domenica 17 aprile 2011

17 aprile 2011 - Al Beigua in mountain bike

"Aiuto... Dove sono, chi sono, perché?". Brancolo nel buio alla ricerca dell'interruttore dell'abat-jour, ma non potrei trovarlo neanche avessi tante braccia quante la dea Kalì. Impiego qualche secondo a realizzare che ieri sera mi sono coricata sul divano, non in letto. Quel che proprio non riesco a ricordare, benché mi sforzi di spremere il neurone, è il motivo: perché oggi è particolarmente importante che io mi alzi a quest'ora? La sveglia alle quattro e mezza è ormai da tempo la mia abitudine quotidiana; oggi, però, c'è proprio un preciso motivo per cui l'ho puntata a quest'ora. Ma quale?

Allungo un braccio verso il pavimento. La mano piomba su un corpo caldo, ossuto e peloso: ah già... Ci sono, ora ricordo. La sequenza di vertebre sotto le mie dita appartiene a Céline, che al trillo dell'infernale marchingegno non ha fatto una piega. E' importante che io mi alzi immediatamente, perché devo preparare la pappa per lei e per il Tittone, due razioni per colazione e due per pranzo, devo portarli a far la passeggiata mattutina, devo sistemare lo zaino e la borsa per me, devo far colazione, caricare la mountain bike in auto, raggiungere Varazze alle sette e mezza.

Rispetto ai miei due ammassi pelosi, le leggi della matematica sono costrette a chinare il capo e ad ammettere eccezioni altrimenti inammissibili. Non è affatto vero che uno più uno fa due, se si mettono insieme il Tittone e Céline. Il Tittone è ormai un cane di mondo, abituato alla vita di casa ed ai ritmi forsennati della sua padrona, a cui ha ormai sviluppato un'inattaccabile resistenza passiva; ogni volta che fiuta aria di preparativi per qualche trasferta sportiva, il furbacchione si ritira sul lettone, maestoso, e sprizza più o meno la stessa vitalità di una statua di sale. Credo sia una forma di difesa preventiva, casomai mi venisse in mente di coinvolgerlo. Ergo, con lui avevo vita facile: passeggiata in giardino, ciotola piena e via, a qualsiasi ora del giorno e della notte, contando sulla collaborazione di mammà che, in orari più congrui per i comuni mortali, passava a raccattare il suo beniamino peloso e lo portava con sé all'aperto. Da quando Céline ha invaso la mia casa e la mia vita, la faccenda s'è un tantino complicata: la bestiola, si fa per dire, riunisce in sé l'esuberanza incontenibile di un cucciolo di sei mesi con la stazza altrettanto incontenibile di un goffo corpaccione di venticinque chili, destinati a diventare, in un futuro molto prossimo, ben di più.

Riesco a mettermi al volante con venti minuti di ritardo rispetto al mio piano d'azione, solo dopo lunga operazione di diplomazia per convincere Céline a restare da sola in giardino, a quest'ora, senza abbaiare. Piange disperata, quando mi vede andar via, ma il suo dolore è tanto acuto quanto facile da consolare: il mio posto nel suo cuoricino può essere ben riempito da un osso di pelle pressata, che masticherà furiosamente per qualche ora. Sarà mattino inoltrato quando il terremoto peloso avrà sbriciolato l'ultimo frammento del giocattolo e si ricorderà di essere un cane vivace e rumoroso: a quel punto, non ci saranno più vicini inferociti per essere stati svegliati nel cuore della notte.

Per fortuna, le mie previsioni circa i tempi di percorrenza sono sempre pessimiste: così, nonostante il ritardo, riesco comunque a parcheggiare l'auto a Varazze alle sette e mezza in punto. Abbandono la Opel in un parcheggio in cui, in teoria, ci si potrebbe fermare al massimo per due ore: Matteo giura che non è vero... Rinuncio a domandarmi quale sia il fondamento di cotanta sicurezza; speriamo di ritrovare ancora l'auto, stasera.

Pochi minuti e sono in sella alla MTB, lungo l'Aurelia, in direzione Varazze. Cielo limpido, una leggera brezza, il profumo inebriante del mare, a cui non sono abituata. E' stupenda l'Aurelia alle prime ore del mattino, quando le bestie da spiaggia sono ancora sprofondate nel sonno. Poche auto, poco movimento; si può permettere allo sguardo di posarsi sulle rocce, sulle onde, sull'orizzonte senza rischiare di essere travolti, centrati da una sportellata, disarcionati da un pedone che attraversa la strada senza alcun criterio. A Cogoleto, finisco in pieno nella corrente del profumo di brioche. Ci sono già parecchi ciclisti operativi, quasi tutti in bici da corsa, quasi tutti tirati a lucido, vestiti a puntino, tesi e carichi come molle. Strizzo gli occhi per riconoscere, fra i tanti, Matteo, ma sarà lui per primo a mettere a fuoco me, poco oltre Cogoleto. L'ora quieta del mattino mi permette una disinvolta inversione a U: se solo mi azzardassi a ripetere la manovra tra un paio d'ore, qui, si troverebbero frammenti di me fino a La Spezia...

Torniamo per un breve tratto verso Cogoleto; svolta a destra et voilà, la prima salita. Una strada asfaltata con pendenza scandalosa: "Strada dei Maxetti", leggo su un cartello, ma non ho il fiato per chiedere a Matteo cosa siano i "maxetti". Anche lui oggi è munito di mountain bike: il programma prevede la salita al Beigua per una strada in gran parte sterrata. Ma già qui, sull'asfalto, in mezzo a ville e giardini, mi trovo in seria difficoltà. Sulla prima rampa, la ruota anteriore ha minacciato di staccarsi da terra; le rampe successive non promettono nulla di buono. Beh Gian, cosa ti aspettavi? Hai accettato il rischio di un giro in bici con itinerario creato da Matteo; ormai sai bene a cosa vai incontro. Nessun problema: la vecchiaia porta consiglio; col tempo, ho imparato anche a difendermi. Pedalo finché posso; non appena la pendenza, oltre una curva, torna ad essere indecente, butto giù i piedi e salgo con la bici per mano, pedibus calcantibus. Una nota di delusione nella voce di Matteo: "Ah... Proprio così?". "Sì, proprio così – rispondo, secca – non ho alcuna intenzione di morire". Non l'avrei fatto, tempo fa: mi sarei incaponita per salire in sella ad ogni costo, avrei provato paura, mi sarei arrabbiata. Cui prodest? In fondo, a pedali o al passo, il tempo che impiego per salire è lo stesso...

La stradina risale, stretta ed inondata di sole, tra abitazioni sempre più rade, spesso difese da minacciosi cani da guardia. In effetti, una villa appariscente in un luogo così isolato eppure, tutto sommato, accessibile, è un obiettivo fin troppo ovvio per gli amanti delle rapine. La pendenza si attenua, man mano che saliamo; la stradina si restringe passando tra due ali di fitto bosco. Domina il colore verde brillante delle foglie appena schiuse. Poi, quasi d'improvviso, si scende, giù di gran carriera fino a Sciarborasca. Da qui, riprendiamo la salita, in direzione delle Faie, con pendenza più dolce e curve che seguono i pendii della montagna, il bosco dinuovo fitto che spesso lascia vedere solo il culmine dei tetti di qualche abitazione isolata. Proprio mentre imbocchiamo il bivio verso l'Eremo del Deserto, il trillo di un messaggio sul telefonino. E' mia mamma che annuncia, per sommi capi, uno dei disastri di Céline... Approfittando del privilegio concesso alle chiamate tra i nostri due numeri, gratuite per contratto, le telefono: pare che la mostriciattola abbia disintegrato la bottiglia di Barbera ricevuta come pacco gara la scorsa domenica a Valdellatorre, bottiglia che avevo piazzato in un angolo degli scalini dell'ingresso, convinta che mai e poi mai la pelosa dispensatrice di danni se ne sarebbe interessata. Céline invece se n'è interessata eccome, tanto da rovesciarla, mandarla in frantumi e leccarne con entusiasmo il prezioso contenuto sparso sugli scalini e per terra.Già, avevo dimenticato l'incommensurabile potere disastrogeno di un cucciolo...

