giovedì 29 aprile 2010

24/25 aprile 2010 - Da Borgo San Dalmazzo a Ventimiglia in 425 km

Non m'era mai successo, in più di dieci anni di onorata carriera automobilistica, di sbagliare l'uscita al rotondone di Marene. Sì, è vero, forse quella rotonda esiste da meno di dieci anni; comunque, ci sarò già passata un milione di volte... Nello stesso istante in cui imbocco l'uscita, mi rendo conto che è quella per Savigliano e non quella per Fossano: metto a fuoco il cartello solo perché ci passo proprio vicino. Tutto ciò per dare l'idea di quanto stia diluviando. L'unica nota positiva è che non piove così forte dappertutto; qua e là, la terza tacca di velocità dei tergicristallo è eccessiva.
Faccio inversione appena possibile, torno sui miei passi. A quest'ora del mattino, il traffico è piuttosto rado e sonnacchioso. A pensarci bene, non era esattamente questo, ciò che mi pareva di aver letto ancora ieri pomeriggio, sui bollettini meteo. E mi sembra anche impossibile che sia proprio questo, ciò che vedo. Negare l'evidenza, ecco in cosa sto concentrando tutte le mie forze. Ieri sera Ivano, al telefono: "Ti avrei accompagnata volentieri fino alla Maddalena... Ma domani piove, lo sai, vero?". L'ho presa più o meno come se qualcuno mi avesse fatto notare un asino con le ali. O, peggio, come se la mia bilancia, proprio sotto i miei piedi, avesse segnato 50 kg. Come sarebbe a dire, domani piove? Evitiamo di sprecare fiato in siffatte boiate, per favore. Non importa se, in questo preciso istante, le tapparelle si agitano, squassate dagli scrosci; domani sarà una bella giornata, punto. O, se proprio dovesse piovere, sarà comunque in via di miglioramento, già in tarda mattinata. Chiaro? Probabilmente no; il buon Ivano non appare affatto convinto, infatti rinuncia senza appello. E, con lui, perdo anche l'ultimo baluardo di maschia collaborazione che avevo tentato di sollecitare, un paio di settimane fa, inviando ad una decina di compagni di merende & simpatizzanti il mio progetto di traversata in bici. Chi per un motivo, chi per l'altro, chi senza motivo alcuno, tutti quanti si sono defilati: e dire che tutti quanti sarebbero senz'ombra di dubbio in grado di sopportare la prova, almeno quanto a preparazione fisica, e quasi tutti potrebbero impiegare la metà del mio tempo.

Così, alla stazione di Borgo San Dalmazzo, mi ritrovo sola soletta. Manca poco alle sette; me la son presa con calma, piedino leggero sull'acceleratore, proprio per dare a Giove Pluvio tutte le possibilità di mettere giudizio, ma Pluvio deve avere proprio la luna storta, oggi. In un'altra giornata qualsiasi, devo ammettere che non avrei nemmeno lontanamente pensato di saltare in sella, con questo disastro meteo. Non sarei nemmeno partita da casa. Avrei scrutato dalla finestra la luce del lampione, visto i goccioloni, e sarei pesantemente ricaduta sul materasso. Ma oggi c'è una sorta di sacro fuoco che arde e mi rende quasi indifferente a tutto ciò. Sarà che ci penso e ripenso da parecchi giorni, sarà che ho una buona dose di nervoso da smaltire: non è stata una settimana facile, in ufficio.
Una volta tanto, cerco di mettere un po' di attenzione in quel che faccio. Scarico la bici; controllo le luci che ho fissato al manubrio in modo un po' fantasioso. Alla pipa ho legato, con le fascette da elettricista, un mestolo di legno per la polenta, scovato rovistando nei cassetti alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da supporto; all'estremità piatta del mestolo ho piazzato, con nastro adesivo e fascette, due faretti, opportunamente inclinati verso il basso, perché facciano luce davanti alla ruota. Inoltre, alla parte inferiore della piega manubrio ho ancorato un terzo faretto. Sarebbe più saggio e più utile vincolare le luci alla forcella, in modo che il fascio luminoso sia vicino a terra: ci avevo pensato... Ma ho il terrore che, per qualsivoglia ragione, il faretto possa staccarsi e finire in mezzo ai raggi, con ovvie raccapriccianti conseguenze. Nello zaino ho, infine, la luce frontale. Tutto questo, con l'intenzione di compiere una bella traversata che mi porterà, via Colle della Maddalena, a Barcellonette, Digne les Bains, poi giù nelle Gorges del Verdon, risalire a Castellane, da lì andare in direzione del Col de Turini via Demandolx, su un altopiano fuori dalla rotta principale. Per approdare poi a Ventimiglia e rientrare a Borgo San Dalmazzo, via treno. Sono circa 470 km per un dislivello indefinibile.

Le premesse, purtroppo, sono pessime. Mi tocca partire con uno zaino ben più pingue del previsto: ho un paio di ricambi di roba asciutta e ben due giacche impermeabili; una, dozzinale, col cappuccio, per la salita, e l'altra nobile, GoreTex ma senza cappuccio, per la discesa e la notte. Tutto stipato in estremo ordine, almeno alla partenza: copertoncino di ricambio, giacchino e strisce rifrangenti, luce frontale e batterie di ricambio, maglie e magliette, guanti invernali, copriscarpe e berretto di pile ben isolati in borse di nylon, irrinunciabile rotolo di papier de cul a metà del suo spessore, portafoglio, telefono, questo il contenuto dello zaino. I due borselli da bici contengono rispettivamente tre camere d'aria, levagomme, brugole e toppe quello sottosella, focaccia bianca, frutta secca e macchina fotografica quello da manubrio. C'è poi la borraccia portaoggetti, riempita di barrette. L'ideale sarebbe stato smistare sulla bici ancora un po' del peso dello zaino, ma non c'era modo di farlo. E so che soffrirò per questo!

Un gruppo di quattro o cinque escursionisti con zaini enormi a torre, più un cane, si raduna sulla piazzetta della stazione. Ci scambiamo uno sguardo fugace che sottintende per tutti lo stesso significato: "Ma chi ce lo fa fare?". Poi quelli spariscono al binario, mentre io chiudo tutte le portiere e saluto la Opel. Coraggio, piccola, lo sai che lunedì ti porto a prendere le coccole del meccanico: te l'ho promesso...
I primi metri di viaggio sono un disperato slalom tra le pozze. Ad assestarmi in sella e trovare una mia forma di equilibrio impiegherò un po': lo zaino, sulle prime, mi schiaccia a terra; la strada bagnata, poi, mi ispira puro terrore. Non parliamo delle rotonde; solo due o tre, per fortuna, prima di uscire da Borgo San Dalmazzo. Mi tocca fin da subito adeguarmi alla vista in modalità "bassa definizione": le lenti degli occhiali bagnate non consentono alcun lusso. Asfalto nero, intriso di quella pioggia che lascia intendere di voler durare; cielo coperto da una cappa di nuvole dense, scure, compatte; goccioloni che picchiano sulla giacca impermeabile, sul coprizaino, sulla testa. Per quel poco che mi riesce di intuire, verso la Valle Stura, se possibile, è anche peggio.

Viaggio in direzione di Moiola, primi km della strada del Colle della Maddalena. Un po' d'inquietudine; spero che, con questa luce di tenebra mattutina, gli automobilisti si accorgano di me. Ho un bel po' di adesivi rifrangenti sparsi sulla bici e sullo zaino, ma non si sa mai. Il guaio è incrociare, o essere superati, da un camion: in quel caso lì, doccia supplementare garantita... Ci sarebbe la vecchia strada laterale, almeno fino a Vinadio, ma oggi non ho proprio alcuna voglia di deviazioni. Chissà poi in che stato è quella strada, dopo oltre un giorno intero di pioggia battente.
Non posso lagnarmi del freddo. Sarà la paura che mi fa avvampare la faccia; quel che sto facendo è semplicemente assurdo. Ciuffi di nuvole più basse ornano i pendii delle montagne. Ed io che viaggio tra le pozze, non sempre posso evitarle, con i miei vecchi copriscarpe impermeabili, che fino a ieri non ricordavo più nemmeno di avere, con i soprapantaloni anch'essi impermeabili e con le mani fasciate da un bel paio di guanti di gomma, rosa, da lavandaia. Raggiungere Demonte è lo sforzo più estenuante, anche con il sole; interminabili saliscendi, poi un falsopiano in salita, appena percepibile, che però inchioda e scoraggia le gambe. Acqua che cola sul viso, sul manubrio, dalle foglie, dai muretti, acqua che corre a bordo strada e disegna onde di sabbia e pietrisco. Non c'è molto traffico, per fortuna; turisti pochi, restano i camion. Mi domando quale possa essere la condizione della strada, su al colle. Le previsioni annunciavano, fino a ieri, neve a partire da quota 1.900 m: beh, in fondo si tratterebbe di finirci in mezzo per un centinaio di metri di dislivello... Matteo mi ha messa in guardia, via sms, stamattina presto: "Potrebbe essere peggio che sul Turini"... Già, che disastro quel giorno lassù. Speriamo in bene. Mi stupisco io stessa della mia imperturbabile calma.

Demonte: un profumo assassino di pane fresco inonda la via principale; i camioncini riforniscono i negozi di alimentari. Il macellaio, sceso in strada con il grembiulone, mi osserva di sbieco, perplesso. Via in un attimo, giusto il tempo di notare un particolare che forse mi è sempre sfuggito, o forse, semplicemente, è nuovo: al bivio con la strada che sale al Vallone dell'Arma, campeggia un bel cartello con scritta bianca in campo blu, "Colle Fauniera". Con buona pace delle dispute toponomastiche e del più suggestivo "Colle dei Morti", che tra l'altro, per i ciclisti , soprattutto quando salgono dalla Val Grana, è "nomen, omen". Avanti, con la pioggia sempre fida compagna, fino alla prima, imprescindibile pausa di Aisone. Bagno pubblico, non posso fare a meno di rendergli onore.
La piazzetta è deserta; due o tre auto in coda al semaforo del senso unico alternato. Il cielo ha lo stesso colore della pietra del campanile romanico. Mi rimetto lo zaino in spalla con un sospiro: è un macigno... Per un attimo, ho la tentazione di fare cenno all'autista del camion che attende al rosso, all'uscita dell'abitato, e chiedergli in che condizioni sia la strada, su al colle. Ma in fondo è meglio cullarsi nella beata ignoranza, ancora per un po'. Qualche comignolo fuma; profumo di legna, di caldo. A Vinadio, lo stesso deserto: l'unica forma di vita bipede che scorgo è una donna che s'infila precipitosamente nella porta di un bar, reggendo in braccio un bambinetto avvolto in una coperta. Una forma di vita quadrupede scatena tutta la sua riprovazione da dietro un cancello: mi sa che oggi sono la sua unica occasione per mettere in mostra il talento di cane da guardia. Non c'è un'anima oltre a me.

La breve discesa mi ricorda, se mai ne avessi avuto bisogno, che i freni, sui cerchi bagnati, non hanno alcuna intenzione di rendersi utili. Meno male che la strada è dritta. Fango, foglie lucide di acqua; il cappuccio cola sugli occhiali, come se non bastasse. Appena oltre il bivio per le Terme di Vinadio, tento di scattare una fotografia: macché, tutto inutile. Questo rottame, che di certo non merita il nome di macchina fotografica e non vale il prezzo, neanche poi così indifferente, pagato per comprarlo, semplicemente si rifiuta. Ormai lo so già, trattasi di fotocamera solo estiva; al di sotto di una certa temperatura, non si accende nemmeno, punto e basta. Peccato; il rettilineo che va a morire nelle gallerie, con questa luce, è suggestivo, quasi inquietante. Ai lati della strada, tronchi e rami spezzati sono testimonianza ancora ben presente delle valanghe dell'inverno. Man mano che procedo verso Sambuco, ho quasi l'impressione che la luce si stia facendo un po' più chiara: nulla di eclatante; il sole non si vede e non si vedrà ancora a lungo; però, in effetti, la pioggia pare diminuire di intensità. Vuoi vedere che non era un'illusione, la mia? Vuoi vedere che il tempo va davvero a migliorare? Basta poco, una flebile finta speranza, a darmi una violenta sferzata di ottimismo. A Pietraporzio cade ancora qualche goccia, nulla più. Le cime sono imbiancate di fresco. Avanti a testa bassa, si fa per dire: la pendenza si sente, eccome, sotto il peso dei chili miei e di quelli della zavorra. Pazienza e 34x26, tutto quel che posso offrire. Rivoli d'acqua scivolano via dai tetti di Pontebernardo, giù lungo i balconi in legno. Oltre la curva, la maestosa parete delle Barricate. Mi incuriosisce un gruppo di attempati viandanti in divisa grigioverde e stivaloni, tutti armati di binocoli e cannocchiali, uno persino di treppiede. Li sento parlare di stambecchi... Possibile, a questa quota? Mah, sapranno loro che ci vedono. Io lo do, uno sguardo nella direzione in cui puntano loro, ma non vedo un tubo.

La lunga galleria è una parentesi fredda, ma asciutta. Nei tornanti che seguono, alcune marmotte se la danno a gambe, segnalando la mia presenza a suon di fischi: in effetti, come suole dire un mio conoscente, con humor forse discutibile ma ahimè con piena ragione, per il modo in cui vado io in salita, non posso certo aspettarmi gli applausi. Per inciso, non ho ancora avuto occasione di vendicarmi della sua ironia, ma prima o poi...

Gli scheletri di cemento del Villaggio Primavera, con questa luce di piombo, appaiono ancor più squallidi. Con fatica approdo a Bersezio; l'ultimo tratto dritto, all'uscita del paese, è sempre insidioso, a pendenza crescente. Tra i ruderi dell'altro obbrobrioso gabbione di cemento spuntano, con mia sorpresa, alcune caprette. Migliorerà o no? Come sarà il tempo dall'altra parte? Approfitto del lungo pianoro per meditare su una decisione che, in realtà, ho già maturato. Oggi non si torna indietro, si passa di là, punto. E' un terno al lotto; potrebbe anche accadere di dover poi viaggiare fino alla costa sotto la pioggia. Ma è un rischio che oggi mi sento di voler correre. Oggi, la pioggia non è che una delle tante condizioni meteo possibili.
Anche Argentera rimane alle mie spalle. Restano gli ultimi cinque km di tornanti, da dividere con i tanti lunghissimi camion che pennellano i curvoni con eleganza invidiabile. Pedalo piano, regolare. Torna a cadere qualche goccia: no, per favore, non adesso... Strabuzzo gli occhi per cogliere, su al colle, qualche segno di conforto; in effetti, mi pare di vedere una sottile striscia di pallido azzurro... Bando alle illusioni, Gian, pensa di meno e pedala di più. Non troppo però, altrimenti scoppi, e la strada è ancora lunghissima. Mi aspetto di trovare neve sulla strada, metro dopo metro: macchè, nulla. Solo qualche crepa, qualche buco, un po' do fanghiglia. Prima serie di tornanti, poi la casetta sulla sinistra; seconda serie di tornanti, i più secchi, e poi la Fontana di Napoleone. Il lago è ancora coperto di neve. E di ghiaccio, credo, anche se la temperatura non è affatto glaciale e, lungo la strada, scorre solo acqua. A questo punto, è fatta. La striscia di cielo è diventata uno squarcio: mi basta affacciarmi appena oltre lo scollinamento, per capire che, di là, la situazione è ben diversa. Addirittura il sole: un'illusione a cui mi aggrappo con tutte le mie forze, un sorriso che si allarga da un orecchio all'altro e, se possibile, fa persino il giro della testa. Poi mi guardo intorno: nessuno, ma proprio nessuno, nemmeno un'auto parcheggiata, nulla. Il piazzale del colle è deserto, il rifugio ed il chioschetto di liquori e souvenir, sprangati.

Non appena mi fermo, una lama d'aria fredda mi raggela. Rapida indagine per capire quale dei quattro muri del chioschetto sia al riparo dal vento: è quello in faccia alla Francia. In questo lungo viaggio, dovrò costringermi alla pazienza. Detesto le pause, ma mi toccherà sopportarne tante. Sarà proprio necessario. Adesso, per esempio: mi levo lo zaino di spalla, tolgo il coprizaino, scavo alla ricerca dei guanti invernali, che infilo sopra i guanti di gomma, e del berretto, che sistemo sopra il cappuccio del vecchio K-way. Indosso infine la seconda giacca, richiudo lo zaino, ripristino la copertura impermeabile, perché sì, è pur vero che il versante francese del colle gode di qualche raggio di sole... Ma non è che il cielo sia perfettamente azzurro e sgombro, tutt'altro.

