domenica 9 settembre 2012

9 settembre 2012 - ADDIO TOR DES GEANTS

Gli strizzacervelli sostengono che "esternare" sia un valido aiuto per elaborare un lutto. A me, il verbo "esternare" fa orrore; proporrei piuttosto di internare chi l'ha coniato. Tuttavia, a parte la forma, sono d'accordo sulla sostanza: parlarne, a voce o per iscritto, attenua il dolore. Ergo, eccomi qui, reduce da un breve giro in mountain bike fino alle prime propaggini di collina, in quel di Ceresole d'Alba e dintorni. Come ieri sera. Due tramonti molto diversi, entrambi stupendi. Tormentato di nuvoloni neri dai contorni incandescenti, incastonati su un cielo di metallo, quello di ieri, e coronato da un arcobaleno intero, da terra a terra. Limpidissimo, la luce di un incendio attraverso l'aria spazzata dal vento, una brezza che sembrava il mare d'inverno, stasera. La corona delle cime nettissima tutt'intorno; spiccava la guglia del Cervino, bellissimo, anche da qui, anche se forse proprio oggi avrei dovuto essergli ben più vicina, se tutto fosse andato come speravo. Ma è da un po' di tempo che nulla va come io spero...

"Deve rassegnarsi, signorina" commenta il medico, mentre armeggia con provette e lacci emostatici. "Non ha più vent'anni". Con il braccio sul tavolo del prelievo ed il viso girato da tutt'altra parte, per limitare il rischio che il terrore mi faccia crollare a terra come una pera matura, sono troppo avvilita per rispondere come dovrei. E poi non posso reagire, la mia vena è alla sua mercè... Se sono qui, è solo perché mi sento proprio con le spalle al muro. Altrimenti, mai e poi mai mi sarei rassegnata alla trafila della sala d'attesa, della ricetta medica, delle analisi. Il fatto è che, così, non posso più andare avanti, proprio nel senso letterale dell'espressione. Tutto ciò che desidero è tornare a correre come prima.

Tutto sembrava andare per il meglio, domenica mattina. Nove ore di sonno profondissimo, nel minialloggio che Matteo e la mamma hanno preso in affitto per la settimana della gara; colazione pantagruelica, bagaglio organizzato, una volta tanto, nei minimi dettagli. Ultime ore di vigilia di un appuntamento sognato per un anno intero, notte dopo notte e giorno dopo giorno, fin dal primo istante successivo al traguardo dell'edizione 2011; immaginato, rivisto, pensato, raccontato, vissuto tra me e me in ogni attimo possibile, in coda agli sportelli di qualche ufficio pubblico, nella quiete di un lungo viaggio in autostrada negli allenamenti quotidiani, persino nella concitazione di altre corse. Il cuore sempre, sempre lì. Ad un'ora e mezza dalla partenza, non sto più nella pelle: seguo i preparativi di Matteo, i suoi gesti lenti e studiati, con crescente esasperazione. Non è umanamente possibile che si possa impiegare tanto tempo per indossare un paio di calze o per legarsi le scarpe... Io son pronta già da un'eternità! Sembra che lo faccia apposta, il marrano; sento le mie pupille restringersi a capocchia di spillo. Quando finalmente il sacro rito della vestizione sembra volgere all'agognato termine, il maledetto produce un'idea geniale: "Ah già, devo ancora preparare il the per la borraccia!". In un sovrumano sforzo di autocontrollo, in omaggio alla presenza della mamma, riesco ad evitare di commettere un omicidio con l'aggravante della crudeltà, ma non ho intenzione di aspettare un attimo di più: anche se la partenza è a un solo km di qui, prendo la porta e me ne vado.

Cielo terso, non fa nemmeno così freddo. Sotto l'effetto dell'ipnosi, mi avvio verso il centro di Courmayeur, con il battito del cuore che accelera all'unisono con il crescere del brusio. Un cagnone nero, a pelo lungo, gironzola da solo lungo il viale e mi concede di fargli qualche coccola; altri cani portano a spasso padroni dagli occhi ancora appiccicati di sonno, benché siano ormai quasi le nove. Corridori spuntano da ogni dove, dalle viuzze laterali, dai bar, soli o in gruppetti o accompagnati dalle famiglie. Spero di non rimediare troppe brutte figure... So già che l'agitazione mi impedirà di vedere e riconoscere i volti noti; passerò, come minimo, per maleducata. Conosco ormai Courmayeur come le mie tasche, neanche ci abitassi da una vita: i suoi negozi, le vetrine, i bar. E la piazza in cui, stamattina, campeggia la griglia di partenza del mio terzo Tor des Geants. L'emozione è pari al primo, anzi peggio, se possibile... Perché la prima edizione è stata una scoperta, la seconda mi ha regalato un risultato per me lusinghiero... La terza, è inevitabile, porta con sé la speranza di riuscire ancora meglio. So benissimo che un Tor des Geants, 330 km per 24.000 m di dislivello, non si potrebbe mai dare per scontato, nemmeno dopo averne concluse dieci edizioni di fila, perché troppe sono le variabili in gioco, molte di carattere personale, ma molte altre, troppe, del tutto indipendenti dalla volontà e dalle possibilità dell'atleta. Allenarmi e saper dosare le forze dipende da me... Incappare in una settimana di tempo splendido o di tregenda no, com'è ovvio, ed è cosa che può cambiare radicalmente le sorti della prova.
Già, il meteo. A quanto sembra, non sarà favorevole come gli anni scorsi. Non ci sarà risparmiata qualche solenne lavata. Del resto, in alta montagna, il sole e le notti stellate non sono affatto la norma; sono solo uno dei tanti scenari possibili. Seduta sul bordo del marciapiede, scruto quel minuscolo spicchio di cielo che s'insinua tra i tetti della via: se non altro, la partenza sarà calda ed asciutta. Così piazzata, all'altezza dei miei occhi vedo sfilare mani che stringono bastoncini e mani che armeggiano con macchine fotografiche di ogni genere, dal giocattolo al marchingegno professionale. E cagnoni di ogni taglia, foggia, mantello, razza o non razza, tutti convenuti a salutare i loro amici umani un po' suonati. Penso ai miei tesori pelosi: mai e poi mai li vorrei al via di una corsa... Sarebbe troppo doloroso, benché momentaneo, il distacco, forse più per me che per loro.

Il brusio aumenta, un microfono gracchia, Matteo non si vede ancora. Ma che fine ha fatto? Voleva prepararsi il the o piuttosto la ribollita? Mi procuro un torcicollo per cercare di scorgere, tra la folla di polpacci e ginocchia che vedo da quaggiù, la sua sagoma... Niente. Amen, io non resisto più; mi alzo, malferma sulle gambe per l'emozione, e raccolgo obbediente l'invito della voce del microfono: gli atleti alla punzonatura. Faccio un po' fatica a riconoscermi nella definizione di atleta, ma, se son qui agghindata in questo modo, significa che, almeno formalmente, faccio parte della categoria. Con il mio numero di pettorale, 99, ben esposto sulla pancia, mi avvicino al gazebo, il braccialetto già orgogliosamente esposto al polso destro, più prezioso per me di mille gioielli. Per la terza volta, in un tempo che sembra volato, e che spero invece, di tutto cuore, si fermi in questi giorni che mi attendono, diventi lunghissimo, lentissimo, quasi eterno. E' proprio come se l'avessi corsa solo ieri, questa gara. Le immagini, i paesaggi, le sensazioni, le voci, tutto è vivo, nitido nella memoria. Mi fermo lungo il corridoio di passaggio, un po' più sollevata dopo aver fatto il mio dovere di registrazione; ma innumerevoli sono ancora i volti che scorrono lenti ed ordinati, prima che compaia quello di Matteo.
Un ronzio insistente ci fa voltare tutti con il naso all'insù: un aggeggio che mai avevo visto in vita mia sta volando sopra le teste dei corridori; è una minuscola telecamera, appesa ad una struttura a croce con quattro eliche, una per ogni estremità, un aggeggio radiocomandato che si aggira per la piazza, a svariati metri d'altezza. In me si risveglia all'istante l'antica passione per le macchine radiocomandate: all'epoca in cui, nei pomeriggi liberi della scuola elementare, facevo correre una bellissima Chevrolet Corvette in miniatura su e giù per l'orto della nonna, con rovinose derapate tra le file d'insalata e passaggi assassini in mezzo alle piante di pomodoro, coltivavo il sogno segreto di poter tenere tra le mani il telecomando di un modellino d'aereo, di quelli alimentati a cherosene, da far volare sopra i tetti di Carmagnola... Un desiderio che già allora mi pareva talmente esagerato da non aver mai nemmeno osato esprimerlo a mamma. Per un oggetto come quello che ora mi volteggia sulla capoccia, avrei fatto follie...

Quando ormai mi rassegno all'idea che abbia cambiato programma, ecco arrivare anche Matteo, con l'espressione in viso del bovino condotto al macello. Mi vien da ridere, perché oggi per me su tutto domina un'euforia incontenibile... Sciagurata incoscienza! Il microfono scandisce i minuti che mancano alla partenza, le ultime raccomandazioni a cui nessuno presta più attenzione. Alla prima telecamera volante se ne aggiunge un'altra, sorretta questa da una struttura a forma di asterisco, con otto eliche che producono uno spostamento d'aria impressionante. Il cielo, stamattina affollatissimo, ospita anche alcuni parapendio a motore; il massiccio del Bianco, immobile, osserva tutto questo sgambettare ai suoi piedi e, ne sono certa, sorride divertito... Ciascuno dei minuscoli bipedi brulicanti alle pendici del monte è lì con un suo motivo, un obiettivo, addirittura una vocazione. Per me il Tor è tutto, non saprei dire altro, è quanto di più straordinario la vita mi abbia regalato: no, non esagero, è proprio così. Forse il buonsenso suggerirebbe di dare più importanza ad altri aspetti, alla salute, al lavoro, ecc. ecc.; tuttavia, è risaputo che, quando il buonsenso veniva distribuito, io ho dimenticato di mettermi in fila. Al cuore non si comanda...
Occhi bassi che fissano le scarpe, proprie ed altrui; ce ne sarebbe per fare un sondaggio commerciale su marche, tipi, preferenze... Gambe scolpite, gambe tatuate, gambe prigioniere in quelle ridicole calze multicolori che saranno indubbiamente utilissime per la circolazione, ma così brutte... Ma non è più tempo di badare all'estetica. Inizia il conto alla rovescia e via. Si parte, mi sembra di scoppiare di gioia; mentre passo sotto l'arco, penso che non c'è nulla al mondo che possa darmi un'emozione paragonabile anche solo ad un centesimo di questa. Si comincia al passo, mentre la folla di corridori davanti sfila nella strettoia; poi di corsa lenta, ma solo per far figura davanti al pubblico che festeggia, solo fino al ponte sulla Dora, perché c'è discesa. Le telecamerine volanti non ci mollano un attimo; i bambini che fanno il tifo picchiando le pentole sono forse gli stessi degli anni scorsi, e chissà se, tra molte edizioni del Tor, li si rivedrà ancora, ormai universitari, a picchiare le pentole...

La salita al Col d'Arp comincia in coda, sul sentiero ripido e stretto. Come in tangenziale di primo mattino nei giorni di lavoro, si procede a strappi. Matteo è ancora qui alle spalle, tesissimo al suo debutto, ma si vede lontano un miglio che frigge. Un po' l'ingorgo infastidisce anche me, che amo prendere il mio passo e portarlo avanti sempre uguale, ma è questione di poco. La colonna pian piano si sgrana, il passo si allunga, nel fitto del bosco; il calpestio di rami e foglie si sente lontano, a riprova di quant'è lunga la fila di persone. 650 gli atleti al via, pare. I numeri non sono il mio forte; mi pare che i metri di dislivello, per cominciare, siano circa 1.300 o poco più. E dire che conosco questa salita meglio delle mie tasche!
Il chiacchiericcio si allenta; qualcuno già cerca di passare avanti. Matteo per primo, ma lui può... Io resto a ruota; mi permetto il sorpasso solo quando è strettamente necessario per evitare il "tappo". il primo strappo molto ripido, appena usciti dal bosco, calma i bollenti spiriti; anche lungo la successiva strada sterrata, nessuno si lancia a correre. L'elicottero ci segue da vicino, fa la spola tra noi della coda ed il gruppo di testa, che a quest'ora sarà già oltre il colle. Non vedo cavalli qui nei paraggi, ma dovrebbero esserci; si percepisce forte l'odore. Si torna sul sentiero, in mezzo all'erba, accanto ai ruderi delle baite ed al solito tubo che da anni convoglia l'acqua e da anni in questo punto perde, sempre con lo stesso ronzio. Piano, un passo dopo l'altro, anche se l'entusiasmo suggerisce tutt'altro. Mi sento abbastanza bene, ma... C'è un "ma", non ben definito. Speriamo sia solo colpa della colazione abbondante, o della mia solita avversione ai primi venti km di qualsiasi corsa. Per prudenza, meglio restar tranquilla.
Il vallone si apre in vista del colle; da rettilineo, il sentiero diventa man mano più tortuoso, una serpentina sempre più stretta e ripida. Cerco silenzio e concentrazione. C'è qualcosa che mi tormenta, ma non capisco cosa. Non ancora. Scollino ed attacco la discesa di corsa, ma solo in quei brevi tratti in cui il fondo è sabbioso, morbido e tuttavia sicuro. Una corsetta blanda, poco più di una marcia, con i bastoncini pizzicati sotto le ascelle e le mani sulle borracce, sistemate sugli spallacci. Niente da fare, non ho ancora trovato un sistema davvero comodo per portarmi appresso da bere. La borraccia nello zaino è scomoda, devi levarlo ogni volta che vuoi bere. Nelle tasche laterali, quand'è piena, pesa ed aumenta l'oscillazione dello zaino in corsa, per quanto si voglia stringere la fascia a vita. Sugli spallacci sarebbe perfetta, se solo stesse ferma durante la corsa... Neanche a parlarne. Lasciamo poi perdere le varie sacche idriche, scomodissime da sistemare nello zaino.
Con questo incedere oscillante, tipo il leggiadro volteggiare di un rinoceronte, attraverso il lungo pendio tra i pascoli. Non sono tanti, i corridori che mi sorpassano, per il semplice fatto che dietro di me resta ben poca gente. Quattro chiacchiere qua e là; al ristoro, la prima agognata dose di Coca Cola, un po' di zucchero, cioccolato, limone e via. Qualcuno già domanda di un massaggiatore: cominciamo bene...

