lunedì 11 marzo 2013

3 marzo 2013 - MTB da Ceva al mare e ritorno

La rubrica de "La Stampa" dedicata al meteo aveva previsto, per questa domenica, un "anticipo di primavera", con la garanzia di sole e temperatura mite anche per il freddo Piemonte. Sarà che è fin troppo facile dare credito alle promesse che si accordano con le speranze, anche se l'evidenza dei fatti è contraria... Fatto sta che mi sforzo di ignorare quel trattino "-" davanti al numero 1, là dove la Zafirona mi informa dei rigori al di fuori dell'abitacolo. E non è che, anche facendo finta di non vedere, la faccenda si presenti poi molto più rosea... Il paesaggio assume un aspetto sempre più glaciale, man mano che mi avvicino a Ceva; ormai è giorno fatto, ma la luce sembra non esistere in questa landa grigia e bianca, con la foschia sospesa a mezz'altezza. Il freddo che non può ancora penetrare attraverso i vestiti, finché resto protetta in auto, mi gela le ossa attraverso gli occhi. Ceva, Millesimo, Osiglia, Calizzano, paesi che, nella mia memoria di ciclista e di podista, si associano da sempre ai peggiori rigori mai patiti, ad esclusione, forse, di qualche scorribanda invernale verso Pian del Re con relativa discesa lunghissima, gelida e tutta in ombra. E' marzo ormai, ma forse a quelli di qui non l'ha detto nessuno. Il furgone blu elettrico di Matteo è già in attesa sulla piazza accanto all'ospedale; io ci arrivo in ritardo, sia pure di pochi minuti: non è da me. Il guaio è che stamattina, come già da qualche tempo a questa parte, il suono delle due sveglie, per giunta puntate a pochi minuti di distanza l'una dall'altra, non è bastato a riportarmi ad un livello di coscienza sufficiente per buttare le gambe giù dal letto. La palpebra, appena sollevata a mo' di feritoia, è ricaduta pesantemente, salvo poi schizzare su mezz'ora più tardi, quando avrei già quasi dovuto essere in viaggio. Sto scontando un sonno che affonda le sue radici nei secoli...
Meno male che a scaricare la mia fida mountain bike, per l'occasione equipaggiata con i copertoncini slick, provvede Matteo. Quando si tratta di meccanica, anche la semplice sistemazione delle ruote, approfitto volentieri dell'altrui buona volontà; lui poi è rapidissimo, in un attimo ha già sistemato tutto, là dove per me sarebbe come cimentarmi con il cubo di Rubik. Al momento di saltare in sella, sono già ibernata. E meno male che non ho ceduto alla tentazione dei pantaloni tre quarti!

Matteo tenta di confortarmi: con il passare delle ore, ne è sicuro, il clima sarà migliore. Certo, ne sono convinta, quando saranno passate tutte le ore da qui al mese di giugno. Per oggi, non mi sento di sprizzare ottimismo. Si parte, direzione Perlo - Nucetto lungo una stradina secondaria che "punto" da un po'. Sono curiosa di vedere dove va a finire, o meglio, di capire se andrà a finire là dove penso io. Un tratto l'ho già esplorato correndo a piedi, la scorsa primavera.
Si affronta una blanda salita, un paio di tornanti in ombra; l'asfalto è viscido, l'erba a bordo strada bianca di brina. La fatica di andar su maschera, per ora, il freddo, pur non essendo abbastanza intensa per impedirci di menare la lingua. Non ci si vede da un po'... Dobbiamo aggiornarci sulle ultime novità!
Un brevissimo tratto di discesa, poi la strada e l'ambiente intorno assumono l'aspetto di vera montagna, anche se qui siamo a quota tutt'altro che elevata: una rampa, un costone di roccia sulla destra. Appena oltre la curva, ci troviamo davanti un mucchio di detriti ed anche un pietrone, che hanno tutta l'aria di essersi appena staccati dalla contorta parete sulla destra, fradicia e friabile. Sopra le nostre teste, l'abitato di Malpotremo che, se non erro, è frazione di Perlo, con il suo campanile, le poche case, il manifesto degli annunci mortuari. Alcuni cartelli stradali indicano Nucetto e Garessio, oltre a Perlo; quindi, da qui si raggiunge effettivamente la strada di fondovalle che va da Ceva verso Ormea.

Oltre l'abitato, la salita si attenua; il cielo è di uno splendido colore azzurro intenso, ma la luce qui non ci raggiunge ancora. Si gela... Persino Matteo, è tutto dire, si lamenta per il freddo alle mani, nonostante quelle specie di sacchi di patate in cui le ha avvolte. Per me, in questo momento le mani sono una delle poche parti del corpo che non danno problemi... Ci pensano i piedi, due pezzi di ghiaccio. In effetti, avrei dovuto indossare un paio di calze più pesanti: ne avevo l'intenzione, in verità, ma stamattina, per la fretta, ne ho trovata una sola... Chissà dov'è finita la gemella. Amen, ormai è fatta.
Da quassù si vede un po' di panorama, ma tutto grigio, smorto. Non una gemma, nemmeno a pagarla; per terrà, umidità, residui di sale, talvolta ghiaccio.