Risaliamo una strada asfaltata, ma in brutte condizioni, che costeggia un torrente; più di una frana ha grattato via parte della carreggiata, trascinandola giù per il pendio. Una specie di mezzo cratere è rimasto a testimonianza del punto in cui, racconta Matteo, la strada ha ceduto sotto il peso di un camion: nessuna conseguenza per l'autista, per fortuna, ma che disastro... Il sole va e viene; passa qualche nuvola di troppo. In località Le Faie, salutiamo l'asfalto per immetterci su una strada sterrata che, almeno sulle prime, promette bene: comoda, pedalabile, con un buon fondo. Ma non m'illudo. Il mio compare di viaggio mi ha più volte assicurato che lui stesso, anni fa, ha percorso questa strada in sella ad una bici precaria, senza difficoltà: sarà una passeggiata, a sentir lui. Ormai, questo genere di affermazioni da parte sua scatena in me un'istantanea, automatica reazione difensiva: Gian, preparati, perché sarà una catastrofe tale che, al confronto, i viaggiatori del Titanic sembreranno aver fatto il bagnetto nella piscina gonfiabile. E' matematico, è ineluttabile. Sii coraggiosamente pronta al peggio.

Per i primi chilometri, la pedalata scorre sorprendentemente fluida; chiacchiero, mi godo il panorama e la quiete assoluta di questa bella strada sterrata. Man mano che si sale, però, cominciano gli intoppi. La pietra troppo sporgente, la ghiaia scivolosa; qualche esitazione di troppo, la paura di cadere. Butto i piedi a terra una volta, due, tre; fatico a risalire e ripartire, mi fermo ancora, m'innervosisco. Un lento ma inevitabile avvitamento che mi porta a temere anche i passaggi più innocui. La paura annienta quel poco di equilibrio. E' vero, bisogna scegliere un rapportino molto agile ed accelerare la pedalata per superare l'ostacolo; tutto vero, in teoria: del resto, è quel che ho sperimentato solo pochi giorni fa, mercoledì pomeriggio, quando mi sono sciroppata per due volte la salita al Monte San Giorgio da Piossasco. Quel giorno è andato tutto bene, tutto sotto controllo; i piedi a terra li ho gettati ben poche volte. Ero tranquilla, non avevo fretta, ero sola. La salita al San Giorgio, come fondo, non è certo più agevole del terreno su cui mi trovo ad incespicare oggi; eppure... Mi conosco, ormai: va tutto bene se va tutto bene, e non è un'ovvietà; intendo dire che, alla prima difficoltà, il castello di carte della mia sicurezza crolla e si sparpaglia miseramente a terra. Percorro tratti sempre più lunghi camminando con la bici per mano: mi spiace per Matteo, che di tanto in tanto si ferma pazientemente ad aspettare. Il fondo peggiora, man mano che si sale. Già, per lui che è un funambolo, non c'è alcun problema; lo vedo sgambettare agile e sparire dietro alla curva. Eppure non si rende conto di quanto fuori del comune siano le sue doti di equilibrio, e non è un'osservazione soltanto mia. Per lui è tutto facile. Per me che, al contrario, sono patologicamente incapace anche della più elementare dimostrazione di senso dello spazio e della posizione, qualsiasi ostacolo è un abisso. Ed anche oggi ho avuto la conferma che qualsiasi valutazione delle difficoltà di un percorso, se proviene da Matteo, è per me del tutto inattendibile. Per fortuna, me l'aspettavo: quindi, salire di buon passo a piedi e guardare il mare non mi crea alcun dispiacere, anzi, aggiunge bellezza alla bellezza della giornata. E pazienza se un paio di frane, la prima davvero impressionante, mi costringono a complicate evoluzioni per traghettare me stessa e la bici.

Il vento più freddo ed appena più forte annuncia che ormai siamo vicini alla vetta. Anzi, sono: il mio compare sarà già su da un po'. Arranco pigramente lungo la strada sterrata; torno in sella solo quando ormai la pendenza ed il fondo sono decentemente praticabili. Raggiungiamo un ampio pianoro brullo, spazzato dal vento, con tracce di staccionate ed aree picnic. E' bella la MTB, portata sul suo vero terreno, ma richiede molta concentrazione, genera tensione. Gioisco di vero cuore quando mi accorgo che si torna all'asfalto: sbuco proprio di fronte al rifugio di Prariondo. Matteo mi attende seduto su un muretto in pietra: sembra fiiutare l'aria, come il segugio, alla ricerca dell'elettricità che annuncia l'arrivo della tempesta. Ma oggi è giornata di luna buona. "Me lo ricordavo più facile" – si scusa, come a parare il colpo della scure che stia per abbattersi sul suo cranio. "Nessun problema" – replico – "Là dove non riesco a salire in bici, procedo a piedi". Ma non mi nego il gusto di un succulento "Te l'avevo detto", che, in questo caso specifico, significa: "Te l'avevo detto, che le tue valutazioni di percorso non meritano alcuna fiducia...". Affermazione incontestabile, quindi a maggior ragione fonte di intima soddisfazione, la mia. Ormai non mi arrabbio più, ma so bene che, agli iniziali entusiasmi del mio accompagnatore, espressi sia in termini di chilometri che di dislivello e di tempo, corrisponde regolarmente un lavoro di taglio, limatura, sforbiciamenti vari, a causa della mia cronica lentezza. Insomma: se Matteo preventiva un giro con 150 km e cinque salite, in mia compagnia, a fine giornata avremo raggiunto sì e no metà degli obiettivi, non di più, spesso di meno. Lui prende se stesso come altissimo punto di riferimento, ma io, al confronto, ho preso la residenza al pian dei babi.

Finalmente poggio i piedi, e le ruote, sul confortevole asfalto. E' un sollievo, anche se la salita sterrata appena conclusa è bellissima. Pedalare in mezzo alla vegetazione, nel silenzio e senza l'assillo delle auto è stupendo; diventa però fonte di tensione quando ci si rende conto di non essere all'altezza della situazione. Dal rifugio di Prariondo, ci avviamo per l'ultimo tratto della salita al Beigua via strada asfaltata, sferzati dal vento ancora freddo e da un sole incerto. Non so se sia una mia impressione, ma spingere in salita su sterrato prosciuga le energie, tanto che adesso sconto una gran fiacca, a cui spero che il miele possa porre rimedio. Raggiungo la selva di antenne e trovo Matteo intento nella sua attività principale: aspettarmi. Mi offre un po' di cioccolato a cui non so dire di no. Certo che, se davvero le antenne, i ripetitori et similia fossero dannosi per la salute, stasera noi saremo defunti!

Indossate le giacche, ci lanciamo in discesa, ancora verso Prariondo e poi in direzione di Piampaludo. La strada, asfaltata per modo di dire, corre nel fitto del bosco; tra le varie specie di alberi, l'unica che riconosco senza dubbi è il faggio. Un trionfo di sfumature di verde acceso, le prime foglioline primaverili, che quassù spuntano con un certo ritardo rispetto alle colleghe della pianura e della costa. Si scorge ancora qualche chiazza di neve. Gli scorci aspri e selvaggi che di tanto in tanto le chiome degli alberi lasciano intravedere sono sempre, per me, una meraviglia.

A Piampaludo, Matteo indica una strada secondaria sulla destra. Lo seguo senza batter ciglio, dal momento che non ho idea né di dove ci troviamo, né tantomeno di quale sia il nostro itinerario. Percorriamo qualche chilometro di questa via stretta, buia nel folto della vegetazione, punteggiata di abitazioni. Quanto mi piacerebbe vivere qui, lontana da tutto. Ecco: poter vivere con il mestiere di scrittore e potersi ritirare quassù, senza essere per forza costretta a frequentare altri esseri umani al di là di poche persone fidate e gradite. Sarebbe un sogno. Io, che sono quasi preoccupata dall'immane difficoltà che incontro nell'avere a che fare con i miei simili, vivrei benissimo quassù, con la sola compagnia della mamma, dei miei cani e del mestiere che sarebbe per me ideale, se solo mi desse da vivere. E la più modesta e precaria di queste abitazioni sarebbe già una reggia.