Riprendo la discesa, sempre la stessa corsa molto regolare e lenta, giù per la strada a tratti sterrata, a tratti asfaltata, tranne un tratto su sentiero ripidissimo per tagliare un tornante. Sulle cime spuntano fiocchi di nuvole: il meteo, per questa sera, ha annunciato possibilità di temporali. Continuo a corricchiare lungo la strada, appena appena, fino al bivio con il sentiero che conduce a La Thuile. A fondovalle, il rumore sordo delle auto che passano sotto i paravalanghe.
Brevissima risalita in compagnia di due fanciulle ed una pessima sensazione. Improvviso e penetrante il mal di testa. Poche ciance, sono appena all'inizio, passerà... Non è il caso che mi spaventi, né tantomeno che mi affretti. Va benissimo procedere con calma. Il sentiero torna a scendere, attraversa il corso secco e pietroso di due ruscelletti, per poi attraversare un tratto di bosco profumatissimo e raggiungere, infine, La Thuile. Anche qui ci attende un folto pubblico festante. Attraversiamo alcune viuzze secondarie, per restare lontano dal traffico e raggiungere il punto di ristoro al palazzetto. La mia sosta è brevissima, giusto il tempo di riempire le borracce e mangiare un po' di zucchero ed un po' di formaggio. Uno sguardo alla sala gremita di atleti che se la prendono molto più comoda di me... Il mio cruccio, adesso, è raggiungere almeno il prossimo colle prima che cominci a piovere; a giudicare dalle previsioni, e soprattutto dai nuvoloni che si rincorrono in cielo, direi che non c'è tempo da perdere. Mi fiondo fuori dal palazzetto, con la tazza colma di pezzi di cioccolato e di fontina, un connubio agghiacciante.
Concluso il tratto di asfalto, si passa sul sentiero dietro il campo sportivo. Brevissima ma secca risalita ed io, ancora una volta, storco il naso, ma taccio, anche e soprattutto a me stessa. Attraversiamo l'ormai nota via di mezzo tra zona industriale e parco, con alcuni stabilimenti circondati dagli alberi. Per la prima volta noto un impianto che ha tutta l'aria di essere quello del teleriscaldamento: e chi l'avrebbe mai detto, che si potesse avere anche in montagna?

Altra breve risalita interlocutoria, qualche centinaio di metri in lunghezza, su sterrato, per tagliare le curve della strada. La fatica che sento ogni volta che devo riprendere a salire è quantomeno anormale... Ancora un po' di asfalto in leggera discesa, uno di quei tratti in cui mi ero ripromessa di provare almeno a corricchiare. Ma non ne ho le forze. Gian, cavolo, vuoi stare calma? E' solo l'inizio, avrai più o meno 20 km alle spalle, te ne toccano ancora 310. Cosa vuoi che cambino, nella realtà dei fatti, i tuoi due passi di corsa?
Il sentiero sulla sinistra, che imbocco tra gli incoraggiamenti della piccola folla qui assiepata, segna l'inizio della seconda salita, il Passo Alto, nomen omen, oltre quota 2.800. Tappa intermedia, il Rifugio Deffeyes. Oltre il primo tratto pianeggiante, il sentiero sale subito, aspro ed irregolare, tra i roccioni, nel bosco. Le quattro parole che tento di spendere qua e là mi rendono evidente, se ne avessi avuto bisogno, che in salita sto sprecando troppa fatica e che mi manca il fiato. Quel che è peggio, il risultato di questo gran dispendio di energie è quasi nullo. Tanti, troppi concorrenti mi sorpassano in salita: non è un rammarico di carattere agonistico, il mio; il guaio è che, in condizioni normali, non accade... Insomma, la salita è uno dei miei pochissimi punti di forza. Oggi, tutte queste grosse pietre, queste radici costringono a sollevare molto i piedi, a spingere molto sui bastoncini, ed ogni volta è un respiro profondo, troppo.
Nei tratti in cui le fronde degli alberi lasciano spazio al cielo, quel che vedo non è incoraggiante; una cappa scura, pulmbea, minacciosa. Qualche goccia, qua e là, cade; s'è alzato un leggero vento che sa di pioggia. Dannazione... Quest'anno ho messo nella mia dotazione anche il poncho, ma per la prima tappa ho pensato bene di lasciarlo nel borsone al seguito. Vuoi vedere che adesso mi servirà? Calma Gian, calma... Hai comunque la giacca impermeabile. E poi, i pensieri negativi assorbono energie preziose. L'unica speranza è che una fettina di cielo sembra ancora sgombra; con un po' di fortuna, è proprio nella direzione in cui andrà la corsa.
In un tratto ripido tra gli alberi, il compagno d'avventura che mi segue esclama: "Dai, facci ridere un po'!". Riemergo dal profondo delle mie cupe elucubrazioni: ma che stai addì? Alzo la testa e capisco: "Capperi! Non è un'allucinazione da fatica! E' proprio lui!". Giovanni, del trio "Aldo Giovanni e Giacomo", che scende in senso contrario alla gara. Appassionato pure lui di corsa in montagna, sarà venuto a vederci!
Ormai conosco bene il tratto aspro, impegnativo, tutto a scalini di questa salita. Stavolta però ho la sensazione che qualcuno ne abbia aggiunto un pezzo. Un po' aiutano gli incoraggiamenti degli innumerevoli turisti che oggi affollano questo sentiero - e quanti splendidi cani! - ma la fatica che provo non si cancella. Finalmente il breve tratto sul pianoro, con vista sui laghetti ed un cielo che fa paura. Urla e schiamazzi dai nugoli di tifosi che hanno scelto questo tratto "comodo" per osservare la nostra marcia. Poi si torna a salire, ma su un sentiero con fondo più praticabile. Qualche tornante e siamo in vista dei cartelli gialli segnaletici, su in alto. Dal bivio, faticosissima conquista, pochi minuti ed ecco il ristoro al Rifugio Deffeyes.
Faccio il pieno di Coca Cola e polenta, meravigliosamente disposta a fette su un vassoio. E' vero, la polenta riempe la pancia dando però ben poco nutrimento. Ma è troppo buona... Un po' di cioccolato, il pieno alla borraccia e via, si riparte, mentre molti - più assennati di me - si riposano ai tavoli del rifugio. Breve tratto in piano, una pietraia attraversata da rigagnoli d'acqua limpidissima, e si torna a salire. Non appena la pendenza torna positiva, sento il battito del cuore quasi impazzire: un fiatone esagerato, una sensazione di malessere in tutto il corpo. E non siamo ancora, credo, al trentesimo km di corsa! Mi raggiungono altri corridori, sento il loro fiato sul collo, mi faccio da parte per lasciarli passare... E il mio morale scivola verso il grigio pesante del cielo ed il nero minaccioso della sconfinata pietraia tutt'attorno. Quel che è peggio, questo tratto di salita, fino al Passo Alto, è irregolare, a strappi. Accolgo le ultime rampe come una liberazione, e non mi conforta affatto vedere che c'è chi soffia più di me...
La discesa, impegnativa e tecnica, per un po' mi distrae dalle fosche riflessioni. E' una distesa di pietre, richiede un equilibrio che certo io non ho, un lavoro certosino di occhi e bastoncini, anche se in alcuni tratti è stata ben sistemata con le rocce piazzate a scalini; manca un bel corrimano e poi è perfetta! Con mia gran sorpresa, noto che, nonostante tutto, qui me la cavo meglio di altri, che rimangono indietro. Sarà che le gambe sono ancora agili e sciolte. Trovo anche da chiacchierare, mentre l'elicottero è tornato a volteggiarci sulla testa. Un collega d'avventura, al primo Tor, mi chiede notizie, s'informa sui miei programmi , in particolare sull'argomento "sonno". Mah... Difficile fare progetti precisi; tuttavia, se riesco, alla prima base vita farò una breve sosta per darmi una rassettata e mangiare una sorta di cena; a Cogne, seconda base vita, dovrei arrivare nel pomeriggio, quindi mi limiterò ad una doccia, per non perdere ore preziose di luce, ed andrò a dormire un paio d'ore al Rifugio Sogno, lungo la successiva salita. Mi rendo conto che si tratta di una tabella di marcia ambiziosa, ma, con un po' di fortuna, dovrei riuscire a rispettarla.
Dall'ultimo tratto di discesa, con i primi alberi a far da contorno al sentiero, si può osservare la serpentina di corridori appesi alla parete della montagna, sulla prossima, temibile salita. Se non altro, fin qui non ha piovuto... Ed al punto di ristoro dell'alpeggio Promoud c'è dinuovo la polenta. Oltre alla provvidenziale toilette.
Dovrei mangiare un po' di più, ma ho paura del peso sullo stomaco sulla prossima salita. Ormai ho un'età, non posso più sostenere di digerire anche i sassi come una volta, perlomeno sotto sforzo. Riparto, non prima di aver coperto di coccole un bellissimo cane, tipo Border Collie, legato ad una recinzione in attesa del padrone. La bestiola è talmente esuberante da saltarmi letteralmente in testa, tutta scodinzolante ed uggiolante...
Attacco la salita con il morale un po' meno cupo e, mi sembra, le forze rinfrancate. Uso tutta la prudenza di cui son capace, però. Il primo tratto di salita nel bosco è ripido, a strappi; qui sono sola, mi sento bene e ritrovo entusiasmo. Dai Gian. Va tutto bene. Il sentiero prende poi una pendenza regolare, non eccessiva. Scruto le nuvole: non si può dire che la serata si annunci serena e stellata... Ma qualche sprazzo di azzurro si salva ancora. Vuoi vedere che, dopo due anni di fulmini & saette, al Col de la Crosatie stavolta si arriva asciutti? Non tira neppure vento; l'aria è quasi immobile. Ormai si fa sera; per quanto la coltre di nubi e le mie lenti ancora scure - ho notato che gli occhiali fotocromatici, con il freddo, impiegano più tempo a recepire le variazioni di luce e di conseguenza a schiarirsi - mi facciano sembrare la sera più buia di quel che è in realtà, devo comunque considerare che la notte mi coglierà nella prossima discesa. Tutto sta a vedere a che punto del sentiero.
Mi raggiungono due atleti: il primo, un francese, passa avanti; il secondo preferisce restare a ruota, apprezzando il mio passo lento ma regolare. I tornanti si susseguono, sempre più stretti, fino a ridursi a pochissimi metri tra una curva e l'altra. Penso con timore al tratto che ci attende tra pochissimo: tutta roccia aspra, a scalini, con passaggi molto esposti, l'ideale per chi, come me, ha poco equilibrio ed il terrore del vuoto. Se non altro, stasera non ci sono fulmini che schioccano nei timpani, né roccia bagnata e scivolosa. Quindi, affronto con rassegnazione le corde, gli scalini, i tratti da superare con il paraocchi per non guardare giù. Carpisco un frammento di discorso alle mie spalle: qualcuno afferma che, nonostante la fatica e la stanchezza, non vorrebbe trovarsi su una spiaggia di Rimini nemmeno a pagamento... Purtroppo non ho il fiato per manifestare la mia approvazione!
Il suono di un flauto sconcerta le orecchie dei presenti. Un flauto? Qui? Fenomeno di allucinazione collettiva? Eppure non è ancora trascorsa una notte... No no, il flautista c'è davvero, seduto su una pietra, a pochi metri dal colle. Al cippo, il collega che mi ha seguita per buona parte della salita mi fa i complimenti: "Bel passo, ragazza". Parole che su di me hanno l'effetto del turbo... Mi lancio a capofitto, per quanto mi è possibile, giù per la discesa. Per fortuna, sia il fondo che la pendenza sono tollerabili per le mie scarse capacità. Vorrei macinare più strada possibile, prima che il buio renda indispensabile la pila frontale. Raggiungo il primo lago e la mia Petzl è ancora nel marsupio: un rapido calcolo mentale mi porta a pensare di avere un po' di vantaggio rispetto all'anno scorso; quando son passata qui, dodici mesi fa, era già buio pesto. C'è anche da dire che pioveva. Questa sera, un paio di colpi di tuono ce li siamo concessi, ma nulla più, almeno finora. La discesa è lunghissima, quasi eterna; le luci del paese, sempre giù in fondo... Ma non ci si arriva mai. Con sorpresa, l'ultimo tratto di un paio di km si corre su asfalto. A Planaval, il punto di ristoro, a cinque km circa dalla prima base vita di Valgrisenche. Mi fermo qualche istante per indossare la giacca, mangiucchio e riparto. Quasi subito, la marcia mi riporta a quella strana sensazione: passo un po' impastato, fiato un po' corto. Strano, considerato il tratto di pianura e poi la salita finale, davvero blanda. Forse è colpa dell'abbigliamento sbagliato; temevo di patire il freddo, ma mi sono coperta un po' troppo. Almeno, cerco di convincermene... Nei brevi tratti di discesa, provo a correre, ma le gambe rifiutano. Non le forzo. A Valgrisenche accendo il telefono quei pochi istanti che bastano per chiamare mammà, anche se sono le dieci e quaranta; "Sei già lì? - risponde, con la voce un po' melmosa per il sonno - "Allora quest'anno lo fai due volte il giro!". Se solo immaginasse, se solo immaginassi...

Alla base vita di Valgrisenche trovo, puntualissimo, il borsone giallo e conquisto la prima spillina. Un'ondata di felicità mi travolge: e una... Scortata da uno degli instancabili volontari, scendo nel locale dedicato a chi vuol darsi una sistemata, senza però far la doccia. Stendo qualche istante maglia e canotta ad asciugare; mi ripulisco alla bell'e meglio con i fazzolettini bagnati; stendo un nuovo strato di Pasta di Fissan sui piedi; metto nello zaino il poncho. Tappa toilette con tanto di lavaggio denti: sì, prima di andare a mangiare, è vero, ma non ha molta importanza; tanto, in questa corsa si mangia in continuazione... Trovo diversi volti amici, sia nello spogliatoio che a tavola. Un piatto di pasta, un uovo, due pezzi di crostata, due lattine di Red Bull che tracanno un po' nella speranza di un aiuto per la notte, un po' per golosità smodata nei confronti di questa bibita. E un po' di cioccolato in tasca, da sgranocchiare salendo.
Dovrei concedermi più tempo, più pause, lo so, ma non ce la faccio. Un attimo dopo sono già fuori. Mi avvio verso la terza salita, il Col Fenetre. Una voce nella notte: mi raggiunge Ernesto, l'angelo custode che l'anno scorso mi ha trascinata lungo l'ultima salita e fino a Courmayeur a velocità per me fantascientifica. Attacchiamo la salita ridendo e scherzando, in compagnia di un terzo elemento che insegue la moglie in fuga. Lunga e ripida salita nel fitto del bosco. Gocce mi colpiscono la gamba sinistra: che piova? Eppure è strano... Cadono sempre lì? Probabilmente è colpa della borraccia sistemata sullo spallaccio sinistro. Sarà bucata. Meno male!
Un tratto della salita taglia in verticale un pendio erboso. Vedo salire i fari di un auto... Ma guarda tu, non mi ero mai accorta che qui passasse una strada. Alzo gli occhi al cielo; un bellissimo firmamento di stelle... Esulto. Ancora bosco e poi un tratto di salita irregolare, sotto il cielo aperto. Il Rifugio nonché punto di ristoro spunta all'improvviso dietro una spalla erbosa. L'intenzione è di fermarsi lo stretto necessario per bere qualcosa di caldo, poi ripartire subito, per non rabbrividire. In effetti, trangugio volentieri una tazza di the... Ma non tocco quasi nulla di solido, non ne ho voglia. E non è un buon segno.