Raggiungiamo un bivio: a sinistra, direzione Perlo; a destra, Nucetto e la strada statale. Scelgo la seconda; sono più sicura circa la destinazione. Infatti, qualche chilometro di gelida discesa ci conduce, completamente ibernati, all'incrocio con la strada di fondovalle. Anche Nucetto è silenziosa e deserta, benché siano accese le luci del bar: del resto, immagino che gli abitanti di questa valle passino l'inverno in letargo; non credo si possa sopravvivere a mesi di questo clima infame. Giove Pluvio è persino più ostile qui che a Carmagnola, nel regno della nebbia; almeno, da noi, non ci sono le montagne ad impedire il passaggio di quel po' di pallida malatissima luce invernale.

Meno forsennatamente i pedali lungo lo stradone, non per un improvviso impeto agonistico quanto per portare un briciolo di calore alle estremità. "Sei km a Bagnasco - si lamenta Matteo - ma sembrano trenta": ci credo, per lui dev'essere anche peggio. Adattarsi alla mia andatura significa, per lui, viaggiare piano e scaldarsi poco. L'unica soddisfazione è che, in questo momento, forse può capire quel che proverò io, che sono una freddolosa cronica senza speranza, per quasi tutto il giro di oggi...

Bagnasco, finalmente. Al semaforo, si svolta a sinistra, con molta cautela per il fondo ghiacciato. Se a Ceva c'erano tre gradi sotto zero, direi che la situazione termica non è molto più conciliante adesso. Primo colpo di clacson della giornata: ecco il primo imbecille motorizzato... Ma cosa suoni, microcefalo che non sei altro? Non lo vedi che hai l'intera strada per te, ci passeresti con un camion a rimorchio! Normale, è torinese, osserva Matteo... Il guaio è che l'idiozia è una qualità molto ben distribuita.

Si va su per il paese, finalmente in salita. Ancora gelo, brina, ombra. Bisogna lasciarsi alle spalle un po' di tornanti, prima di conquistare qualche timido raggio di sole ed un po' di visuale sulle montagne intorno, bianche e nere e tristi. Ma le gambe girano bene, per fortuna. E' un'eternità che non pedalo; saranno trascorsi due mesi dall'ultima uscita in bici degna di questo nome: sarà merito del corso di spinning? Ormai è qualche settimana che lo frequento, a Villastellone, con gran fatica ed altrettanta fiducia. Il colle dei Giovetti è già sotto le ruote: comincia qui, con mio sommo orrore, la discesa verso Calizzano, che non sarebbe poi in sé così lunga, ma diventa eterna e tragica con questo clima. Scendo con cautela ed a freni tirati nonostante il senso di sicurezza che mi dà la MTB: per quanto il mezzo sia stabile, non può far miracoli su quelle angoscianti colate di acqua che nel pieno della giornata si allargano dai cumuli di neve sporca a bordo strada e nella notte gelano, formando vere e proprie insidiosissime lastre. Persino Matteo, che in bici è funambolo su qualsiasi terreno, è più prudente del solito. E fa freddo, un freddo dannato, che prende mani, piedi, tronco... Ma perché diamine non me ne sono andata a correre oggi? E perché nessuno ha ancora pensato di produrre una maglia in grado di riscaldarsi, che so, con l'energia prodotta dalle ruote della bici? Ma soprattutto, perché questa dannata strada è così lunga? Chi ha aggiunto dei tornanti?

I tetti della frazione sono bianchi di brina. Qualche camino fuma; i più sono immobili e gelidi. Ancora ghiaccio, a tradimento, sulla strada. Matteo avrebbe proposto la deviazione per il colle Quazzo e la discesa a Garessio, ma io non sento ragioni: voglio raggiungere il mare per la via più breve possibile e fare scorta di un po' di tepore. Da Calizzano si tira dritto verso il Colle del Melogno: torniamo a salire, se non altro ci siscalda, ma il panorama lunare non cambia. Ancora neve ed alberi spogli; grigi tronchi lucidi dei faggi; candelotti di ghiaccio aggrappati alla parete di terra, radici e pietra. Vero, sembra che si stiano sciogliendo, ma che triste visione. Il sole quaggiù non arriva ancora, tra la montagna ed i rami del bosco. Pochissimo movimento, qualche auto, un paio di motociclisti coraggiosi che procedono, anche loro, con le ruote di piombo.
Le barrette al gusto di parmigiano, residuo di qualche pacco gara di corse in Emilia Romagna, si rivelano a dire poco disgustose, e sì che io non sono una dal palato fine... Inutile dire che quell'inceneritore a pedali che viaggia al mio fianco le fagocita senza alcun problema. Io vado di Mars, una garanzia... Anche se saranno gli ultimi, la scorta di casa da smaltire, visto che ho deciso, per il futuro, di provare a passare dall'alimentazione vegetariana a quella integralista senza ingredienti di origine animale, in particolare latte e uova. E' un po' come se mi godessi l'ultima sigaretta prima di smettere... Anche se, non posso negarlo, per il Mars mi dispiace. Una delle maialate più libidinose che la mente umana abbia mai potuto concepire!