Si parte. Ormai la scelta è fatta, indietro non si torna. Giù verso Larche, verso la valle dell'Ubaye; que serà, serà. Con cautela però, perché i freni devono mordere a lungo i cerchi, prima di asciugarli ed essere efficaci nel rallentare la bici. Doppia sosta nei primi due tornanti, per consentire la manovra a due lunghissimi camion che salgono verso l'Italia; poi giù, decisa, litigando con un pedale che non vuol saperne di agganciarsi. Il tepore del sole è gradevolissimo, rinforza il buon umore. Davvero mi illudo che le difficoltà siano finite. Scruto il cielo, ma da qui è difficile azzardare previsioni; la valle offre una visuale troppo ristretta. Supero anche il punto critico della frana, il passaggio che sarebbe vietatissimo alle bici: già, l'avevo rimosso, il particolare del divieto; non me ne ricordavo nemmeno più. Va tutto liscio e mi ritrovo a fondovalle: ci vuole però qualche chilometro perché trovi il coraggio di fermarmi e svestirmi. Passo La Condamine, passo Jausiers, uno sguardo ai monti tra cui s'inerpica la salita del Col de la Bonette: ci vorrà ancora qualche tempo, per poter salire da quelle parti con mezzi diversi dagli sci. Solo qui approfitto di uno slargo per concedermi la seconda, lunga, pausa. D'altronde, non ho alternativa. Non posso certo vestirmi e svestirmi pedalando. Osservo con piacere che la terra è secca e polverosa: qui non sembra aver piovuto. Mi levo i sovrapantaloni, i copriscarpe, le due paia di guanti, le due giacche, il berretto; cambio anche la maglietta alla pelle, ormai fradicia. Poi appendo la mercanzia all'esterno dello zaino: pazienza se avrò l'aspetto di un venditore di tappeti... Se non altro, con questo bel calduccio, può darsi che qualcosa asciughi. E poi, sarebbe il caso di mangiare qualcosa: ad esempio, l'ultima porzione di focaccia. Le altre due sono già evaporate durante la salita.

Lavorando di ganasce, mi rimetto in marcia verso Barcellonette. Ora che la visuale sul cielo è più ampia, comincio a pensare che forse il mio ottimismo non sia del tutto giustificato. Ho il sole sopra la testa, vero, ma non lontano si addensa una coltre scura, compatta. E pare proprio nella direzione che seguirò io. Potrei illudermi, volendo, che l'evoluzione sia verso il meglio, cioè, sole qui e poi sole anche laggiù, ma ho la sensazione che non sarà così.
Supero Barcellonette: da qui a Digne, poco più di novanta km, da aggiungere ai circa ottanta già percorsi, per raggiungere la prima meta intermedia del mio viaggio. La prima parte di strada verso Serre Ponçon è ampia, trafficata e quasi sempre in discesa; s'infila tra pinete e strette pareti, per portarmi poi alla vista della bella vallata che ospita il lago. Più o meno all'altezza del bivio per Embrun, si torna a salire lentamente, con una pendenza che la strada così ampia fa sembrare, per inganno, inferiore a quella che probabilmente si misura nella realtà. Il sole si mostra sempre più con parsimonia; le chiazze di cielo sono ormai rade, piccoline. Fa caldo; la vallata è d'un bel colore verde acceso, di primavera, ma anche di umidità. Mi distraggo osservando le abitazioni e le strade dall'altro versante; cerco con lo sguardo il lago: ma la parte più estrema del bacino, verso Barcellonette, è desolatamente vuota. Una lingua di terra grigia, secca. Fingo di dimenticarmi dello zaino che mi sega le spalle e punta su non so quale vertebra; mi ci abituerò...

Al bivio per Digne, piego a sinistra, ancora in salita; mi lascio il lago alle spalle, punto verso una corona di cime verdi, arrotondate. Il sole ormai è sparito; benché sia primo pomeriggio – non ho idea dell'ora – la luce è livida, metallica, il cielo pesto e nero. Minacciosi si accendono i primi fulmini, in lontananza; non se ne sente ancora il rumore. Qualche goccia, qua e là. A tutto ciò, si aggiunge un fastidioso "tac, tac" ritmico che proviene dalla ruota posteriore ed ha un ritmo variabile a seconda della velocità. Probabilmente, uno o due raggi allentati; ottimo, in fondo di qui al termine del viaggio mancheranno suppergiù trecento km... Non mi resta che ricorrere alla parola del saggio: "Se c'è soluzione, perché preoccuparsi? Se non c'è soluzione, perché preoccuparsi?". Mi trovo, in effetti, nel secondo caso; non saprei proprio cosa fare. Se avessi quell'oggettino per tendere i raggi, e se sapessi come usarlo. E poi, in fondo, non sono nemmeno sicura al cento per cento che si tratti dei raggi. Non ho alcuna intenzione di fermarmi per accertarmene: ad un'angosciosa consapevolezza, preferisco il dubbio, che, se non altro, lascia acceso un barlume di speranza. Non posso che augurarmi che la situazione meccanica non precipiti; quanto al rumore, mi abituerò: non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, ed io non voglio sentire quel "tac, tac".
Mi aspetto il diluvio da un momento all'altro. Non arriva, per ora. Al piccolo abitato di Les Rollands c'è persino un campeggio. Qui s'inizia a scendere. Ricordo bene d'essere passata di qua la scorsa primavera, in occasione di un viaggio molto simile in compagnia dell'Invasato delle Alpi Occidentali, alias il terribile Ivano. Quel giorno, per raggiungere Seyne, avevamo deviato per una strada secondaria, saliscendi tra le colline; oggi, però, data la situazione un po' delicata, preferisco restare sulla rotta principale. Alzo il naso in su e vedo nero, nero di pece ovunque. Indosso la giacca, perché la temperatura è scesa, nel giro di breve tempo, di parecchi gradi. Breve discesa, poi qualche tratto in falsopiano: ogni impercettibile risalita mi costa uno sforzo indicibile; i pedali non vogliono saperne di girare. Calma Gian, calma e pazienza. Non devi, non puoi permetterti di avere fretta, né di sforzare più del necessario. La strada è lunga. Lo dice anche Marco Olmo, "Andate piano, che è lunga".

A Seyne arrivo oppressa da un senso di fiacca. L'elaborato del mio dettagliato censimento dei "Wc Publics" della Francia del Sud dice che qui ce n'è un graziosissimo esemplare. Ne approfitto, così come approfitto della fontanella per fare il pieno alla borraccia. Spuntino a base di prugne secche: ho sbagliato confezione, ero convinta d'aver comprato le albicocche; pazienza, non ha importanza, tanto il mio sistema digerente in questo momento triturerebbe anche i sassi senza conseguenze collaterali. Riparto poi in leggera salita: leggera ma costante, in mezzo a collinone tonde e morbide, verdissime. Fino al punto in cui la strada sembra sparire nel nulla: toh, un colle, con tanto di cartello, che leggo e dimentico all'istante. Poi si scende dolcemente, alla destra il bosco ed il pendio, e si oltrepassa il bivio per la stazione sciistica "Le Grand Puy". Mi viene ancora da ridere pensando alla traduzione "secondo l'Ivano": dal momento che "pui", in dialetto piemontese, significa spilorcio, la località potrebbe tranquillamente chiamarsi, in quel di Cuneo, "Gran Taccagno".
Poco più avanti, ecco la mia deviazione. Lascio la strada principale per svoltare a destra, direzione Verdaches: una lunghissima galoppata, più di trenta km se non ricordo male, verso Digne, in prevalente discesa. Una stradina molto suggestiva che attraversa alcune borgate isolate, dall'aspetto antico, quasi fuori dal mondo, costruzioni, persone ed attività che sembrano conservate intatte da epoche remote. Se non fosse per le automobili... La strada s'infila poi in un meraviglioso gioco di pareti di roccia a picco sul torrente, che sembrano voler strangolare pian piano il viandante. Sul fondo delle suggestive Gorges, la strada attraversa più volte il torrente Le Bès, fino a sfociare poi di fronte ad un ampio pianoro: ci si arriva accompagnati dagli ultimi imponenti rilievi che non hanno spigoli, ma fianchi tondeggianti, e sembrano fatti di pannelli di roccia appoggiati, scivolati gli uni sugli altri. Poco più avanti, costeggiando il pianoro, la roccia cambia aspetto; per un lungo tratto, non sembra nemmeno più pietra; ha l'aspetto del legno di un tronco carbonizzato, che si sfalda in sottili e fragili scaglie nere passandoci la mano. Tutto nero, sembra proprio carbone. Più o meno come il cielo.

A Digne, le strade recano i segni del passaggio del temporale: la pioggia dev'essere stata intensa e sembra appena cessata; l'asfalto è bagnato, pozze ovunque, foglioline strappate ed incollate a terra, gente con gli ombrelli sottobraccio. E, per generosa concessione di Giove Pluvio, qualche timido raggio di sole, che rende ancor più cupo, per contrasto, il colore scuro delle nubi. Un orologio pubblico m'informa che sono da poco passate le cinque del pomeriggio. A questo punto, non avrei proprio voglia, né esigenza, di fermarmi. Ma sarebbe insensato non farlo: devo impormi una pausa per mangiare qualcosa di sostanzioso, con calma, e devo fare un po' di scorta per la notte. M'infilo in città, punto il primo supermercato disponibile; mi ci tuffo senza aver le idee ben chiare. Come sempre, lascio che sia il mio stomaco a decidere per me: una bottiglia di yogurt da mezzo litro ed una bottiglietta di Coca, da bere subito, più un panetto di fichi secchi, un dolce simile al pandolce genovese, già tagliato in fette, una lista di torrone morbido alle mandorle ed una libidinosissima confezione di Lion. Se davvero riuscissi a mettere in atto il progetto del passaggio nelle Gorges du Verdon, cosa di cui purtroppo non sono più così sicura, tutta questa roba mi farà comodo, perché ben presto, e per lungo tempo, mi troverò nel deserto.

Appena fuori dal negozio, mi accomodo su una panchina e spiego la carta geografica. Da qui non manca molto al bivio tra la Route Napoleon e la strada per Riez. Alternativamente trangugio un sorso di yogurt, scruto la carta e guardo il cielo, che si è già rimangiato il poco sole concesso. Intorno a me, brulica la vita del paese; viavai di mamme con passeggini, crocchi di studenti, auto e pullman. Il mezzo litro di yogurt scompare in un attimo: forse non è la scelta più saggia, tracannare tanta roba fredda di frigo, in una giornata già fredde ed umida, ma lo yogurt è uno dei tanti toccasana, nei miei viaggi. Segue a ruota la Coca Cola: il resto della spesa viene distribuito equamente tra lo zaino ed il borsello da manubrio, dove s'è liberato lo spazio in origine destinato alla focaccia.

Prima di ripartire, commetto un errore di eccesso di fiducia; in previsione di un po' di salita, levo la giacca impermeabile. Non l'avessi mai fatto: tempo di uscire dalla città ed ecco che ricomincia a piovere. Goccioloni fitti, pesanti. Alè, son dinuovo ferma: fuori la giacca, fuori i copriscarpe, fuori il coprizaino. Pare proprio che non ci sia da scherzare. Si torna a viaggiare sotto la pioggia. E più s'avvicina il bivio per Riez, più mi angustio. Che devo fare? Tentare lo stesso la via delle Gorges? Alla peggio, potrei svoltare per Riez in ogni caso; poi, se il tempo non dovesse migliorare, potrei abbandonare l'idea delle Gorges, puntare su Draguignan e da lì alla costa. Sì, ma avrebbe senso? Sarebbe senz'altro un giro molto lungo e tortuoso; soprattutto, sarebbe un itinerario da affrontare in gran parte di notte, magari con il maltempo, e senza che io conosca neanche un metro di quella strada. No, non ha alcun senso. Se proprio sarò costretta ad abbandonare il progetto del Verdon, è meglio che io resti sulla Route Napoleon: non l'ho mai percorsa in bici, ma in auto sì; in caso di pioggia o difficoltà, sarebbe comunque un'ancora di salvezza, un luogo più o meno frequentato e rintracciabile.

La pioggia non sembra voler cedere il passo. Alla fine, confusa immagine sulle lenti bagnate, intravedo davanti a me il bivio. Riez, a destra; Castellane, Grasse, la costa, dritto. Sono quei momenti in cui, al posto mio, dovrebbe decidere qualcuno con un po' di coraggio. Non dico incoscienza, perché di quella credo d'essere ben fornita... Ma alla mia incoscienza fa sempre da argine la paura. Per quanto io guardi in su, non vedo tracce nel cielo che consentano di sperare in un miglioramento. Forse ci sono, ma io non sono in grado di coglierle. Non è un temporale, questo. Potrebbe anche piovere fino a domani mattina... L'idea di andarmi ad infilare su per la strada di Aiguines in queste condizioni mi terrorizza: non tanto per la salita, quanto per i tratti di discesa, su una strada stretta ed esposta su centinaia di metri di salto senza appello. Sarà buio ed io avrò a che fare con i freni pressoché inutilizzabili sui cerchi bagnati. Nella migliore delle ipotesi, rischio un bivacco senza riparo a temperatura tutt'altro che confortevole; nella peggiore, potrei anche dare motivo di giubilo agli avvoltoi che popolano la zona...

Amen, Gian, è andata così, lascia perdere. Non ce la faresti mai. Tira dritto, e poi si vedrà. Gambe in spalla, lungo gli interminabili saliscendi della Route Napoleon, in un paesaggio spettrale di un giorno dall'aspetto pesantemente autunnale. La strada corre lungo la ferrovia e s'intreccia con essa, costringendomi a pericolose evoluzioni per stabilire l'angolo migliore con cui attraversare i binari: il ricordo dell'incontro ravvicinato con l'asfalto, occorso dopo che avevo avuto la bella pensata d'infilare la ruota anteriore nella fessura, è ancora fin troppo vivo. Bagnata fino al midollo, provo un po' di tristezza e disappunto, ma mi sento, ora, molto più sollevata. Mi adeguo e proseguo la mia lenta marcia verso Castellane, lenta per il peso dei bagagli, per le difficoltà di equilibrio sul bagnato, per l'indolenza di chi non ha orari né fretta.

Nel piccolo abitato di Barréme, mi rifugio sotto lo spiovente di un tetto, per mettere su le fascette ed il giacchino rifrangente ed assicurarmi che le luci siano pronte all'uso. La luce sta calando, prima del tempo, per colpa delle nuvole; meglio che provveda a rendermi visibile. Un boccone del buon pandolce francese: lo stomaco reclama... Rabbrividisco; i capelli mi si appiccicano al viso. Ancora in sella, per chissà quanti km. Non ho idea di quanto disti Castellane da qui, né di quali paesi si debbano ancora attraversare prima di arrivarci; d'altronde, non ho alcuna voglia di scavare nello zaino per estrarne la cartina. Non si può sbagliare, qui, basta andar dritto. Continuo la marcia lungo il corso del torrente "L'Asse"; torrente, o fiume, non lo so, non vorrei mancargli di rispetto. Interminabili i saliscendi verso La Tulliere; poi, una salita interviene a risvegliare un po' il mio animo e le mie gambe intorpidite. Splendida salita tra pini marittimi e radi cespugli, in un paio di tornanti conduce ad uno splendido passaggio attraverso una gola, ancora strati di roccia poggiati l'uno sull'altro, inclinati, schiacciati. Nella luce cupa della sera, con la pioggia che ha appena perso un po' d'intesità, questo luogo è ancor più tetro ed affascinante insieme; l'unico rumore è quello delle gocce sul cappuccio, sulla mia giacca, ma sembra di sentire la roccia stridere, crepitare, contorcersi nello sforzo del movimento. Solo radi cespugli osano avventurarsi sulle pareti irregolari, a striscie, e danno l'effetto si una vasta superficie a puntini scuri. Meravigliosa solitudine della sera. Non posso fare a meno di ripensare al lavoro, in particolare a certi episodi davvero disgustosi in cui mi trovo coinvolta, di tanto in tanto, per quella parte del mio lavoro che consiste nell'amministrare condomini; episodi rari, per fortuna, ma che sul momento pesano e lasciano l'amaro in bocca, per la prepotenza, la boria, la maleducazione che prorompono con la violenza dell'acqua che travolge una diga. Beh, ci ripenso per contrasto: lascio a quella gente le inutili miserie, la voglia inarrestabile di attaccar briga sempre e comunque, ci sia o meno il pretesto, la rabbia da masticare giorno dopo giorno, perché chi è causa del suo mal pianga se stesso; non potranno mai provare, loro, la bellissima beatitudine che vivo io in questo momento, nonostante tutto, nonostante la pioggia, il freddo. Questo è ciò che conta, è la mia vita; tutto il resto è un male necessario...