Mi rimetto in cammino un attimo prima di Ernesto, che mi raggiunge. Breve tratto di strada sterrata, un paio di curve, poi la salita riprende. Il mio compagno di viaggio è perplesso: ma non si doveva scendere, adesso? No, niente affatto, c'è ancora un bel tratto di salita. Solo che nemmeno io lo immaginavo così lungo e così duro. Contro il cielo nero s'intravede appena la sagoma della montagna, il contorno lo disegnano le stelle. Il passo è all'incirca lassù... Ma è un "lassù" che non arriva mai. Nel giro di pochi minuti, il mio passo diventa estremamente pesante, lento, impastato; il fiato sembra non giungere più ai polmoni, per quanto io sbuffi come una ciminiera. Le gambe non vogliono più scorrere una davanti all'altra; ogni minimo muscolo è pervaso da un senso di fiacca impressionante. I metri diventano chilometri, altri corridori mi sorpassano; solo Ernesto rimane alle spalle, forse non s'è ancora accorto di nulla, forse ha pietà di me. Il panico mi travolge. La fila delle lucine è lontanissima, là in alto... Come ci arrivo, io, lassù? Pianto i bastoncini con rabbia, ce la metto tutta, ma l'andatura è sempre più goffa, il respiro sempre più affannoso. Mal di testa improvviso e penetrante, un senso di nausea altrettanto violento; qui va a finire che tra poco svengo...
Mi sembra siano passate ore di tormento, quando finalmente la frontale illumina l'ultimo tornante. La discesa non aiuta: un lungo tratto corre su un sentierino che ha sì un buon fondo, ma una pendenza severa e, quel che è peggio, il baratro al fianco. Ho il terrore di scivolare, soprattutto in questo stato, con le gambe malferme ed i capogiri. Ma mi spiace rallentare Ernesto; faccio del mio meglio per scendere. Ma non c'è verso, la stanchezza non mi molla; inaudita tribolazione giù per questa discesa infernale, che ad un certo punto diventa tutta pietroni, sconnessa, ostica, odiosa. E non finisce mai... Non finisce mai, anche se Rhemes sembra lì sotto ad un tiro di schioppo. Nausea, brividi. Mi costano tanta fatica persino quelle poche centinaia di metri in pianura, su asfalto, per arrivare al ristoro.
Ernesto patisce il sonno, decide di fermarsi qui a dormire un po'. Io vado a caccia di caffé, una tazzona colma e con tanto zucchero; la bevo d'in piedi, in un misto di confusione, smarrimento, preoccupazione. "Non ho più forze", rispondo a chi mi chiede come va... E non lo dico così, tanto per dire. Provo a mangiar qualcosa, ma la nausea me lo impedisce. Riempo di cioccolato e biscotti vari il sacchettino che porto appeso alla cintura dello zaino, nella speranza di approfittarne quando starò un po' meglio, ma... Quando?
Ho fretta, ho paura. Mi tuffo fuori, nella notte, verso la quarta salita, ma non mi ci vuole molto per capire che sarà dura. Durissima. Bastano i primi metri di sentiero. Portare avanti i piedi è uno strazio. Calma Gian... Calma. Sali piano, piano quanto basta. Annaspo, proprio come i pesci cavati via dall'acqua, eppure sembra che l'aria si fermi in gola. Il battito del cuore, per un nulla, impazzisce, la gola brucia. Il Col Entrelor non è tenero, sono d'accordo, ma a me sembra di affrontare la Nord dell'Eiger... Rallento a dismisura, medito i passi, salgo al buio e non so dove sono, né quanto manca. Sembro il classico assetato che striscia nel deserto. Tanta, troppa gente mi raggiunge e passa oltre. E lo sfinimento gonfia i pensieri negativi a dismisura. Calma, calma, calma, più calma di così... Dentro il bosco, fuori del bosco, passata quota duemila metri. Un cielo stellato meraviglioso suona quasi come una beffa. Qualcuno s'accoda; ormai non mi sposto nemmeno più per lasciarmi superare; ogni minima variazione di questo ritmo penoso mi costa un dispendio di energie eccessivo. Passeranno se e quando potranno... Due compagni di avventure restano dietro: così facendo, buttano benzina sul fuoco della mia inquietudine, anche se, poveretti, non lo possono sapere... Mi affanno ancor più per non rallentarli, ma rischio davvero che il mio respiro diventi un rantolo. Il sentiero è sempre più ripido, sempre più ripido, non ce la faccio più... Le lacrime ormai annebbiano quel poco di vista notturna che ho. Uno dei due corridori passa avanti; provo a seguirlo, ci riesco per un po', ma a prezzo di una fatica distruttiva. Mi incoraggia, dice che mancano meno di seicento metri di dislivello: in queste condizioni, per me, un abisso... Dai Gian, devi stargli dietro, devi. La puntura nel petto, sul fianco, tra le costole, si fa sentire perentoria, mi toglie quel poco di fiato. La voce squillante di Ernesto, che mi ha già raggiunta, è il colpo di grazia al mio morale già sottoterra...
Ormai non posso più nascondere a me stessa la verità. Quel che mi sta succedendo è lo stesso malanno che mi ha colta alla "24h del Parco Sempione", a Milano, a giugno, e poche settimane dopo all'Ultrabalaton; finite entrambe in ambulanza, alla diciassettesima ora di gara ed al centesimo km rispettivamente. E poi, a fine luglio, all'Ultra Tour du Beaufortain, dove non ho avuto bisogno di soccorso solo perché, dopo cinquanta km di fatica e di pena, sono stata fermata per aver oltrepassato il cancello orario... Ma speravo, dopo un mese e mezzo di cura con un buon integratore e, sì, anche un po' di riposo, di esserne fuori. Ad agosto, le due maratone a Foglizzo, il giro del Monte Bianco, la Susa Susa in bici, il giro del Monviso, ancora domenica scorsa i cinquanta km in Roero, e stavo bene... Invece no, non ne sono fuori affatto. Non abbastanza, perlomeno.

La situazione precipita nell'ultimo tratto di salita. Sono costretta ad alternare il passo alle soste, mi sento soffocare, sempre che prima non mi scoppi la testa. E non riesco a fare a meno di piangere... Ernesto dev'essersi reso conto di ciò che sto vivendo, perché non cerca nemmeno più di incoraggiarmi. Prego lui e gli altri che mi seguono di andare, di non preoccuparsi, vorrei dire di levarmi almeno dalle spalle il patema di causare loro un ritardo... Le ultime decine di metri di dislivello, quassù, sono una coltellata. Infiniti scalini ed io non ho la forza di sollevarmi, non ce l'ho nelle gambe né nelle braccia. Il cielo sta schiarendo, l'anno scorso l'alba mi aveva colta più in basso, maledizione, sarei in vantaggio e invece guarda che disastro... Gian, piantala, il cronometro è l'ultimo dei tuoi problemi adesso. Devo trascinarmi fino in punta ed ho l'impressione che non ci arriverò mai...
Ci arrivo, invece, ma distrutta, sfinita. Ernesto passa oltre, vuol prendere vantaggio per poter dormire un po' a Cogne; lo saluto con rammarico, chissà se ci arrivo, io, a Cogne... Per mia fortuna, questa discesa non si può certo dire pericolosa. Sono così malferma sulle gambe che, se accanto a me ci fosse un baratro, ci finirei dentro di sicuro. Sento la testa, le orecchie, il palato, persino i denti pulsare. Cammino piano, passi stentati, brividi di freddo continui; il sole illumina appena le cime, ma ci vorrà un'eternità perché arrivi a me. Mi sforzo di dare un tono allegro a quelle poche parole che scambio con altri corridori, ma provo una tristezza infinita. Anche scendere, pure su un sentiero comodissimo, è dura da morire. Un paio di volte barcollo, mi fermo, mi siedo, ma congelo. Ancora in marcia: i laghetti, l'alpeggio, l'altro alpeggio. Una ragazza sembra patire quanto me; ha avuto una congestione, prova nausea e mal di stomaco. Purtroppo, nella mia scorta di farmaci, non c'è nulla che possa aiutarla, anzi...
Oltre il secondo alpeggio, il sentiero si rituffa nel bosco. E' ancora lunga, tanto, troppo lunga. Sono un sacco vuoto, e moralmente a pezzi. Io ci provo ancora, ce la metto tutta, ma ormai è finita... A meno di un miracolo, ma i miracoli non esistono.
Eaux Rousses, finalmente il ristoro. Benedetto chi ha inventato il wc chimico, trovo un po' di sollievo per il mio pancino sconvolto, ma non riesco a mangiare quasi nulla. Ormai sono digiuna da troppe ore. Trangugio bibite dolci, le uniche che io riesca a mandar giù volentieri, ma nient'altro, grazie alla nausea che non mi dà tregua. Mi accascio qualche minuto sulla panca, sfinita. Che fare adesso? Beh, dubbi non ce ne sono. Devo ripartire, questo è certo. Il Col Loson, la Cima Coppi del Tor; tremilatrecento metri di quota, duemila metri di dislivello di qui a lassù. Un'impresa disperata...
Riparto tra i singhiozzi; ormai non mi curo nemmeno più della brutta figura. Ormai so che è tutto finito, che il mio sogno straordinario sta scorrendo via dalle mie dita come sabbia finissima. Non so che ora sia, potrebbero essere all'incirca le otto; i raggi del sole non sono ancora arrivati quaggiù. Levo la giacca, guardo il sentiero. Forza Gian. Attacco la salita con una lentezza degna del peggiore dei merenderos da montagna domenicali. Un passo, un altro passo, lentissimi; un bastoncino, l'altro bastoncino. Il cuore non tollera, batte all'impazzata; il mal di testa, sopito per qualche momento, torna a tormentarmi. Il Col Loson è un'ascesa molto lunga, ma mai terribile, salvo forse negli ultimi trecento metri di dislivello. Ma per me, adesso, è drammatica. Un passo, un altro passo, annaspo, un passo, ancora un passo, corridori che salgono sciolti, mi superano, se ne vanno. In questo istante, se mi guardassi, mi farei pena. Piede destro avanti, piede sinistro avanti, ci devo pensare bene, per muoverli. Sono disperata... Perché? Perché a me, perché oggi, perché qui? Perché, dopo un anno di sogni ad occhi chiusi ma soprattutto ad occhi aperti? Perché?
Raggiungere la baita dei guardiacaccia mi costa un tempo infinito. Alcuni colleghi sono fermi nei pressi del laghetto, chiacchierano tranquilli, beati loro... Passo oltre senza nemmeno salutare, non ne ho cuore. Ora il sentiero spiana, diventa quasi una strada sterrata, comoda ed agevole, ma nemmeno questo mi aiuta. Non vedo più nessuno davanti, nessuno alle spalle, non riesco a procedere, sono sfinita. Sta nascendo una meravigliosa giornata di sole ed io vorrei sparire... La salita riprende e, con essa, il peggio delle mie tribolazioni. Mi muovo al rallentatore. Raggiungo il ponte, seguo il sentiero che tutto si può dire fuorché ripido, proseguo piano, ma non basta più. Pochi passi e mi mancano le forze; mi siedo, la testa che scoppia. Atleti sfilano e proseguono. Mi rialzo a fatica, riparto, percorro un po' di strada, ma devo ancora sedermi. E ancora, ed i tratti di camminata sono sempre più brevi, ed il colle è lassù, ad anni luce di distanza. Male al petto, mal di testa, vampate di calore e poi brividi. Mi sdraio un paio di volte, riparto, soffoco, mi appoggio ai bastoncini; le pause sempre più lunghe e penose. Conto dieci passi ed una pausa, dieci passi ed una pausa. Ma ho ancora troppe centinaia di metri sopra la testa...

Luciano mi raggiunge nel momento di peggiore sconforto. Mi sprona, perentorio, quasi mi ordina di seguirlo, ed io ci provo, per l'ammirazione che ho verso di lui che non molla mai, per la vergogna della brutta figura, sentimento che mi coglie di fronte a ben poche persone al mondo. Ma lo spazio tra me e lui diventa sempre più ampio, non ce la faccio più a colmarlo. Ed ho paura di dargli fastidio con la mia lentezza. Approfitto di una sua pausa per fermarmi anch'io ed abbattermi su una pietra... Ma, quando riparte, non sono più in grado di seguirlo. Resto lì, a vedermi passar davanti agli occhi gambe e ginocchia altrui, a singhiozzare con la testa dolorante tra le mani, a farmi pena e rabbia per lo straccio che sono diventata. Non so che fare: forse dovrei tornare giù a Eaux Rousses... Sarebbe la scelta più saggia, ma non ce la faccio ad incrociare quel serpentone di corridori che sale. No, morirei di pena. Ma come ci arrivo, al colle? E' l'ultimo obiettivo, almeno il colle... Poi basta, poi per me è finita, inutile, questa non è la crisi che va e viene.
Qualche volto noto mi sorpassa, mi chiede cosa succede, mi incoraggia, ma ogni volta per me è una coltellata. La distanza che mi separa dal colle è infinita. Devo tornare giù... No Gian, non puoi tornare indietro. Non hai scelta, sali. Il vento quassù è gelido, ho i brividi, la nausea. La pietraia... Guardo in su, quei trecento metri che negli anni scorsi, sia in gara che in vacanza, ho percorso con presuntuoso entusiasmo. Sono un abisso. Non ce la farò mai... I passi tra una pausa e l'altra si riducono, non più dieci, molto meno; salgo quasi a forza di braccia, le gambe non rispondono più, ma rantolo, niente più aria nei polmoni. E la sella del colle sembra allontanarsi... Capogiro, voci che sembrano lontanissime, che rimbombano nella scatola cranica. La fitta nel petto non mi dà tregua. E' finita, quest'anno è finita... Un passo, un tornante, una fitta, una pausa, un altro passo, due, tre, penosi. I gruppi che mi precedono segnano il tracciato del sentiero... Non ci arriverò mai, io, lassù.

All'improvviso, due mani mi afferrano quasi con rabbia, la stessa rabbia nella voce: "Dammi lo zaino", ripete. Mi vien quasi da ridere, un riso isterico, toh, guarda chi si vede... Ma riesco solo a piangere. E' Giorgio: sapevo che sarebbe venuto a vedere il passaggio della gara, lui che quest'anno non si è iscritto, e sapevo che oggi sarebbe stato a Cogne... Ma non mi aspettavo di trovarlo quassù. Rifiuto di cedere lo zaino; è leggerissimo, non cambierebbe nulla, e poi non se ne parla; o ci arrivo con le mie forze, lassù, o non ci arrivo proprio. Lo seguo, perché devo, ma non è facile; le mie forze sono davvero al lumicino. Il mio calvario si attenua al colle, tra le lacrime, ma non finisce... Protesto, vorrei che Giorgio se ne andasse per la sua strada, che evitasse di perdere tutto questo tempo per me. E non voglio sentire i suoi incoraggiamenti. Per me è finita, vorrei solo arrivare a Cogne, ma è finita. Sei ore per salire al Col Loson, quando di norma impiego meno della metà del tempo... Non ha alcun senso. Non è la crisi di un momento. E' dalla scorsa notte che vado avanti così. La discesa calma un po' i nervi, ma prolunga lo strazio; cammino piano, a fatica, ascolto il mio cuore che sembra una mandria di cavalli al galoppo. Le ceneri del mio sogno più bello. Mi sforzo di chiacchierare, chiedo notizie di Matteo che per fortuna procede bene, almeno lui, ma nell'animo ho già indossato il braccialetto nero a lutto. Tutto quel che ho sognato, sperato, visto come se fosse vero davanti ai miei occhi, per dodici mesi infiniti... Tutto quel che contava per me, finito, demolito. Come se qualcuno mi avesse levato la terra da sotto i piedi... Qualcuno mi dica che è un incubo, per favore. Qualcuno mi svegli...