Curva dopo curva, perdiamo quota, ma, quando meno ce l'aspettiamo... La strada finisce. S'interrompe, non c'è più. Chi avesse deciso di affrontare la discesa con piglio troppo sportivo, ritroverebbe brandelli di sé sparpagliati sulle rocce in fondo all'impetuoso torrente. La piena, la frana o chissà che, si è semplicemente portata via il ponte. Al suo posto, una voragine di almeno dieci metri di ampiezza. Che fare? Ad una prima occhiata, non pare impossibile discendere il pendio sabbioso a fianco della strada e guadare lì, in un punto in cui l'acqua è bassa ed alcune rocce affiorano a mò di passerella. Tuttavia Matteo, conscio della mia scarsa familiarità con i virtuosismi da equillibrista, e temendo i miei strali per le conseguenze nefaste di un'idea che tra l'altro è mia, preferisce fare dietrofront. A suo parere, per tornare a Piampaludo ed imboccare la strada principale, basteranno dieci minuti. Io quasi non fiato, ma ricordo bene la lunghezza e la pendenza di quest'ultimo tratto percorso in discesa: ci vorrà mezz'ora o quasi... In ogni caso, a ben pensarci, tornare su è l'idea più saggia. Chissà, magari ci lanciamo in un rocambolesco guado e poi, un chilometro dopo, ci troviamo di fronte ad un altro crollo...
Risaliamo con calma, all'ombra del fitto bosco. I cani di guardia ai giardini erano convinti di aver già fatto il loro chiassoso dovere al nostro passaggio di andata; beh, loro malgrado, dovranno sopportare gli straordinari. Da Piampaludo, seguiamo la direzione per Vara Superiore, dove finalmente, su uno spiazzo, individuiamo una fontanella. Il caldo si fa sentire e le borracce sono vuote: la mia, come sempre, era vuota già alla partenza. E' già tanto che mi sia ricordata di portarla; riempirla, però, sarebbe stato troppo. Condividiamo il piazzale con un gruppo di motociclisti del genere "da turismo", alla disperata ricerca di un tavolo sotto cui distendere le gambe e sopra cui sfogare la voracità repressa; addirittura si dividono, ciascun gruppo con un angolo del paese da scandagliare. Matteo traffica intorno alla mia ruota libera, che ha qualche problema: la catena rifiuta di saltare sulla corona posteriore più grande, che per inciso non so nemmeno quanti denti abbia. So solo che ogni tanto servirebbe, ma non la posso usare e me ne faccio una ragione.

Il sole non è abbastanza deciso da risparmiarmi i brividi, dopo qualche attimo di sosta. Saluto con sollievo il momento di ripartire. Attraversiamo le poche case del paese. Qui il panorama urbano è davvero desolato: siamo in mezzo ai monti, di fatto, e mi suona strano vedere tanti condomini: palazzine piccole, dieci, quindici alloggi al massimo, occhio e croce, ma che nel contesto sembrano del tutto fuori posto. Sembrano trapiantati qui dalla periferia di qualche città di pianura. L'impressione, poi, è uno stato di generale abbandono; molte abitazioni sembrano vuote, non per via di una presenza stagionale dei proprietari, ma proprio perché non servono più.
La strada, fin qui larga e dritta, si restringe e guadagna dislivello con un paio di curve. Oggi è terra di motociclisti: è con una certa apprensione che ascoltiamo il rombo dei motori alle nostre spalle... Sperando che non sbaglino la curva.

Lasciata più giù la civiltà, la strada ci regala lo spettacolare panorama che si gode dal Faiallo: una vista impagabile sulle valli boscose che digradano verso il mare. Peccato per la foschia che sfuma contorni e particolari. La pendenza è lieve e permette di guardarsi intorno, con un po' d'attenzione per il vento, che quassù è rinvigorito. Sono a bocca aperta. Che meraviglia... Mi riporta alla dura realtà il carnaio che popola il belvedere al passo del Faiallo: decine di auto parcheggiate malamente a bordo strada ed i loro occupanti, moltiplicati per chissà quanti ogni auto, ammassati su un fazzoletto di prato, a menar le mandibole e dare aria all'ugola. Raccapricciante... Questi, con tutta probabilità, sono in gran parte genovesi; si lasciano alle spalle il caos folle di Genova per poi venire ad intrupparsi tutti quassù... Proprio come le pecore, tutti insieme; basterebbe spostarsi di cento metri per avere abbondanza di spazio vitale a propria disposizione. Ma far cento metri a piedi, magari con il cesto del picnic, è fatica. Tremendo. Piuttosto che trascorrere una giornata così, metto le dieci dita delle mani su un'incudine e me le faccio martellare una per una!

Matteo condivide il mio disgusto. Tiriamo avanti, la quiete riconquistata; non posso fare a meno di fermarmi un momento per osservare, da ferma, l'abisso che si apre giù sulla vallata. Splendido. Di qui passava il percorso del Gran Trail Rensen, il cui organizzatore purtroppo, nonostante gli sforzi e la passione profusi, è stato costretto a gettare la spugna ed a lasciar perdere. Ricordo bene che impressione mi ha fatto, per entrambe le edizioni, buttarmi giù lungo il sentiero che sembra voler schizzare in fondo al baratro.

Risaliamo al Passo del Turchino: la giacca, indossata per la discesa, mi riduce in pochi minuti ad un piatto cotto al vapore. Invidio Matteo che può permettersi di salire quassù tutti i giorni, se crede. Da Carmagnola bisogna macinare un bel po' di km, per trovare una salita che non sia un cavalcavia; in più, negli ultimi anni, l'esplosione edilizia selvaggia ha rovinato anche quel poco di bella campagna che rimaneva. Una gran tristezza.
Oltre il primo tratto di discesa, imbocchiamo sulla sinistra una stradina sterrata in discesa, che va a passare sopra l'autostrada. Un tratto di difficoltà oserei dire elementare, ma ormai, per oggi, il mio senso dell'equilibrio ha davvero deciso di non concedere più alcuna collaborazione. Mi sento su una barca in balia del maremoto; non sono io a guidare la bici, bensì un senso di paura incontrollata di qualsiasi cosa. A furia di frenare e scender di sella, riesco ad impiegare un'eternità anche per questo brevissimo tratto, forse nemmeno due km. Trovo Matteo ormai stoicamente rassegnato a sopportare tutto ciò: alle sue spalle, una galleria ed un semaforo rosso. In me alberga ancora lo spirito del vero ciclista ligure: che sarà mai il rosso, è un colore come un altro... Forse per scacciare l'onta della fifa appena dimostrata giù per la stradina, mi dirigo decisa verso l'imbocco del tunnel e pronta a sfidare lo Scania che senz'altro incontrerò a metà del buio cammino. "Qui è meglio fermarsi", azzarda Matteo: chissà perché, in un rigurgito di saggezza, l'istinto mi suggerisce che sia meglio dargli retta...

Il verde scatta quasi subito. "Ancora 5 km di discesa", mi informa il compare, "poi 300 m di dislivello in salita". Omette il piccolo, trascurabile particolare della distanza in cui quei 300 m saranno superati, ma, chissà perché, non mi aspetto nulla di buono. Mi godo quel che resta della discesa, che in MTB, su asfalto, mi sembra sempre troppo breve. Se non fosse per l'aria fredda, scivolerei volentieri ancora un po' verso il mare... Una stradina sulla sinistra, con pendenza da parete dolomitica, è quel che mi attende. Con pazienza e sapiente uso della tripla, mi avvio su per la rampa con il brio del carro funebre; tornante, curva, altra curva. Mi consolo respirando il profumo del mare e dei fiori, quasi inebriante. 300 metri di salita alle Giutte: di questo passo, saremo su in un paio di km. Dai Gian, 300 m di dislivello non sono eterni. Anche se hai una bici che pesa due quintali in assetto da fuoristrada. Anche se ti porti a spasso un deretano che fa provincia ed ha il tonnellaggio dei contrappesi in cemento delle gru. Matteo danza sui pedali e se ne va; lo ritrovo, tanto per cambiare, in cima. La discesa, in compenso, ripaga di tutti gli sforzi con una vista mozzafiato sulla vallata punteggiata di poche case, muretti a secco e piante di ulivo. Quanto mi piacerebbe vivere quassù, dove osano le aquile ma non gli implacabili Testimoni di Geova ed i questuanti delle più varie specie.

I maestosi archi del ponte della ferrovia testimoniano che siamo arrivati alla meta intermedia: casa di Matteo. Ci attende, qui, la mamma, con uno spuntino. Il frugale pasto consiste in un'immensa vasca Jacuzzi ripiena di pasta con le noci, un container di torta salata con pasta sfoglia e verdura, una torta con i frutti di bosco e le bignole fatte in casa. Che disastro... Metter le gambe sotto il tavolo nel bel mezzo di un'impresa sportiva suona alle mie orecchie come la più rivoltante delle bestemmie; il guaio è che, in questo caso, la mamma di Matteo ha sferrato l'attacco nel modo più scaltro possibile: prendendomi per fame... Sarà che da molto tempo non pedalo più seriamente; sarà che la MTB pesa e chiede molte risorse; fatto sta che io mi ritrovo adesso con una fame tale da decimare l'intera popolazione di cinghiali dell'Appennino Ligure. Non ce la faccio a restare fedele ai miei principi. Cedo alla violenza del colesterolo ed all'ineguagliabile talento della cuoca. Quando riparto, un'ora più tardi, provo più o meno la stessa sensazione che credo alllieti l'eroinomane che ha trovato la dose dopo una lunga crisi di astinenza... Sono ormai anni che vivo per conto mio e mi alimento a suon di panini, surgelati e microonde. Giorni come oggi sono una vera manna! Anche perché credo di non aver motivo di farmi dei rimorsi, con tutta la strada già pedalata e da pedalare.