Ancora un cenno di vita, un pugno di case, Taulanne. Un'altra breve salita, fino al Col de Lèques. "Tac, tac", il rumore ritmico continua ed è l'unico suono che resta a farmi compagnia. E' ormai quasi buio: da quassù si vedono, molto più in basso, le luci di un paese ben più corposo di quelli attraversati sinora. Sarà senz'altro Castellane. Mi fermo allo scollinamento: sudata e fradicia come sono, è bene che mi copra, anche se la discesa durerà magari solo pochi km. Ormai cadono poche, rade gocce; là dove lo strato di nubi è meno spesso, sembra di intravedere la luce fioca della luna. Assieme a me, si ferma, sul colle, una lunga auto scura, elegante. Ne scende una donna che tenta la sorte presso il bell'albergo proprio lì accanto: niente da fare, chiuso. L'auto se ne va. Attraverso i vetri della finestra di un locale, proprio dirimpetto all'albergo, intravedo le sagome disegnate dalla luce; si sente musica. Che splendido posto da lupi è questo.

La discesa è più lunga, e fredda, del previsto. Accendo una lucina anteriore giusto per rendermi visibile, ma riesco ancora ad intuire la strada senza bisogno dell'intera luminaria. Tremo di freddo, sento le mani irrigidite, il volto congelato. Giù a Castellane sarà bene trovare un riparo, cambiarsi, mangiare qualcosa con calma, prima del lungo viaggio notturno. Chissà: se riuscissi a pedalare tutta la notte, o almeno buona parte, domani potrei comunque arrivare in zona utile per salire al Turini. Se davvero la pioggia fosse cessata... Di stelle ancora neanche l'ombra, ma i raggi della luna sembrano avere ormai imposto la loro presenza.
Arrivo in paese a sera inoltrata; pochi avventori nei dehors dei bar, poca gente a passeggio. Con fiuto degno del miglior segugio da tartufo, individuo immediatamente l'indicazione per la toilette. Un locale abbastanza ampio da farci entrare anche la bici, ed abbastanza pulito da potercisi cambiare. Indosso il pile leggero e, per il momento, la giacca ed i guanti; sbocconcello la torta con le uvette ed i canditi, un po' di frutta secca, un Lion già pronto tra i denti, quando riparto. Direzione Grasse, subito in salita. Queste soste continue, metti la giacca, leva la giacca, cominciano ad innervosirmi... La luminaria ora fa bella mostra di sé, ma, ben presto, torno alla sola lucina per farmi vedere. Uno squarcio nelle nuvole permette alla luna di illuminarmi il cammino, tanto che, al lento passo della mia ascesa, posso fare a meno dei faretti e della frontale.
Il brusio della città, i cani che latrano, i rumori pian piano si spengono, mentre salgo al buio e gioco a distinguere le cime degli alberi dal cielo nero. Che rabbia, se solo avessi avuto meno paura, se solo avessi saputo che il tempo si sarebbe rimesso al buono... Ma sarà poi davvero così?

La discesa è breve ed ingannevole; segue un lungo tratto di saliscendi blandi ed estenuanti. Quel che più mi preoccupa, però, è la nebbia. Pochi chilometri fa sembrava semplice foschia, un effetto della pioggia appena caduta e dell'asfalto forse ancora caldo, chissà. Ma ormai da un po' stento a vedere dove metto le ruote: in salita, può anche andare, ma, sul piano ed in discesa, la vita diventa davvero amara. I miei occhi da incallita miope vedono malissimo al buio; vedono malissimo nella nebbia... Se poi facciamo un minestrone delle due circostanze avverse, per me è davvero troppo. Mentre così rimugino, sento il rombo di un motore alle spalle, a gran velocità: l'auto mi sorpassa, mi schiva, ma ho la netta sensazione che chi guidava si sia accorto di me quando mi era già quasi a fianco. Sembro un albero di Natale, con tutti i rifrangenti che ho addosso, e con la luce rossa posteriore, ma è chiaro che, nella nebbia, tutto ciò serve a poco.
Non posso certo fermarmi qui, in mezzo al nulla. Decido che è il caso di procedere ancora un po', sia pure con gli occhi in mano per tentare d'intuire la strada. Non immaginavo che la Route Napoleon fosse così frequentata, nottetempo, e che esistesse un qualche limite di velocità minimo dei novanta all'ora, anzi cento in caso di visibilità ridotta. Non capisco: io non vedo un tubo, e questi sfrecciano senza alcun riguardo.
Un'altra auto mi schiva per un pelo; questa volta non è più una sensazione: nel momento in cui il cuore salta un paio di battiti, mi rendo conto di essermela cavata, questa volta, davvero per il rotto della cuffia. Vampata di calore... No, così non ha senso andare avanti. Anche perché non andrei avanti a lungo. Il prossimo Schumacher notturno mi renderà parte integrante dell'asfalto della splendida Route; destino anche glorioso, se vogliamo, ma vilmente ne farei a meno.

Come una sorgente d'acqua nel deserto, compare un grosso caseggiato, abitato a giudicare dalle auto parcheggiate nell'antistante spiazzo, e, subito dopo, una pensilina del bus: piccola, confortevole, con tanto di panca, due assi di legno parallele. Sarà il mio rifugio per la notte, almeno per parte di essa. Appoggio la bici, scavo nello zaino, ne estraggo il telo di sopravvivenza, un esemplare già più volte usato e ripiegato. Me l'avvolgo intorno al corpo, in modo da coprire tutto il possibile, e mi siedo con le gambe stese sulla panca, la schiena contro il muro. Tutt'intorno, solo nebbia, buio ed il fischio prolungato, ad intervalli, di qualche volatile, come un'interminabile cantilena.

Abiti bagnati, appiccicati alla pelle, freddo pungente della notte: se non siamo a quota mille metri, poco ci manca. Il telo termico fa quel che può, ma tremo come una foglia. Mi addormento, mi risveglio in preda al tremore, torno ad addormentarmi, chissà per quanto; mi fa male la schiena, per non parlare del posteriore; cambio posizione, mi metto seduta, i piedi ormai non li sento più. Così rannicchiata nel mio covo, che in questo momento è la mia confortevole casetta, sono già sprofondata in una specie di torpore della volontà: so che dovrei sporgermi, controllare se per caso la nebbia si fosse un po' diradata, valutare l'ipotesi di rimettermi in marcia. Ma non ce la faccio ad alzarmi in piedi. Manca la scintilla. Le auto sfrecciano davanti alla pensilina, distante dalla strada qualche metro: ogni volta è un rombo improvviso, uno spostamento d'aria che solleva e scompagina il telo termico e mi conficca una lama di gelo nei muscoli e nella ciccia. Oso appena il naso fuori: il caseggiato ed il piazzale illuminato non si vedono quasi più... Solo un alone di luce giallognola. Ed è qui, davvero, a due passi. Il fischio, il rombo, il rumore improvviso delle frasche, di tanto in tanto. Saranno lunghissime queste ore, fa così freddo. Non ho fame, non ho male, se solo riuscissi a dormire, è bellissimo qui. La sensazione degli alpinisti, alle prese con le quote alle quali il cervello fa una fatica sovrumana a connettere, dev'essere qualcosa di vagamente simile. Io, che non ho il fisico, lo provo già qui, ad altitudini da collina... Riesco alla fine a raccogliere quel tanto di volontà che basta a cambiare posizione: mi arrotolo nel telo termico come un salame, testa compresa; mi distendo sulla panca di legno, su un fianco; appoggio la testa. Più nulla.

Non è più completamente buio. Un pallido barlume sembra allargarsi oltre il telo termico. Apro un occhio, lo richiudo, torno nel mio limbo. Dovrò aprirlo ancora due volte per riemergere finalmente ad un accettabile livello di coscienza. E' ora, Gian, è l'alba.
Portarmi in posizione seduta mi costa una fatica indicibile, oltre ad un buon numero di improperi vari. Ossa, nervi, muscoli, tutto irrigidito in posizione innaturale, tutto congelato. Polpacci e piedi, in particolare, sono di marmo, gelidi ed immobili. Li poggio a terra così come sono: mi sfrego e scaldo le mani, poi passo a massaggiare energicamente le gambe. Parecchi minuti di sforzo per sentire il sangue affluire fin giù, per riuscire a piegare le caviglie. Freddo intenso nella schiena, al torace, senso di nausea, un gustaccio in bocca, un crudele mal di testa, neanche mi fossi data ai bagordi. La luce è fioca, potrebbero essere all'incirca le sei; la nebbia s'è diradata appena appena, ma, con il chiaro del giorno, si ragiona già un po' meglio. Per ora non ho fame; la sola idea di mettere qualcosa sotto i denti mi ripugna. Alla colazione provvederò strada facendo; le provviste non mi mancano.
Risalgo in sella, in equilibrio precario, così come sono, senza levare nulla di dosso, ancora mezza congelata. E' inutile ricoprirsi di strati, se il primo, quello alla pelle, è umido. Quanto vorrei un accappatoio... La visibilità pian piano migliora, anche se il sole non è ancora sorto oltre il confine delle montagne. La foschia disegna particolari di paesaggi da sogno, che sarebbero degni di fotografia, se solo questo inutile rottame che mi porto appresso si dimostrasse collaborativo. Un albero, isolato, in mezzo al campo; tronco possente, tentacoli ancora nudi, sfumati nel grigio quasi rosa. Resto a bocca aperta. I cascinali emergono uno ad uno dai contorni sfocati. Le mani sono rigide sul manubrio; spero di non trovarmi a dover frenare all'improvviso; non so se ne sarei in grado. Leggero falsopiano, una curva, la strada segue una profonda insenatura nella montagna. Ora sì, è il caso di fermarsi e levare qualche strato: e magari mangiare anche un boccone, visto che lo stomaco comincia a dar cenni di pretesa. Diradata la nebbia, si annuncia una splendida giornata. L'ambiente ha ormai i tratti del mare: terra bianca e sabbiosa, vegetazione da clima caldo. La discesa verso il paese di St Vallier de Thiey impone però ancora la giacca. Nello zaino, intanto, il caos ha raggiunto il suo apice; ormai prendo e ripongo alla rinfusa, senza più alcuna attenzione per la disposizione razionale del bagaglio. Accade così che il sacco appoggi sulla schiena con un bubbone e resti pendente da una parte o dall'altra. Scruto la traccia della strada lungo la montagna: quel che vedo, per ora, è ancora tutto all'ombra; solo qualche spicchio gode già dei primi raggi. Però, qualche raro ciclista è già all'opera, buon segno. Ieri, nel mio lungo viaggio, ne avrò incontrati in tutto un paio...

Mi godo un voluttuoso Lion mentre arrivo alle prime propaggini di Grasse. Addio dolci saliscendi e strade ampie, deserte, silenziose. Da qui in poi, e fino a Ventimiglia, sarà il caos, mi ci devo rassegnare. A Grasse, poi, cominciano i miei guai stradali. La mia priorità, in questo momento, è scendere al mare, in un qualsiasi punto tra Cannes ed Antibes, che mi sembrano le due località costiere più vicine e logiche. Peccato che io non disponga di una cartina della città, e peccato che questo luogo sia un vero e proprio labirinto. Incroci, deviazioni, rotonde a profusione, da affrontare con la mente ancora ottenebrata dalla notte che mi ha inflitto, se possibile, ancor più stanchezza, anziché donarmi un po' di riposo. Diligentemente, seguo le indicazioni per Cannes, con un occhio pronto a schivare pedoni, portiere di auto spalancate all'improvviso, partenze e svolte fantasiose. Dopo aver percorso una distanza che mi sembra interminabile, mi ritrovo in faccia ad un cartello più che mai eloquente: Cannes... Ma con il divieto per pedoni e biciclette. Bene, perfetto. Dove diamine vado adesso? Tento la sorte imboccando una strada in discesa che mi sembra andare nella giusta direzione... Ma non è così. Qui vado a finire chissà dove. Pegomas, ma non è sulla mia rotta. Torno sui miei passi, che vuol dire in salita: amo il caldo e l'ho tanto desiderato, ma c'è una sola circostanza in cui lo detesto, ed è questa, il caldo asfissiante del traffico e dell'asfalto cocente in città. Nel mio scarno francese, provo a chiedere lumi: dove vado per arrivare al mare? Un simpatico arzillo vecchietto dalle gote rosse mi suggerisce di seguire la strada di fronte a noi, "tout droit", e mi fa il nome di una località che, per quanto io proceda "tout droit", non vedo indicato da nessuna parte. E poi, qui, distinguere un paese dall'altro è un rebus... E' un continuo, paesi, viali, capannoni, parchi commerciali, un inferno. Tout droit ancora; torno a leggere l'indicazione per Cannes, un cartello in campo verde ed uno, più piccolino, in campo bianco. Quest'ultimo mi dà fiducia: di lì dovrei poter passare anche in bici, almeno spero. Spero... Ma mi sbaglio. D'un tratto, senza sapere bene come ci sono finita, mi ritrovo su qualcosa che ha tutta l'aria di essere una specie di svincolo, a carreggiate separate, anche se non ho visto l'ombra di cartelli di divieto. A destra, le deviazioni per l'autostrada; dritto... Dritto, eccolo lì, il cartello di divieto, visibilissimo, ma qui in un punto che non mi serve più a nulla. Esito un attimo: e mò? Se procedo, rischio che mi becchi la Gendarmerie e mi faccia un tombino così. Se giro indietro, rischio che un'auto mi centri – già non ci si aspetta di vedere un ciclista in superstrada, figuriamoci poi contromano – e mi spedisca a miglior vita. Procedo. Tre minuti tra i più emozionanti della mia vita, pedalando a più non posso, con tutto il mio carico di bagaglio, contro il guard rail, sulla superstrada a tre corsie verso Antibes. Imbocco senza dubbio la prima uscita, che guardacaso è proprio Antibes e mi rigurgita in mezzo a capannoni, rotonde e cavalcavia senza forma. Seguo ancora, fedelmente, la direzione di Antibes: mi tocca un'altra salita, breve ma impegnativa, ancor più per il fatto che non ho idea di dove andrò a finire. Forse per questo, le gambe pestano con rinnovata rabbia sui pedali. Del mare, ancora nessuna traccia; in compenso, supero un paio di boulangerie che spandono nell'aere profumi a dire poco assassini. Giro a vuoto, in preda a crescente esasperazione, ancora per un'eternità, prima di trovarmi finalmente al cospetto del mare: semafori, caos, ferma, riparti, attenzione all'ambulanza, pedoni, rumori, sete... Quando la misura è davvero colma, tento l'ultima carta. Sempre con il mio stentato francese, imploro un viandante di indicarmi la via per Nizza. Lì per lì, il distinto signore mi risponde, un po' sorpreso dalla stessa ovvietà della sua affermazione, che devo viaggiare con il mare alla mia destra; poi, compreso che il mio problema è proprio quello, raggiungere il mare, m'insegna un passaggio che mai e poi mai avrei trovato da sola, attraverso il vecchio borgo. Quando mi trovo, finalmente, a pedalare quasi spedita sul lungomare, è come se mi avessero levato di dosso un macigno. Come se qualcuno si fosse offerto di portarmi lo zaino. Così, smaltita la tensione, mi torna in mente che non metto piede in bagno da ieri sera, a Castellane, e come prima cosa m'infilo in uno dei torrioni di plastica distribuiti strategicamente lungo la pista ciclabile. Poi, via la maglia a collo alto; passiamo alla versione estiva, maniche corte e gilet. Il sole è caldo, limpidissimo, ma l'aria che soffia dal mare suscita ancora qualche brivido. L'acqua è placida, onde pigre, dolcissime come il tepore del giorno che si fa pieno. Non posso distrarmi più di tanto, anzi, qui conviene tenere occhi ed orecchie ben aperti, perché la pista ciclabile è invasa da ogni sorta di veicolo più o meno convenzionale: bici, pattini, monopattini, carrozzine. Senza contare chi va a spasso e chi s'allena di corsa. Qui ci sarebbe materia per uno studio sul caos: ciascuno segue una propria traiettoria del tutto casuale e slegata dalle traiettorie altrui, sbanda e scarta e svolta senza la minima cura per chi sopraggiunge alle spalle, eppure non vedo scorrere nemmeno una goccia di sangue. Una cosa che mi sconcerta. Come sarà mai possibile?