Come sempre, passare sul versante del mare è come aprire una porta che dà su un altro mondo. Alle spalle un film in bianco e nero, lento e sonnacchioso; davanti, una danza di luce e di colori. E un po' di tepore, anche se siamo pur sempre a mille metri di quota: il mare si vede già da quassù. Purtroppo, il sole non può scacciare nel giro di mezz'ora il freddo che mi si è insediato nelle ossa e nelle giunture; anche questa discesa è fonte di patimento, sia pure nulla al confronto della tragedia giù dai Giovetti. Freno anche qui più del necessario; il mio neurone per oggi si è incantato in modalità "attenzione al ghiaccio", anche se qui il ghiaccio sull'asfalto è solo un ricordo. Quando patisco il freddo, mi si accentua anche la paura, come se fossi davvero irrigidita nelle braccia e nelle gambe. Così il povero disco continua ad ululare per tutti i km che conducono dal colle al mare. Mi stupisco di quanti ciclisti si cimentino, oggi, nell'ascesa al Melogno: in bici da corsa, in mountain bike, qualche coraggioso con le pesantissime bici da downhill. Ammirevoli, soprattutto questi ultimi: il brivido della discesa se lo guadagnano con la giusta dose di fatica, anziché con un comodo viaggio in furgoncino.
Man mano che i pini lasciano il posto alle palme, ci avviciniamo a Gorra; da lì, il bivio per Borgio Verezzi mi concede un paio di tratti di salita anche ripida, in cui finalmente posso scaldarmi un po'. Matteo approfitta del successivo tratto in saliscendi per rimpinzarsi e foraggiare anche me: incredibile come io abbia a che fare con persone che temono per me la minaccia costante delle carenze nutritive, quando la mia stazza fa concorrenza alle navi della Costa Crociere... Dev'essersi messo d'accordo con mia madre, Matteo. Lei non perde occasione per infilarmi nel frigo derrate alimentari di vario genere, di solito in quantità sufficiente a sopportare un assedio di anni; lui mi mette continuamente sotto il naso porzioni di panini, biscotti, pezzi di cioccolato. Insomma, non dico di essere un motore Euro 3, ma non consumo così tanto!

Gli alberi di mimosa si impegnano in un timido tentativo di fioritura, ma l'impressione è che nemmeno qui in riviera la primavera abbia fatto sinora grandi passi. La temperatura è certo migliore dei tre gradi sotto zero di questa mattina a Ceva, ma è lungi dal mito della calda Liguria. Non mi viene voglia di levare la giacca invernale nemmeno lungo i cinque o sei km di infernale Aurelia: in compenso, Matteo, che pedala davanti a me, si leva la giacca ed il giacchino, infila il tutto nello zaino, si rimette lo zaino in spalla, senza mai smettere di pedalare. Non mi stupirei se adesso estraesse l'asse da stiro e la Vaporella. Seguo le operazioni restando qualche metro più indietro, con il terrore che una buca, lo scarto di un auto, un pedone che si sposta improvvisamente sulla strada lo colgano con le mani lontane dal manubrio... Per il bene delle mie coronarie, sarebbe meglio che il temerario si dedicasse a questo genere di performance quand'è alle mie spalle.

Lungo l'Aurelia viaggio con i nervi a fior di pelle e mille occhi attenti a tutto, alle auto, ai pedoni; questo non basta a farmi rischiare di disarcionare una ragazza in motorino in una rotonda... Mea culpa, questo marasma non è proprio roba per me. Il bivio per Toirano è una liberazione...
La leggera salita fa sì che, tra un cambio e l'altro, salti fuori un problema che si era già presentato ma che avevo, come mio solito, rimosso, a mò di struzzo con la testa nella sabbia: ogni quattro o cinque pedalate, il pedale fa un mezzo giro a vuoto. Che barba... Il cambio di questa bici è una iattura, si svirgola di continuo. O almeno, io la vedo così... Matteo mi fa sommessamente notare che la mia catena ha avuto l'ultimo incontro con l'olio ai tempi delle Guerre Puniche e che, se protesta, tutti i torti non li ha... Senza contare il fatto che almeno due corone anteriori su tre sono ormai consumate. Insomma, o di riffa o di raffa, è sempre colpa mia... Ma possibile che non esista una bici su cui basti pedalare? Perché questa piaga della manutenzione?

Bah... Per oggi il mezzo è sopravvissuto fin qui; speriamo sopravviva ancora. Comincia una nuova salita, con gran gioia del mio sistema di termoregolazione: persino io, qui, mi tolgo la giacca. La pendenza non è mai eccessiva; le gambe, dal canto loro, girano con una facilità di cui io stessa mi sorprendo. Solo, non mi fido troppo a salire in piedi sui pedali; se la catena dovesse giocarmi il tiro della mezza pedalata a vuoto, mi ritroverei lunga e distesa sull'asfalto. Una bella salita tra tornanti ben esposti al sole; pochissimo traffico, quasi nulla. Peccato solo per i ciuffi di nuvole che riescono a sfuggire alla gabbia del versante piemontese e si allargano fino a coprire, di tanto in tanto, i raggi diretti del sole. Subito un brivido percorre le braccia e la schiena... Man mano che si sale, il tepore del mare resta un ricordo e solo la fatica della lotta contro la forza di gravità mantiene nelle ossa una temperatura nel limite della decenza. Gambe, fiato, cuore, polmoni, tutto lavora a meraviglia. Ho voglia di tornare a pedalare con un po' di costanza... Di lasciarmi alle spalle quel periodo nero, ma proprio nero nero, che prima o poi travolge tutti nel corso dell'esistenza. So che non è finita e che probabilmente non finirà mai del tutto, ma credo sia arrivato il momento di riprendere il controllo e di riconoscere a certe cose, a certi episodi, a certe persone il valore che effettivamente meritano, nel bene e nel male. Credo di aver toccato il fondo, nei lunghissimi bui mesi passati; ora non mi resta che risalire, metaforicamente ed anche nella realtà. E riprendermi le mie ragioni di vita, la corsa, la bici, anche se il lavoro ormai lascia poco tempo e poco spazio.
Raggiungiamo il paese di Balestrino, suggestivo, abbarbicato sulla montagna, con l'unico neo di un'orrenda chiesa di architettura moderna, improbabile ed inguardabile. Bellissimo anche l'altro paesello lungo il nostro itinerario, Castelnuovo di Rocca Barbena. Benché abbia già girato questi posti in lungo ed in largo, ho ancora un po' di confusione circa la geografia; ogni tanto mi rendo conto, con un'illuminazione, di trovarmi un un luogo noto e già visto... Salita e chiacchiera proseguono ancora per un po'; la discesa, annunciata da Matteo ma che speravo, in cuor mio, scomparsa, mi interrompe il ritmo ed il calore. "Dobbiamo scendere per circa trecento metri", che dramma... Per andare ad intercettare la strada del Colle San Bernardo, che ci riporterà in quel di Garessio.