A fatica riusciamo a sopire il travolgente entusiasmo della mamma di Matteo. Vivere quassù sarebbe splendido per chi, come me, tendenzialmente detesta il contatto con il suo prossimo, ma dev'essere un po' una pena per chi, come lei, sembra proprio aver bisogno di compagnia. Per quanto Matteo per lei si faccia in quattro, in otto ed in dodici, più di quanto qualsiasi figlio medio al mondo sarebbe in grado di fare ed avrebbe voglia di fare.
Il mio compare ha provveduto al cambio bici: abbandonata la MTB, riparte in sella alla bici da corsa. E con quella si lancia giù per la micidiale rampa in cemento, ripidissima, che collega casa sua alla strada del paesino. Io, pur dotata di carro armato, non ci provo nemmeno; scendo a piedi, con la bici per mano, e già così tribolo.
Breve pausa sulla piazza del paese per prendere acqua alla fontanella. Osservo con interesse l'edificio delle terme, ben rimesso all'onor del mondo: pare che l'attività sia ricominciata. C'è infatti un gran viavai.
L'intenzione è di scendere a Voltri, perché io possa togliermi la curiosità di vedere il negozio nuovo di Matteo finalmente concluso ed operativo. Per scendere, però, com'è ovvio, bisogna salire; la strada diretta è troppo banale, roba da poveri di spirito. Ci avviamo lungo la stradina che passa di fronte alle terme, sotto un bel viale alberato. Non avevo dubbi sulla natura della salita, di quelle che richiedono piccozza e ramponi. "E' molto ripida solo nel tratto iniziale", mi incoraggia Matteo, "poi spiana". Beh, sì, non si può dire che sia una menzogna. In effetti, solo i primi 1,9 km costringono a sputare i bronchi per riuscire ad arrampicarsi. E la stradina sarà lunga, fino alla cima della Colla di Prà, si e no 2 km. Dopotutto, sul concetto di "tratto iniziale" si può discutere...

Al sole della metà del pomeriggio, ci lanciamo giù per una discesa sedicente asfaltata, in realtà poco più di una mulattiera con buche da far impallidire i crateri lunari, roba che, se ci caschi dentro, non ti trovano più. Spesso e volentieri, la pendenza è troppa per i miei gusti: rinuncio senza combattere, smonto di sella, scendo a piedi, ed anche così non è facile, soprattutto quando si tratta di mettere piede a terra in un tratto troppo pendente. La paura torna a farsi strada. Mi sorge un dubbio: Matteo sa benissimo che io di queste situazioni ho sacro terrore... Che lo faccia apposta a portarmici, per liberarsi di me? Cavoli, ma dovrebbe conoscermi ormai... Dovrebbe saperlo, che per liberarsi di me è sufficiente un "Arrivederci", o un "Addio" se si preferisce! Non sono mai stata una persona appiccicosa e mai lo sarò, finché avrò coscienza... Non è il caso di torturarmi!

Quando già sono sull'orlo di un tentativo di omicidio, finalmente la strada assume contorni più umani. Posso godermi il verde del paesaggio ed il profumo intenso dei glicini, almeno finché non giungo in vista dei ben più prosaici tetti dei palazzoni che allietano la periferia genovese. Un percorso labirintico ci conduce al negozio: un gran trafficare di chiavistelli, codici e combinazioni, finché la serranda si solleva. Che dire: negozi come questo, per me, sono un paradiso; passerei ore a provare tutto, anche i moschettoni, i vari gingilli di metallo per l'arrampicata, le corde, gli zaini, le tute, le scarpe... Tutto! Locale molto bello, ben organizzato, dall'aspetto più vivibile rispetto alla sistemazione precedente.

Ci attendono ora gli ultimi km verso Varazze. Pedalo di buona lena, prima per levarmi in fretta dal caos allucinante di Voltri e poi per la voglia di arrivare a posare il mio riverito fondoschiena sul sedile dell'auto. Matteo lamenta di aver fame; sono sempre più convinta che in lui alberghi un verme solitario che ha invitato gli amici per una festa... Gli ultimi sguardi al mare, gli accidenti catapultati in direzione di automobilisti e pedoni indisciplinati, la risalita da Arenzano verso il casello dell'autostrada, che sembra un'inezia ma puntualmente smentisce le illusioni. Respiro ancora un po' il profumo del mare. Mi resterà poi nelle orecchie, a lungo, il verso dei gabbiani. Cogoleto. Ancora qualche lieve saliscendi e siamo al parcheggio. La Opel, in barba ai divieti, è ancora lì. Come sempre, cedo volentieri a Matteo l'incarico di incastrare in auto i pezzi delle due bici, con la scusa che lui è più abile. Torno a casa con circa 110 km e poco meno di 3.000 m di dislivello, molto sofferti, e trascino anche Matteo nella desolata landa torinese. Deve ancora conoscere Céline. Poi, domani, tornerà a Genova. In bici, ovvio!

domenica 10 aprile 2011

10 aprile 2011 - Maratona Alpina di Valdellatorre

Inspiro a pieni polmoni l'odore dell'asfalto: certo, non sarà Chanel n°5, ma, per un indigeno della città come, mio malgrado, sono io, è questo il primo vero segno d'estate. Correre sulla pista ciclabile tra Vigone e Villafranca Piemonte, alle due del pomeriggio di un sabato d'aprile meteorologicamente folle, è il modo migliore per coglierlo, quel segno. Ho esposto tutta la superficie di pelle che è lecito esporre senza provocare l'intervento della Buoncostume: so già che stasera sarò talmente scottata da emettere luce mia propria, ma non importa. Il calore sulla pelle, la luce accecante sono beni troppo preziosi per me, soprattutto dopo l'interminabile notte invernale. Non la pensa così il buon Giorgio, che ormai ben conosco come animale da climi freddi e cieli cupi: dev'essere davvero sull'orlo del baratro, per gettare alle ortiche il suo impeccabile stile da Lord inglese e rassegnarsi a correre in pantaloncino e basta. Anzi no, e scarpe, ovvio. Non che la cosa dispiaccia, né a me né alle coraggiose madame, altrettanto discinte, che si avventurano sulla torrida pista in cerca del primato della tintarella: non si può negare che il mio compare di corsa, così agghindato, faccia la sua porca figura. Il guaio è che percepisco un insolito, insistente silenzio. Sintomo preoccupante: posto che la lingua, nel giorno del trapasso, sarà senza dubbio l'ultimo dei suoi muscoli a cedere all'immobilità, bel più tardi del cuore, significa che il tapino è in grave sofferenza. Si risveglia solo, di tanto in tanto, per farneticare di Coca Cola ed acqua frizzante.
La vista che si gode da qui spazia sull'intero arco alpino: è una giornata limpidissima, senza una nuvola. Cerco il profilo del Musiné: domani saremo a correre lassù. Proveremo più o meno la sensazione della pizza che cuoce nel forno a legna. Forse esagero, ma credo che quella zona sia una delle più aride e pelate dell'intero arco alpino. Il meteo annuncia splendido sole, senza pietà. Io ne sono ben lieta, ma credo non sia il caso di ricordarlo al panetto di burro in discioglimento che corre accanto a me con la forza della testardaggine...