A Cagnes sur Mer, la confusione raggiunge l'apice del delirio. La strada lungo il mare è chiusa ai veicoli e dedicata ai turisti: significa che lo stesso marasma che prima era confinato alla pseudo pista ciclabile, qui è estero all'intera sede stradale. Non mi azzardo a cercare altre vie; ora che ho il mare qui accanto, il mio faro nella notte, non ci penso nemmeno, ad allontanarmi. Con una rassegnazione che stupisce anche me, forse merito o colpa della stanchezza, mi tuffo nella folla, a passo d'uomo, con uno o anche entrambi i pedali sganciati, tenendo tutto sommato a freno l'istinto omicida. Di tanto in tanto, quando uno degli innumerevoli marmocchi mi taglia la strada a tre centimetri dalla ruota anteriore, rischiando di buttarmi a terra, rimpiango di avere lo zaino pieno di vettovaglie e vestiti sporchi anziché dinamite, ma faccio buon viso a cattivo gioco. Certo che la tabella di marcia, se mai è esistita in questo viaggio, va a farsi benedire; procedo a velocità da passeggio. In fondo, c'è un aspetto positivo in tutto ciò: se riesco a mantenere questa calma olimpica, significa che la paura incontenibile, residuo dell'incidente di Capodanno, è ormai solo un lontano ricordo. Approfitto di una fontanella, presa d'assalto dai podisti, volgendo poco rispettosamente le spalle ad una cerimonia ufficiale che si sta celebrando davanti ad un monumento ai Caduti: che strano... Pensavo che il 25 aprile fosse festa solo da noi! Ma ormai la profondità della mia ignoranza non mi sorprende più.

Lungo un'unica, interminabile pista ciclabile, che attraversa qua e là la strada imponendo sosta e precedenza ad ogni incrocio, mi ritrovo accanto all'aeroporto di Nizza. Con tanto di spettacolo gratuito; non avevo mai visto così da vicino il decollo di un aereo passeggeri! E qui c'è un gran viavai di ali, rombo assordante di motori, eleganti bestioni di metallo tirati a lucido. La pista ci passa accanto, ma non solo: continua, fino a Nizza ed oltre, una lunghissima fetta di strada, sia pure un po' risicata, protetta dal traffico di auto. A patto, ovviamente, di non avere fretta. Qui di bello c'è solo il mare, a destra. Tutto il resto a me sa d'inferno, non potrei restarci per più di un veloce, inevitabile passaggio in bici.

Beaulieu, poi Cap d'Ail. E' il momento della verità: il Turini ormai è un miraggio; se dovessi sciropparmi la strada dalla costa fin lassù, e ritorno, mancherei senza dubbio anche l'ultimo treno della sera. E non ho troppa voglia nemmeno di andare al Col de Castillon, da Mentone. Però, una salita vorrei ancora aggiungerla: se non altro, per vedere un po' come stanno le gambe, dopo tutti questi chilometri, questa fatica, questi strapazzi. Appena prima di arrivare a Cap, mi fermo sul lungomare, appoggio la bici a terra: un attimo di tregua, uno spuntino, perché ormai la fame è continua, incessante. Leggo il messaggio di Matteo, pure lui in bici, impegnato in un giro da 180 km: si sminuisce, come sempre, ma io so bene che sono molto più blandi i miei quattrocento km a ritmo da tartaruga, rispetto ai centoottanta percorsi alla sua velocità. E poi, so bene che lui fa collezione di salite con pendenze che hanno poco da invidiare ad una via ferrata, mentre io, nella mia lunga traversata, credo di aver collezionato si e no tremila metri di dislivello. Anche se una stima, con tutti quei saliscendi, è pressoché impossibile.
Per un attimo, resto imbambolata sul basso parapetto di cemento, a guardare la costa ed il blu del mare. Sarebbero luoghi splendidi, se avessero la stessa densità di costruzioni e popolazione del Sahara. Afferro senza grandi speranze la macchina fotografica, che ho abbandonato per qualche minuto in pieno sole. Inaudito: rinfrancata e riscaldata, funziona...

A Cap d'Ail, imbocco il bivio a sinistra per La Turbie. La salita che mi mancava potrebbe essere questa. Sei km di ascesa non poi così impegnativa, ma comunque severa per le mie gambe provate e per le mie spalle segate dallo zaino. La schiena grida vendetta, ma non è ancora finita; non si può indulgere così alle lamentele del corpo. Mortificazione della carne: chi se la procura con il cilicio, chi con un buon dieci per cento di pendenza. Se la realtà non è un dieci per cento di pendenza, in questo momento per me conta, come si fa con le temperature, la pendenza percepita, che in certi punti rasenta il quindici. Caldo finalmente cocente: peccato solo che la borraccia sia già vuota... Pazienza, troverò acqua in cima. O in discesa, a Mentone, oppure alla stazione, a Ventimiglia. Non ha importanza. Pesto sui pedali, m'impongo calma e rassegnazione. La salita è bellissima, una linea a zig zag sulla parete della tonda collina. Più indietro, sulle montagne, s'addensano nuvoloni dall'aria poco confortante, ma oggi, almeno oggi, la cosa non mi tange. Goccioloni di sudore colano giù lungo la fronte e le braccia: il primo vero caldo della stagione si fa sentire, anche se io sono lucertola nell'animo ed adoro i picchi di temperatura. E poi, vengo dal regno della nebbia d'inverno e dell'umida calura appiccicaticcia dell'estate...

Sei chilometri di fatica, ma le gambe rispondono bene. Anche a La Turbie ha colpito la cosca dei baristi; l'unica fontanella è desolatamente secca. Non mi avrete. Anzi, meglio così, tutto peso in meno da portare su. Vorrei salire ancora a Peille. Non ricordo nulla della strada che ci arriva da questa parte: l'ho percorsa solo in discesa, non saprei rendermi ben conto della difficoltà. I nove km fino al grazioso paesino sono poco più che un lungo falsopiano in salita, pedalabilissimi anche con la zavorra. Fiori di ogni genere, profumi di glicine, ulivi, luce intensa: Peille mi compare davanti, oltre una curva, senza che quasi me ne accorga. La salita dura, che ricordo io, è l'altra, quella che arriva da L'Escarene. Anche qui, fontanella secca, niente da fare. Pace: torno sui miei passi, dando fondo, con voracità insaziabile, ad una busta di frutta secca, deliziosa, misto tropicale. Nonostante i sobbalzi, le buche ed anche qualche scalino collezionati oggi, il "tac tac" della ruota posteriore è sempre uguale a se stesso.

Ridiscendo a La Turbie e, da lì, a Roquebrune e poi a Menton. Traffico intenso, ma è proprio vero che non c'è mai limite al peggio: ho vissuto oggi il caos pedonale e adesso, in mezzo ai motori, mi trovo molto più a mio agio. E poi, qui ormai è strada nota. Menton, il lungomare, la passeggiata; le madame che finalmente hanno smesso di sfoggiare le loro ridicole pellicce ed ostentano, adesso, i salami di lardo, rigorosamente lampadati però. E gli immancabili podisti, qualcuno vestito di tutto punto e con polpaccio guizzante, qualcuno con la maglietta fradicia di sudore e la faccia paonazza, disfatta di chi è prossimo al collasso. Faccio dell'ironia, io... Ma sono seriamente preoccupata, a questo punto, per la salitella tra Latte e Ventimiglia. Non tanto per le gambe, quanto per la schiena, che fa proprio male. Non c'è niente da fare, non sono proprio adatta a questo genere di viaggi, che richiedono cura e meticolosità in ogni minimo particolare, sempre, dal primo all'ultimo km; con un minimo di cura in più nell'organizzazione del bagaglio, queste sofferenze si potrebbero evitare. Eppure ormai mi conosco...

Supero la vecchia dogana: rieccomi in Italia. La salitella passa senza colpo ferire: in altre occasioni, ho patito di più... Poi la galleria, il semaforo, la rotonda: dopo poco più di 420 km, eccomi a Ventimiglia, alla stazione. 15.58, il treno per Cuneo sta partendo in questo istante: pazienza, mi rassegno a tre quarti d'ora di attesa del prossimo e mi metto pazientemente in coda alla biglietteria, con la bici per mano. Divento all'istante l'obiettivo degli sguardi furtivi degli altri viaggiatori; qualcuno si avvicina, fiero di potermi dire "...sa, vado in bici anch'io!". Ovviamente, il mio trabiccolo di supporto alle luci desta la più sfrenata curiosità. Opera di alta ingegneria.

Trasporto le mie stanche ossa e la bici sul binario. Il viaggio di ritorno a Borgo San Dalmazzo scorre tranquillo, in compagnia di un simpatico controllore in cui, mi si permetta questo peccato d'orgoglio, credo di aver contribuito a riaccendere, proprio qui, proprio oggi, un'antica fiammella di passione per il ciclismo, lungamente sopita. Mi parla della sua vecchia bici, lo esorto a portarla a riparare e rimettere a nuovo. Chissà, magari la prossima volta lo incontrerò come passeggero, e quel giorno, nello scompartimento bagagliaio, la mia due ruote stracarica di bagagli non sarà più sola...

giovedì 22 aprile 2010

18 aprile 2010 - Maratona Alpina di Valdellatorre

C'è mancato davvero un pelo, ma che dico, mezzo pelo, un quarto di pelo. Nell'istante in cui le nostre auto sfilano l'una accanto all'altra, incrocio lo sguardo di un distinto pilota brizzolato con cui ho appena perso l'occasione di condividere un bel volo in elisoccorso, destinazione Pronto Soccorso, nella migliore delle ipotesi, oppure, se proprio fosse stata una giornata no, obitorio. Un'emozione intensa e gratis: merito del fenomeno alla guida della Punto che, stufo di rimirare il posteriore della mia Corsa, s'è lanciato in sorpasso, nel più disgraziato dei momenti e dei punti possibili. E' evidente che credeva, il fenomeno, che a far da tappo fossi io; non s'è nemmeno accorto della Cinquecento scura che procedeva, davanti a me, con passo da lumaca. S'è accorto troppo tardi, il novello Schumacher, di un particolare del tutto trascurabile: e dire che non occorre una laurea in fisica nucleare, per capire che superare due auto richiede più spazio e più tempo che superarne una sola, o almeno un pestone più deciso sul pedale dell'acceleratore. A maggior ragione se il tutto avviene a ridosso di una curva e se, da quella curva, spunta un'auto in senso contrario. Per fortuna di tutti, alla guida di quell'auto c'è un uomo dai capelli d'argento e dai riflessi più che pronti: deve aver affondato entrambi i piedi sul freno; quasi quasi m'è sembrato di vedere le nuvolette di fumo levarsi dagli pneumatici della sua carretta rossa, che, quanto ad età ed esperienze di vita vissuta, dev'essere più o meno coscritta della mia Opel. E' andata di lusso, anche questa volta. Ma non mi sento, nonostante tutto, di rovesciare biasimo incondizionato sull'ardito guidatore già scomparso all'orizzonte. Sarà che nelle mie vene scorre il sangue dell'automobilista torinese, ma condivido l'insofferenza verso il morto di sonno al volante della Cinquecento: è il caso di viaggiare ai sessantac inque all'ora fissi, su una strada come questa? A me manca lo slancio di fantasia; prima di decidermi ad azzardare un sorpasso, devo proprio vedere davanti al mio naso un rettilineo di almeno due chilometri, completamente sgombro, ed essere nella giusta disposizione d'animo e cogliere la migliore congiunzione astrale. Ma la pazienza ha un limite; alla fine mi decido anch'io, con un moto di stizza, scalo in terza e salto l'inopportuno lentardo: salvo trovarmi, cinquecento metri più avanti, di fronte alla meta del mio viaggio, il Palazzetto dello Sport di Valdellatorre. Inchiodata criminale appena oltre l'incrocio; altrettanto criminale inversione a U, subito imitata da un paio di inseguitori, ed eccomi nel parcheggio del Palazzetto,. dove un solerte volontario mi costringe a parcheggiare a due dita dall'auto a destra. Lancio uno sguardo implorante al tapino che stava per spalancare la portiera e che s'è visto, così, di fatto sequestrato nell'abitacolo: perdonami, non è colpa mia... A mia volta murata viva grazie all'auto subito comparsa a sinistra, m'ingegno a liberarmi con movenze da anguilla. Sono quasi le sette, il cielo è ormai quasi chiaro: non si può dire che sia sereno, ma nemmeno poi così minaccioso. Visto l'andazzo della stagione, è già molto.

Rapidissima puntata al tavolino della distribuzione dei pettorali di gara: sono il numero 83. D'istinto, l'ambiente mi piace: semplice, senza fronzoli; poca gente, niente striscioni né archi di partenza, niente altoparlanti né musica sguaiata, niente arie da grande evento. Ci sarà da correre su e giù per i bricchi, per 42 km, punto e basta. Sbrigata in un attimo la formalità burocratica, mi ritiro nella quiete della mia Opel. Passo probabilmente per asociale, se non per maleducata: ho intravisto, di sfuggita, qualche volto noto, di quelli che ricorrono ai vari appuntamenti podistici in giro per il mondo, ma non sono proprio il tipo che va in giro a dispensare squillanti saluti e pacche sulle spalle a persone con cui ha scambiato, fino a quel giorno, magari tre parole in croce. Non credo, con ciò, di mancare di rispetto a qualcuno, e in ogni caso non ne ho l'intenzione; se poi c'è chi se la prende a male, pace, non ci perderò certo il sonno. Attacco però volentieri bottone con i conoscenti di più vecchia data: il primo, in ordine di tempo, è Isacco, che ha parcheggiato il suo bolide, quella sua scatola di sardine con la targa, proprio davanti a me. Toh chi si vede, colui che ha mantenuto fino all'ultimo il più stretto riserbo sulla sua partecipazione alla corsa.

Bando alle inezie, è giunto il momento più importante per la preparazione psicofisica della singolar tenzone contro la montagna. Imprescindibile necessità di raccoglimento spirituale e meditazione: la visita alla toilette. Ecco: un moto di sincera gratitudine va agli organizzatori di gare che tappezzano il luogo della partenza con enormi cartelli fluorescenti, "WC" o altre espressioni di analogo significato ed immediata comprensione. Si sa, l'atleta o presunto tale, prima del via, è agitato, nervoso, ha bisogno di indicazioni chiare, di immediata comprensione, ha bisogno di certezze, e mai nessuna certezza è più solida ed incrollabile del trono di ceramica. Oggi, purtroppo, nulla di tutto ciò: mi tocca tentare una battuta di caccia solitaria, sperando di non dovermi spingere all'imbarazzantissimo estremo di chiedere dove stia il bagno. Dalla rapida ma ragionata analisi fisiognomica di alcuni personaggi apparentemente in coda, deduco che la porta dinanzi ai loro nasi possa fare al caso mio. Se non che, uno dei corridori in paziente attesa, forse mosso dal nobile intento di farmi un favore, mi indica la porta del bagno per i disabili, in cui, a quanto pare, nessuno ha ancora avuto il coraggio di avventurarsi. Un po' dubbiosa, ma punta nell'orgoglio, rompo il ghiaccio e mi c'infilo. Non se ne dolgano i benpensanti: nei giorni di gara, nell'affollamento della partenza, tutto fa brodo; non c'è distinzione che tenga. Purtroppo, le premesse non sono eccellenti: la porta non si chiude, o forse sono io che non capisco come la si possa chiudere. Mi tocca impegnarmi in un mirabolante esercizio di contorsionismo ed allungamento, per tenerla ferma con una mano durante il mio esercizio di meditazione yoga; un urlo agghiacciante dissuade immediatamente la mano che per un attimo tenta di violare il santuario. Che situazione spinosa... Ma è proprio vero, non c'è mai limite al peggio. Quando ti aspetti che un fragoroso scroscio d'acqua giunga a purificare l'aere, cancellando ogni traccia di te... Scopri con raccapriccio che il pulsante non funziona. No, non è possibile, ci dev'essere un errore, Gian: prova un'altra volta, vedrai che va tutto a posto. Provo, riprovo, schiaccio, picchio e batto i pugni, niente. Significa che ai posteri resterà viva, indelebile testimonianza del mio passaggio... Imbarazzo e disperazione mi travolgono. C'è una cordicella pendente: forse il pulsante non funziona, perché lo sciacquone è collegato alla cordicella... Al cavetto bianco appendo la mia mano e tutte le mie speranze. Immediatamente un suono metallico, squillante, acuto squarcia l'aria e non si ferma più. Ossignùr, non era lo sciacquone, era l'allarme... Assordata dal suono continuo che mi rimbomba nel cervello, non ho scelta, mi butto fuori da lì: almeno dieci paia d'occhi tra il divertito e l'allibito mi si posano addosso, pesanti al punto da schiacciarmi, mentre due personaggi, credo custodi del palazzetto, ridendo sotto i baffi, si precipitano incontro a me. Vorrei sprofondare sotto una tonnellata di ciò che ho invano cercato di far sprofondare... Abbozzo qualche parola di scusa, poi mi dileguo, via, nel parcheggio, frenando a stento le gambe che vorrebbero correre via, almeno fino in cima al Musiné; l'allarme ancora risuona nell'aria. La faccia di fuoco, mi rintano nel bagagliaio della fida Corsa, l'unico vano accessibile senza rischiare di danneggiare le carrozzerie delle auto a fianco, a meditare sulla mia sventura. Guardiamo il lato positivo: con ciò, mi sono senz'altro conquistata un posto d'onore negli annali del Palazzetto dello Sport di Valdellatorre, e pazienza se non sarà per meriti atletici!