Finalmente, ripresa la salita, trovo un luogo di mio gradimento per la sosta tecnica che ho necessità di concedermi da almeno tre ore... Faceva troppo freddo, prima. Non potevo certo esporre le pudenda a cotanto gelo. Così, mentre mi addentro nel fitto del bosco, Matteo si dedica ad ispezionare la meccanica della mia MTB. Non appena riemergo dalla vegetazione, mi chiama con voce a metà tra l'indignato e l'incredulo, per farmi notare che le maglie della catena, se piegate con le dita, non si distendono più... Insomma, ho capito, c'è bisogno di un po' d'olio, ecchessarà mai. Strano che non m'insulti quando gli propongo di sopperire, per il momento, con un po' d'acqua. Si riparte per l'ultimo tratto di questa lunga e bellissima ascesa; a bordo strada ricompare la neve, che stride un po' con il concerto di cinguettii tutto intorno.

Sul colle ritrovo Matteo, che aveva preso un po' di vantaggio. L'idea era di imboccare una strada che avrebbe dovuto condurci, da quassù, direttamente al Colle Quazzo, per poi scendere da lì a Calizzano e risalire dal Colle dei Giovetti. Ma, saggiamente, Matteo desiste: "Meglio scendere a Garessio - osserva - l'altra strada rischia di diventare sterrata". So benissimo che, da solo, non si sarebbe nemmeno posto il problema e non avrebbe esitato a lanciarsi in esplorazione... Ma ormai conosce l'ira funesta che scatenano in me le situazioni ed i percorsi più impervi: prevale in lui l'istinto di conservazione. Quindi, rivestiti di tutti i possibili strati di abiti, ci avviamo giù per la strada principale, rassegnati ad un'altra dose industriale di freddo, perché l'aria di mare ormai è rimasta di là. Asfalto umido e residui di sale; la temperatura è salita un po' rispetto a questa mattina, ma non poi così tanto. Il microclima di questa valle è davvero una disgrazia! Ed i km scorrono lentissimi, con il rammarico della cioccolata calda che avrei avuto piacere di godermi su al colle: ma del bar resta solo l'edificio, sprangato e dall'aspetto polveroso. E pensare che, dietro a quella finestra, tanti anni fa me l'ero concessa davvero una bella cioccolata, verso la fine di una pedalata mica da ridere. Pazienza...

Anche qui finisco per sconvolgere il piano di viaggio del buon Matteo: vorrebbe risalire, lui, al Colle Quazzo e poi ai Giovetti, e da lì a Bagnasco, infine a Battifollo ed a Ceva. Sarebbe un gran bel finale, non lo metto in dubbio, ma, al mio ritmo, raggiungerei l'auto col buio o quasi... E, soprattutto, col freddo dannato che al buio si accompagna. Preferisco un più modesto percorso da Garessio a Bagnasco, con salita a Battifollo e rientro a Ceva, anche se il mio compare storce il naso per via del tratto di qualche km da percorrere sulla strada di fondovalle. In effetti, qualche auto di troppo ed un curioso personaggio che butta palate di neve in mezzo alla strada per spostarla dall'ingresso di casa ci accompagnano verso la ridente località tropicale, mannaggia la miseria, di Bagnasco City; se non altro, è un bel tratto di pianura al sole. Appena oltre il semaforo, ci attende il bivio per Battifollo. Si comincia a salire per rispondere alla fatidica domanda di sempre: ma la mezza torre di Battifollo, mezza nel senso verticale, sarà ancora in piedi? Chissà. Qualche strappo, qualche tornante; Matteo si lancia in un allungo, mentre io resto, come sempre, ostinatamente fedele alla mia marcia da carro funebre. La luce si attenua; non sono più le brevissime giornate di dicembre, ma il sole non riesce ancora a farsi rispettare. L'entusiasmo dei suoi raggi si spegne sui rami ancora morti, scuri e tetri del bosco; non un fiorellino, nemmeno una gemma.

Le gambe girano ancora gagliarde, nei limiti delle mie possibilità, e la mezza torre di Battifollo compare prima del previsto. E' un paesaggio davvero suggestivo: credo lo ritenga tale anche l'autista del fuoristrada che viaggia in senso contrario a me, che prima invade un po' della mia corsia e poi si ferma. Quella torre è una beffa alle regole della fisica; il suo aspetto, poi, nella grigia stagione invernale è ancora più inquietante.