Alle sei e mezza di domenica mattina, al Palazzetto dello Sport di Valdellatorre ci troviamo in tre tapini, Candido, Giorgio ed io, in uno stato di semi incoscienza da sonno, dormendo in piedi come i cavalli, al bancone del piccolo bar, davanti alla macchinetta del caffé, rintronata quanto noi. Colpa mia, con la mia paura cronica di arrivare tardi. A quest'ora fa freddo, ma il cielo promette una giornata da sogno... O da incubo, per molti.
Sonnecchiamo ancora un po' in auto, mentre il piazzale si riempe. Realizziamo in ritardo che siamo arrivati qui per primi ma, per colpa della nostra inerzia, ci ritroviamo in fondo alla fila per la consegna dei numeri di gara, tra una chiacchiera a destra ed a manca e la mia cronica fonte di ansia: "Mi chiederanno mica il certificato medico? Non me lo sono portato dietro...". Sono sempre la solita. E dire che basterebbe ricordarsi di averne sempre una copia: così, se anche non dovesse servire, almeno eviterei di macerarmi nell'angoscia. Nessuno mi chiede alcunché: del resto, avevo spedito tutti i documenti via e-mail al momento dell'iscrizione. Anche quelli di Giorgio, che con il mezzo informatico ha un rapporto oserei dire un tantino conflittuale. Numero 16: mi arrovello, come sempre, per cercare un legame tra me e il numero 16, ma non trovo nulla, né età, né data di nascita, numero civico, nulla. Vado a caccia del primo spicchio di sole, per scaldarmi un po'. Lo zainetto è piccolo e quasi vuoto: oggi non è prevista alcuna dotazione obbligatoria, per fortuna. Ci metto dentro una borraccetta di miele, telefono, portafoglio, rotolo d'emergenza ed il minuscolo giacchino Camp. Ed una borraccia per l'acqua, vuota. Le montagne staccano già nitidissime nell'azzurro splendido del cielo; sembra di poterne toccare i fianchi sabbiosi e spogli, coperti solo da ciuffi di arbusti e poco altro.

Breve riunione prima del via: stamperei un bacio in fronte all'oratore, che evita di proposito l'orrendo termine "briefing". Scopriamo così che, ai punti di ristoro, troveremo da bere ma non da mangiare, o meglio, qualche stuzzichino in un paio di punti, nulla di più. In realtà, era tutto scritto nel regolamento; sarebbe bastato leggerlo. Non importa: ormai, un percorso che si può chiudere in 10 ore è quasi breve; di conseguenza, credo di poter sopravvivere, con l'aiuto del mio miele e delle bottiglie di Coca Cola che ho già addocchiato sui mezzi di trasporto dell'organizzazione. Pochi minuti e ci si riunisce tutti in strada, appena fuori del cortile del Palazzetto: c'è appena il tempo per le ultime quattro chiacchiere, poi via, si parte. Al trotto, lungo una strada subito sterrata in salita quasi impercettibile all'occhio, ma più che evidente per le gambe e per i polmoni ancora anchilosati. Le montagne si staccano nette dalla pianura, lì dove invece ci si immaginerebbe un pendio dolce e graduale, quasi fossero muri. Il copione si ripete: sembro una di quelle vecchissime auto dei film di Stanlio e Ollio, quelle che si decidono a partire solo dopo molti giri di manovella e tanta, tanta pazienza. Mi ritrovo subito in fondo al gruppone, con le gambe che corricchiano ma ancora stentano ad evitare ciottoli e buche. Una fatica improba, sperando con tutto il cuore che il tratto in piano si concluda presto. Imbocchiamo i bivi sotto l'occhio vigile dei volontari in mountain bike; tutt'intorno, prati verdi ed una fioritura di cicorie decisamente precoce. Candido è già sparito, lo ritroveremo all'arrivo; Giorgio morde il freno, non so se per prudenza o per pietà. Mi consolo un po' pensando che molti dei corridori che ho davanti si fermeranno alla mezza maratona... Il guaio è che mi farebbero mangiar la polvere anche se corressero l'intero percorso.

L'aria frizzante del primo mattino ha già lasciato il posto ad un adorabile tepore. Scruto la montagna, agognando l'arrivo della salita. Sempre più vicini i latrati da un allevamento canino; superiamo alcune abitazioni, da cui si disperde nell'aria un invitante profumo di caffé.Un po' di asfalto e finalmente la strada sale: su e giù, a tratti, quel che basta per prendere fiato. Siamo già quasi ultimi, ma non c'è ragione di affrettarsi; quaranta km sono ancora lunghi... E molti di quelli che ora corrono e schiamazzano se ne pentiranno presto. Camminiamo su un'ampia strada sterrata, polverosa per il caldo e la pioggia che manca da tempo; tutt'intorno è un trionfo di sfumature di verde brillante e fiori di ogni genere. Non mi spiacerebbe sperimentare questo percorso in MTB: lo metto nel cassetto dei buoni propositi. Al passo in salita, al trotto quando possiamo. L'unico lato negativo di trovarsi al fondo della corsa è la sensazione che i volontari a sorveglianza del percorso siano lì solo più per aspettare noi... Passiamo accanto ad un cimitero; un'altra borgata, ancora asfalto e via, discesa nel bosco lungo un sentiero stretto ma corribile. E poi il bivio, stavolta ben presidiato; l'anno scorso, i primi corridori giunti qui avevano tirato dritto anziché puntare verso l'alto... Giorgio si arrampica con l'agilità delle capre e va su; per me ci vuole un po' di tempo per adattare il respiro, ancora affannoso, al brusco cambio di pendenza. Risaliamo un tratto ripido, all'ombra di piante dalle foglioline appena spuntate. Non affrettare il passo, Gian... Lasciali andare, tutti quanti, altrimenti la paghi. Pazienza se qualcuno ti raggiunge e ti sorpassa – toh, c'era ancora qualcuno!

Tornantino dopo tornantino, la vista guadagna spazio sulla pianura. Vorrei poter sollevare gli occhi da terra, ma, per farlo evitando di schiantarmi, dovrei fermarmi e non è il caso. Il sentiero si fa sempre più ripido, fino ad una rampa crudele: scorgo il colore arancione "da cantoniere" della maglia di un concorrente, lassù. Allora il mio distacco non è ancora così abissale. Non m'importa un fico secco della classifica, ovviamente, ma ho sempre il timore irrazionale di restar da sola in mezzo al nulla e senza traccia da seguire... Quanto mai irrazionale oggi, con il percorso ben segnalato con vernice blu che di certo nessuno si premurerà di ripulire.

Fatico ad issarmi su per gli ultimi metri; la terra sabbiosa si sgretola e mi fa scivolare. Meglio poggiare sull'erba, anche se temo che l'erba non sia della stessa opinione. La rampa conduce diretta ad un tavolino da picnic, sormontato da un tettuccio in legno. Sul tavolo, una scatola metallica che ha l'aria di contenere il libro di vetta. Immagino si tratti del Monte Baron, se non ricordo male. Tutt'intorno, nemmeno una pianta d'alto fusto; solo arbusti e terra scura. Proseguo lungo un interminabile traverso, un sentiero completamente esposto che taglia il pendio nudo della montagna, in leggero saliscendi, con vista infinita sulla pianura. Scorgo ancora le ultime retrovie, davanti a me; corro ma con cautela: ben conosco la mia innata capacità di inciamparmi ovunque... E' sorprendente questa zona così arida, senza un solo albero, come fosse sferzata da venti feroci. Il sentiero piega con il pendio e mi nasconde la vista davanti; solo per un pelo, a ridosso di un bivio, mi accorgo di dover svoltare a sinistra. E dire che la segnalazione è a prova di idiota! Si torna a salire, decisi, ora in mezzo a roccette ed alberi, su e ancora su, a zig zag. Salgo di buona lena; va un po' meglio, bastoncino dopo bastoncino, su con foga. In un tratto in cui la boscaglia si dirada, alzo il naso: la serpentina di persone sale verso la cima lungo una linea che ha l'aria di essere molto ripida. Mi pare di distinguere, un po' più su, la maglia grigia e l'andatura tipica del buon Giorgio. Che abbia deciso di correre sul serio? Beh, in tal caso posso fin d'ora salutarlo... Io sono ancora in apnea; ci vorrà ancora almeno quest'intera salita perché riesca a rompere il fiato. Mannaggia a me, ho lasciato a casa la bandana: così adesso il sudore cola negli occhi... E gli occhiali scivolano di continuo dal naso. E' una micidiale pozione di taccagneria e pigrizia, quella che mi trattiene dall'andare in un negozio di ottica ed ordinare un paio di occhiali come si deve, graduati e magari muniti di lenti fotocromatiche: quelli che indosso adesso sono quanto di più inadatto all'attività sportiva che si possa immaginare. Entro la fine della giornata, il polpastrello del dito indice destro sarà consumato, a furia di tirare su gli occhiali. Il sentiero fa presto guadagnare dislivello, ripido com'è: si respira a pieni polmoni il profumo di innumerevoli fiori. Molti, purtroppo, caduti vittime del passaggio del branco.