La mezz'ora che manca alla partenza è interminabile. Mi sento come sempre a disagio nel brusio crescente, tra scoppi di risa, frizzi e lazzi da cui la radio e le cuffie non bastano ad isolarmi. Il cielo concede qualche sprazzo d'azzurro tra le nuvole, ma senza vera generosità. Qualcuno decanta il meraviglioso panorama che andremo a godere dall'alto: non so perché, ma ho la sensazione che ci toccherà accontentarci di una cartolina, se vorremo ammirarlo... Il freddo è pungente; levo la giacca, che sarà eccessiva non appena avrò cominciato a correre, e mi dispongo nella mia posizione di massima conservazione del calore, braccia conserte, mento incollato al petto, implorando la partenza.
Verso le otto, la massa si sposta verso la stradina di accesso al Palazzetto. Si parte da lì: il via è quasi improvviso, inatteso, ci coglie di sorpresa. Stavo dando un'occhiata qua e là alle altrui scarpe, una sorta di sondaggio di mercato su marche e modelli, ma è ora di muoversi, adesso! Un breve tratto di corsa in piano, prima su asfalto e poi su strada sterrata: curiosa, questa valle che sembra non avere pendii; una distesa di piattissima pianura, in cui si piantano, senza digradare, le pareti della montagna, scure di bosco e di giornata senza luce. Come sempre, l'andatura sulle prime è baldanzosa; tutt'intorno si menano i piedi e le lingue, in un'atmosfera di forzata ilarità, quasi una liberazione dalla tensione pre gara. Sì, non è il caso di sprecare sorrisi di commiserazione: è tensione bella e buona, profonda, lacerante, e pazienza se è solo una corsa; per molti, per me senz'altro, in questo momento è tutto ciò che esiste e che conta; il resto può attendere.
La strada prende un po' di pendenza, torna asfaltata, attraversa una borgata dal nome beneaugurante, "Abbondanza". Una rampa senza misericordia: qui le voci già si affievoliscono, si spengono; non tutti corrono in salita, qualcuno appoggia le mani sui fianchi in segno di faticosa rassegnazione al passo di marcia. Ancora sentiero, ripido, poi asfalto, quindi una discesa: non me l'aspettavo, di dover scendere così presto; mi lascio assalire dall'affanno, siamo tutti ancora troppo vicini, l'uno a ridosso dell'alto, troppo alto il rischio di colpirsi a vicenda con i bastoncini, di farsi travolgere dai fenomeni che a tutti i costi vogliono passare avanti, di scivolare e farsi male. Non è possibile che si debba scendere a lungo: non abbiamo ancor preso quota, quasi... Infatti, la pendenza ben presto torna ad invertirsi. Curioso: s'arriva ad un bivio, un sentiero che sale verso l'alto, un altro che punta in basso, verso fondovalle; da questo sentiero, arriva di gran carriera un manipolo di corridori che subito fa rotta verso monte. Non ci vuol molto a realizzare che qualcuno dei primi, a questo bivio, ha sbagliato strada... E che altri gli sono andati dietro, fiduciosi, senza badare alle segnalazioni blu pennellate su pietre e tronchi degli alberi. I tapini stanno tornando or ora sui loro passi.

Le partenze così concitate sono per me un vero trauma. Anche qui, in salita, mi sforzo di non creare il buco tra me e chi mi precede; non certo a beneficio del mio tempo di gara, bensì per evitare di fare da tappo, attirandomi la gragnuola di miserie dei corridori che mi seguono. Su questo minuscolo sentierino è quasi impossibile il sorpasso. Mi fanno compagnia i rovi; ho già rimediato parecchi centimetri di graffio su un braccio... Meno male che ho provveduto da poco al richiamo del vaccino contro il tetano. Anche se resto dell'idea che, nello scontro tra me ed il rovo, sia sempre quest'ultimo ad avere la peggio... Lunghi, troppo lunghi i tratti di traverso in mezzo al pendio, sempre alla stessa quota o con pendenza appena accennata: mi costringono a correre, ben più di quanto mi sentirei di fare, sempre con l'intento di non fare da tappo e magari, possibilmente, di non restare proprio ultima, abbandonata dal mondo. Per ora, le gambe non chiedono di meglio, ma so che è un exploit inopportuno: finirò per pagarlo, e caro.
Soffio come un mantice; il mio respiro è affannoso e rumoroso... Io so che non c'è da preoccuparsi; è sempre così, il mio motore all'inizio va in affanno; poi, dopo un paio d'ore, si quieta, prende il suo ritmo e via. Ma non lo sa chi mi precede, che di tanto in tanto si volta, preoccupato che io possa passare a miglior vita da un attimo all'altro. Corro ed azzardo anch'io qualche sorpasso, ove possibile: ma sempre con un po' di vergogna e bofonchiando qualche parola di scusa. In effetti, alla prima discesa, so già che sarò inesorabilmente riacchiappata. Di gran carriera, mi arriva alle spalle Isacco: capperi, credevo fosse già parecchio avanti... Invece no: è uno dei fenomeni che hanno sbagliato strada. Mi fa notare che questo trail è vietato alle culone: incasso e taccio, ma pianto uno spillone nella mia personale bambolina vudù con la sua effigie. Spillone che puntualmente oggi andrà a segno...

La prima salita è davvero dura. Finito il lungo tratto corribile, in costa, ci s'inerpica su per un sentierino tutto tornanti, ripido, cattivo. Per fortuna, il terreno non è fangoso come temevo, dopo le piogge dei giorni scorsi. Ma l'insidia, qui, per me, è il respiro: su una pendenza del genere, tocca fare il pieno ai polmoni, e non è facile, con i postumi di una specie di bronchite che mi trascino da un paio di settimane. Respirone profondo, un tappo in gola e via, son fatta, mi sembra di soffocare. Insomma, non sono ancor partita e già ho seri dubbi circa il successo della mia gara. Perdo terreno da chi mi precede, ma ora non ha più importanza; la folla s'è diradata, le distanze tra i corridori aumentano. Tutto ciò che vedo, dell'ascesa al Monte Baron, sono i pochi centimetri di terra oltre le punte delle mie scarpe: non ce la faccio ad alzar la testa; vorrei distrarmi guardando il panorama, ma anche il pensiero di dovermi distrarre è troppo faticoso da sostenere. E poi, il panorama non è comunque gran che; il cielo resta bigio, c'è un po' di nebbia. Si vede la pianura, ecco, ma nulla della superba cerchia di montagne che ci circonda.
Sono le gambe, ben prima degli occhi, ad accorgersi che la pendenza s'è attenuata. Siamo in cima? Chissà, forse, visto che ora non si sale più, anche se non sono del tutto convinta che si scenda. Percorro lunghi tratti di sentiero alternato a pietraia: qui, i massi più grossi e squadrati sono stati ben riordinati a formare passerelle. Peccato che a me la pietra così liscia ed umida non dia proprio alcun senso di sicurezza: ci passo sopra come se stessi camminando sulle uova... Quando sento avvicinarsi qualcuno alle spalle, mi affretto a cedere il passo; corricchio solo ove il sentiero è davvero sentiero e dove la pendenza lo consente. Si attraversa a mezza costa un pendio di erba e di pietraie; perdo terreno, vedo le figure davanti a me sempre più piccole e lontane. Litigo con gli occhiali appannati e con il passo instabile; se solo alzo gli occhi da terra, inciampare è il minimo che mi possa capitare.

Il primo punto di ristoro giunge proprio di sorpresa: m'ero dimenticata che esistessero, i ristori... Un bicchiere di aranciata, qualche zolletta di zucchero, e pazienza se, in questi pochi istanti, perdo qualche posizione. Centesima o centodecima, fa poca differenza, e poi ormai lo so, che su di qua ne riacchiappo qualcuno. Il sentiero si tuffa in mezzo al bosco, con rampe da capre; naso in su, vedo chiazze di colore muoversi tra i tronchi e la nebbia, sempre più fitta, man mano che si sale. I bastoncini qui sono la mia salvezza; infliggo loro tutto il mio peso ad ogni passo, lavorando di braccia e spalle almeno tanto quanto di polpacci. Non ci sono scuse: lo zaino oggi è leggerissimo... Quel che tira disperatamente verso terra è proprio il mio posteriore! Altro che dieta e sport, ci vorrebbe l'affettatrice del macellaio, qui, per porre rimedio.

La salita è lunga ed impegnativa, la foschia greve, fitta. Si sale senza veder nulla; non ho riferimenti di tempo né di spazio: potrei trovarmi ovunque, sola o forse con dieci compagni di fatica che però non si vedono, né si sentono. Sospesa, scoraggiata, percepisco solo la mia fatica, che mi sembra di non poter sopportare ancora a lungo. Non ho fame, anche se la colazione non è stata poi così abbondante ed è comunque ormai lontana. Lo zucchero mi ha levato un po' di fiacca, ma forse è stata solo l'impressione del momento. Quando finirà questa salita? Dove diamine sto andando? Cerco le tacche di vernice blu con la foga del cane da tartufo; perdersi, qui, è davvero un attimo. La pentola a pressione dei pensieri negativi ribolle, si agita, fino a scoppiare: ecco, dov'è che credevi di andare, Gian? Pensavi d'essere ben allenata, pronta per chissà quali mattane? Ti han detto che sei in forma e tu, povera illusa, ci hai pure creduto! Ecco qui che fine fa la tua preparazione; tra un po' va a finire che ti allunghi sull'erba e non ti muovi più... Così rimugino, afflitta e corrucciata. Per fortuna, le gambe già sanno che non devono dare retta al cervello.

Una strettoia tra le rocce: toh, che sorpresa, un essere umano. "Ah, ma allora c'è ancora qualcuno... Credevo d'essermi persa nel nulla!". "Tranquilla – replica l'inatteso collega – alla peggio, ci perdiamo in due!". Potere della suggestione, mi sento già un po' meglio. E la nube fitta in cui tracciamo la nostra strada mi pare già quasi amica. Raggiungiamo in breve una vasca in pietra: dev'essere la Fontana Bruna di cui si parla nella descrizione ufficiale del percorso di gara. Ne approfitto volentieri per due sorsi d'acqua e per riempire la mia minuscola borraccia, che non ho ancora toccato. Una coppia di atleti riparte appena prima di noi: li sento lamentarsi di non avere alcun riferimento sulla posizione... Nemmeno io so a che punto siamo, ma non ha molta importanza. Finché c'è sentiero sotto i piedi, non importa quanto se n'è percorso e quanto ne rimane davanti; tocca andare. Un cartello di legno indica il Colle Lunella a 15 minuti: "Quello è il tempo per gli escursionisti della domenica", osservo, "a noi basta la metà". La risposta del mio occasionale compagno di marcia mi sbatte in faccia tutta l'arroganza delle mie parole, che pure ho pronunciato con tutta la mia buona fede: "In questo momento – osserva – mi sento anch'io molto escursionista della domenica...". Suvvia, non esageriamo, non stiamo affatto andando a spasso.
Pochi minuti più tardi, proprio su quello che ha tutta l'aria di essere un colle, ci imbattiamo in un gruppo di gitanti. Ci annunciano che il Colle del Lys è a circa quattro km e che non c'è più molto da salire, perlomeno, non prima del Lys appunto. Quel che non ci dicono è che la discesa, almeno nella prima parte, sarà tutt'altro che una passeggiata di piacere. Ben presto mi ritrovo a fare uso di tutti i possibili appigli, piedi, mani e fondoschiena, per calare giù tra pietroni umidi, scivolosi, dai bordi aguzzi e dagli insidiosi dislivelli. Tribolo e tengo a freno a stento la paura: alcuni passaggi sfidano il limite delle mie possibilità... Mi muovo con circospezione, provo il passo, conio in silenzio una lunghissima teoria di improperi all'indirizzo di chi ha deciso di farci passare di qua. Mi raggiunge un collega di fatiche che tenta una parola di conforto: "Dai, che tra un quarto d'ora è tutto finito...". "E' finito per te, se ti fermi al Lys, alla mezza maratona, ma per me no, niente affatto!". Mi passa avanti, si dilegua, mentre io resto a lottare con il mio terrore, per ora sotto controllo. Non voglio insegnare il mestiere a chi organizza questo genere di prove, ma, a mio modesto parere, passaggi di questo tipo andrebbero evidenziati già nella descrizione del percorso. Mi torna in mente l'incubo del Trofeo Besimauda, quella tremenda discesa su pietroni che mi è costata una memorabile craniata ed una ricca collezione di contusioni varie...
Il supplizio, per fortuna, è lungo ma non eterno. Infatti, il sentiero diventa qui una bella strada sterrata, ampia, che permette a tratti anche di correre. O meglio: sarebbe da correre tutta, per chi ne avesse le gambe... Per quel che la nebbia mi lascia intravedere, la strada descrive un'ampia curva a destra; è di continuo attraversata da vivaci torrentelli. E' rassicurante, la presenza dell'acqua. Un po' meno quella della neve, che ben presto fa la sua comparsa, a chiazze, malconcia, sporca e calpestata. Ritrovo qui il corridore che, poco prima, mi ha sorpassata in discesa: assillato dai crampi, cammina anche in pianura. Da lontano, si scorge una costruzione, su un avvallamento che ha tutta l'aria di un colle. Immagino che il Lys sia quello, anche se non è il punto in cui si approda salendo in bici. Peccato che la conquista della mezza maratona richieda ancora il versamento di un congruo obolo: anziché raggiungere il rifugio per la via diretta, si scende giù di qualche metro, per poi risalire un pendio che è per metà una distesa di fango, denso, tenace, e per metà neve, molle ed acquitrinosa. Dallo spiazzo del rifugio squillano voci di festa in attesa di chi concluderà lì la propria gara. Arranco, sprofondo, scivolo; m'immedesimo per un attimo nella marcia affannosa, lenta ma inesorabile, degli alpinisti che conquistano la cima di un Ottomila... Un passo dopo l'altro, strappato per loro alla mancanza di ossigeno, al gelo, alle intemperie, per me, più terra terra, al fango che inchioda le scarpe al suolo. Quando finalmente guadagno la ghiaia del piazzale, le mie povere calzature hanno l'aspetto di due gommoni...
Al banchetto del ristoro, mi concedo, questa volta, due minuti di tregua. Un bicchiere di the caldo, uno di Coca Cola, un pugno di cubetti di zucchero. Non c'è altro, salvo qualche spicchio d'arancia, ma per me va benissimo così. Anzi, accidenti a me, avevo pensato di mettere nello zaino un po' delle bustine di zucchero avanzate in ufficio, poi non l'ho fatto. Provvederò la prossima volta. Lascio l'atmosfera di festa allegra ma misurata e mi rimetto in cammino; qualche centinaio di metri avanti a me, alcuni compari di sventura avanzano in gruppo, curvi sotto il peso della pendenza e della fatica già accumulata. Una famigliola di merenderos osserva attonita la scena, dal suo palco privilegiato, una stuoia stesa in mezzo all'erba. Cerco nel prato la traccia di un sentiero: c'è, ma è appena appena accennata; se non avessi il riferimento di chi mi precede, in questo punto non avrei la più pallida idea di dove sia la retta via. Solo più avanti, sui sassi e sui tronchi nella boscaglia, ricompaiono le tacche azzurre.

Improvvisamente sento che ora va meglio. Ho patito, fino al Lys, una stanchezza esagerata, una fiacca di muscoli e volontà che quasi quasi m'avrebbe fatto venir voglia di fermarmi lì. Tutto ciò sembra scomparso, almeno per il momento. Ho la mia lepre, anzi, più di una lepre. non mi resta che inseguire. Il sentiero procede a tornantini, secchi, ripidi, a scalini di terra e pietra nel chiuso della vegetazione. Poi, più avanti, il fitto degli alberi cede il posto alla nebbia: da quassù, chissà dove potrebbe spaziare la vista: è tutto bianco; riesco appena a scorgere le sagome delle persone che mi precedono. Un po' di distacco l'ho già rosicchiato, anzi, direi un bel po': raggiungo infatti e supero uno dei fuggiaschi, che ha l'aria di essere davvero stanco. Cammina a passo lento, affannoso, con le mani sui fianchi; si fa da parte quando s'accorge che gli sono ormai alle spalle. Il sentiero è sempre più ripido, tanto che, qui e là, mi viene comodo l'aiuto delle mani; davanti a me sono rimasti in tre. Faccio il possibile per non lasciarmi staccare: qui, la faccenda si fa grama, per me che ho qualche difficoltà con il concetto di equilibrio. Ma alcuni passaggi sono un po' esposti, la nebbia non dà tregua e in più ci si mette anche la neve: date le circostanze, è meglio farsi degli amici, piuttosto che degli avversari. Meglio lasciar perdere l'agonismo ed aggrapparsi al puro, semplice, materialismo senso dell'utile. Quassù, da soli, fa paura... Non mollare Gian, seguili. Un corridore in maglietta bianca, uno in giacca antivento verde e con i bastoncini, uno con i pantaloncini corti blu; sarà questo, per un po', il mio arcobaleno di riferimento. Sono ormai quasi a tiro. Ecco le prime chiazze di neve: altro che chiazze, sono veri e propri nevaietti. Siamo alla Cima Coppi della giornata, il Monte Arpone, all'incirca 1.600 m di quota; almeno, questo è ciò che sostiene la cartina del percorso. Tocca prenderla per buona: qui non si vede nulla. Mio malgrado, devo confessare che l'aiuto, sia pure involontario, dei miei compari di fatica mi è preziosissimo: non solo per il conforto della loro presenza, ma anche per le tracce dei loro passi. In questo bianco uniforme non si vede nulla, nemmeno le tacche blu del percorso; se fossi sola, mi troverei in seria difficoltà. Non saprei proprio da che parte andare: mi domando come facciano, loro... Sfrutto le impronte altrui come comodo alloggio per i miei piedi, ma ciò non m'impedisce di incespicare, scivolare, sprofondare di colpo fino al ginocchio. Tutto congiura contro di me: anche madre natura, per mezzo di questi messaggi subliminali, lascia intendere che dovrei dimagrire...

