: ieri ho svaligiato il supermercato...