Quasi non mi accorgo d'essere in cima, Monte Rosselli credo; ci arrivo di gran carriera, dopo aver sorpassato un paio di colleghi d'avventura che mi renderanno il favore al primo accenno di discesa. Per fortuna, si scende ben poco; il sentiero torna a correre quasi in piano, segue un'ampia curva dove scorgo tracce di presenza umana. Corricchio, ma con cautela. Il tavolino del ristoro mi appare davanti al naso come un miraggio: proprio non me l'aspettavo, qui, non appena il percorso ci rituffa in mezzo al bosco. E guardacaso, chi ci trovo? Giorgio all'assalto di una cisterna di Coca Cola. Ne approfitto anch'io, Coca ed un paio di zollette di zucchero per placare la fame, che comincia a farsi sentire. Si torna subito a salire, senza scherzi e senza misericordia. Vediamo di metterci un po' di brio. I raggi del sole fanno capolino tra le foglie ancora piccole; la temperatura è già salita a livelli stellari: se avessi una doccia sulla testa, sarei più o meno conciata come in effetti sono. Giorgio fa il passo, io seguo, con qualche difficoltà là dove gli "scalini" di roccia sono più alti. Le braccia fanno forza almeno quanto le gambe. Il telefonino schizza via dalla tasca applicata al bracciale: mi tocca sprecare ben due passi indietro per recuperarlo... Colgo l'occasione per buttare l'occhio al panorama, con il Monviso che fa capolino dietro i pendii brulli di erba bruciata, più vicini. La salita, davvero aspra, ci porta ad un punto in cui un paio di loschi figuri hanno deciso di tentare il suicidio: assisto in diretta, ed in posizione sopraelevata di qualche metro, alla partenza di uno di questi pazzi appesi al parapendio... Per qualche istante, sento mancarmi le gambe; da quassù, vedo questa specie di psicopatico lanciarsi in corsa verso il vuoto e staccarsi da terra, verso l'alto, proprio nel punto in cui io vedo il pendio digradare verso il baratro. Chiudo gli occhi, mi sforzo di fissare qualcosa di immobile, una pietra: tutto s'è messo improvvisamente a girare... Non è il momento di svenire, Gia, dai, tira dritto. Credo che potrei schiattare per lo spavento... O semplicemente impazzire.

Sbuchiamo, anche stavolta, su una cima che non sembra una cima; i volontari a presidio del bivio ci mandano giù lungo un sentierino ripido ed insidioso. Siamo intorno al decimo km. Ancora trenta e rotti, Gian. Calma, non fare la furbacchiona. Un po' di miele adesso posso anche mangiarlo; ne avrò in abbondanza fino al traguardo. Il calore l'ha reso liquido quasi fosse una bevanda.
Attraversiamo lunghi tratti di pietraia, con il sentiero ben sistemato ed i frammenti di roccia incastrati tra loro a formare un comodo passaggio in piano ed un bel muretto di contenimento. Sotto i pietroni si percepisce, in qualche punto, il gorgoglio dell'acqua: sembra una presenza fuori posto, in un luogo tanto arido. Il sole è rabbioso, e dire che siamo più o meno a metà mattina.

Ancora in salita, passiamo accanto a quel che resta di un alpeggio; un po' d'acqua scorre qui nei paraggi, ma non nella vasca di metallo. Un cartello indica il Colle della Lunella a 15 minuti: superiamo un paio di escursionisti e raggiungiamo il pannello con le indicazioni, in cima, impiegandone meno di cinque. Non siamo certo noi i fenomeni: mi domando come siano calcolati i tempi di certi percorsi... Un'allega combriccola, almeno una ventina di persone, occupa in modo pacifico e chiassoso il prato in cima. Anche troppo: mi infastidiscono gli schiamazzi, sia pure contenuti. In mezzo ai monti mi piacerebbe godermi il silenzio... Passiamo accanto e via, ancora in discesa, solo un rapido sguardo al panorama, che non mi permette di orientarmi. Nell'ampio pianoro che si apre subito dopo, perdo la traccia: istintivamente mi dirigo verso un bel rifugio, attraverso il prato e tra le chiazze di neve; la rotta, però, è più in alto: me ne accorgo scorgendo per un pelo uno dei colleghi, che punta diritto verso il bosco. Ok, si torna su: Giorgio mi segue, sulla fiducia. Quanto mai ben riposta: pochi istanti e torniamo in vista dei segni di vernice blu.
Da quassù si gode lo splendido spettacolo delle Alpi quelle vere, azzurre striate di neve. La primavera, già avanzata in pianura grazie al caldo anomalo dei giorni scorsi, quassù è ancora un accenno, nei colori dei bucaneve

"C'è il ristoro a due minuti", annuncia un altro dei tanti angeli custodi della gara. "Attenzione, la discesa è brutta", aggiunge. Non si può dargli torto, in effetti: tocca procedere tra rocce irregolari, facendo ricorso a doti di equilibrio di cui io sono del tutto sprovvista. Giorgio si allontana, mentre io studio con cura ogni passo ed ogni appoggio, ricorrendo, ove necessario, alle mani. La tensione si impossessa di me: è quella sgradevolissima sensazione di non avere il benché minimo controllo sui miei movimenti. Non so mai se il piede su cui appoggio il mio peso terrà, se la pietra è ben ferma o schizzerà via non appena la caricherò del mio dolce tonnellaggio; il terrore è di volare per terra, farmi male e dover rinunciare ai prossimi agognati appuntamenti montani. Com'è ovvio, poi, più divento nervosa e meno riesco a tenere mani e piedi ben saldi. Abbatto santi e beati a raffica. La voce del mio compare arriva da chissà quanto più avanti: "Dai che qui è meno brutta...". La risposta che, tra me e me, gli riservo non è propriamente elegante. Due minuti, ha detto il volontario: significa che, da lassù al ristoro, ce ne vogliono almeno venti per un buon discesista... E mezz'ora per me. Non la conoscessi, l'affidabilità di certe affermazioni, quando provengono da chi non corre. Ma questa volta sono malfidente: ecco là sotto, in mezzo al prato, un bell'edificio con il tetto in lose, forse un rifugio, con tanto di tavolo imbandito. Il sentiero, finalmente più agevole, scende a dolci tornanti. Sono quasi in fondo quando... Dolore inestimabile: un salto un po' più brusco dei precedenti ed un atterraggio sì in piedi, ma in rotta di collisione con il ramo di un arbusto, che pensa bene di conficcarsi nel mio cosciotto destro. Per fortuna, sul retro della gamba: così non vedo, ovviamente non guardo ed evito, almeno per ora, lo svenimento. Stringo i denti e tiro dritto.

Al punto di ristoro, abbondo con acqua e bibite, senza risparmio. La mia piccola ferita non passa inosservata: sanguina come se qualcuno mi avesse squarciato un'arteria... Giorgio, forse per deformazione professionale, provvede subito al primo soccorso, buttandomi acqua sulla gamba. Ma no... Mi dispiace, questa è l'acqua destinata ai corridori. Non c'è alcun bisogno, non fa neanche male; smetterà di sanguinare, prima o poi. Colgo al volo uno spezzone di battibecco tra alcuni corridori, della mezza maratona se ho ben capito; uno che si lamenta e sostiene d'essere già distrutto, altri che lo incoraggiano a suon di "Ormai è fatta". Infatti: siamo al km 18, più o meno. E' quasi fatta, per loro.

Ripartiamo al trotto, in discesa, lungo un sentiero non troppo tecnico in mezzo al bosco. Una delle poche parentesi d'ombra: infatti, resiste qualche chiazza di neve. Ne prendo una manciata e me la schiaccio contro la gamba, senza guardare: la minaccia, per me, non è il dolore, che tra l'altro in questo caso nemmeno si fa sentire, ma è la vista del sangue. Potrei svenire. Corricchio piegata in due, per tener la mano sul graffio, ma la neve si scioglie in fretta. "Prendine dell'altra – suggerisce il mio compare – che questa è tutta rossa". Mi guardo la mano con orrore, caccio un urlo: impegno i successivi cinquecento metri nello sforzo supremo di non cadere a terra priva di sensi..
Ci sorpassa un gruppo di corridori, presumo della mezza maratona, a giudicare dal ritmo; immagino si siano lanciati nella sparata finale. "Che bello saper scendere così", sospiro, seguendo i balzi del capofila. "Basta che molli i bastoncini e ti butti", commenta la madama che lo segue a ruota. Certo, come no... Basta senz'altro, per guadagnare una vacanza premio in camera di rianimazione. La discesa ed io non avremo mai alcun argomento di discorso.