Matteo spunta in discesa, già ben vestito e coperto; di lì a poco, in paese, mi fermo anch'io: tempo di indossare tutto quel che ho, sotto la guardia attenta e chiassosa di tre o quattro pasciutissimi cagnetti in un cortile. Direzione Ceva, l'ultima discesa, sempre troppo lunga. Fin troppo facile prevedere che quel cagnotto, legato alla padrona da un guinzaglio allungabile, attraverserà la strada... Tempo di raccomandare a Matteo "Occhio!", che la bestiola è già dall'altro lato della carreggiata rispetto alla madama molto svampita e poco responsabile: in mezzo, il cavo del guinzaglio. Roba da disintegrarci tutti quanti, umani e cani... La discesa prosegue con cautela; ghiaccio non ce n'è più, ma l'asfalto è viscido di fanghiglia e sale. E fa freddo... Questa è una delle poche circostanze in cui la vista dell'autostrada mi è di gran conforto. Oltre il cavalcavia che la sorpassa, siamo a destinazione: la rotonda, un passaggio in paese e su per l'ultimo strappo, dove un simpatico automobilista si attacca al clacson per ottenere spazio, salvo poi fermarsi cento metri più avanti per rispondere al prepotente richiamo della vescica. Mi vien quasi da fare al suo indirizzo il gesto del pollice e dell'indice tesi, paralleli e con i polpastrelli molto vicini... Ma non è il caso di attaccare briga, proprio alla fine di una bella giornata. Anzi, mi concedo persino la progressione sull'ultimo tratto della salita, giusto per accumulare un briciolo di calore prima di raggiungere l'auto. La Zafirona ed il furgone blu elettrico sono ancora lì in attesa. 145 km e circa 3.200 m di dislivello in salita; la fame si fa sentire: meno male che la mamma di Matteo ha pensato alla torta salata!




10 marzo 2013 - DI CORSA DA CEVA A SPOTORNO

Il marchingegno automatico del casello autostradale di Ceva, oggi, dev'essere in confusione: invece di mangiarselo, come fanno di solito tutti i caselli o perlomeno quelli che frequento di solito, mi restituisce il biglietto che ho appena inserito. Purtroppo, però, i soldini se li tiene, e neanche pochi: cinque euro e settanta per pochi km di autostrada, credo sessanta. Ceva mi accoglie con una temperatura che, dato il clima abituale di questa sezione distaccata di Antartide, si può quasi definire tropicale, ben quattro gradi alle cinque del mattino passate da poco.
Parcheggio la Zafirona nella solita piazza centrale, appena sotto la stazione ferroviaria, in modo da ridurre al minimo il tragitto che dovrò percorrere a piedi, stasera, con le gambe disintegrate. Giacca, berretto, guanti, zaino: pronti, via, si parte, alla luce giallognola e fioca dei lampioni, in compagnia di un paio di viandanti notturni dall'aspetto a metà tra stravolto ed addormentato. Tempo di percorrere duecento metri e... Alt, indietro tutta, il telefono è rimasto in auto! Fosse solo per me, potrebbe restarci, in auto; anzi, già che ci sono, lo catapulterei direttamente nel Tanaro, visto che ce l'ho qui a disposizione... Ma la mamma è sempre la mamma, potrebbe aver bisogno e in ogni caso vuole sapere come va in tempo reale! E poi ci sono i Tittoni, ho necessità di sapere notizie dei Tittoni almeno un paio di volte nella giornata.

La seconda partenza è quella buona. Supero il viale centrale del paese, in direzione di Mombasiglio. Nel silenzio dell'ora mattutina, mi giungono le voci concitate di quella che ha tutta l'aria di essere una lite: poco più avanti, quattro o cinque energumeni davanti alla saracinesca sprangata di un bar altercano con fare minaccioso. Passo oltre con un certo timore, sperando che nessuno si interessi a me... In effetti, credo non si accorgano nemmeno del mio passaggio. Supero il ponte e la rotonda e procedo in direzione di Battifollo; la strada sale ed offre un bel panorama sulle luci di Ceva e del circondario. Di certo, lo spettacolo notturno è più suggestivo di quello diurno: eccezion fatta per il centro dell'abitato, tutto il resto è un'accozzaglia di capannoni e strade.

La mia presenza suscita la viva indignazione dei cagnetti e cagnoni a guardia dei giardini, probabilmente poco avvezzi ai viandanti mattutini. Posso solo immaginare il fremito di paura dei proprietari di casa, svegliati di soprassalti dall'abbaiare furioso dei quattrozampe. Di questi tempi, corro quasi quasi il rischio di essere impallinata, a maggior ragione man mano che mi allontano dall'abitato e percorro tratti più isolati.

La strada sale decisa appena superato il cavalcavia dell'autostrada. Qui, all'aperto, il termometro dev'essere sceso parecchio; un refolo di vento contribuisce a rendere più acuta la sensazione di freddo. Affronto il primo tornante all'interno della curva: il piede, appoggiato all'asfalto con la decisione dell'andatura di corsa, scivola; l'altro piede lo segue a ruota: a momenti mi ritrovo lunga e distesa per terra... Meglio tener conto del ghiaccio. La neve, abbondante a bordo strada, si scioglie durante il giorno e forma colate d'acqua che di notte si trasformano in un micidiale strato scivolosissimo.

Non c'è bisogno della luce frontale; la luna non si vede, ma la striscia bianca a bordo strada è più che sufficiente ad indicare la direzione. Inoltre, spesso sulla strada si affacciano case e cortili. Nel buio delle pareti spicca già qualche quadrato luminoso, qualche autoctono mattiniero come me. Mi sembra quasi di sentire il profumo del caffè... Andrebbe tutto bene, se non fosse per il freddo intenso. Pessima decisione, quella di privilegiare la felpa, sia pure spessa, rispetto alla giacca che ripara meglio l'aria. Mi sembra di essere assalita dagli spifferi... Il freddo alle spalle ed alla schiena mi mette in agitazione, non lo sopporto.