Scolliniamo e mi trovo d'improvviso di fronte al corridore con i pantaloncini blu, fermo e chino sullo zaino. Lo sorpasso, si accoda: buona occasione per far due chiacchiere. La discesa impegna allo spasimo i muscoli delle gambe, ma concede respiro alla lingua. Il sentiero piomba giù ripidissimo, sconnesso, una vera tribolazione: ringrazio il sostegno dei bastoncini, senza cui le mie ginocchia, a quest'ora, sarebbero già esplose. Ogni passo richiede uno studio approfondito: chissà mai se e quando vedrò la fine di quest'incubo... La compagnia mi distrae un po': a quanto pare, non sono l'unica a vivere istanti di grave difficoltà. Anche il mio compare, il 67, sacramenta parecchio. E dire che lui, di gare toste, ha una bella esperienza: chilometri verticali, Mezzalama Skyrace, maratona corsa in 3h 10', di certo è uno che non le manda a dire. In più è simpatico ed ha una spiccata pronuncia piemontese, cosa che non guasta, perché almeno i miei irosi "bojafaus" saranno comprensibili. Si lagna d'essere stanco, di aver esagerato, di essersi iscritto ad una gara troppo lunga in rapporto alla sua attuale preparazione: ma non me la dà a bere. Non ha il passo di uno che è al limite delle proprie forze, tutt'altro; a me pare sciolto, agile. La sua stanchezza, se c'è, si chiama "non ho più voglia", tutto qui. Succede: quante volte m'è capitato di sentirmi lì lì per stramazzare, di pensare ai km ancora da macinare ed alle mie forze che non bastano più. Ma ormai so che le crisi, quasi sempre, si risolvono. Quasi. A volte basta una mezza parola, qualche decina di metri corsi in compagnia, magari un semplice pensiero che avvolge e scuote il neurone dal suo torpore... E via, si riparte. "Dai – lo esorto – non pensarci, ormai è fatta". Anche se Madonna della Bassa sembra essere davvero molto, molto bassa: questa discesa non finisce più, logora i muscoli e la pazienza. "Non si sente nulla, nemmeno una voce", sospira "Sessantasette": ma no dai, sarà la nebbia che attenua anche i rumori. Infatti, di lì a poco, spunta la traccia di una costruzione. La sagoma pian piano si definisce; un edificio, un prato, un brevissimo tratto lastricato, un piccolo porticato. Ed il banchetto del ristoro. Alle spalle dei volontari, una finestra illuminata che sa di tepore: verrebbe voglia di infilarcisi... Invece no. Butto giù un bicchiere di Coca Cola, afferro un boccone di crostata e qualche zolletta di zucchero, e via, di corsetta, lungo un'ampia strada sterrata. L'occhio sempre attento alle tacche azzurre, perché qui, davanti a me, non c'è più anima viva. Se non sono l'ultima, poco ci manca.

Un po' di respiro per le zampe, che finalmente corricchiano su un fondo un po' più regolare. Ma non dura a lungo. Con la coda dell'occhio, intuisco una figura bianca muoversi nel bosco, parecchio più in su della mia testa: significa che la pacchia sta per finire... Infatti. Un bivio, segnalato in modo inequivocabile, ed un sentiero che schizza su senza preamboli, nel fitto della vegetazione. Se non fosse per il colore squillante delle gemme, per le foglioline appena spuntate, oggi potrebbe essere una giornata cupa d'autunno, anche perché i piedi scivolano ancora su un tappeto di foglie morte e viscide d'umido. Salgo di gran carriera; della stanchezza molle di qualche ora fa non c'è più traccia. Persino i postumi della bronchite sembrano essersi ritirati in buon ordine. Chi la dura, la vince! A lungo, sento solo il fruscio dei miei passi, il ticchiettio dei bastoncini sulle pietre. L'ascesa è ripida, ma regolare e varia, a tornanti. I fiori: ne ho visti chissà quanti, oggi, ma solo adesso, a mente sgombra, me ne accorgo. Bellissimi mazzi di bucaneve dai colori tenui, lilla, rosa, bianchi, molti in mezzo al sentiero, scampati chissà come al passaggio dell'orda di unni; alberelli dalla chioma grigia, quasi una nuvola di cotone. D'improvviso, mi sembra di sentire passi alle mie spalle: ma sì, eccolo qui, Sessantasette. Ha recuperato il vantaggio che gli ho guadagnato mentre lui indugiava al tavolino del ristoro. Alla faccia della stanchezza! E costui sostiene di volersi ritirare? Gli offro strada, visto che ha birra ben più di me, ma non ne approfitta. Mi fa piacere: così il nostro chiacchiericcio può riprendere, fitto fitto. Dalle nostre avventure passate ai nostri gloriosi progetti per il futuro. Dal sentiero alle roccette, s'intravede la sagoma confusa di ciò che potrebbe essere una vetta. La penultima meta della nostra lunga fatica. Quasi inatteso, ci troviamo accanto il cartello di legno: "Mont Curt". Alla faccia del "curt, è una vita che saliamo!

Sotto i miei piedi si squarcia il baratro. Questa non è una discesa... Qui ci vuole una scala a pioli, una calata in corda doppia! Per un attimo, mi manca il respiro; poi mi mancano anche le braccia e le gambe. Calma, Gian, è vero, qui sotto c'è il vuoto, ma se tu fissi le punte delle scarpe, forse non te ne accorgi nemmeno troppo... A distogliere il mio pensiero dalla sciagura imminente, provvede l'improvviso straziante lamento del mio compagno di viaggio: lacerante, da strappare il cuore. Anziché guardare in giù, il tapino ha rivolto lo sguardo all'orizzonte; di fronte a noi, leggermente a destra, campeggia la vetta del Musinè: alta, aguzza, soprattutto ancora terribilmente lontana. E riecco la nenia: "No, non ce la faccio, io non arrivo più fin lassù, io mi ritiro"... Già m'immagino la scena: Sessantasette piantato quassù, nel bel mezzo della discesa, che rifiuta ostinato di muovere un altro passo, e l'elicottero che sale da fondovalle per imbragarlo e ricondurlo a casa. A me non pare poi così lontano, il Musinè: spesso, in montagna, la valutazione della distanza e della difficoltà "ad occhio" si rivela del tutto campata in aria. E poi, comunque, è l'ultima salita: non ci si arrende all'ultima salita. Tento la strada della razionalità: "Dai, su, se al Lys eravamo a 22 km, alla Bassa circa a 26, qui avremo almeno 30 km alle spalle. In tutto sono 42; metti 43 o 44, in caso di misura rilevata per difetto. Insomma, non mancheranno più di 12 o 13 km alla fine; quindi, l'orrenda croce di vetta non può essere lontana!". Il collega protesta, bofonchia, ma continua a camminare. Rimpiange di non aver partecipato, oggi, alla "Tutta dritta", da Torino a Stupinigi: dieci km di asfalto sarebbe stato tutto l'impegno da profondere, e poi via, a tavola. Mi s'accappona la pelle al solo pensiero, nonostante il mio amore incondizionato per la corsa su asfalto. E' la seconda volta, oggi, che le mie povere orecchie devono subire questa bestemmia!
Triboliamo entrambi giù per questo sentierino da capre, con la nebbia che s'è diradata giusto in tempo per lasciarmi intuire l'idea del baratro sotto di me. Per fortuna, la discesa ripida è anche breve; segue un lunghissimo tratto di saliscendi, proprio sul crinale che ci avvicina al corpaccione imponente del Musinè. Cammina e cammina, la cima è sempre là; però, quando il sentiero si fa più ripido e la croce scompare, abbiamo la certezza che ormai siamo vicini. Attacchiamo decisi l'anticima, su un sentiero fangoso e ripido che affronto forse con troppo entusiasmo; è tale la voglia di arrivare alla fine... Sessantasette sbuffa, ma non protesta più. "Dai, ormai ci siamo, è fatta davvero". L'importante è non lasciarsi ingannare: questa è l'anticima. Quando usciremo lassù, ci sarà da salire ancora un po'. Il Musiné è scomparso qui dietro, ma ci attende al varco! Infatti, oltre un breve tratto in piano, le tacche blu ci conducono verso quel che sembra un enorme mucchio di pietre scure, squadrate; è lì che dobbiamo farci strada, piedi e mani e bastoncini, alla volta del nostro piccolo Everest di oggi. Le tacche blu si perdono in una marea di tacche verdi e fucsia: Sessantasette mi spiega che quelle sono le tracce di una cronoscalata che si corre qui, su questa stessa montagna, caratteristica per tante ragioni, per la sua forma, la sua posizione di dominio sulla pianura e le leggende che la circondano. Quattro salti e siamo ai piedi dell'enorme croce bianca: di fronte a me spunta un viso, un banchetto, un altro viso. Ma guarda tu: un punto di ristoro proprio quassù! Che coraggio, chissà quanto freddo hanno incamerato oggi questi due eroici volontari, di certo più loro di noi. Ci offrono vino e formaggio: una meraviglia... Ma non mi sento di approfittarne; ora che sono quassù, il mio unico impeto è la discesa. Mi avvio risoluta verso la classica via di discesa, la diretta verso il Santuario di Sant'Abaco, ma non è questo l'itinerario corretto: ci tocca infilare un altro sentiero, più a destra. Anche qui, il colpo d'occhio è notevole; sotto i nostri piedi si apre l'intera pianura, ma molto, molto più in basso. Se non ricordo male, il Musinè è all'incirca milletrecento metri. Noto uno sperone della montagna che sembra un trampolino di lancio sul baratro, molto più in basso di noi. Anche qui, la prima parte di discesa è aspra, tecnica, rognosa, da prendere con le molle. Vorrei evitare, se possibile, di farmi male proprio adesso... Tutto sommato, fin qui è andata bene; posso contare un buon numero di graffi ed un paio di tentativi di scarnificazione contro gli spigoli della roccia, ma, a parte ciò, nessun problema. Ma, quando si rilassa l'attenzione, il rischio diventa altissimo.

Sessantasette mette in pratica il suo proposito: chiama al telefono la mamma; "Mi vedi? Sto facendo ciao con la manina..:". Da casa della mamma si vede la cima che ci siamo appena lasciati alle spalle. Qualche pallido raggio di sole si fa strada tra la foschia; la pianura, giù in fondo, illuminata dal sole, è un gioco di forme rettangolari di vari colori, terra, verde. Di lì a poco, sento ancora la voce di Sessantasette: non capisco se stia parlando al cellulare... Eppure sento un'altra voce, in lontananza. Ah, ecco, forse ci sono... Mi aveva accennato alla promessa di un suo collega di lavoro, di andarlo ad attendere sul Musinè. Si vede che la promessa è stata mantenuta! In un attimo, infatti, i due mi raggiungono; il nuovo venuto, Luca, prende vantaggio per scattare qualche foto, poi si mette paziente in coda, accompagnandoci per un buon tratto. Scopro quasi per caso che è uno dei quattro lettori di manzoniana memoria dei miei racconti: anzi, se il Manzoni ne aveva quattro, io ne avrò al massimo tre... Resta da scoprire chi siano gli altri due!
La discesa ripida, ancorché difficile, ora è quasi benvenuta, perché pian piano rende case e capannoni più grandi, più netti, più vicini; insomma, è quasi finita. E proprio per questo, non finisce mai. Riconosco, molto più in basso, il sentiero su cui ci siamo ritrovati, una tarda sera dello scorso inverno, Mik ed io, in vena di esplorazione durante la discesa notturna dal Musinè: quanta fatica, quella notte, per trovare il bandolo di una matassa che oggi, alla luce del pomeriggio, è già bell'e sbrogliata sotto i nostri piedi. Ritrovo anche la traccia appena accennata che ci ha portati giù, sulla strada tagliafuoco, passando per un intricato e rocambolesco giro tra le rocce, quando sarebbe bastato... Andar dritto!

Questo versante della montagna, già di per sé pelato ed inospitale per qualsiasi forma di vita vegetale più alta di un cespuglio, dev'essere stato recente vittima di un incendio; fili d'erba novelli spuntano in mezzo a ciuffi carbonizzati, così come sono anneriti i rami degli arbusti. Ora il sentiero corre a mezza costa, sale e scende; andiamo e andiamo, senza mai veder la fine. Ho fame, sento la fiacca che mi assedia sulla spalla: corro ovunque posso, quasi bastasse ad abbreviare la sofferenza. Ci vorrebbe un po' di zucchero... Luca e Sessantasette – a questo punto mi pare un po' tardi per chiedergli come si chiami – non perdono terreno. Ormai è un coro di lamentele: ma quando finirà?

D'improvviso, eccoci alla strada tagliafuoco. Finalmente si corre! Non che io abbia tutta quest'energia residua da sprigionare... Ma le gambe, contratte per tanto tempo nello spasimo contro la gravità, hanno bisogno di lasciarsi andare. Nella nostra galoppata verso il fondovalle, abbiamo raccattato un terzo corridore, che ora si unisce. Luca ci lascia, torna all'auto: tanto ormai è finita... O meglio, questo è ciò di cui siamo convinti. Confortati dal tepore del sole e della temperatura di pianura, trottiamo verso il campo sportivo di Caselette. E' in corso il gioco di un gruppo di ragazzini che vestono tutti la stessa divisa, camicia azzurra, pantaloncini blu ed una striscia di stoffa che pende giù dalla cintura, sul didietro. Scout? Credevo non esistessero più... Lì in mezzo, una visione mistica: il banchetto del ristoro, l'ultimo. Sognavo la zolletta di zucchero, eccomi accontentata; ne arraffo tre. Il volontario ci redarguisce: non è finita... Ancora quattro chilometri e mezzo ed una bella salita! Con un lamento spezzato, Sessantasette si accascia sul banchetto. Ormai non mi domando nemmeno più se gli devo credere... Ha zampettato fin qui in tutta disinvoltura; ne ha ancora per farne quaranta, di km, altro che quattro!

Mi lancio su per la strada sterrata, coperta di ciottoli tondi in cui il piede affonda. So che il mio compagno di fatica non mollerà l'osso, proprio adesso. Infatti, poco dopo, è già alle mie spalle, cupo, contrito, ma c'è. Sarà questa, la "bella salita"? In effetti si va in su, ma per pochi minuti; poi, la strada ciottolosa diventa sterrata e piega netta a destra. Sul fatto che siamo in direzione di Valdellatorre non c'è dubbio; alla nostra destra abbiamo la pianura e la strada asfaltata. Quel che ci preoccupa è il montrucco alla nostra sinistra: dovremo aggirarlo, oppure saltarlo? Sarà lì la "bella salita"? Scrutiamo con ansia il gruppetto di corridori che ci precede di un centinaio di metri; strada, poi sentiero tra prato e boscaglia, ancora strada. Li vediamo piegare decisi a sinistra: oh no, non diteci che... "No, no, io mi fermo qui, basta", sbotta Sessantasette. Ma dai, non è possibile che si vada lassù. Se la matematica non è un opinione, non è proprio possibile. Da qui, mancheranno tre chilometri... Raggiungere i tre fuggitivi ormai è quasi un punto d'onore, più per me che per il mio fido alleato, che ormai mi segue senza protestare. Corricchio tra i rovi ed il fango; ma che fango, ormai è tutto un unico pantano. Fango, pozze, acqua nera e melmosa; non voglio nemmeno sapere in cosa sto affondando le mie povere scarpe. E' ben difficile stare in piedi, altro che correre. Ma era proprio necessario costringerci ad attraversare un acquitrino? Un po' di sano asfalto non avrebbe ucciso nessuno, checché ne dicano i puristi della corsa in montagna... I tre fuggiaschi sembrano ormai aver consolidato il vantaggio, quand'ecco che... Una radura, la strada asfaltata. "Secondo me ci siamo". Sessantasette è scettico, ma io non ho dubbi. "Quello è il palazzetto", ripeto. Ecco il guado che ci avevano annunciato prima del via: beh insomma, guado... E' fino adesso che sguazziamo in mezzo ad una melma ben peggiore! Se non altro, questo è un torrente; acqua limpida che potrà pulire un po' le suole. Ecco il gruppetto: mi sembra chiaro che i tre personaggi se ne infischiano di noi e del nostro inseguimento, perché si godono gli ultimi metri al passo di chiacchierata. Io non sento ragioni, voglio concludere: sotto l'occhio vigile dei volontari addetti al traffico, mi tuffo in mezzo alla strada e mi godo gli ultimi cento metri di pura, regolare, godutissima corsa su asfalto. "Non so come tu faccia a correre ancora", osserva il mio compagno di viaggio: "Beh, faccio esattamente come stai facendo tu! Dai che è finita!".