Il sentiero ci scodella su una bella strada sterrata, bianca e polverosa, solcata qua e là da ruscelletti e punteggiata da qualche residuo mucchio di neve. I velocisti di un attimo fa sono ancora in vista, ricondotti a più miti consigli dalla pendenza in leggera salita. Giorgio ed io ce la prendiamo comoda, visto che siamo appena a metà dell'opera: procediamo di buon passo, ma senza correre se non in qualche brevissimo tratto in leggera discesa. Troppo inpegnati a menar la lingua: argomento della conversazione, in questo caso, è il mio pensiero fisso degli ultimi giorni, visto che la mia esistenza è stata messa ancor più in subbuglio, se possibile, dall'arrivo di un secondo cane, una cucciolona di sei mesi e venti chili, Céline. Come ogni volta, quando io non sono a casa, i bestioni sono affidati alle cure di mammà. Di tanto in tanto, afferro una manciata di neve e me la metto in bocca, a mò di granita: rinfresca, dà l'illusione di dissetare ed è una sensazione piacevole.

Arriviamo in vista del Colle del Lys: tra gli alberi, si intravede il viavai delle auto e, poco più avanti, spunta il rifugio, con l'arco giallo d'arrivo della mezza maratona. L'anno scorso, l'ultima rampa che conduce al colle era un vero e proprio acquitrino; questa volta, per fortuna, il terreno è un po' più consistente.

Moto ed auto parcheggiate ovunque anticipano lo spettacolo che ci accoglie appena girato l'angolo del rifugio: il pendio non è più erba verde, ma un tappeto brulicante di membra umane, cappelli da sole e flaconi di crema protettiva. Il disgusto mi assale. Ma come si fa? Com'è possibile ridursi in questo modo? Un carnaio senza fine a due passi dall'asfalto e, cento metri più su, il deserto... Tutti intruppati uno accanto all'altro, schiamazzi, sudore ed odori di cibo, bleah. Piuttosto che passare anche solo un'ora in quel modo, mi rinchiudo in studio a seppellirmi sotto i Modelli Unico. E magari questi personaggi, domani, andranno a raccontare di essere stati in montagna...

L'agognato punto di ristoro ci riserva una delusione. In realtà me l'aspettavo: è destino che, in questo genere di prove, agli ultimi concorrenti tocchino le briciole, e a volte neanche quelle. Certo, sul tavolo c'è un vassoio colmo di fette di salame: peccato che io sia vegetariana... E non abbastanza affamata da rassegnarmi a fare un'eccezione, come a volte succede per cause di forza maggiore. Ecco, se dovessi correre un centinaio di km ed il salame fosse l'unico alimento a disposizione, metterei da parte gli scrupoli. Oggi non è il caso. Afferro una fetta di pane e la puccio nell'acqua del bicchiere, perché asciutta, con la bocca impastata dal caldo e dalla sete, non riuscirei a deglutirla. Colgo anche gli ultimi due dadini di formaggio rinsecchito dal sole; qualche bicchiere di bibita e via.

Farsi strada in mezzo all'intrico di merenderos, stesi al sole immobili come le lucertole, non è facile. Qualche ammasso di lardo deve aver coperto le tracce di vernice blu. Noto con la coda dell'occhio un concorrente vestito di grigio che scompare in alto, oltre il pendio erboso; probabilmente lo stesso uomo della Provvidenza che già mi aveva riportata sulla retta via appena passato il Colle della Lunella. Il mio faro nella notte. Su, dritti in quella direzione. "Certo che non c'è proprio alcuna informazione sul significato di vegetariano", commenta Giorgio. Apprezzo il suo piccolo sfogo come una premura rivolta esclusivamente a me: so benissimo che lui, in realtà, non condivide il mio pensiero. Come tanti, del resto, che archiviano il regime alimentare senza carne né pesce nel calderone delle fissazioni, delle manie. E' probabile che quei tanti abbiano ragione, chissà. Io credo, forse a torto, che, al giorno d'oggi, soprattutto in un Paese come l'Italia che permette una vasta scelta di generi alimentari, si possa vivere egregiamente senza carne né pesce; d'altro canto, bisognerebbe prestare attenzione a variare la propria dieta e ad integrare gli elementi che non si possono ricavare dai cibi animali, cosa che io non faccio per colpa del mio disordine e della mia pigrizia. Non ho nemmeno voglia di cucinare una pasta; sono capace di andare avanti per giorni e giorni a pane e formaggio...

Ci inerpichiamo su per un aspro sentiero roccioso. Una fanciulla in discesa ci avvisa che troveremo neve: in effetti, ci tocca attraversare alcuni nevai. Del resto, siamo stati avvisati prima del via: "Oltre il Colle del Lys troverete neve; seguite le tracce di chi vi ha preceduto". Ecco, almeno in casi come questo, passare per ultimi o quasi è conveniente. Le orme sono ben delineate; si evita il rischio di finire in qualche crepaccio in miniatura, senz'altro meno suggestivo di quelli che si possono incontrare risalendo i ghiacciai, ma comunque più che sufficiente per disintegrarsi un ginocchio od una caviglia nella caduta. Per quanto, impegnandomi, io riesca comunque a poggiare un piede in fallo e ad affondare con tutta la gamba.
Il sole picchia più che mai mentre risaliamo il ripido e c'infiliamo in mezzo alle fessure tra le rocce. Non mi rendo nemmeno conto di essere arrivata in cima, se così si può definire questo pratone che il primo caldo ha appena sgombrato dalla neve. Perdo la traccia del sentiero; vago per qualche istante, finché, oltre ad una macchia di pochi alberi, scorgo del movimento. Sono alcuni volontari della corsa: oltre a loro, un corridore che sporge la testa da sotto un telo termico e mi rivolge una battuta. Uhm: anche se la mia vista è tutt'altro che acuta ed il malcapitato è steso a terra, mi pare di riconoscerlo. Il mio neurone, ormai in carenza di ossigeno, impiega qualche istante di troppo per realizzare che una persona sdraiata sull'erba e coperta di certo non è esattamente nel pieno delle proprie forze: capperi, avrei almeno potuto chiedergli come sta... Mi consola il fatto che il poverello avesse voglia di scherzare: se non altro, la fase acuta del malore, se mai c'è stata, è già passata.

Dal Monte Arpone, ci tocca affrontare una discesa dannata, tutta scalini, salti, roccette scivolose e frastagliate. Mi ci consumo le mani ed il deretano. Giorgio, paziente, attende; si limita a constatare "Eh, certo che tu di tempo ne perdi tanto, in discesa". Lo so, ma che ci posso fare? A questo punto, credo di poter affermare con certezza che non acquisirò mai la necessaria confidenza. Poco male: alla Madonna della Bassa, mi consola la confortante presenza di un punto di ristoro, con abbondanza di bibite ed un pintone di vino rosso che contribuisce a spiegare l'allegria scanzonata dei volontari. Ancora bibite a profusione ed un po' di toma. Il piazzale del santuario è occupato da una vivace tavolata. Salutiamo e passiamo oltre, imboccando la strada sterrata chiusa da una sbarra. Deglutito il magro pasto, procediamo al trotto, proprio per decenza, per non trascinarci, anche se ormai lo spirito è quello della passeggiata. Ancora un paio di salite, Mont Curt e Monte Musiné.

Scorgo in lontananza un losco figuro: pian piano ne distinguo i colori della divisa, canotta e pantaloncino, ed il passo che mi sembra già di conoscere. "Vuoi vedere che è Gilberto?". I miei occhi da miope impiegano qualche istante a mettere a fuoco il soggetto. Proprio lui: a volte ritornano... L'anno scorso abbiamo percorso insieme gli ultimi sedici, diciassette km di gara, incoraggiandoci a vicenda per conquistare un percorso che entrambi avevamo sottovalutato. Ora, eccoci dinuovo qui. Gilberto lamenta una stanchezza dovuta agli acciacchi invernali, che l'hanno costretto troppo a lungo all'immobilità, ma si sa che la compagnia fa miracoli. Dai che andiamo su insieme... Un sentiero stretto e ripido ci strappa alla comodità della strada. Si sale rapidi in mezzo al bosco; nelle gambe sento l'euforia della fine ormai vicina, si fa per dire. Ricordo abbastanza bene quest'ultimo tratto di gara, due salite decise ma brevi, su cui sgambetto con allegria, giocando a fare la locomotiva. Nulla mi dà più brio del fatto di essere capofila! Anche se so bene che i miei due vagoni sono tali solo per gentile concessione e che potrebbero mangiarmi in insalata ad ogni passo... Di tanto in tanto, il sentiero volge in modo tale da mettere in vista la vetta del Musiné. "E' vicino", insisto, "E' sempre più vicino!". I miei compagni di viaggio sono scettici... In effetti, ad essere sincera, anche a me pare che il panettone pelato sia sempre alla stessa distanza... Ma l'importante è crederci!