Buio e silenzio assoluto sulla strada e nel bosco; solo lo scorrere impetuoso di tanti rivoli d'acqua e, a seconda dell'orientamento del pendio, il fruscio dei rami e dei cespugli. Non posso dire di sentirmi in gran forma, proprio no: fatico, sono senza forze, fiacca, ho freddo. Ma ormai mi conosco: so bene che all'inizio è sempre così, e pazienza se l'inizio dura venti e più km. Andrà meglio, più avanti. In qualche tratto cedo alla tentazione della camminata, sia pur veloce: probabilmente ce la farei, a correre anche i tratti più ripidi, visto che, su questa salita, di ripido c'è ben poco. Ma il viaggio è lungo... Meglio conservare le forze ed i muscoli integri. Intanto tengo d'occhio i cartelli con l'indicazione dei chilometri: dovrebbero essere dieci, dall'uscita di Ceva a Battifollo. Scorrono lenti e travagliati.
Il primo accenno di alba mi coglie più o meno a metà salita, appena una sfumatura nel cielo nerissimo. Ed anche la prima auto, che sento giungere alle spalle: la sento rallentare, passarmi accanto con cautela, la vedo ripartire. Posso solo immaginare lo sguardo perplesso dell'automobilista mattutino. Seguono, a breve distanza di tempo, altri due fuoristrada. Non si può dire che ci sia molta gente in giro da queste parti...

L'affascinante ed insieme inquietante sagoma della mezza torre di Battifollo mi appare ben prima di quanto me l'aspettassi, e pure in un punto dove non avrei creduto di vederla: rispetto a me, tutta a destra. Quindi la strada qui fa un ampio curvone verso destra... Incredibile, quanto ci si perda di un paesaggio, se si percorre una strada sempre e solo nello stesso verso. Io da qui sono sempre passata in discesa, in bici... In salita, la prospettiva è tutta diversa. Mancano tre chilometri all'abitato, così dice il cartello: la torre è una lama nera che squarcia il velo scuro del cielo, dove pian piano si fa strada un po' d'azzurro. Gioia per gli occhi, quest'alba, ma non per il resto del corpo: quassù, dove la strada corre più esposta al vento, il freddo è feroce, morde le gambe, le spalle, la schiena. Mi sento a disagio: il freddo è da sempre uno dei miei peggiori nemici; uno dei tanti, purtroppo, perché di certo io non sono un cuor di leone... Temo il freddo, temo la pioggia, il vento, la nebbia, insomma, fatemi correre con il solleone del pomeriggio sahariano e ve ne sarò grata!

Il momento è pura poesia, ma sono costretta mio malgrado ad infilarci un intermezzo di prosa: sosta tecnica lungo uno dei pochissimi sentieri vagamente praticabili, in parte sgombro dalla neve e non troppo paludoso. Inutile dire che la parte migliore di me, così crudelmente esposta al gelo, si iberna all'istante. Sarà anche per questo che la ripartenza è particolarmente vigorosa...
Sotto un cielo screziato di viola, arrivo alle prime case di Battifollo. Qualche camino fuma, ma in giro non c'è un'anima. Manifesti elettorali e manifesti mortuari si contendono l'occhio del passante; ghiaccio a terra, silenzio, immobilità. La prima salita finisce qui: ora si va giù, destinazione Bagnasco, non prima di aver scattato un paio di foto alla torre che, in questo momento, svetta proprio sopra la mia testa. Dovrebbero essere sei km, da qui al gelido fondovalle. E se, quassù, un pallido sole sta tentando di spedirmi pietoso i suoi raggi ed infondermi un po' di tepore, giù in valle sarà un supplizio di gelo e nebbia.
Ampie curve mi accompagnano giù verso la coltre bianca che nasconde l'abitato. Incontro solo un paio di auto; per il resto, tutto tace. Ghiacciano anche i rumori del bosco.