L'arrivo si addice alla partenza ed all'intero sviluppo della corsa: essenziale, spartano, attraverso una porticina e davanti al tavolino degli addetti che si annotano il numero di gara. Senza tante cerimonie, tante inutili parole: bellissimo... Un saluto veloce, "Alla prossima", e me ne vado a cercare il conforto dell'Opelina: eccola là, in paziente attesa, come sempre, nel parcheggio ormai quasi vuoto, indicativo della mia posizione in classifica. Ai primi posti, capovolgendo l'elenco, come sempre. Mentre armeggio con le scarpe infangate, seduta sul bordo del bagagliaio, alzo gli occhi e mi trovo davanti il buon Isacco, con l'aria da cane bastonato, dolorante e deluso della giornata: il ginocchio malconcio, a quanto pare, è tornato a tormentarlo. Sapevo che il mio spillone non avrebbe fallito... Così impari a prenderti gioco della parte migliore, beh, diciamo più grossa e pesante, di me! Ma mi dispiace per lui, mi fa tenerezza, lo so che è un bruto dal cuore d'oro, e che non è cattivo ma lo disegnano così. Se non altro, questa volta, io non ho colpa dei suoi guai, se non nell'intenzione. Mi annuncia che al ristoro finale, dentro al palazzetto, c'è abbondanza di cibo spazzatura: mi ci fiondo senza esitazione, è proprio vero, pizza e Coca Cola a gogò. Degna conclusione di una splendida giornata. Ci sono persino le uova sode, ma la focaccia ha già conquistato il mio cuore ed il mio stomaco. Gli ultimi saluti qua e là, poi via, direzione Torino, tangenziale, casa. Con il sogno della focaccia che mi attende anche a casa: in previsione dell'arrivo di Matteo, ovviamente in sella da Genova ed affamato, ho fatto scorta e riempito il frigo; un vassoio intero di tranci di ogni genere, bianca, al pomodoro, con pomodoro e formaggio, con le melanzane, con le zucchine. Più dodici vasetti di yogurt, mezzo chilo di pane, mezzo chilo di gelato. Conoscendo il soggetto, non resteranno avanzi...

lunedì 12 aprile 2010

5 aprile 2010 - Pasquetta al Col de Turini

Passo il dito sulla carrozzeria della Opel: da lontano, sembrava ricoperta di goccioline d'umidità... Invece non si tratta solo di umidità; è ghiaccio bello e buono. Sono quasi le otto, la giornata si annuncia limpidissima e siamo a quattro km da Breil Sur Roya, lungo la strada per il Col de Brouis: ad un tiro di schioppo dal mare, ma, a quanto pare, l'inverno non se ne cura e continua a rosicchiare i giorni che il calendario ha già da un po' destinato alla primavera. Rabbrividisco: questo spaccato di valle, con gli ulivi, le mimose appena fiorite, la terra secca e ciottolosa le case dai colori sgargianti, stride con il rigore della temperatura. Il sole non ha ancora scavalcato la corona delle montagne qui di fronte, ma la luce intensa che spunta lassù testimonia che non sarà necessario attendere ancora molto.

Seguo Matteo, già col naso puntato verso la colazione. Un po' di inquietudine serpeggia già sotto pelle: non è stato proprio possibile ottenere di poterci sedere a tavola prima... Ma colazione alle otto significa che, tra pasto e preparativi vari, non saremo in sella prima delle nove. E di tale bestialità non riesco proprio a capacitarmi, io che ho come regola prima, sempre, quella di partire presto. Che sia un'uscita di poche ore o dell'intera giornata, in bici o a piedi, mi sento in pace con me stessa solo se metto il naso fuori insieme al sole, o magari lo precedo un po'. Mi sforzo di fare buon viso a cattivo gioco, anche quando Matteo tenta una conciliazione amichevole, "Ma dai, che vuoi che sia, abbiamo l'intera giornata, possiamo prenderla con calma...". Mi guardo intorno: caso vuole che non ci sia alcun oggetto contundente abbastanza pesante a portata di mano. So benissimo che ha ragione; del resto, non ricordo di aver mai sentito pronunciare da lui parole che non fossero piene di buonsenso. Però fatico ad accettare anche il più banale motivo di turbamento della mia tanto cara routine. Sacrosanta l'osservazione per cui non val la pena di farsi il sangue gramo per cose di poca importanza: il guaio è che la bici, inaieme alla corsa, è, per me, fulcro dell'intera esistenza...

La madama della chambre d'hote ci accoglie con un profluvio di parole, ovviamente in rigoroso francese, con un accento, tra l'altro, diverso da quello a cui sono abituata. Riesco a comprendere quasi tutto, ma non mi azzardo a rispondere; mi lancio nel mio bieco francese solo in caso di vita o di morte. Indaga sul motivo per cui siamo capitati qui, sul mezzo con cui ci siamo arrivati: a sentire che Matteo s'è sobbarcato il viaggio da Genova, in bici, ieri, buona parte sotto il diluvio universale, esclama con tono davvero accorato: "La vache!". E' un bel personaggio, questa signora: un donnone, alta e non precisamente filiforme; un caschetto di capelli grigi, un grembiulone da cucina, un viso solare, allegro. Nonostante la mole, non è una di quelle persone obese e lente nei movimenti, tutt'altro; esprime dinamismo e decisione, nelle parole e nei modi. Mi piacciono i suoi gesti ed il suo modo di parlare entusiasta, con tono carico, quasi teatrale; se sapessi il francese, con questa signora ci sarebbe da chiacchierare per ore. Apprezzo davvero le persone che non cercano di darsi a tutti i costi un tono.

La cucina è semplice e molto accogliente; proprio davanti ad una bella vetrata, campeggia un tavolo imbandito di tutto punto e, nel centro, un vassoio con una decina di ampolle di marmellata, davvero per tutti i gusti. La marmellata è uno dei più efferati crimini contro l'umanità, o almeno contro la piccola fetta di umanità rappresentata dalla sottoscritta. Non mi sembra vero: vasetti di marmellata tradizionale, albicocca, fragola, prugne, ma anche ingredienti inconsueti, limone, cedro, mandarino, clementina, persino il rabarbaro. Roba da affondarci dentro il cucchiaio e ripulire ogni contenitore. I vasetti sono tutti aperti, qualcuno pieno, qualcuno a metà o al fondo: in Italia, si sarebbe già gridato allo scandalo, chiamato i NAS, l'ASL, la Protezione Civile e chissà chi altri; guai se non è tutto confezionato, sigillato, sterilizzato, monodose, usa e getta. Qui invece mi sento davvero a casa: ovvio, si usa un cucchiaio diverso per ogni ampollina e si evita di intingere il proprio cucchiaio direttamente nella marmellata, minimo sindacale di buona educazione; però, so che, se resta della marmellata in un vasetto, questa non sarà sprecata e gettata via; semplicemente, ricomparirà sulla tavola del prossimo ospite. Se c'è una mania che non ho è l'igiene: in effetti, sopravviverò anche a questa contaminatissima colazione.

Una fettina incandescente di sole spunta dalla cresta delle montagne: pochi secondi e la stanza è già invasa da una cascata di luce, calda, intensa. Il tepore è ancor più piacevole per effetto della vetrata. "Vi dà fastidio la luce?". Nemmeno per sogno; come osserva giustamente Matteo, io adoro il sole. Le prime parole che gli sento pronunciare da quando ha attaccato la colazione: vedo i livelli della marmellata nei barattoli scendere a velocità impressionante, manco ci fosse un buco sul fondo di ciascuno ed una pompa aspirante sotto il vassoio. Stessa fine tocca al pane caldo, nel cestino, ed alle confezioni monodose di burro. Tale e quale ad un buco nero, quest'uomo fagocita qualsiasi cosa che gli passi accanto, con un solo criterio di scelta: che sia vagamente commestibile. La padrona di casa si accosta, di tanto in tanto, al tavolo; sembra divertita; ci raccomanda di fare il pieno, visto che la giornata in bici ci costerà parecchie energie. Ma, nel caso di Matteo, è come esortare Valentino Rossi a spingere la sua moto al massimo per vincere un Gran Premio... Non c'è alcun bisogno di simili consigli. Il pane è sparito, il cesto piange e quel pozzo senza fondo che mi ritrovo accanto ha anche il coraggio di chiederne una seconda dose. E' pur vero che la signora Ginette non s'impressiona, ma dico io, un minimo di contegno! Così, io passo per quella che non mangia... Certo, è noto che, in mezzo ai ciechi, gli orbi sono quelli che ci vedono. Ho fatto l'assaggio di tutte le marmellate dal gusto più amarognolo, le mie preferite; ho provato anche il rabarbaro, che però mi convince un po' meno. Il vasetto al limone è senz'altro il mio prediletto. E ci darei fondo volentieri... Il fatto è che a me non riesce di abbuffarmi in un solo pasto; odio la sensazione di pancia piena e pesante. Di solito, uccido l'appetito con pochi bocconi; peccato poi che l'appetito torni di lì a poco, e che alla fine la somma dei bocconi trangugiati nella giornata finisca per superare, di gran lunga, la quantità di cibo che potrei incamerare facendo pasti regolari.
Dato fondo al caffè, terribile come solo i Francesi riescono a renderlo, attendo con pazienza che il truculento spettacolo che si sta consumando al mio fianco giunga al termine, godendomi i raggi del sole. Anche qui i vetri di casa sono tutt'altro che impeccabilmente lindi; mi consolo, pensando ai miei, che sono proprio smerigliati... La madama s'informa sui nostri mestieri: saputo che Matteo ha un negozio di articoli per la montagna, si fionda nell'altra stanza e ne riemerge con un plico di volantini pubblicitari, da mettere sul bancone accanto alla cassa, per i clienti. Questo sì che è spirito imprenditoriale!

Ci districhiamo a fatica dall'abbraccio goloso della colazione e da quello caloroso della proprietaria, per completare gli ultimi preparativi. A parte la smania per l'orario, abbandono con un po' di rammarico questa bella stanza accogliente, semplice, con le pareti di due colori diversi, rosa acceso e giallo: sarà pacchiano, ma a me piacciono i colori allegri, anche sui muri di casa. Da me, però, ho ceduto volentieri l'incombenza della scelta a mammà: sfogliare la mazzetta dei colori e prendere una decisione sarebbe stata un'impresa al di sopra delle mie possibilità. Matteo osserva: "Meglio se ci spostiamo con l'auto un po' più in là, che la signora non ci veda...". Un attimo di incertezza e poi afferro il senso delle sue parole: sta pensando allo scatolone che contiene quel che è rimasto della cena di ieri sera, pane, formaggio, yogurt, marmellata e derrate varie che ho portato da casa. Sostiene di avere ancora fame... Io sono sempre più convinta che ci sia materia per uno psichiatra specialista in manie ossessivo – compulsive. Oppure che Matteo allevi con amore e dedizione un verme solitario delle proporzioni di un boa constrictor.

Sotto un sole ormai alto e limpidissimo, grazie al diluvio universale di ieri, abbandono la Opel su una piazzola a poca distanza dall'alloggio, in direzione di Breil; scarico la bici e parto all'inseguimento di Matteo, che è schizzato nell'altra direzione, pensando che io volessi parcheggiare più in su. All'inseguimento, si fa per dire; non mi potrei permettere un inseguimento, né in salita, né in pianura, né tantomeno in discesa, nemmeno se avessi nelle gambe lo sproposito di km che gli anni scorsi, ad aprile, avevo già accumulato. Figuriamoci adesso, che da gennaio arrivo a stento a mille km. Mi avvio con cautela, sbocconcellando una pagnotta nel vano tentativo di porre rimedio alla mia colazione forse troppo risicata: pessima idea, perché i bocconi non vogliono saperne di andare giù, asciutti come sono. L'ultimo svanisce quando sono già in cima al Col de Bruis. La prima salita in effetti è breve, sei o sette km, stradone ampio e pendenze dolci, con il conforto della luce calda sulla schiena. Da ogni zolla di terra spunta un fiorellino: primule, violette, nontiscordar. E poi lucertole che schizzano via al nostro passaggio. Poche auto di passaggio. Sulle cime, una spolverata di neve: è fresca di ieri. Sarà per questo che l'aria è gelida!

Dal Col de Bruis si vede il mare, vicinissimo. Una decina di km di discesa fino a Sospel: tiro su la cerniera del gilet, indosso i guanti e via. La pigrizia mi trattiene dall'indossare la giacca: batterò un po' i denti, ma pazienza. Mi avvio, mentre Matteo imbandisce la tavola per il primo, cospicuo pasto della giornata. Mi raggiungerà senza problemi, dovesse anche spolpare un cinghiale in umido. Discesa morbida e tranquilla come la salita, non fosse per i tratti in ombra che mi levano il respiro; qualche curva, lungo rettilineo, ancora curvoni ampi. A quest'ora del mattino, lo stacco tra la luce e l'ombra è ancora nettissimo, quasi da dar fastidio agli occhi.

A Sospel c'è vita, gente che va e viene con le borse della spesa. Il profumo di pane e dolciumi invade l'aria. Una volta tanto, respingo senza troppa fatica il desiderio di boulangerie: guardo la vetrina e passo... Non così il mio compagno di viaggio. Ci fosse ben Sabrina Ferilli in perizoma in mezzo alla strada, le passerebbe accanto senza nemmeno alzare un sopracciglio. Ma, di fronte alla vetrina della panetteria, colma di ogni meraviglia culinaria possibile ed immaginabile, si volta e s'inchioda come il mirino che ha puntato il bersaglio. Come la freccia del navigatore satellitare quando si arriva a destinazione. Come il segugio da ferma, con la zampa anteriore sospesa e il naso fremente. "Vuoi qualcosa?". Prima che la mia voce giunga alle sue orecchie, è già stato inghiottito dalla porta d'ingresso. Ne esce con un sacchetto che infila in una delle infinite tasche del suo bagaglio. Scongiurato, anche per oggi, il pericolo della morte per fame, possiamo ripartire, in direzione di Moulinet e della salita al Col de Turini. Salita lunga e dolcissima; da Sospel, oltre venti km. E' vero che si sale a milleseicento metri, e più di venti km possono sembrare tanti... Ma bisogna considerare che si parte poco più in su del livello del mare! Anche qui, l'asfalto è eccellente; la pendenza più o meno costante, non certo proibitiva, nemmeno per me che ultimamente patisco e sbuffo contro la forza di gravità. Tornante sopra tornante, ci addentriamo in un ambiente di roccia, terra bianca e vegetazione da clima caldo, com'è caldo il sole, e muretti e parapetti in pietra, e il fiume giù in fondo, alla nostra destra. In alcuni tratti, il parapetto s'interrompe; lo sguardo piomba giù, proprio in fondo... Colori chiari, verdi accesi delle prime foglie. I tornanti son quello che rende meravigliosa questa salita; attenuano la fatica, mostrano il dislivello. E poi la quiete perfetta, il silenzio rotto solo dai cinguettii e dal rumore lontano della corrente. Beatitudine è la parola giusta.