Alla vetta del Mont Curt, poco più di 1.300 m, prende avvio un'altra discesa a dir poco orrenda, peggiore della precedente, se possibile. Interminabili passi misurati, meditati con penosa cautela, in un tempo che sembra eterno, in lotta con la vertigine dei brevi tratti esposti, cercando disperatamente di non guardare giù. Non ci sorpassa nessuno, ma è solo perché dietro di noi non resta nessuno, o quasi. Saluto con immenso sollievo la sella boscosa che precede l'ultima salita. Ci imbattiamo nel penultimo punto di ristoro; con sorpresa, ci sono altri compari di sventura, che ripartono poco prima di noi. Tracanno due o tre bicchieri di bibite, ma non riempo la borraccia: acqua, bleah... Via dinuovo, sotto il sole a picco, anche se ormai è pomeriggio inoltrato. Una luce calda, gialla, intensa, illumina la pianura, evidenzia i riquadri di colori dei campi coltivati e sfuma nella cappa di umidità e fumo che avvolge la pianura, ma in lontananza.

All'inizio dell'ultima vera salita, mi concedo lo sfizio della "sparata" finale: non è una gran prova di coraggio, dal momento che ormai non rischio più nulla; se anche dovessi scoppiare, in qualche modo in discesa mi trascinerei comunque. Allungo il passo, all'inseguimento dei colleghi che raggiungo poco più su; salgo quasi di corsa, per quanto possa correre un pachiderma par mio, con il cuore infilzato sulla punta del bastoncino. Di lì a poco, mi raggiunge Giorgio, ansimante quanto me: eh già, figuriamoci se ammette di restare indietro... Saliamo veloci, a zig zag tra i tronchi ed i roccioni, all'inseguimento delle tacche blu confuse tra i mille segni di chissà quanti percorsi. L'orrenda immensa croce di vetta mi sbuca sulla testa all'improvviso. C'è un po' di gente quassù, ma non faccio nemmeno in tempo a mettere a fuoco i visi, che son già in discesa, a combattere e tirar giù miserie contro l'ennesimo sentiero spaccagambe. Il primo tratto è ancor più ostico per via del salto che si vede giù sotto i piedi: perché non mi giri la testa, devo tenere lo sguardo ben fisso alla traccia di terra e roccia davanti a me. Mi distrae il passaggio velocissimo di un ramarro, l'ennesimo visto oggi: quale ambiente più idoneo, per un rettile par suo, dell'arido suolo del Musiné?

Parecchi metri più in giù, il sentiero si addolcisce e consente un blando passo di corsa. Giorgio prende vantaggio: è arrabbiato, esasperato dal gran caldo che patisce moltissimo. Non lo seguo né affretto il passo: mi godo invece questo interminabile traverso, sentierino stretto che taglia il pendio brullo e scende dolcemente verso la strada tagliafuoco, in direzione di Caselette. Mi guardo gli avambracci, già scuri per altro sole ma comunque arrossati; vorrei poter immagazzinare e conservare questa sensazione meravigliosa di caldo sulla pelle, visto che, è evidente, una temperatura così, ad aprile, può essere solo una breve parentesi. Fiori ed insetti di ogni genere accompagnano la mia marcia. Avanti, avanti, ancora avanti; si perde quota, ma in modo impercettibile, tanto che il mio compare di sventura sbotta: "E' tanto lontana Caselette?". Non dovrebbe mancare molto, ma comunque più di quanto immaginassi. Questo lunghissimo sentiero anrdà a convergere sulla strada, prima o poi. Mi pare d'averla intravista, poco sotto...

Gli schiamazzi dei merenderos pomeridiani, distribuiti lungo la strada tagliafuoco, annunciano che la meta è vicina. Non appena mettiamo piede sulla comoda via sterrata, filiamo via al trotto: per me, dieci minuti di puro dolore, con la fitta tra le costole, a destra, più acuta ed improvvisa che mai. Corricchio premendo con due dita e tanta forza sul punto dolente: è un trattamento che sembra dare un po' di sollievo, anche se ogni passo toglie il fiato. Facciamo lo slalom tra famigliole, marmocchi e passeggini, anche se la tentazione sarebbe di asfaltarli tutti quanti, per il semplice fatto che ostacolano il nostro passaggio. Poco urbano come intento, ma la stanchezza è ormai palpabile.

Al campo sportivo di Caselette ci imbattiamo nell'ultimo punto di ristoro, dove i gentilissimi volontari tengono le bottiglie al fresco, approfittando dell'acqua di una fontanella. Giorgio si accascia sulla panchina, ma, come sempre, non riesce a mantenere la stessa posizione per più di qualche istante: eccolo in piedi, già pronto a ripartire, mentre io sono ancora in estasi mistica con un bicchiere di Coca in una mano ed una zolletta di zucchero nell'altra. Riparto masticando, con gran gioia delle carie. Leggera ma insidiosa salita lungo la strada sterrata: il mio compare è stranamente taciturno. Ancor più strano, tende a restare indietro. Lo tengo d'occhio facendo finta di niente: potrebbe interpretare i miei sguardi obliqui come un tentativo di controllare la sua posizione e poi lanciarmi in fuga... E sarebbe capace di schizzare via con la foga di un centometrista, pur di salvare l'onore!

Intravedo, poco più avanti, Franco e Morgana. Toh, un po' di compagnia. La tentazione sarebbe di attaccar bottone e percorrere l'ultimo tratto di strada insieme, ma, quando Giorgio mi raggiunge e sembra aver superato il momento di buio esistenziale, prevale la voglia di arrivare. Ricordavo, da qui a Valdellatorre, un tratto di percorso breve e molto fangoso: quest'anno il terreno è un po' meno intriso d'acqua, ma la mia stima della distanza risulta ben presto campata in aria. Ci toccano ancora diverse giravolte che ci costringono a marciare ancora ed ancora, nonostante ormai i segni della civiltà, i rumori della strada, i tetti delle case siano a portata di mano. Attendo con orrore che la scure di Giorgio si abbatta sulla mia capoccia: non so più da quanto tempo è che gli assicuro che "è quasi finita"... Sbotto io per prima: "Basta, ne ho le scatole piene di queste corse che aggiungono passaggi assurdi nel finale solo per aumentare la distanza percorsa!". E' probabile che, in questo caso, l'itinerario sia stato pensato semplicemente per evitare il passaggio sulla strada asfaltata e trafficata, ma ormai il neurone non ragiona più, è in tilt. Fango, acqua, salita, discesa, slargo, passaggio stretto tra gli alberi. Il colore verde acceso delle foglie dà il conforto della primavera, ma non sono più in grado di coglierlo.

Gli ultimi passi nel prato, verso il guado del torrente che l'anno scorso è stato una vera impresa alla Indiana Jones: oggi quasi non si corre rischio di bagnarsi i piedi... Raggiunto l'asfalto, per gli ultimi cento metri di corsa, mi trascino dietro Giorgio che, in preda a crisi di nervi e caldo a stento repressa, a momenti mi prende la direzione per Torino. Incrociamo le auto di quelli che, già arrivati da un pezzo, lavati e rifocillati, tornano a casa... E' un attimo, la curva, l'ingresso del Palazzetto, i saluti, gli applausi che non si negano nemmeno alle ultime cartucce. 42 km per 2.400 m di dislivello, è andata. A mo' di rabdomanti, puntiamo diretti verso il tavolo del ristoro, allestito nella palestra, per bere tutto ciò che ci capita a tiro, anche alcoolico. Giorgio si muove come un automa, riconosce solo due parole, "bere" e "doccia". E doccia sia, mentre il buon Candido, arrivato già da più di mezz'ora, attende paziente che l'autista ritorni in sé. Ci attende un ricco pacco gara ed il ritorno, con le ombre lunghe della sera e la sagoma della Basilica di Superga, in lontananza, ad accompagnare il malinconico viaggio verso casa.