Impiego un'eternità a raggiungere il Rifugio Sella. Giorgio continua a ripetere che non mi ritirerò, che devo solo riposarmi e ripartire. Io penso alle sei ore dell'ultima salita, penso alle forze che non ho più. Penso al tempo che ho perso, a quello che perderei, al fatto che sarei poi costretta a viaggiare quasi senza più margine rispetto ai cancelli orari... Penso che mi troverei per forza a ripartire di notte, che affronterei un'altra salita con la stessa pena di quella appena superata, che non potrei fare a meno di fermarmi mille volte, ma nel freddo della notte. E che magari finirei per costringere i soccorsi a venirmi a raccattare... No, non ha alcun senso.

Una processione di dolore fino al Rifugio Sella. Il percorso è di una facilità disarmante, almeno fin qui, eppure io procedo come un infortunato reduce da mesi di gambe ingessate. E il bello, ironia della sorte, è che non ho dolori muscolari, non sento le gambe stanche in quel senso. Sono un'automobile in condizioni perfette, a cui manca la benzina.
Al Sella, i volontari ed il pubblico salutano ed incoraggiano. Possibile che nessuno capisca come sto? Perché non tengono le bocche chiuse? Anche qui, al punto di ristoro quasi non riesco ad inghiottire nulla. Due metri di risalita mi massacrano, ancora una volta, il cuore, per non parlare della discesa da qui in poi: interminabile e rognosissima, tutta su pietre e ciottoloni disposti male, infidi, scivolosi, una disperazione. Più volte chiedo a Giorgio di andarsene, ma non molla. Ha deciso di scortarmi fino a Cogne...
Troppe volte mi inciampo e scivolo; studio con pena i passi per non finire a gambe all'aria. Ci mancherebbe solo una visita al Traumatologico... Ancora pietroni, ancora e ancora. Voglio solo arrivare a Cogne, il Tor non esiste più. Quest'anno è andato tutto storto, quasi tutti gli appuntamenti a cui tenevo, sprecati così, rubati da non so cosa. Qualcuno sostiene che il mio corpo non regga più la mole di km che gli infliggo; può darsi, ma io so solo che, l'anno scorso, per diversi mesi ho partecipato a prove di corsa di oltre cento km tutte le settimane, senza contare le uscite per conto mio, e stavo benissimo... Dall'autunno scorso, purtroppo, ho dovuto rinunciare a molto, non certo per scelta ma per necessità; è stato un anno brutto, penoso, pesante su troppi fronti... E questo è il risultato. Altro che eccesso di allenamento.
La luce gialla del tardo pomeriggio illumina l'abitato di Valnontey. Se non altro, la discesa da tregenda è alle spalle. Ancora qualche breve tratto di saliscendi e poi, alle porte di Cogne, troviamo Enrica, la compagna di Giorgio. Poche centinaia di metri e ci separiamo: loro sono giunti all'albergo; continueranno, nei prossimi giorni, a girare in montagna ed a seguire la corsa. Io entro in paese, con le lacrime che vorrebbero schizzar fuori quando gli spettatori da ogni angolo applaudono con fragore ed io so che quegli applausi non sono più per me... Il tempo di entrare nel locale docce e non riesco più a trattenermi. Sfogo tutta la mia tristezza in un pianto dirotto che non è, purtroppo, liberatorio. Una volontaria, persona stupenda, si ferma a parlarmi, fa di tutto per aiutarmi. Devi mangiare, devi dormire qualche ora, poi decidi... No, io non ce la faccio più. Lo so, nessuno può capire perché nessuno è nei miei panni, ma questa volta, se decido di proseguire, rischio grosso. E non è per me la preoccupazione, quanto per chi dovesse partire in mio soccorso. Un conto è l'incidente imprevisto, un conto è proprio andarsele a cercare, le grane... Faccio la doccia, trangugio un piatto di pasta. Con il mio borsone, preparato con tanta cura, e con lo zainetto miseramente abbandonato a terra, mi siedo su una panca, sotto il tendone del punto di ristoro, in attesa della navetta. Osservo i corridori che arrivano, quelli che partono, con uno strazio infinito. Se potessi scavare una buca e sparire... Tanti mi salutano, a tutti ripeto la stessa nenia: "Non ho più forze. Non ce la faccio più". A casa l'ho già comunicato, con un dispiacere senza fine. Questa corsa per me era tutto. Sarò esagerata, può darsi, sarò frivola... Ma io credo che tutti più o meno abbiano un obiettivo, un sogno da inseguire con anima e corpo, e non credo che, per tutti, si tratti di trovare la cura universale per il cancro o portare la pace nel mondo. Il Tor des Geants, da quando esiste, per me è diventata la madre di tutte le passioni. E qui, dopo nemmeno un giorno e mezzo di gara, su questa panca è finito tutto. Crollato, come il vetro di una finestra sfondato da una pietra, con lo stesso fragore. Lo ammetto, non ero preparata, anche se l'avrò ripetuto chissà quante volte, che una corsa così non si può mai dare per scontata. Non ero pronta a fallire. Posso piangere, ma non serve, eppure che sforzo devo fare per sorridere a chi mi si avvicina. Atleti che girano con il piatto in mano e le ciabatte, atleti che si fanno tagliuzzare e sforacchiare dagli infermieri, atleti stravolti e chini sui tavoli. Altri atleti che si fermano, come me, ma siamo in pochi.

La navetta, il ritorno, Courmayeur. Il punto di sbarco è a poco più di un km dalla mia auto; mi carico il borsone in spalla, mi avvio, ma a pena di una fatica enorme e di innumerevoli pause. Come al Col Loson. Come a Milano, alla 24h abortita; che fatica mostruosa il ritorno alla Stazione Centrale, alle cinque di mattina in una città orrenda e deserta, e gelida, benché fosse giugno, ma forse era solo colpa del mio stato larvale... Sono sfinita, ma non voglio restare qui un minuto di più. Mi fermerò lungo il viaggio, se necessario. Sono quasi le undici di sera, accendo il motore, riparto. Ci vorrebbero i tergicristallo anche per gli occhi. Seguo la strada statale fino a Quincinetto; mi fermo a dormire, non so bene dove; viaggio a velocità di lumaca, per il resto. Verso le quattro sono a casa, mi assalgono i miei adorati pelosi, che nulla sanno della mia tristezza e sono solo felici di rivedermi. Il mattino dopo, in ufficio. Senza più voglia di nulla...

***************

Sono trascorsi alcuni giorni ormai. Oggi, a Courmayeur, dovrebbe aver avuto luogo la cerimonia di premiazione del Tor, quella a cui mia mamma già pensava da tempo: "Poi la domenica andiamo su a prendere il premio"... Ovviamente non m'è passato per l'anticamera del cervello di partecipare. Lo so, non è affatto sportivo da parte mia, ma, dopo il mio ritiro, non ho più voluto sapere nulla di nulla, né via internet, né dai giornali, ed ho proibito a chiunque di nominare in mia presenza qualsiasi cosa che avesse a che fare con il Tor des Geants. Disfare il borsone giallo, ripensando a tutto quel che avrei voluto utilizzare, dove e come, è stato uno strazio; via le maglie, i pantaloni, le calze, via il fischietto, la benda, le borracce, via tutto, tornato nel buio di armadi e cassetti senza aver potuto vivere, nemmeno per un po'. Non era una gara qualsiasi, non era solo una gara. Ora, nei giorni grigi d'ufficio, nei momenti bui, non ho più il mio sogno. Il Tor des Geants, non mi vergogno a dirlo, è stato per me fonte della più grande gioia e della più profonda delusione che nulla potrà lenire. Mi dicono "Ti rifarai l'anno prossimo", certo, come se altri dodici mesi d'attesa fossero bazzecole; mi dicono "Pensa che hai tante persone che ti vogliono bene", io penso, senza falsa ipocrisia, che nessun affetto umano può colmare la perdita del "mio" Tor, e quelle persone che mi vogliono bene lo sanno, e della mia ipocrisia non saprebbero che farsene. Penso che non ho più voglia di correre altre gare, e del resto in questo stato non potrei, perché, a distanza di alcuni giorni, la mia condizione fisica non è purtroppo migliorata ed anche le scale di casa sono una via di settimo grado. Penso che ho fatto le analisi del sangue ed attendo i risultati, ma che in fondo non m'interessa sapere perché, se non riesco più a correre come voglio. Penso che ieri sono andata a scarpinare ai piedi del Monviso, pur con una fatica inaudita, penso che un po' il sole e le pietre ed i rifugi mi hanno fatto sentire meglio anche se alla sera non stavo più in piedi dalla nausea, ma penso che nulla sia più come prima. Perché il Tor è come il grande amore della letteratura e dei film, ti sconvolge la vita, se ce la fai. Ma, se non ce la fai, se prima lo conquisti e poi lo perdi così, senza poterci fare proprio nulla, allora la vita te la distrugge...