Superiamo l'abitato di Moulinet e continuiamo la salita. Il sole non ci abbandona, ma l'aria sulla pelle è sempre più fredda. Un alito di vento fa rizzare la pelle d'oca, nonostante la fatica. I cartelli a bordo strada segnano ogni km; sappiamo sempre quanto manca. Ma basta osservare la vegetazione: quando fanno la loro comparsa le prime conifere, vuol dire che non siamo lontani dalla vetta. E, con i pini, anche le prime chiazze di neve. La temperatura è precipitata; le cime qui intorno, ora più vicine, sono imbiancate. Va tutto bene, finché... Proprio ciò che speravo di non vedere: neve anche sulla strada. Uno strato sottile, ma sufficiente a farmi desistere all'istante da qualsiasi tentativo di passaggio. Traboccante di disappunto, scendo di sella e mi avvio a piedi, fiduciosa che si tratti di poche decine di metri un po' jellati. Matteo prosegue pedalando, come se nulla fosse.
La mia flebile speranza si dissolve appena girato il curvone: neve, ancora neve, per tutto il tratto che riesco a vedere. Matteo è sparito. Il disappunto trasfigura in rabbia. Pensieri omicidi mi agitano i pochi neuroni, mi sembra di sentirli borbottare come una caffettiera, e si alimentano e si coltivano l'un l'altro. Ma tu guarda, si può essere più idioti? Con tutto il caldo della Costa Azzurra a disposizione, con tutte le millemila salite accessibili in questa zona, proprio quassù dobbiamo venire a cacciarci? Proprio sull'unico tratto di strada coperto di neve? Procedo con cautela: le scarpe da bici con le tacchette non sono esattamente il tipo di calzatura consigliato per far presa sul ghiaccio, e qui purtroppo non manca nemmeno quello. Trascino la bici, mentre la neve sollevata dalle ruote si accumula sulle morse dei freni, e covo propositi efferati. Matteo è sparito... No, eccolo, se ne sta seduto comodamente sul muretto, a bordo strada. Tanto per cambiare, mangia. "Se incontro un altro tratto così, io torno indietro", sbotto. E, approfittando del tornante illuminato dal sole, risalgo in sella, ingenuamente fiduciosa nel futuro. Tempo di girare la curva e sono daccapo: altra neve, altra strada da macinare a piedi. Due km al colle. Il mio umore subisce un crollo verticale, un salto con l'elastico da un altissimo ponte, ma un elastico al limite della rottura. Chissà quanto tempo mi ci vuole per arrivare fino al colle. E poi chissà che disastro la discesa, sarà nella stessa condizione, se non peggio. Il freddo mi morde le braccia e le spalle, ma la furia è talmente cieca che il mio unico pensiero adesso è sbrigarmi, salire, levarmi di qui. Matteo procede, sempre pedalando, mentre io incespico, e più mi arrabbio, più m'inciampo. L'idiozia della situazione mi è insopportabile. So benissimo che il mio compare non ha alcuna colpa, o meglio, non ne ha certo più di quanta possa averne io, che il Turini l'ho già bazzicato in lungo ed in largo, più o meno ad ogni stagione. Non ci voleva Einstein per immaginare che quassù avremmo incontrato la neve. Ma questo è uno di quei momenti in cui perdo il senso della misura. La furia che mi assale per il tempo che sto perdendo, per la paura di ciò che troverò in discesa, è tale da farmi provare quella necessità incontenibile di trovare un capro espiatorio, e rovesciare su di lui qualcosa che sì, in questo momento è molto vicino all'odio. Uno dei tanti lati maledetti del mio carattere: capita a volte che io scateni tutta la cattiveria di cui sono capace proprio sulle persone che meno lo meriterebbero, perché sono quelle poche, pochissime che per me sarebbero capaci di qualsiasi sacrificio. Capitava, in realtà; è un tratto che per fortuna, crescendo, ho imparato a sopire, a dominare. Ma oggi faccio fatica: sbotto, apostrofo con rabbia il povero Matteo, che non reagisce e si allontana, senza sapere che, così facendo, rinvigorisce il fuoco che tormenta i miei nervi. Del resto, non potrebbe calmarli in alcun modo. Solo io posso evitare il peggio. La tentazione, fortissima, è quella di mollarlo lì, girare la bici, tornare giù, senza dirgli nulla; la sensazione è che la giornata sia ormai irrimediabilmente persa, rovinata, gettata via. Pesto i piedi, penso alle mie tacchette che di certo non godranno del trattamento, mi dibatto nella guerra tra furia e quel poco di buonsenso: "Morditi la lingua, Gian, non dire quello che stai pensando... Lo sai, sono cose senza senso, cattiverie gratuite che tu ti pentirai in capo ad un'ora di aver detto, e te le dimenticherai, perché sai che non avevano alcun fondamento. Ma per lui saranno coltellate; lui sì, avrà sempre il dubbio che tu ci credessi davvero, e lo sai, non lo merita, davvero no, mai e poi mai". Incredibile, come il mio neurone solitario sia capace di portare avanti due discorsi silenziosi completamente opposti l'uno all'altro. Il colle mi sembra lontanissimo; interminabile questa marcia forzata al freddo. Rabbia ed umiliazione che covano senza sosta. Ormai non ci provo nemmeno più, a levar la neve dalle morse dei freni e dalle tacchette. Che s'accumuli; in cima provvederò...

Infine ci arrivo, alla vetta. Matteo è lì, silenzioso, ben consapevole del mio stato d'animo, e preoccupato. Ne ha ben donde. "Da che parte dobbiamo scendere?", ringhio. Mi fa segno. A questo punto, sì, gratto via la neve a forza di dita. E provo a frenare per asciugare i cerchi: in questo stato, è come se i pattini dei freni non esistessero. Per giunta, le tacchette non ne vogliono più sapere di agganciarsi ai pedali. Matteo prova ad offrire la sua collaborazione: ma, furiosa come sono, non lo lascio nemmeno avvicinare. Parto senza vestirmi, le scarpe appena appoggiate ai pedali, le dita avvinghiate alle leve dei freni, il terrore in ogni muscolo del corpo. Se solo fossi capace di sbarazzarmi anche dell'ultimo barlume di dignità, mi metterei a piangere, ad urlare... Ma la priorità, adesso, è scendere di qui e portare la pelle a fondovalle. Fa un freddo insopportabile, e c'è neve, anche qui. Stesso copione: giù dalla bici, si procede a piedi, con la differenza che, in discesa, scivolare è molto più facile. A piedi, a piedi e ancora a piedi; mi sembra di camminare da ore, ma è la rabbia che dilata la realtà. Il mio temerario compagno di viaggio azzarda un "Questo è il versante più esposto al sole": come no, lo vedo, infatti si potrebbe scendere con gli sci... Non si rende conto, il poveretto, del rischio enorme che sta correndo, a camminare così sul filo dei miei nervi tesi allo spasimo. Dal fondo del mio baratro di sconforto, voglio solo arrivare giù ed infilare la via più breve per tornare all'auto, e di lì a casa, all'inferno il giro in bici, la vacanza, la giornata di sole e sì, lui, soprattutto lui.

Poi le chiazze di neve pian piano si diradano; la strada torna praticabile, si apre al sole ed alla meravigliosa vallata verso La Bolléne Vesubie; la strada è un filo sottile che taglia la vegetazione fittissima e verde; morbide curve una sopra l'altra, che scendono giù a fondovalle. Il freddo è intollerabile; mani, spalle, torace, schiena, tutto ghiacciato, per non parlare poi dei piedi, che ormai non sento quasi più. Pian piano i cerchi asciugano, la frenata diventa più salda ed efficace. E le orecchie, non le vedo ma lo so, fumano, come una pentola a pressione. La rabbia sbollisce, si scioglie al sole, pian piano, ma inesorabilmente. Matteo se ne accorge, mi consola: "Vedrai, adesso scendiamo giù, poi facciamo un bel giro e la giornata va a posto". Chissà com'è, avere a che fare con un carattere come il mio, nei momenti in cui dà meglio del peggio di sé. Se toccasse a me, non mi sopporterei, poco ma sicuro. Se qualcuno se la prendesse con me, e mi sbattesse in faccia l'intenzione di abbandonare il giro e tornare a casa, lo ripagherei con la stessa moneta: "E vai, chi ti trattiene? Vai dove ti pare, vai al diavolo!". Di certo non saprei reagire con condiscendenza a chi mi avesse appena aggredito, proprio come ho fatto io poc'anzi. Una scena isterica bella e buona, ecco cos'è stata, anche se, in cuor mio, so che ho dato sfogo ad una minima frazione di quel che sentivo... Mi vien quasi da ridere, se penso al collega ciclista che, tempo fa, mi ha proposto di aggregarmi al suo viaggio in Ladakh in mountain bike, il prossimo agosto. Secondo lui, potrei essere una delle persone più adatte ed adattabili ad una strapazzata del genere. Proprio io, che do di matto di fronte ad un po' di neve. Per carità, finirei per essere un peso, una mina vagante da tenere a bada. Robusta forse sì, ma affidabile come una boccetta di alcool accanto alla fiamma del fornello.

La lunga, bellissima discesa prosegue oltre La Bollene; quando giungo al fondo, sono assiderata. Un attimo di pausa per consultare la cartina, per abbattere a fucilate ogni residuo di inutile orgoglio e dire "Mi dispiace": "Sorry seems to be the hardest word", canta Elton John. La colonna sonora più appropriata...
La risalita lungo la stradina secondaria, verso Loda, dissolve quel che resta delle ultime nubi. Un po' di sangue riprende a fluire nelle membra irrigidite, e un po' di appetito. Sopra le nostre teste, spunta all'improvviso un lunghissimo ponte sospeso: una campata infinita di assicelle tenute assieme da funi, ad un'altezza inquietante; roba che mi agghiaccia, anche a guardarlo da qui, le ruote saldamente ancorate alla terraferma. Non ricordavo d'averlo visto, anche se da qui son già passata: ma forse è una di quelle immagini traumatiche che la mente rimuove per autodifesa. Sgranocchio una barretta. Ancora la roccia chiara, i fiori, le prime foglie; la chiesetta e le poche case accanto a quel che sembra un colletto. In realtà, la breve discesa che segue è un inganno; la salita continua, sette, otto km fino al Col St Roch. Pure quello, un colle fasullo. Sfiliamo con molta cautela accanto ad un gregge di pecore, seguito dal pastore comodamente alla guida del suo furgoncino; non ci sono più i personaggi caratteristici di una volta... Risaliamo il fianco di una vallata brulla, deserta, quasi inquietante, un'atmosfera sinistra. La fatica si fa sentire; salgo un po' in silenzio, misurando le pedalate, in compagnia dei cippi impietosi che sempre mi ricordano quanto manca al colle. Troppo.

Il Col St Roch non è un colle. La strada smette di salire, questo è vero, ma il fatto che poi scenda o meno dipende dalla direzione che si imbocca all'incrocio. Nel nostro caso, non si scende affatto; Matteo consulta rapidamente la cartina ed indica la direzione di Peira Cava. Verso l'alto, quindi. "Vuoi il pain au chocolat?". No, grazie, per ora non ho fame. Non è vero, ho fame eccome, ma non ho voglia di sbocconcellare. Si torna a salire, sotto un sole quasi caldo. Non so se la strada penda sul serio, o se sia colpa dei pochi km nelle gambe da gennaio; fatto sta che i pedali non ne vogliono proprio sapere di andar giù. In compenso, il mio morale, oggi già duramente provato, ci va, giù, eccome. Questa fatica così pesante, senza risultato, mi abbatte. "Se trovassi qualcuno che me le compra, gliele darei tutte, le bici. Almeno, così, risolverei il problema alla radice". Lo sconforto è di quelli che niente e nessuno possono consolare. Povero Matteo, sto rendendo la giornata infernale anche a lui. "Siamo qui in un posto bellissimo, io credevo di farti fare un bel giro...". Lo so, me ne rendo conto, mi dispiace, ma che posso farci? E' desolante dover spremere tanta fatica per un risultato così modesto. Mi sembra davvero di non riuscire più a spingere per nulla. Sarà forse vero, come dice Matteo, che "vado come al solito": quel "come al solito", però, mi costa uno sforzo triplo! E l'orribile sensazione di non riuscire ad arrivare a fine salita.

Un bivio inatteso compare a spezzare la mia agonia. Peira Cava si vede in lontananza, ma non è la nostra destinazione. "Andiamo qua, e poi qua, e poi da Sospel al Col de Brouis, e poi all'auto. Sono circa centoventi km, ma molto densi; a me basta così". E non so se gli basti davvero, o se lo dica solo per confortare me, che vorrei andare ben più avanti, ma, mi duole ammetterlo, sono cotta come una pera. So bene che lui potrebbe proseguire più o meno all'infinito. Ha duecento e passa km nelle gambe, percorsi solo ieri, con un tempo da tregenda, e in questo momento non lascia trasparire il minimo segno di stanchezza. E' semplicemente inesauribile.
Svoltiamo a destra, verso Luceram, e poi ancora, dopo un primo tratto in discesa, a sinistra, in direzione di Sospel. Questa strada, un po' malconcia, raggiunge, con qualche tornante, un ampio pianoro verdissimo. In mezzo al tratto di strada pianeggiante, campeggia un cartello: "Col de l'Orme". I Francesi sono davvero speciali per inventarsi i colli dove non esistono... Ha un bel dire, Matteo, che un colle sta sullo spartiacque, non è necessariamente un punto in cui la strada arriva su e poi scende giù. Sarà pur vero che io ragiono dal punto di vista, miope, del ciclista... Ma questa storia non mi convince. Trangugio il pain au chocolat che il mio fido e paziente compagno ha estratto dallo zaino con movimento da funambolo; a me riesce già difficile tenere una mano sul manubrio e con l'altra ingozzarmi senza disperdere troppe briciole... La salita al Col de Braus è bella, più selvaggia delle precedenti; la strada è sconnessa, tutta una buca, sassi e detriti. La luce si fa pian piano più gialla, le ombre s'allungano. In cima, Matteo consiglia premuroso la giacca: ora che so che il pericolo è alle spalle, che la mia paura folle non ha più ragione di esistere, obbedisco anche a ciò che non è un ordine, docile come un cagnolino, consapevole della coscienza sporca e della riabilitazione che dovrò sapermi conquistare. Destinazione Sospel, lunga discesa in buona parte in ombra, da quota mille fin giù. Meravigliosa e gelida: per trovare il coraggio di levar la giacca, devo attraversare Sospel ed iniziare la risalita al Col de Brouis. Questa volta, uno sguardo alla boulangerie lo lancio anch'io: sembra ancora aperta... Ma dai Gian, ci sono ancora le provviste in auto. Una decina di km e sei su. Coraggio. Prendo un po' di vantaggio su Matteo, dedito per l'ennesima volta alle libagioni. Passo cauto e misurato, mi sento di andar bene; la pendenza qui è davvero gentile. Risalgo pian piano, curvone dopo curvone; l'ombra ha già inghiottito buona parte del percorso. Le pietre a bordo strada scandiscono il passo. Matteo mi raggiunge di gran carriera; prosegue con lo stesso passo: chissà da quanto mordeva il freno, poveretto... Meno quattro km, meno tre. Il rettilineo da cui si vede già il colle, poi gli ultimi tornanti. Sarebbe bello aver lasciato l'auto quassù, arrivare in cima con il caldo addosso della salita e rifocillarsi agli ultimi raggi del sole, protetti dalla lamiera dell'auto. Ma di sole, quassù, se ne vede ormai poco. In compenso, si vedono il mare e dei rilievi imbiancati oltre il mare: sogno o son desta? Che montagne sono, quelle? Approfitto del fatto che il mio compare, già arrivato in vetta, mi torna incontro, per chiederlo a lui. Dopo aver studiato l'orientamento del sole e campato in aria ipotesi più o meno credibili, concludiamo che possa trattarsi delle Apuane, sì, forse...

In cima, ultimo pieno alla borraccia, per avere un po' d'acqua nel lungo viaggio di ritorno, in auto. Poi giacca, guanti e si scende: sei km di discesa ora del tutto in ombra. Matteo s'impossessa della chiave dell'auto e schizza via: i morsi della fame devono essere ormai inarrestabili... Chissà se troverò ancora la Opel, o se l'inceneritore si sarà già spazzolato pure quella? Un po' i freni, a dire il vero, li mollo anch'io, ma solo perché ho freddo. Non mi manca, però, l'ultima emozione della giornata. Un paio di tornanti più sotto, vedo due auto ferme, con le quattro frecce, e gente che armeggia lì intorno. Un attimo di puro terrore: e se... Scendo con il cuore in gola, il respiro che s'è mozzato e non riparte più, la paura folle di vedere una bici a terra. Mi avvicino, mi guardo intorno, nulla di tutto ciò: un triangolo, forse solo un banale guasto, facce nervose ma non così preoccupate. Scivolo via sollevata, ma ci vuole un po' perché il sangue torni a scorrere fino in fondo alle dita. Case, giardini, fiori e cancelli, fino al ponticello. Eccola là, la fida vettura. Matteo ha già sparpagliato a terra il bagaglio, per mettere su le bici e poi riordinare. Sembriamo una carovana di giostrai accampati qui, a bordo strada, alla bell'e meglio. Marmellata, cioccolato, pane, va tutto bene per placare i morsi della fame. A casa ci attendono i ravioli alle erbette, ma sono ancora troppo lontani...