Sono ormai alle porte di Bagnasco quando squilla l'odiato cellulare: non sarei tranquilla senza il collegamento diretto con casa, nell'eventualità che mia mamma avesse bisogno di me, ma nutro un odio viscerale verso questo aggeggio. L'idea di essere sempre, o quasi, reperibile mi dà angoscia. Non sono indispensabile... Lasciatemi in pace! E invece no, la genitrice vuole accertarsi che io sia viva e vegeta. Così mi tocca sfilare i guanti e, con le dita irrigidite, frugare nella tasca dello zaino alla velocità della luce, perché la mater è anche impaziente. Addio alla poesia del gesto regolare della corsa.
Archiviata l'inopportuna telefonata, attraverso la strada principale di Bagnasco, per dare inizio alla seconda salita, verso il Colle dei Giovetti. Il freddo è rabbioso; anche qui, ghiaccio ovunque, per terra e sulle chiome degli alberi. Chissà se, e quando, un raggio di sole scenderà fin giù. Se non altro, il cielo è limpido...
Le gambe non sembrano gioire della nuova salita, che pure, all'inizio, è davvero appena accennata. Sono un po' inchiodate. Cataste di legna coperte di brina a bordo strada; un solo essere umano attraversa il paese, oltre a me. Ci salutiamo con diffidenza reciproca: l'uno pensa dell'altro che si tratti di un miraggio, è probabile.
Quando la strada prende a salire sul serio, mi converto all'andatura di passo, svelto ma pur sempre passo. La strada è lunga, meglio risparmiare le energie. Finalmente la luce del sole penetra fino a me, sia pure solo a chiazze: è spettacolare il gioco di riflessi con la brina sulle chiome degli alberi; merita un paio di foto, anche se so già che la mia idea della foto da scattare non corrisponde affatto a quel che in effetti ne verrà fuori. Sui successivi tornanti, un po' di luce mitiga di quando in quando il rigore della temperatura. Osservo la strada che sale fra i tronchi ancora spogli, anche se ormai la conosco a memoria; proseguo a passo il più possibile svelto. In salita mi scaldo, ma già temo per il brivido della discesa...
Al colle, la desolazione di sempre, bellissima. Il sole scioglie la brina su rami degli alberi, sembra che nel bosco venga giù il diluvio; a me tocca, ancora una volta, ripiombare a fondovalle, dove ormai dispero che arrivi un po' di tepore. In discesa, complice la forza di gravità, posso riprendere la corsa, mentre tutto intorno a me ancora tace: solo, ogni tanto, dai rami piomba giù un grumo di neve che si sbriciola prima di toccare terra. Oggi i muscoli non si rassegnano al clima; strillano anche se non fanno fatica, sono rigidi. E il passo è per forza ingessato. A fatica, raggiungo nella tasca dello zaino l'ultimo Mars che ho trovato in casa; a parte la consistenza marmorea per il freddo, è delizioso... Di bere, invece, non se ne parla, non ho nemmeno la borraccia. Confido di trovare, prima o poi, un rivolo d'acqua accessibile e più o meno potabile. Dovrebbe esserci, appena prima di Calizzano, una delle tante fontane provviste di statua della Madonna: con poca coerenza, visto che non nutro affatto simpatia per il soggetto e per tutti i suoi affini, ne approfitterò.
Curva dopo curva, come previsto, la foschia mi avvolge. Non è fitta, ma è quanto basta per intirizzire le ossa.
Non finirò mai di benedire la mia diffidenza nelle previsioni meteo, che per oggi avevano annunciato una giornata quasi primaverile. Altrove, forse... Non qui, climaticamente una enclave della Norvegia. Cerco altri pensieri per distrarmi dal pensiero delle mani gelide, ma quelli che trovo sono altrettanto antipatici, casa, lavoro. Forse sono ancora meglio le dita gonfie e rosse tipo salsiccia.
Attraverso la borgata quasi deserta: solo una casa ha il camino che fuma; tutte le altre sono sprangate, la neve accumulata davanti ai cancelletti d'ingresso, le porte protette da pannelli di plastica o metallo fino a mezz'altezza. Io mi lamento del costo del riscaldamento a Carmagnola, ma qui, per raggiungere una temperatura che niente niente consenta l'esistenza di una forma di vita in casa, credo si debba bruciare mezza Foresta Amazzonica all'anno. I campi sono ostinatamente ricoperti di neve; i cavi dell'elettricità, abitati solo da qualche corvo, neri sul bianco dello sfondo, sembrano quasi spartiti musicali.

La mia corsa, a questo punto, è proprio penosa. Supero il primo e poi il secondo ponte sul torrente; un paio di sentieri che si inerpicano tra i tronchi spogli del bosco attirano la mia attenzione. Chissà dove portano? Sono anche segnati... I ruderi pericolanti, poi l'ultima curva che mi porta in vista di Calizzano. Qui dovrebbe esserci la fontana... Infatti la trovo. Una targa millanta chissà quali virtù curative di quest'acqua: e capirai... Fosse almeno frizzante, di già che afferma d'essere così speciale! In realtà, non amo l'acqua naturale, affatto... Almeno per il palato, è come non bere proprio nulla, ma è sempre meglio la fontana di una borraccia che sballotta nello zaino. L'acqua balla comunque, anche se la borraccia è ben fissata in una tasca.

Dopo aver prosciugato lo zampillo dell'acqua, riparto verso Calizzano, le gambe sempre più appesantite. Il lungo rettilineo prima del paese "fuma" per effetto del calore del sole; tutt'intorno, le montagne sono ancora cariche di neve. Calcolo con una certa preoccupazione la strada che mi resta da percorrere: con i garretti in questo stato... A Calizzano, qualche anima osa aggirarsi per il paese. Dovrei aver percorso poco meno di quaranta km, occhio e croce; quindi, ormai è mattino avanzato... Superato il paese, la strada torna a salire blanda. Mi impongo di correre almeno fino all'inizio del tratto nel bosco, gli ultimi sei km di faggi e di curve. Raggiungo la borgata con l'unico negozietto che vende di tutto, dal pane al detersivo; più avanti, l'agriturismo. La fame si fa sentire, ma non ho più nulla per placarla. Provvederò più avanti.
A fatica raggiungo, di corsa stentata, l'obiettivo che mi ero prefissata; di lì in poi, cedo alla tentazione della camminata a passo svelto, anch'essa faticosa ma meno massacrante per i muscoli ormai doloranti. Beh, che dire, la mia condizione sportiva non è mai stata brillante, ma oggi sono proprio a terra...

Perlomeno, le stalattiti che pendono giù dai muretti in pietra sul bordo della strada sono quasi dissolte; ne restano solo i monconi sgocciolanti. Salgo di buon passo, guardandomi intorno; questo è il bosco in cui, anni fa, ho scoperto l'esistenza di quel curiosissimo fenomeno chiamato "anastomosi", una sorta di "ponte" tra due alberi, un ramo che sembra nascere da entrambi i tronchi e fa da collegamento... Da allora, ogni volta che passo di qui, butto l'occhio per scovarne qualche altro caso. Oggi, infatti, sono fortunata: aguzzando la vista ne scopro un'altra, evidentissima, a cui scatto qualche foto.