giovedì 30 agosto 2012

26 AGOSTO 2012 - PROVE DI TRAIL INTORNO AL MONVISO

"Sì, ma guarda che io vado piano... Vado davvero piano!". "Non preoccuparti, ci saranno vari gruppi, ci sarà chi va di corsa ma anche chi cammina... Tranquilla, ci sarà qualcuno che va più piano di te!". Già qualche settimana fa, quando abbiamo combinato per telefono l'appuntamento, le rassicurazioni di Silvio mi avevano ispirato ben poca fiducia. Alle sei e un quarto dell'ultima domenica di agosto, nel parcheggio a Verzuolo, una rapida occhiata alla squadra di partecipanti, una quindicina di loschi figuri, me lo conferma: le mie perplessità erano più che fondate. Maglietta, o addirittura canotta, e pantaloncini sono la divisa che va per la maggiore; assenza di zaino o zainetto microscopico, quasi un marsupio, l'equipaggiamento medio con cui i componenti della truppa che anima il piazzale si presentano per affrontare il giro del Monviso in tappa unica. Nella versione che conosco io, il tour consiste in trentacinque km di marcia per poco meno di tremila metri di dislivello; tuttavia, a giudicare da quel che ho capito, l'itinerario di oggi prevede uno sviluppo più ampio, pensato una manifestazione di corsa in montagna che potrebbe avere il battesimo, con un po' di fortuna, già la prossima estate. Chi affronta così, (quasi) nudo e crudo, un tracciato che sfiora i tremila metri di quota e per gran parte si sviluppa intorno ai duemila... Beh, ha intenzione di impiegare poco, pochissimo tempo. Ed ha di certo un'incrollabile fede nella stabilità delle condizioni meteo.
Sulla piazza di Pontechianale, il gruppo si rinforza con un'altra infornata di elementi ben poco raccomandabili e sempre più ignudi, nonostante la temperatura di una limpidissima mattina di fine estate che sa già di precoce autunno, a circa 1.700 m di quota. Sono intirizzita e desolata. Già la differenza nell'abbigliamento e nell'equipaggiamento - io son qui con i manicotti, le calze alte ed i bastoncini - la dice lunga sull'abisso che mi separa dal resto del gruppo. Non mi stupirei di veder spuntare coltelli tra i denti... Trovo un po' di conforto nell'unico individuo abbigliato come un essere umano, con pantaloni lunghi e pile: speriamo che partecipi davvero anche lui... E' vero, l'abito non fa il monaco, ma io son sicura, potrei metterci già adesso la mano sul fuoco, che oggi il mio ruolo ufficiale sarà quello della palla al piede, nella speranza che qualche piede mi attenda almeno fino al tratto di percorso che non conosco e che si dice sia piuttosto ostico.
Mentre fervono gli ultimi preparativi, una coppia di anziani villeggianti attraversa la piazza e si ferma ad osservare lo strano esercito: sui loro volti, la stessa espressione interdetta che si potrebbe assumere trovandosi davanti ad un piccolo omino verde con tre occhi e sette zampe. Li immagino escursionisti della vecchia scuola, di quelli che non muovono un passo senza scarponi ai piedi e zaino da tre metri cubi sulle spalle... E, pur avendo da tempo felicemente abbandonato gli scarponi, condivido il loro sconcerto.
Fremo in attesa della partenza, un po' per il freddo che morde i muscoli, un po' perché penso che è tardi, sono le sette e mezza passate, il sole è già alto ed a me si stringe il cuore, perché è così bello partire prima dell'alba, veder nascere la luce e sapere che le ore di chiaro potranno essere sfruttate proprio tutte... Oggi non decido io, mi tocca adattarmi, però adesso basta chiacchiere, per favore... Andiamo!
Un'ultima occhiata languida alla testa della valle, al Colle dell'Agnello che neanche quest'anno ho raggiunto in bici; manco ormai da troppe estati... Un gruppetto si avvia verso il lago; prontissima, mi aggrego.
Come previsto, la partenza è di corsa. Posso capirlo; il giro del lago è un sentiero quasi pianeggiante, si presta bene a correre. Il mio problema è quel "quasi", unito al mio cuoricino che, in avvio e per almeno un paio d'ore, mal sopporta qualsiasi sforzo, soprattutto se improvvisamente intenso. Così, i primi brevissimi tratti in salita mi infliggono già metri di distacco dal resto della mandria. Tutto ciò ha anche il suo lato positivo; il distacco fa sì che nessuno possa udire i miei penosi rantoli. Una partenza così significa dolore forte al petto, respiri che sembrano spasmi, gola che brucia e sensazione di lingua gonfia, più grossa dello spazio atto a contenerla. I miei compari sono sempre più lontani; il bosco e le curve li nascondono. Li vedo sciamare sulla diga, mentre io sono ancora sul sentiero; a Borgata Castello sono già spariti. Tutti, tranne Silvio che, secondo me, comincia solo adesso a capire quel che intendevo io, per "piano". Un cagnone si stiracchia sulla soglia di una casa: in altre circostanze, mi sarei fermata ad accarezzarlo. Oggi no, chi si ferma è perduto, proprio nel senso letterale del termine, perché il tracciato della prima parte del giro mi è ignoto. Invece di imboccare il sentiero che sale al Rifugio Vallanta, infatti, procediamo un centinaio di metri lungo la strada asfaltata, per poi seguire, a sinistra, l'indicazione per il Bosco dell'Alevè ed il Lago Bagnur. All'imbocco del sentiero, un paio di anime caritatevoli ferme in attesa. Mi metto in coda, ben determinata a limitare il più possibile il disagio che creerò a chi vorrà avere la misericordia di aspettarmi: ma non si può cavar sangue da una rapa, men che meno da una rapa sovrappeso e senza fiato. Star loro dietro è una fatica per me insostenibile. Passi corti, veloci, conficco i bastoncini nella terra, quasi quasi infilzo persino la roccia; nei polmoni caccio tutto il fiato possibile, ma Silvio ed i compari lentamente si allontanano. Non posso esagerare, non ce la farò mai a tenere questo ritmo tutto il giorno... Non ce la farò nemmeno per la prima salita! Il cuore sembra lì lì per scoppiare; in fondo questo è un ottimo luogo ed un'ottima circostanza per defungere, verissimo, ma se proprio devo scegliere, preferirei passare a miglior vita solo dopo la conclusione della giornata. Non alzo nemmeno lo sguardo da terra; troppo alto il rischio di inciamparmi e volare lunga distesa. Le radici degli alberi che affiorano dal terreno, poi, sono insidiose anche se ci si mette il piede sopra: scivolose come saponette. Ed il mio equilibrio, nella foga, è più che mai precario.
Solo quando uno dei compari si ferma a legarsi una scarpa o frugare nello zaino, riesco ad avvicinarmi. E nei brevi tratti in piano, nelle radure. Se non altro, il cielo è limpidissimo. Solo quando la pendenza concede un po' di respiro riesco a partecipare alle discussioni: un sovrappiù di fiato giunge in mio soccorso soprattutto quando il discorso va a toccare il tema dell'organizzazione di corse in montagna, con l'inevitabile scivolone: "Eh ma in Valle d'Aosta è facile organizzare trail, ti coprono di soldi". Forse non sono queste le parole, ma questo è il succo del discorso, che mi fa spuntare tutti gli aculei dritti come ai ricci. Io sono del tutto ignorante in materia di organizzazione, ma di una cosa sono arcisicura: per mettere in piedi eventi "monstre" come il Gran Trail Valdigne o il Tor des Geants - cito questi perché li ho vissuti sulla mia pelle - si può avere anche a disposizione più denaro di quel che ne contiene il deposito di Paperon de'Paperoni, ma, se mancano le capacità e l'esperienza necessarie, come si dice dalle mie parti, "ciau bale". Il Tor poi è un capolavoro assoluto di bellezza, di efficienza quasi militare, di partecipazione. Non posso credere che chi l'ha creato e ci lavora non ci metta il cuore e l'anima. Poi, ben venga la pioggia di dobloni, se serve a dare vita a qualcosa di bello e di vantaggioso non solo per gli atleti, ma per l'intera regione. "Sì ma tanti organizzatori ci guadagnano". Uff... E allora? Di grazia, qualcuno vuole spiegarmi per quale motivo il guadagno debba essere per forza demoniaco? Se qualcuno è contento di lavorare per soddisfazione personale e con spirito di volontariato, ben venga, gli fa onore, ma non trovo nulla di male nel fatto che invece qualcun altro tragga un profitto dall'organizzazione di una corsa. A patto, naturalmente, che sia tutto alla luce del sole. Mi sembra appena normale pensare che il lavoro vada remunerato. Dopotutto, correre è una passione, un divertimento, come lo sono il cinema o il teatro. Se vado al cinema o a teatro, non mi stupisco di dover pagare un biglietto anche per il profitto di chi mette a mia disposizione lo spettacolo. Perché non dovrebbe essere così anche nelle manifestazioni sportive?
La fatica purtroppo mette a dura prova quel poco di ars oratoria che mi ritrovo. Mi tocca abbandonare la contesa, onde evitare di soffocare. Non conosco questo tratto di sentiero; è con una certa sorpresa che mi ritrovo in una radura, con un piccolo rifugio. Sull'erba, casse acustiche e strumenti musicali: pare che, più tardi, qui si tenga un concerto. Sulla soglia del rifugio, una bella veranda in legno, ritrovo la truppa di corridori riunita. Lì per lì, resto basita: ma come... Mi avete fatto sputare i polmoni per raggiungere questo posto a rotta di collo e poi siete tutti lì seduti a contarvela? Non avrebbe avuto più senso andar con calma ed evitare la lunga pausa? Com'è ovvio, non una parola di tutto ciò esce dalle mie labbra; sono ospite e per di più in difetto, in quanto palla al piede. Il gestore del rifugio esce con una caraffa di caffé ed i bicchierini di plastica: sogno o son desta? Un caffé con lo zucchero, un po' di conforto per il mio povero cuore... Saluto con dispiacere lo splendido bovaro bernese che nel frattempo s'è insinuato nel gruppo a raccogliere coccole; è meglio ripartire, mentre altri possono permettersi il lusso di indugiare ancora un po'. Breve tratto di discesa su sentiero, poi si torna a salire, per fortuna. In breve i velocisti mi superano e spariscono in alto; qualcuno resta un po' indietro a discutere di itinerari e bivi, mentre io faccio del mio meglio per guadagnare terreno. Non certo per senso di competizione: solo per farmi poi aspettare un po' meno... Di lì a poco, si compone una fila di cinque elementi. Io sono la locomotiva e ciò mi crea ansia: non voglio fare da tappo, ce la metto tutta, sbuffo, ansimo, quasi quasi agonizzo, con la gola in fiamme e la nausea che sale. Enorme dispendio di energia per un risultato miserrimo, tanto che, dietro di me, si chiacchiera del più e del meno, con tranquillità.
Impiego un po' a raccapezzarmi ed a capire che siamo ormai nei paraggi del Passo San Chiaffredo. Di solito calco questi sassi in discesa: incredibile quanto possa cambiare un paesaggio, percorrendo la strada nel senso inverso rispetto al solito. Ormai gli alberi sono scomparsi: uno dei corridori gps-dotati annuncia che ci troviamo più o meno a 2.400 m di quota. Urca, non mi ero accorta di aver macinato tutta questa strada. Urlacci di scherno giungono dalla coppia di fuggitivi che ci precede di un centinaio di metri di dislivello: non ho il fiato né la confidenza necessari per mandarli al diavolo... Il sentiero lascia il posto a lunghi tratti di pietraia, finché non raggiungiamo il pianoro dei laghetti, quel tratto in cui il terreno è disseminato di pietre piantate in verticale, come tante schegge conficcate. Son passata di qui un'infinità di volte e non ho mai capito il perché di questo spettacolo curioso, senz'altro opera di mani umane. Quassù il branco perde il primo componente: proprio Silvio, uno dei promotori dell'iniziativa, è costretto a tornare giù perché non si sente bene. Ha la febbre, probabilmente. Jella al cubo!
Il sentiero concede un po' di respiro; un dolce saliscendi, un panorama da fiaba, riesco persino a muovere qualche passo di corsa. Davanti si discute se sia opportuno scendere al Rifugio Alpetto prima di raggiungere il Quintino Sella: sarebbe bello che la gara toccasse il primo rifugio del Cai, in occasione del centocinquantenario del sodalizio. Mentre il gruppo si ferma un attimo per raccogliere le idee, mi avvio lungo il sentierino che scende dolcemente sulla destra, in mezzo al prato. Perdiamo circa trecento metri di dislivello per raggiungere il bell'edificio in pietra, oggi meta di parecchi escursionisti seduti al sole a prendere fiato. Pausa alla fontanella di fronte al Rifugio, che risente della siccità e getta acqua ad intermittenza. La guida del gruppo si informa presso il gestore circa la via più opportuna per raggiungere il Quintino: alla fine, si opta per ripercorrere in salita un breve tratto della discesa appena compiuta, per poi imboccare il sentiero a destra al primo bivio. Una risalita tra prati e ruscelli, un'altra sofferenza per me che continuo ad inseguire invano. Anche qui, i compagni si allontanano inesorabilmente, mentre io annaspo. Solo un paio di anime pietose mi seguono fino al Rifugio: un atto di pietà... Anche qui, mi sorprende raggiungere il Quintino da una prospettiva tutta diversa dal solito. E il Monviso, imponente, di fronte a me. Altra brevissima sosta per riempire la borraccia, ma riparto subito, lungo il sentiero che arriva da Pian del Re. Un tratto che mi mette in grande difficoltà: tutto su pietraia, il terreno che odio di più e su cui procedo con lentezza esasperante, sempre. Mi vien da pensare che, qui, la traccia è già difficile da individuare in una giornata di tempo splendido, come oggi; volendoci far passare una corsa, sarà opportuno abbondare con la segnaletica, perché, se mai dovesse levarsi la nebbia, si finirebbe fuori strada in un attimo. A maggior ragione se la prova avrà il carattere di competizione esasperata con cui mi sembra nascere già oggi, nonostante le rassicurazioni.
Il tratto su pietraia è lunghissimo e mette a dura prova la mia pazienza. Ancor peggio per chi mi segue e si adatta, suo malgrado, al passo da tartaruga instabile. Solo uno dei colleghi, Paolo, sembra adattarsi di buon grado alla mia andatura, ed anche alla mia chiacchiera, almeno finché si viaggia in piano. I laghetti poco più in basso sfoggiano un bellissimo color verde smeraldo; in lontananza si vede il Pian della Regina e la strada che ancora sale verso Pian del Re. Ma, al bivio, pietà l'è morta. Si torna a salire, pare per altri trecento metri circa, destinazione Rifugio Giacoletti. E ancora una volta provo a forzare il passo. Certo, sto andando a ritmo molto più sostenuto rispetto alle mie abitudini, ma mi costa una fatica immensa che non sempre riesco a dissimulare. La nausea è sempre più intensa; le fitte al petto ricompaiono prepotenti. Non ce la farò mai, così... Ma il tratto di percorso ignoto e pericoloso dovrebbe essere quello immediatamente successivo al Giacoletti. Lì non posso permettermi di restar da sola. Oltre, me la caverò benissimo. Paolo segue in silenzio, senza apparente difficoltà. Il tratto finale della salita, sotto un bel sole limpido, è a tornanti secchi: ci sono parecchi escursionisti che tornano giù. Escursionisti, ma anche turisti che sembrano capitati qui per qualche strano scherzo del destino. Certe pance e certi deretani che mi domando per quale inimmaginabile legge fisica siano riusciti a compiere l'ascesa fin lassù... Ho fame, sete, sono disfatta. E demoralizzata. Se questa è la forma con cui mi presenterò al Tor des Geants tra due settimane... Possibile che io sia così lenta?
Al rifugio, breve sosta per il pieno d'acqua. Ho un gran mal di testa, ma preferisco affrettarmi. Si riparte verso la Via del Postino, mentre qualcuno illustra con minuzia di particolari la vicenda della morte di un escursionista, qualche tempo fa, proprio qui nei paraggi. A vedere il sentiero che si tuffa giù nel canalino pietroso, non mi stupisco che quassù qualcuno ci abbia lasciato le piume. La discesa mi porta via un'eternità di tempo; del resto, è davvero ripida, scivolosa, pericolosa. Gli appigli fermi per i piedi sono una rarità; mi aggrappo con le unghie e con i denti ovunque... Per fortuna, alcuni dei compagni di viaggio hanno la gentilezza di scortarmi. In altri tempi, quassù avrei avuto il terrore; ora, l'abitudine non mi manca, ma non posso certo affermare di trovarmi a mio agio, tutt'altro. Qui vale qualsiasi appiglio: le mani, i piedi, il didietro da posare sulle rocce prima che ci cada rovinosamente da solo. E la risalita non è da meno: il sentiero sparisce; al suo posto, solo scalini di metallo e corde. Impressionante, questo sì: ma non terribile. Sarà che ne ho sentito parlare in termini talmente terroristici che adesso mi pare quasi facile... Qui la decisione è unanime: la corsa non ci passerà. Troppo pericoloso. Meno male: quasi mi stupisco... Far passare da qui una gara abbastanza esasperata come sarà il giro del Monviso è da scriteriati: vorrebbe dire andare a caccia di guai assicurati. C'è un altro passaggio, più a valle, che dal Giacoletti si può imboccare per andare a finire sul sentiero che da Pian del Re sale al Colle Traversette: sarà quella la via più probabile.
Siamo ora nella valle del Pian del Re, che si vede alla nostra destra e sembra vicinissimo. Un lungo traverso ci porta ad immetterci sul sentiero che arriva proprio da lì. A questo punto, il grosso del gruppo prende il volo e se ne va, non prima di avermi chiesto se conosco il seguito del percorso. Nessun problema. Con me rimane Paolo, che, come me, accusa la fatica. La risalita verso il Traversette è aspra, tutta a tornantini ripidi su pietraia, fino alle casermette pericolanti. Non l'ammetto, ma fatico molto, anche se ormai ho tirato i remi in barca. Adesso si va su a modo mio, con calma. E' ormai pomeriggio inoltrato; le ombre sono lunghe, il vento gelido sulla pelle. Man mano che risaliamo il fianco della montagna, ci ritroviamo immersi nell'ombra, quello stacco netto tra la luce e l'oscurità che si vede solo in montagna nelle giornate limpide. Colle o galleria? Se non ho capito male, l'itinerario prevede il passaggio attraverso il Buco di Viso. I garretti mi portano faticosamente all'ingresso della galleria; Paolo non perde colpi, è sempre qui. Per fortuna, ho portato con me la pila frontale. Non sono mai passata attraverso il Buco di Viso. Infilo la giacca, per proteggermi dall'aria gelida, e mi ci butto. La pila frontale non mi permette di evitare una formidabile craniata contro la parete; un attimo dopo, si riemerge alla luce abbacinante del sole, con un po' di fatica per superare la strettoia strisciando come lombrichi. Chissà se i compari ci hanno attesi al colle? In tal caso, qualcuno li troverà mummificati lassù, la prossima primavera... Scendiamo chiacchierando lungo la pietraia. Ci fanno compagnia alcuni camosci, con tanto di piccoli. Anche questo è un tratto che necessita, in gara, di balisaggio capillare. Qualche diverbio con l'equilibrio, qualche dubbio sull'itinerario: il Rifugio Monviso è sulla sinistra, ma è giusto che il sentiero si allarghi molto verso destra. Percorriamo la discesa fino al bivio: al Rifugio, altra pausa per fare il pieno alle borracce. Un tentativo di corruzione, da parte di Paolo, nei confronti dell'asinello del Rifugio, per farsi portare a soma fin sul Colle di Vallanta cade nel vuoto. Coraggio: dovrebbe trattarsi solo più di cinquecento metri di dislivello, in uno scenario che toglie il fiato da quant'è meraviglioso. La mole imponente di Sua Maestà il Monviso ci sorveglia mentre percorriamo l'ultimo breve tratto di discesa, mentre superiamo il torrente, mentre sfiliamo accanto ai laghetti. La salita è aspra e ostica: ultima, certo, ma non ci risparmia la fatica. Soffia un vento gelido: tiro su i manicotti, rinuncio alla giacca solo per timore di perdere tempo. Strappi ripidissimi e severi, sfasciumi, pietraia, sentiero scuro e pietre nere, qualche lingua di neve. Ora che posso salire con più calma, mi sento meglio; la nausea è sparita. Paolo lamenta un po' più di fatica, ma mi segue senza gran difficoltà, anche se ogni tanto mugugna. Dal canto mio, provo ad incoraggiarlo: dai che non è tutta così... Dai che poi spiana. In effetti, il secondo tratto, ormai immerso nell'ombra, offre persino qualche brevissima contropendenza. Quel che esaspera, qui, sono i lunghissimi passaggi su pietraia. Ma la cascata di luce ed il vento che rinforza sono i chiari segni della vicinanza del colle: ci arriviamo prima di quanto io pensassi. Al cospetto della meravigliosa parete del Monviso.
Tiriamo entrambi un gran sospiro di sollievo. E' tardi, ma ormai ce l'abbiamo fatta. Se anche il buio dovesse coglierci - non ho idea di che ora sia adesso - da qui a Borgata Castello il sentiero è evidentissimo ed arcinoto, almeno per me.
Un maestoso stambecco accoglie il nostro passaggio al colle. Altri stambecchi, cinque o sei, poco più in basso, nel prato. Da qui in poi, decenza imporrebbe di correre a perdifiato fino a Castello: tuttavia, ammesso che le gambe lo consentano, cosa di cui dubito, il fatto è che non ne ho alcuna intenzione. Procediamo di passo, chiacchierando fitto fitto di lavoro, di corse, di cani. La parete del Monviso accompagna la tortuosa discesa verso il Rifugio Vallanta, con il sottofondo del fragore del torrente. L'entusiasmo ora è alle stelle, anche perché ormai ci sentiamo al sicuro; la lingua resta il muscolo più attivo.
Al Rifugio, indossiamo le giacche ed attingiamo alle nostre riserve alimentari. Non me ne vado prima di aver tormentato un po' il mastodontico San Bernardo, che credo viva qui da sempre, una sorta di Matusalemme in forma canina. La povera bestia sopporta in silenzio.
Dal Rifugio Vallanta a Borgata Castello, non correre è proprio una bestemmia. Il sentiero è quasi una strada bianca, facilissimo, con pendenza tenue. La valle è ormai tutta in ombra; un pastore richiama all'ordine le sue vacche, con urla secche e ripetitive. Cammina e cammina, torniamo al livello degli alberi, passiamo accanto a quel che resta di vecchi alpeggi in pietra, seguiamo il torrente. Man mano che scendiamo, l'aria si fa più pesante, carica di umidità. Mi dispiace tornare a valle. In vista del Lago di Pontechianale, le rampe del sentiero si fanno più severe. Chissà quanto, di tutto ciò, hanno visto i missili in forma umana che abbiamo conosciuto questa mattina. Per carità, ciascuno è libero di intendere la montagna nel modo che più gli aggrada, ma io fatico a capire certi atteggiamenti sempre e comunque esasperati. Credo ci siano persone che improvvisano una gara in stile quattrocento metri ostacoli anche per andare in bagno... Io adoro le gare di corsa in montagna per via dell'assistenza, della possibilità di correre leggeri senza doversi preoccupare di trovare la retta via, ma se corro è solo per sfuggire alla tagliola dei cancelli orari. Forse la mia è solo invidia... Tra me e la corsa c'è un abisso!

Borgata Castello arriva prima di quanto io immagini. Una cinquantina di km, circa 3.200 m di dislivello: "un po' lunghetta", osserva Silvio al telefono, mogio e febbricitante. Lunga no, non troppo, secondo me; piuttosto, si tratta di un percorso molto lento, per cui è opportuno prevedere una partenza all'alba se non prima, onde evitare di aver gente sparsa per i monti a sera inoltrata. E' anche un itinerario molto delicato in caso di maltempo, per via dei tanti punti in cui è facile perdere l'orientamento, oppure inciamparsi malamente. D'altro canto, a mio parere, tolto il passaggio della Via del Postino, non presenta tratti troppo esposti, ad eccezione degli ultimi metri di salita al Colle Traversette, qualora si decidesse di passar da lì anziché dal Buco di Viso. Certo, se alla gara dovesse essere affiancata una prova non competitiva, in quel caso a mio parere sarebbe bene tagliare alcune appendici del percorso, sempre per evitare che qualche partecipante sia sorpreso dal buio lungo il percorso. Vero, c'è un'infinità di gare che prevedono di far notte sui sentieri, ma gestire il buio credo richieda uno sforzo organizzativo eccessivo, per il momento.

Al parcheggio non c'è più nessuno. Poco male, noi due reietti ci siamo goduti la discesa finale in tutta tranquillità ed abbiamo persino recuperato espressione umana in viso. Uno splendido cielo serale conclude degnamente una giornata da favola, a dispetto delle previsioni meteo infauste. Speriamo che la stessa sorte tocchi al giorno della gara. Ci sarò anch'io, in ogni caso... Ma in versione rigorosamente non competitiva. Dopotutto, ormai ho un'età!

domenica 17 giugno 2012

16/17 giugno 2012 - VINADIO-VINADIO IN VERSIONE EXTRALARGE

Appuntamento alle tre e quaranta, notturne ovviamente, al casello dell'autostrada, a Carmagnola. Roberto non batte ciglio: questo già la dice lunga sulla sua tempra di ciclista che non teme nulla. A maggior ragione se si pensa che, non avendo la disponibilità dell'auto, lui ci arriverà da Castelnuovo Don Bosco direttamente in bici... Infatti così lo trovo, più puntuale di me. L'inarrestabile Opel accoglie in un attimo sia la bella bici in carbonio che il passeggero; via sotto uno splendido cielo stellato, destinazione Aisone.
E' da tempo ormai che covo la voglia di un bel giro in bici, come dico io. La passione, messa da parte negli ultimi anni in favore della corsa, vuoi per ragioni di tempo, vuoi per la paura dopo l'ultimo incidente, non si è mai spenta; anzi, pian piano, sembra proprio volersi riprendere lo spazio che per anni le è appartenuto nel mio cuore, senza rivali né limiti. E' vero, quest'anno ho pedalato in bici da corsa solo tre volte, ma si è trattato di tre volte "di peso": due uscite in Langa, rispettivamente da 270 km e 150 km circa, più la Nove Colli da 200 e rotti. Oltre a ciò, ho macinato parecchi km in mountain bike ed un'infinità di ore di rulli, ma questo conta poco...
Le previsioni meteo di ogni possibile sito internet attendibile sono tutte concordi nel promettere, finalmente, un sabato ed una domenica asciutti e caldi, dopo una sequenza snervante di fine settimana freddi e piovosi. Un'occasione da non perdere. Il mio programma prevede un itinerario a forma di "8", con partenza da Aisone e salite dei colli Lombarda, Bonette, Allos, Champs, Cayolle, Maddalena. A metterci i numeri ha pensato Roberto, entusiasia della proposta: circa 300 km per 7.700 m di dislivello in salita.


La mia non si può certo definire una guida scattante e veloce: soprattutto al buio, soprattutto quando ho la responsabilità di un passeggero a bordo. E di due bici, che si sa, per il ciclista "so'ppiezz'e core". Sono già le cinque quando raggiungiamo Aisone, punto di partenza strategico della Valle Stura per via della toilette. Visita alla medesima e sistemazione delle bici: un'irripetibile contumelia squarcia la quiete del paesello, quando mi accorgo che la ruota anteriore del mio fiero veicolo è sgonfia. Ma come, sgonfia? Ho caricato la bici nel cofano ieri sera ed era tutto ok... Non la toccavo da un paio di settimane almeno... Cosa diavolo può essere successo nel cofano della Opel? Lì per lì, mi getto alla furiosa ricerca degli attrezzi per cambiare la camera d'aria; sulla mia indole battagliera per la giornata scende una cappa nera, spessa, oppressiva, perché so già che, quando mi capita di forare, non mi capita una sola volta. Come minimo, due o tre di fila. Insomma, vedo già la gita rovinata. Poi mi fermo per un attimo di riflessione. Insomma, questa benedetta ruota non può essersi bucata nella Opel. E ieri sera, ne sono arcisicura, era a posto. Forse per qualche strano gioco di pressione, s'è sgonfiata nel viaggio, magari perché la valvolina non era avvitata alla perfezione. Scelgo il rischio: prendo la pompa e rigonfio il tutto, o meglio, cedo l'incombenza al buon Roberto che è senz'altro più forzuto di me. Speriamo in bene.


E' ormai quasi chiaro quando ci mettiamo in viaggio. Breve tratto di riscaldamento fino a Vinadio, un po' di saliscendi, qualche brivido in discesa ed i primi camion che arrivano dalla Francia in colonna. A Vinadio, tutto tace; scendiamo fino al fatidico bivio: Colle della Lombarda. Da quanto tempo non passo più di qui in bici. Quasi due anni, credo. Un cavallo al pascolo ci degna appena di uno sguardo. La borgata di Pratolungo è cambiata: molte abitazioni sono state ristrutturate, altre sono oggetto di lavori in corso, condotti, mi par di notare, con ottimo gusto. C'è anche un "bed & breakfast". Si fa il pieno d'acqua ad una fontana, poi via, si sale, sul serio. Il primo "scalino" è ingannevole: la salita a tornanti sembra meno impegnativa; tutto il dislivello che si guadagna è lì, sotto gli occhi; la fatica trova subito un riscontro che dà soddisfazione. Peccato che, dopo la guardiola ormai dismessa in cui, anni fa, si piazzavano le forze dell'ordine per i controlli dei movimenti vicino alla frontiera, la musica cambi. La strada si stende, diventa rettilinea o quasi; morbide curve mascherano appena la pendenza severa, seguendo il corso del torrente impetuoso. Intanto, il sole illumina appena le cime dei monti che chiudono la valle. Lo sento, tutto e subito, lo sforzo di spingere giù i pedali. Sento il peso dello zaino, anche se ho fatto il possibile per scaricarne un po' nel borsello da manubrio; si tratta comunque sempre di peso da spingere su con le mie gambe. Roberto, paziente, adegua il suo passo al mio. Vorrei essere un po' più loquace, ma non ne ho il fiato. La temperatura, per ora, rimane bassa; non è ancora tempo di levare i manicotti. La piccola centrale idroelettrica, un primo tornante ed un secondo, un altro lungo rettilineo, fino a far capolino su quello che io chiamo "il secondo scalino", il tratto intermedio della valle, in cui la strada, guardando dal punto di vista di chi sale, passa "a destra" e si arrampica su per una bellissima serpentina. Noi saliamo, la luce del sole scende e ci viene incontro; è nettissima la differenza di colore tra la montagna ancora in ombra e quella già illuminata. L'aria è limpidissima.
Un insolito viavai di auto è l'unico neo: dove diamine vanno tutti a quest'ora? Un gruppo di persone dall'aria montanara rude si sposta per brevi tratti su un fuoristrada; scendono, inforcano i binocoli, puntano chissà cosa. La strettoia nella valle, in corrispondenza dei ruderi di alpeggi, è una vera galleria del vento; gelido, ovviamente. Un'altra teoria di tornanti ci conduce al lungo pianoro, non ancora territorio delle mucche per questa stagione. Prendo respiro; mamma mia, se la prima salita è tanto dura, chissà le altre... Mi è di grande aiuto il fatto di conoscerne ogni metro.
Il cielo conferma quanto promesso dalle previsioni meteo, è limpido, anche se, volgendo lo sguardo in direzione della pianura, si nota un po' di nuvolaglia sbrindellata. Altro "scalino", un paio di tornanti per giungere nella parte alta del vallone, in vista del Santuario di Sant'Anna. Il profumo degli alberi è intenso; soffia una leggera brezza. Roberto è di buona compagnia; chiacchiera anche se io riesco a rispondere di rado, a monosillabi. Imbocchiamo al bivio la direzione della Francia, per gli ultimi otto km circa di ascesa: tornanti in mezzo al bosco prima, un po' d'acqua e fanghiglia che scorrono sull'asfalto, poi solo più prati e laghetti e marmotte ancora intontite dal lungo sonno. Seguo con lo sguardo, dall'altra parte del vallone, la strada sterrata che dal Santuario risale verso il colle. Mi piacerebbe, prima o poi, percorrerla in MTB.


La luce quassù è piena, cristallina; i prati pullulano di fiori; qua e là, qualche chiazza di neve. Poche auto abbandonate sulle piazzole indicano che qualche escursionista mattiniero è già in cammino. Il colle, visibile già cinque km prima di arrivarci, richiede ancora il tributo di qualche rampa severa; per fortuna, l'asfalto è sopravvissuto alla stagione fredda in buone condizioni. In vetta, solo il camioncino del venditore di panini, rigorosamente chiuso. Ci fermiamo per qualche foto e per indossare giacche e guanti: la discesa sarà lunga e s'infila in un vallone stretto e profondo; dei ventun km che ci separano da Isola, più di metà saranno in ombra. Batteremo i denti.


Prendo un po' di vantaggio in discesa, mentre il compare completa la vestizione. Mi meraviglio di trovare la strada in condizioni eccellenti, ben più larga di come la ricordassi e liscia come un biliardo. Non saranno simpatici, i cugini d'Oltralpe, ma c'è da dire che in moltissime cose ci superano di anni luce; una di queste è la manutenzione delle strade di montagna. Prima di Isola 2000, Roberto mi ha già raggiunta. D'altronde, io sono sempre quella che, per dirla con Ivano il Terribile, in discesa fa le curve quadre... E qui, le curve non mancano di certo. L'itinerario verso Isola è tutto un tornante, per quanto agevole, su uno stradone. M'impegno a mollarli un po', i freni, ma la fiducia è quel che è. Come previsto, la temperatura verso il fondo del vallone scende vertiginosamente; trovo il buon Roberto in attesa all'ultimo tornante, l'unico già illuminato dal sole, appena sopra Isola.


Non manco di rendere omaggio al bagno pubblico di Isola. Ho in testa la mappa GPS di tutte le toilettes di ogni ordine e grado a cui mi sia capitato di accedere; potrei quasi prestare la mia consulenza alla Garmin, qualora i responsabili del marchio decidessero di lanciare un'applicazione apposita. Pochi minuti e si torna in sella, destinazione St Etienne de Tinée, occhio e croce una quindicina di km, da me sempre temutissimi. Leggera e massacrante salita. Roberto non si allontana; assiste paziente alla mia agonia su pedali che sono pesanti come macigni. Ci sarebbe anche la pista ciclabile... Bella, per carità, ma è una di quelle piste concepite per chi va a passeggio nel senso più leggero dell'espressione e costringe ad attraversare più volte la strada: alla fine, un rischio piuttosto che una tutela... Ai piedi della rampa che precede St Etienne, si impone la scelta: sopra o sotto? Optiamo per la stradina sulla destra, senz'altro meno frequentata, che passa nei pressi di un laghetto e di alcune cascine. Solo in apparenza è meno impegnativa; quando meno te l'aspetti, ti piazza una severissima rampa da affrontare con ogni cautela, pena lo spargimento dei bronchi sull'asfalto. Mentre io agonizzo, Roberto va su, agile. Una discesa altrettanto perentoria, un paio di curve a gomito e ci ritroviamo tra le case di St Etienne. Con la sicurezza di chi c'è già stato mille volte, imbocco sicura vie e piazzette, salvo realizzare che non ho la più pallida idea di dove mi stia dirigendo. Amen, St Etienne non è New York; prima o poi da qualche parte andremo a sbucare. Infatti, eccoci sulla strada canonica, non esattamente nel punto in cui avrei voluto arrivarci, ma fa lo stesso. Si torna a fare sul serio: seconda salita della giornata, Col de la Bonette.


Parto piano, molto piano. D'obbligo il rapportino più agile che ho. Mi perseguita l'incubo della mancanza di allenamento. Ce la farò? Non ho molta scelta... Lo zaino pesa, la bici pure, la ciclista non parliamone. Per fortuna il mio compagno di viaggio chiacchiera volentieri, mi aiuta a distrarmi, ma il pensiero dei 25 km che mi separano da lassù... Il traffico, come sempre da queste parti, non manca. Molte auto, innumerevoli moto. Mi disegno in mente le tappe intermedie: il bivio per St Dalmas le Selvage; il pianoro con il parcheggio ed il ristorante; le poche case di Bousieyas. Piano, sempre piano, ma senza sosta. Ricordarsi di dare un po' di sollievo al soprasella, di tanto in tanto, ma con cautela, perché sui pedali "da passeggio" la scarpa, non vincolata, tende talvolta a scivolare. Un cielo meravigliosamente limpido si allarga su di noi, man mano che risaliamo. Ce la faccio, non ce la faccio? Mi basteranno le forze? Che emozione, tornare qui dopo lunga assenza. La "mia" Bonette. Roberto non l'ha mai vista, la Bonette, pur essendoci già passato in bici: destino e combinazione di orari da randonneur hanno fatto sì che, quella volta, fosse buio. Si può dire che l'abbia "sentita", la salita, ma mancava il panorama, il che non è poco.
Oltre il pianoro, brevissimo tratto di pietà della salita, da assaporare con la voluttà con cui il disperso nel deserto gusta l'ultimissima stilla d'acqua della sua bottiglia, si riprende a salire verso Bousieyas. Mentre fatico tra i primi due tornanti che risalgono lo "scalino" prima del minuscolo paese, avverto un rumore sordo, come di un motore molto potente ed un po' sofferente. Guardo giù e non credo ai miei occhi: un TIR, con un unico lunghissimo rimorchio, sta venendo su. Un TIR? Qui? E dove diamine conta di andare? Il bestione si arrampica a fatica; se è vero che qui la pendenza non è micidiale, è anche vero che questa non è certo strada da veicoli di quel peso e di quelle dimensioni... Incagliato tra auto che scendono, auto che salgono, camper e ciclisti sparpagliati, l'enorme veicolo mi sorpassa scaricando una quantità inaudita di fumo nero, il sospiro di angoscia di quel povero motore. Con sorpresa e raccapriccio, mi accorgo che i TIR sono due, uguali, entrambi con la scritta a caratteri cubitali "Aleppo" sul telone del rimorchio. Ma avranno davvero idea di dove stanno andando? O forse hanno imboccato questa strada per sbaglio? Sarebbe grave, perché di qui non hanno alcuna possibilità di invertire la rotta... Non resterebbe loro altra scelta che quella di salire al colle e scendere fino a fondovalle. Ma come se la caveranno con la strettoia di Bousieyas?


Se la cavano, evidentemente, perché, quando ci arrivo io, di lì a pochi minuti, dei bestioni della strada non c'è più traccia. Buon per loro che la salita, come del resto la discesa, è larga e con fondo in condizioni eccellenti. Mi fermo un attimo alla fontana: devo riempire la borraccia, certo, ma la triste verità è che ho bisogno di un attimo di respiro. Un cagnone dall'aria pacifica si aggira tra le tante bici riunite qui come per un tacito appuntamento. Le lattine di Coca e di aranciata, messe nella vasca a raffreddare dal gestore del minuscolo bar, sono una tentazione irresistibile... Ma resisto, torno in sella, c'è ancora tanta strada. Da qui, circa 14 km. Ed è dal tornante appena sopra il paese, che si comincia finalmente a scorgere la meta. Con l'orgoglio un po' ingenuo della "padrona di casa" - su questa vetta ciclistica ho lasciato uno dei tanti pezzetti del mio cuore, quindi è anche un po' mia - mostro a Roberto il panettone pelato, ferito dal lungo graffio della strada che gira intorno alla cima: "Dobbiamo arrivare lassù"... Non si scompone, lui. Del resto, con il suo talento innato per le due ruote, potrebbe ripeterla venti volte di fila, questa salita. E invece rimane pazientemente nei miei paraggi, sopportando il mio passo stanco da mulo sovraccarico. Il traffico di auto e camper e moto ci accompagna anche in questo tratto, fino all'altra mia meta intermedia, i ruderi di Camp de Fourches. Brevissimo tratto in piano, quasi impercettibile. Da qui, altri sette km al colle, otto se si vuol fare il giro della cima ed arrivare effettivamente oltre quota 2.800 m.


Sempre tormentata dal senso di colpa per la mia stessa lentezza, avanzo a Roberto la proposta: "Vai avanti al tuo passo; quando arrivi su, fai il giro della cima. Io mi accontento del colle e scendo giù direttamente; almeno, risparmiamo un po' di tempo". Anche stavolta il mio collega di avventure non ha nulla da obiettare; quattro pedalate ben assestate ed è già lontano.
Subito la salita riprende. Appena oltre la curva, manca poco che io mi ribalti: una raffica di vento freddo e rabbioso mi investe. Il cuore rotola in fondo ai calzini: ma no... Non è possibile... Non ho ancora tribolato a sufficienza, fin qui? Non basta la salita? Lo so, lo so, siamo ormai oltre quota 2.500 m; è normale che soffi il vento, quassù. Ma ho paura delle folate che mi fanno perdere l'equilibrio, delle auto che mi passano vicino. Procedere, con un simile ventaccio, è una pena! E' questo il prezzo da pagare per lo splendido cielo azzurro che la giornata ha regalato? Per fortuna, la strada segue un andamento ad arco, anzi a più archi, uno dietro l'altro; il vento non è sempre di fronte. Ma ormai so che il vento è molto molesto in ogni direzione, tranne quand'è perfettamente a favore.


Non so per quale inspiegabile miracolo, Eolo sembra aver rinunciato ad infierire. Dopo le prime folate, il vento si placa, smette di ruggire. Ho una tale paura di non farcela, ad arrivare fin su, che alla fine i chilometri si rivelano più brevi di quel che sembravano: curva dopo curva, ecco il colle, a poche centinaia di metri di distanza. Scruto la strada che fa il giro della cima: le fanno da ornamento cumuli di neve. Vuoi vedere che non si passa ancora? In effetti, al colle mi pare di scorgere un losco figuro che potrebbe anche essere Roberto, fermo in attesa. Pedalata dopo pedalata, il dubbio diventa certezza: è proprio lui, in attesa, perché non ha potuto cimentarsi nel tour della vetta. La neve blocca ancora il passaggio. Un moto di vile soddisfazione, sia pur represso immediatamente, mi attraversa per un istante il neurone: beh, è vero, non posso andar su nemmeno io, c'è la neve... Quando so benissimo che non ci sarei comunque andata.


Mi copro per benino: si gela, quassù... Poi via, in discesa. Ad un paio di km dal colle, mostro a Roberto la strada sterrata che sale da St Dalmas le Selvage; l'ho già sperimentata, qualche anno fa. Solo gli ultimi 3 km di salita sono sterrati; li ho già assaggiati, qualche anno fa, con la bici per mano ed i sandali da mare, portati su per l'occasione, ai piedi.
Un sonno micidiale mi coglie giù per la discesa: sbadigli da slogar la mascella, schiaffi in faccia per riprendere coscienza. Non è il caso di addormentarsi, con questo traffico... Tantopiù che, a quanto pare, oggi è il giorno dei fenomeni da circo; tra auto e moto di turisti, salgono alcune vetture con la carrozzeria ricoperta di adesivi sgargianti ed i motori senz'altro modificati, ma soprattutto in mano a piloti scriteriati. Questi pazzi si lanciano in sorpassi criminali e in curve su due ruote, del tutto incuranti di chi viaggia nella direzione di marcia opposta: ma dove credono di essere... A Indianapolis? Il primo incontro ravvicinato con un degno rappresentante di questa cerchia di decerebrati mi risveglia del tutto; occhio Gian, a quel che fai tu ma soprattutto a quel che combinano gli altri! E i due TIR? Chissà che fine hanno fatto? Non possono essersi volatilizzati... Evidentemente ce l'hanno fatta, ad arrivare giù. Tutto sta a capire se volessero davvero arrivarci, a Jausiers. In ogni caso, io sì, ci voglio arrivare, possibilmente integra.


Pecore e merenderos si contendono i laghetti nel pianoro, un paio di tornanti più in su del rifugio "Halte 2000". Poi i primi alberi segnano il confine della quota più ospitale; inizia la lunga serie di curve che mi porta giù alle prime borgate, con le insegne degli artigiani del legno e dei venditori di "fromage de chevre et de brebis". Per inciso, ho una gran fame... Jausiers è ormai in vista. All'ultimo curvone prima del paese, strabuzzo gli occhi: tra i tanti ciclisti che salgono, ne addocchio uno che ha, al posto dei polpacci e dei piedi, due evidentissime protesi. E che va su con un passo davvero invidiabile! Altro che le mie gambe in carne ed ossa... La Bonette, a proposito di persone con handicap, mi ha già regalato, ormai tanti anni fa, l'incontro con un fortissimo ciclista con le braccia amputate appena sotto il gomito, per un incidente sul lavoro. Con un articolato sistema di modifiche alla bici, quell'uomo riusciva non solo a mangiarsi le salite senza alcuna difficoltà, ma anche e soprattutto a guidare il veicolo in discesa con un'abilità che io potrei sognarmi anche in cent'anni di esercizio. Chissà che fine ha fatto...


Trovo Roberto accanto alla bella fontana sulla destra. Il tempo di riempire la borraccia - il caldo si fa sentire adesso - e siamo dinuovo in strada, destinazione Barcellonette. Lancio un'occhiata languida al carrozzone di "Nico Pizza", sulla piazzetta di Jausiers: desolatamente chiuso... Una decina di km noiosi e quasi piatti. Alla faccia della pedalata rotonda, il mio incedere è un disastro. Che fatica. In paese c'è il mercato: sfiliamo tra i banchi di frutta e verdura, ma soprattutto di formaggi, con gran pena del mio pancino. Non ci si può fermare... Altrimenti ci metto tre giorni, a tornare a casa! Tiremm'innanz. Ancora un paio di km di piattume, fino al bivio per il Col d'Allos. Per me, il "Tour des Troi Cols" esiste solo in questo verso: Col d'Allos, Col de Champs, Col de la Cayolle. Mai viceversa, perché, nell'altro senso, mi toccherebbe infliggermi una lunghissima e noiosissima, per quanto suggestiva, salita alla Cayolle ed una lunghissima e noiosissima salita, neanche suggestiva, all'Allos. Solo il Col de Champs merita di essere scalato da entrambi i versanti. Roberto non ha nulla da obiettare: ha già messo in carniere il giro nel verso che io non digerisco, quindi approva di buon grado l'idea di provare il senso antiorario.
La salita al Col d'Allos, a quest'ora di metà pomeriggio, rivela subito le proprie armi: non la pendenza, costante ma sempre contenuta... Bensì il clima, ferocemente caldo, soprattutto per le nostre ossa che, fino ad oggi, non hanno ancora assaggiato, per quest'anno, la vera estate. La strada offre ben pochi tratti in ombra; la terra ha il colore dell'arsura, l'asfalto è punteggiato di bollicine nere che crepitano sotto il peso della ruota. Esaurire l'acqua della borraccia, come succede a me, non è una buona idea. Per mia fortuna, non patisco mai molto i morsi della sete; per mia doppia fortuna, la salita è relativamente breve, 17 km circa, scanditi dai cippi bianchi e gialli a bordo strada, per arrivare a poco più di 2.200 m di quota. Chilometri che, con una Lombarda, una Bonette ed un allenamento quasi inesistente nelle gambe, pesano, comunque. Per non parlare dello zaino.
Conoscere la rotta, metro dopo metro, ha anche un lato negativo; non puoi mai ingannarti, nemmeno per un attimo, illudendoti che la vetta sia proprio lì oltre quella curva. La strada risale lenta la valle, poi con un paio di tornanti piega netta verso sinistra; il colle non si vede ma si intuisce. Alla terrazza del rifugio, presa d'assalto da frotte di motociclisti, si può dire d'essere arrivati. Solo più pochi metri...


Roberto è già qui, pronto a vestirsi per la discesa. Tiro un sospiro di sollievo quando scopro che anche lui, come me, è parecchio affamato. Io ho ancora una buona scorta di miele e qualche barretta, ma è di cibo vero che ho voglia adesso... Restiamo d'accordo di tenere gli occhi ben aperti al passaggio nei centri abitati e di tirare i freni davanti al primo supermercato o alla prima "boulangerie" che ci capiti di addocchiare. Così fiduciosi, ci lanciamo giù per la morbida discesa tra i pendii che d'inverno fanno la felicità degli sciatori: ma quegli scheletri di metallo degli impianti di risalita sono così tristi... Per non parlare degli orrendi casermoni turistici che straziano la conca verde su cui stiamo planando. E' proprio qui, tra gli obbrobrii edilizi, che le nostre pupille si inchiodano sull'insegna di un negozietto di alimentari. Una freccia indica una sorta di piccola galleria commerciale: eppure, a dispetto del promettente invito "ouvert", qui di aperto non c'è un tubo. Tutto spento, buio, immobile, silenzioso come il resto di questo paese fantasma, La Foux.
Ci rassegnamo a proseguire la discesa fino ad Allos. La fame distorce i miei ricordi; mi sembra che la distanza che ancora ci separa dal paese sia incolmabile... Non è vero; con mia grande sorpresa, la meta arriva ben prima di quanto mi aspettassi. Senza più bisogno di concordare alcunché, il compare ed io svoltiamo entrambi nella parte vecchia, dove sembrano concentrarsi le botteghe. Con disappunto, constatiamo che qui non sembra esserci traccia di un negozietto di alimentari; in compenso, c'è una panetteria. Mentre scorriamo le pupille sulle torte con la marmellata ed il croccante di mandorle, ecco che Roberto butta l'occhio su qualcosa che... Sembra troppo bello per essere vero. Su un ripiano dello scaffale, giacciono languidi dei panini... Dei signori panini: pagnottone tonde da venti centimetri di diametro, che hanno tutta l'aria di esser ripiene di ogni leccornia. Ci scambiamo una rapida occhiata: se non oggi, quando? Ok: vada per i panini, oltre al dolce ed a due bottigliette di Coca Cola, ovviamente. A quanto pare, la panettiera - antipatica come sono antipatici più o meno tutti i suoi connazionali - non ha un coltello a disposizione per tagliare i panini in due; amen, ci arrangeremo. Usciamo dalla bottega con il morale alle stelle: alla prima panca, ci accampiamo e, con un misto di timore reverenziale e di pura lussuria, ci accingiamo ad affrontare i mostri. Come previsto, gli ingredienti sono innumerevoli: maionese, olive, uovo sodo, insalata, pomodori, zucchini, noci... Insomma, energia a pronta assimilazione per il ciclista. Senza contare l'olio che impregna il pane. Ci sarà un chilo di roba a testa, qui... Eppure, vuoi mica avanzarlo? Tra l'altro, con questo caldo, la maionese rischia di deteriorarsi... Non sia mai. Morso dopo morso, con pazienza e dedizione, i nostri eroi riescono ad avere la meglio sui mastodontici panini, non prima di aver curato la documentazione fotografica dell'evento, finché non giunge il tragico momento di sollevare i deretani dal seggio. Un certo qual senso di pesantezza ci opprime...
Lentamente ci trasciniamo in sella, consapevoli che, con cotanta zavorra sullo stomaco, tra pochi km ci toccherà affrontare le rampe severe del Col des Champs. Se non altro, per un po' non patirò più la fame... Tumultuosi rivolgimenti di pancia accompagnano i pochi km rimasti di falsopiano in discesa, fino al bivio, seminascosto, per la nuova salita. Rapportino e via: qui la pendenza è più severa, ma in soccorso del ciclista giungono un po' d'ombra più fitta ed un buon numero di tornanti che, si sa, alleviano la pena e danno l'idea di "salire di più". Qui l'asfalto è in condizioni più sofferenti, rispetto alla strada del Col d'Allos; del resto, si tratta di una via di collegamento molto meno nota e sfruttata. Crepe, tappeti d'aghi e di pigne, buche, pochissime auto. Una dozzina di km, forse meno. Non vedo Roberto, chissà se ha azzeccato il bivio? Il dubbio è fugato di lì a poco; lo vedo in piedi accanto alla fontana. Ecco, una bella borraccia d'acqua gelida è quel che ci vuole per agevolare la digestione del panino-discarica. Proprio vero, abbiamo stomaci foderati di amianto... Chiunque altro si azzardasse ad affrontare pendenze a doppia cifra dopo aver così impiccato lo stomaco sarebbe già al cospetto di Belzebù. Invece noi risaliamo con molta calma, e molta fatica da parte mia, il fitto bosco, curva dopo curva. Quando torniamo alla luce del sole, le ombre sono già lunghissime. Ancor più suggestivo è il pendio della montagna, d'improvviso pelato come una zucca e che, girata una curva, diventa color del carbone, come se la terra abbrustolita fosse tutto quel che resta di un incendio distruttivo. Scatto ancora qualche foto: sono talmente lenta che quasi quasi non mi è nemmeno necessario impostare l'opzione "foto in movimento"...
Al colle, vestirsi è d'obbligo. L'arsura del giorno, quassù oltre quota 2000, si tramuta in un baleno in brividi; la discesa sarà tutta in ombra. Roberto si avvia al suo passo: lo tormenta la batteria del Garmin, ormai vicina ad esalare l'ultimo respiro. Forse a St Martin d'Entraunes, giù in fondo, gli riuscirà di trovare un bar in cui mendicare qualche minuto di collegamento elettrico. Io scendo piano, a freni tirati, complici anche il gelo alle gambe e la stanchezza. Il sole è sparito dietro le montagne: mi illudo che in realtà non sia ancora il tramonto, che sì è vero, diventa buio ma a casa, in pianura, c'è ancora luce... Il neurone, sfinito, divaga. La discesa è eterna, interrotta da un paio di brevi risalite; la bici va un po' dove vuole. Sera, timore, agitazione. Ancora una velocissima pausa alla bella fontana in pietra e poi giù: al bivio, incontro il povero Roberto, semiassiderato eppure stoicamente di buon umore. Non manifesta nei miei confronti nemmeno il più flebile istinto omicida: ci sarebbe da proporre il suo nome per un'immediata beatificazione!


La salita del Col de la Cayolle mi terrorizza. E' nulla, in sé... Ma, messa in coda a Lombarda, Bonette, Allos, Cayolle, diventa più ostica di una parete liscia e strapiombante. Sarà che a me il crepuscolo infonde un invincibile senso di tristezza... Tra poco sarà buio, sarà freddo, avrò sonno... E se non ce la dovessi fare?
Il mio compare fa del suo meglio per tenermi allegra. La prima parte della salita, una decina di km, forse qualcuno in più, è molto blanda; "pedalabile", la definirebbe un ciclista decente. Un Mortirolo, per me che proprio "non ne ho più". Anzi, in queste condizioni patisco ancor più il falsopiano, rispetto alla salita "vera". Mi consola un po' la sensazione di ritardare la notte, tornando a guadagnare dislivello, ma è un'illusione che dura poco.
Alle prime case di Entraunes, scorgiamo una forma tondeggiante in mezzo alla strada. La forma si sposta pian piano a bordo strada... Ma si decide a dileguarsi solo quando le siamo proprio accanto. Forma molle e pelosa con tutto l'aspetto di un tasso! Stupendo, ma non avrà vita lunga, se continuerà ad aggirarsi con tanta flemma sull'asfalto... Al primo bar, Roberto si ferma. A St Martin non ha trovato soccorso per il Garmin morente; forse qui avrà più fortuna. Io vinco la tentazione di una bevanda calda e proseguo: è meglio che non perda altro tempo. Non ho idea di che ora sia, ma non credo manchi molto alle dieci. Qui comincia il vero Col de la Cayolle, pendenza di tutto rispetto ed ampi curvoni, vegetazione di impronta marittima che pian piano scompare nell'oscurità. Finché posso, evito di accendere la luce frontale; lo sforzo di distinguere le asperità del terreno alla fioca luce delle innumerevoli stelle aiuta a combattere il sonno. Tutt'intorno, un silenzio di pietra, freddo come l'aria sulla pelle. D'improvviso, dalla boscaglia alla mia sinistra si leva un verso indefinibile, una specie di barrito, un trapestìo frenetico, poi più nulla. Recupero al pelo la sbandata; rido del mio stesso spavento, ma pedalo con un briciolo di lena in più. Non passa molto tempo prima che mi raggiunga il mio compare; la sua luce illumina la strada davanti a me. Un po' di carica l'ha rimediata... Poveretto, non sa che, ad andare in giro con me, bisogna procurarsi batterie plurisecolari!
All'ultimo baluardo di civiltà, ultimo paesello abitato prima del colle, il sonno ha già allungato su di me i suoi artigli. Sgranocchio il croccante, un po' per tenermi sveglia, un po' perché, incredibile ma vero, ho ancora fame... Ma non basta. Neppure bastano i racconti delle peripezie ciclistiche di Roberto, pure interessanti e spesso molto divertenti. E neanche il meraviglioso firmamento di stelle. Meno quattro km, meno tre, eppure ho paura di non farcela... E dopo? So bene che la discesa, in queste condizioni, è una tortura. E un rischio. Ma che ci posso fare? Taccio al mio compagno i miei patemi, pesto sui pedali. Questa salita è quasi finita... Ma la prossima?


Il colle. Metto piede a terra ed un vestito di gelo mi ricopre ogni centimetro quadrato di pelle. Prima che il freddo mi congeli le articolazioni, indosso tutto quel che ho, due giacche, guanti sottili ma lunghi, bandana al collo. Il cielo quassù è di una bellezza struggente: ci sarebbe da fermarsi, avendo a disposizione un paio di sacchi a pelo di quelli seri. E invece no. Precedo di poco Roberto in discesa, ma il sonno, bestiaccia crudele, mi aggredisce subito e senza scampo. La voce del compagno d'avventure diventa lontana, la strada si annebbia, le curve non sono più dove mi aspetto di trovarle. Pur con le palpebre sollevate, gli occhi non vedono più. Devo fermarmi almeno un momento, non ho scelta. Lo so, non ha senso quassù, siamo ancora sopra ai duemila di quota, si congela. Non posso, non posso, non ho scelta. La prossima curva non la vedrò. Raccomando a Roberto di andare giù, fermo la bici, mi siedo a terra, così come mi trovo. Appoggio la testa, piombo in un sonno profondissimo. Neanche mi rendo conto che, se dovesse mai salire su un'auto, mi passerebbe sulle tibie. Me ne accorgo al risveglio, dopo pochissimi minuti, quando il freddo mi ha ormai quasi levato il respiro. Rigida, intirizzita, risalgo in sella per disperazione; per un attimo mi sento sveglia, padrona della situazione... Alla luce della frontale, però, distinguo a fatica il nero dell'asfalto dal nero della vegetazione. Nemmeno il più flebile movimento tra i muri del primo minuscolo abitato; solo il fragore del torrente, monotono. Questa discesa è lunga trenta km, terribile da affrontare col sonno. Gli occhi tornano a chiudersi, è tutto buio, tutto muto, tutto uguale. Altri piccolissimi abitati, tutto immobile, come cristallizzato. L'acqua delle fontane scorre per nessuno. Mezzanotte dev'essere passata da un po'. Non voglio, non devo più fermarmi; non so dove sia Roberto, ma di certo mi sta aspettando al freddo, non posso farlo soffrire così... Le pareti del canyon si sostituiscono al nero del cielo, senza stelle è tutto ancor più buio; le palpebre pesano come macigni. Vado giù ripetendomi ad alta voce "Sveglia Gian, sveglia"... E più di una volta correggo bruscamente una curva che un istante prima m'è parsa un rettilineo. Ho la netta sensazione che non arriverò viva al fondo... Lo so, ormai è quasi fatta, ormai manca solo il Colle della Maddalena, ma la stanchezza esaspera le distanze, le paure, i confini. La fortuna, forse anche un po' la memoria scolpita di questo itinerario, mi aiutano ad azzeccare tutte le curve, tutti i ponticelli, anche se rasento il limite. Non vedo l'ora che la strada mi costringa a tornare a pedalare; un minimo di sforzo fisico è alleato nella battaglia contro il sonno. E poi, se potessi levarmi di dosso un po' di questo freddo terribile...


Uvernet, lo stradone, Barcellonette. Un tale cammina a bordo strada, mi guarda stralunato, ricambio lo sguardo allucinato. La luce dei lampioni è un magro conforto. Dov'è Roberto? Per un attimo, un brivido ancor più gelido mi attraversa la schiena: e se si fosse fermato ad aspettarmi lungo la discesa, e se io non l'avessi visto? Tiro un lungo sospiro di sollievo quando, in piazza, scorgo sulla sinistra una forma vagamente umana abbandonata su una seggiola. E' lui! In carne, ossa e brividi... Si rialza, visibilmente sofferente, ma neppure questa volta manifesta nei miei confronti intenzioni violente. Risale in sella, semplicemente. Riusciamo ancora a perderci tra le tre viuzze in croce di Barcellonette e ritrovarci, uno più rintronato dell'altra, sulla strada che va verso Jausiers. Dieci km che a me paiono mille; falsopiano in salita, pedali come macigni, sonno, sonno, sonno. Jausiers in effetti mi ha già vista un'infinità di volte mezza addormentata: con le varie edizioni della Randonnée Fausto Coppi, son passata di qui sempre a notte fonda o alle primissime luci dell'alba. Ricordo perfettamente quella panchina su cui mi sono accasciata nel lontano 2007... Questa notte, purtroppo, non va meglio. Il sonno non si può dominare, men che meno in bici, quando un attimo di mancanza di coscienza può costare carissimo. Di veicoli, a quest'ora, ne passano ben pochi, ma qualcuno c'è... Non ce la faccio. Se non mi fermo, cado, non ho scelta. All'uscita del paese, sono costretta a fermarmi. Lascio le chiavi della Opel a Roberto: lui non patisce, sta bene; che vada su e scenda subito ad Aisone, in auto potrà riposarsi un po' e scaldarsi. Il suo fanalino rosso scompare nella notte, mentre io quasi cado di peso contro il muro di un'officina, forse un deposito. Schiena e testa appoggiate in verticale, gambe allungate, braccia conserte. Mi addormento.
Il rombo di un Tir mi sveglia, ma non è ancora ora. Ho un freddo becero, ma troppo sonno. Richiudo gli occhi, li riapro ancora, spazi di pochi minuti probabilmente, altrimenti sarei già congelata. Coraggio Gian, è ora di rimettersi in marcia. Quasi mi tocca prendermi a calci per costringermi a tornare in sella. Freddo, sete, tanta sete, borraccia vuota. Mi trascino fino a La Condamine, lentamente, troppo lentamente, come se avessi un pilota automatico, ancorché molto scarso. Il fragore del torrente rimbomba contro le pareti; in certi punti sembra quasi che scorra alla mia sinistra, anziché a destra. Sosta per prendere acqua alla fontana, altra sosta proprio all'attacco della Maddalena, di natura "tecnica". Il dolore al soprasella, finora, se n'è rimasto in disparte, ma adesso reclama la sua fetta di attenzione; con la prima rampa, comincia la tortura. Pazienza, Gian. Diciassette km ed è davvero finita. Sedici, quindici. Mi alzo con fatica sulla vallata silenziosa, bramo i cippi bianchi e gialli che segnano i km faticati, mi disegno in mente la strada, curva dopo curva. Anche questa volta, il sistema che segnala la frana ormai secolare non ha nulla da rilevare; passo, incurante del divieto di transito alle bici, tiro avanti. Potrebbe venir giù la montagna intera; io voglio andare a casa... Luci di Meyronnes, ancora silenzio, aria immobile, quasi che il vento abbia paura di rompere l'incanto facendo frusciare le foglie. Le mani stringono il manubrio, i piedi scoppiano nelle scarpe, anche se sono comodissime scarpe da corsa e non quelle specie di armi di distruzione di massa che sono gli scarpini da bici. Un infinito traverso, un paio di camion, ancora stelle. Chissà se il mio compare è già all'auto?
Salgo con fatica, ma sono felice, ora che posso ragionevolmente credere di farcela. E che diamine, al colle ormai ci arrivo, a costo di arrivarci a piedi... Non ho più l'allenamento di un tempo e mi dispiace, però sono ancora in grado di combinare numeri del genere. E' meraviglioso... E bravo questo corpaccione!
Anche a Larche, tutto tace. Solo gli irrigatori automatici delle aiuole disobbediscono, non capiscono nulla della poesia di questa notte. Il sonno cede spazio alla felicità, almeno per un po'... Maison Meane: una minuscola finestra illuminata scalda il cuore. Non è un'impressione: il cielo è già meno nero. Una sfumatura impercettibile all'occhio, ma evidente all'animo di chi attende con ansia febbrile la luce del giorno. L'alba mi coglie sugli ultimi tornantoni che precedono il valico, mi riempie di gioia ma chiede il pegno di un freddo ancor più pungente. Prati, fiori, chiazze di neve, il gabbiotto del venditore di liquori, le figure sfuggono all'oscurità, quasi si affollano a richiamare la mia attenzione. La Valle Stura, ormai quasi casa. Via, in discesa: prima le placide acque del lago, poi il pianoro colonizzato da camper di ogni foggia, dimensione e nazionalità. La Fontana di Napoleone, con la sua vasca di pietra tristemente spaccata ed il frammento che giace lì, appoggiato alle sue radici. Ampi e lunghi tornanti verso Argentera, mentre il cielo assume meravigliose tonalità di rosa. Una donna anziana è la prima presenza umana che incontro, sulla soglia di una vecchia casa in paese. Poi il vento, contrario, manco a dirlo. Raccontatemi pure quel che vi pare circa il flusso delle correnti in montagna; io so solo che, in presenza di un ciclista, il vento è contrario. Sempre, inderogabilmente, è una verità di fede. Ed è freddo...


Le pecore hanno colonizzato lo scheletro di obbrobrioso cemento abbandonato al Villaggio Primavera, si aggirano persino sulle scale, brucano chissà che. Un intenso profumo di croissant mette a dura prova la mia forza di volontà. Il rettilineo lungo, veloce, gelido, e poi le Barricate, il paravalanghe, la galleria. Un film che mi scorre davanti agli occhi senza bisogno di aprirli... Ciononostante li tengo ben aperti, onde evitare di tornare su al colle spalmata, come direbbe un mio terribile amico, "sul radiatore di uno Scania". La luce è un toccasana contro il sonno, anche se non posso dire che i sensi siano perfettamente sotto controllo. Pontebernardo, Pietraporzio, Sambuco. Due brevi risalite che paiono rampe insormontabili, per non parlare poi della famigerata "erta" di Vinadio. La Valle Stura, per l'ingenuo ciclista che sogna una discesa, è infida e maligna. Vinadio, qualche curva, qualche camion. Il campanile romanico di Aisone, il semaforo. Quasi 300 km e circa 7.000 m di dislivello nelle gambe. La piazzetta, la Opel. E, nella Opel, una forma di vita, sia pure momentaneamente fuori servizio. Lo sveglio, mio malgrado; chissà da quanto tempo è qui... Un'eternità.
Prima che il sonno prenda il sopravvento, salto al volante, destinazione casa. Ce la faccio, sia pure con l'aiuto di un robusto caffé doppio nei paraggi di Cuneo. Povera barista: immagino lo sconcerto nell'accogliere, come primi clienti della giornata, due zombie puzzolenti con le occhiaie... Il viaggio finisce a Carmagnola: per me, ma non per Roberto, che deposito alla stazione ferroviaria. Gli toccherà un tratto di viaggio in treno ed un altro tratto, ancora, in sella. Ma lui non patisce nulla, non se ne accorgerà nemmeno!