Mi preoccupa un po' quel che vedo in direzione del colle, ancora lontano: sembra uno strato di nuvole scure... Vuoi vedere che io da ore bramo il calore della riviera e invece di là, oltre il Melogno, mi ritroverò nella nebbia? In effetti, chilometro dopo chilometro, mi avvicino alla coltre scura, mentre, ironia della sorte, in direzione della Valle Tanaro il sole illumina le cime. Pazienza, indietro non si torna, ormai, anche perché sarebbe lunga assai. Affretto, per quanto possibile, il passo; chiudo per benino la cerniera della giacca antivento, che speravo di levare parecchie ore fa e che invece mi è ancora indispensabile. I cartelli che indicano km e centinaia di metri mi informano che ormai al colle manca poco: il sole è sparito oltre la nebbia. Mi resta ancora la speranza che si tratti di un nuvolone che ha incappucciato solo le vette...

La trattoria del Melogno è una vera tentazione. Per fortuna, il capannello di gente che è lì lì per entrare mi fa desistere dal proposito gastronomico; questa piccola orda di barbari affamati monopolizzerà i titolari per un po'... Ed il mio panino andrebbe per le lunghe. Meglio puntare all'altro bar, al bivio con la strada che va verso Pian dei Corsi, tra un km o poco più. Supero la galleria del forte, anche se, con mia gran sorpresa, noto un cartello di divieto di passaggio ai pedoni: mi spiace ma non vedo alternative... Vorrà dire che non sarò arrestata per questo. Ciò che vedo dall'altra parte annienta ogni residuo barlume di speranza: nebbia. Il mare, questo sconosciuto, risulta oggi non pervenuto. Rassegnata, riprendo la corsa, con gran dolore delle gambe ancora più inchiodate. La discesa è lunga, sedici km... O la va, o la spacca.

Un altro curioso fenomeno vegetale attira la mia attenzione, nonché l'obiettivo della macchina fotografica: due aberi, un faggio ed una conifera nella cui identificazione non mi cimento, hanno i tronchi letteralmente fusi l'uno nell'altro per un breve tratto. Chissà chi ha mangiato chi...
Da una delle prime case, mi abbaiano due cani ormai noti, un Sanbernardo ed un botolino a pelo lungo. Mi piacerebbe un sacco coccolarli, ma non oso importunare i padroni di casa, presenti in cortile.
Un certo senso di panico mi assale quando mi rendo conto che il bar, l'ultimo prima di arrivare al mare, è chiuso... Ma immediatamente m'illumino d'immenso: la nebbia svela, sul piazzale proprio di fronte, il banchetto del venditore di formaggi. E' vero, mi sono ripromessa di diventare, pian piano, vegetariana integralista, vegana, insomma; per coerenza, la toma sarebbe vietata... Ma il mio stomaco non è affatto coerente; prende il controllo della situazione e mi trascina davanti alla lussuriosa esposizione di leccornie. Il simpatico venditore, un omone dall'aria paciosa, completa l'opera porgendomi un boccone di formaggio dolce e fresco. In men che non si dica, il mio zaino accoglie una bella fetta da tre etti di toma. Il formaggiaro mi chiede che giro io stia facendo e rimane perplesso alla mia risposta: non so se ci creda davvero... Comunque sia, mi ha salvato la vita. Contenta come una Pasqua, riparto di corsa con il mio dolce ed odoroso peso supplementare; farò merenda lungo la discesa. La compagnia della toma allevia un po' il male alle gambe, che ormai si fa sentire prepotente, ed anche la tristezza della nebbia che avvolge ed annulla la mia speranza per un po' di tepore.

Incontro parecchi ciclisti che salgono con ogni tipo di mezzo, dalle bici da corsa ai pesantissimi trabiccoli da downhill. Ci vuole coraggio per affrontare l'ascesa al Colle del Melogno con quelle bici pesantissime ed ammortizzate: infatti, la maggior parte degli appassionati della disciplina suicida, da queste parti, va su con i furgoni e le bici nel rimorchio. Non li invidio in ogni caso: almeno per me, scendendo verso mare, la foschia si attenua un poco. Il mare, più che vedersi, si intuisce, anche se ormai da qui sono ad un tiro di schioppo.
Levo finalmente i guanti e, senza smettere di correre sia pure a passo di lumaca anziana, sbrano un pezzo di toma. A Gorra, per fortuna, la fontanella rimedia all'arsura del formaggio... Giusta punizione per la mia golosità.

Alla fine della discesa, ho la sciagurata idea di passare da Finalborgo. E sì che ormai mi conosco da quasi trentadue anni; sono capace di perdermi in un bicchier d'acqua... Succede, infatti. All'uscita del borgo, imbocco la strada lungo il torrente, ma nella direzione sbagliata. Il sospetto mi coglie quando butto l'occhio alla direzione della corrente: è contraria alla mia... Sto andando verso monte anziché verso mare. Per carità, sono poche centinaia di metri da ripercorrere al contrario, ma non ne sentivo il bisogno...
Faticosamente, tra un marciapiede, un passeggino e varie altre insidie ai miei garretti, conquisto il mare. E questa è una certezza anche per il mio scarso senso di orientamento: da qui, per raggiungere Savona o almeno avvicinarmi, non mi resta che tenere le onde alla mia destra.

Il sole latita, anche in Riviera. Soffia un vento freddo, per fortuna non così intenso. Beh, non tutto il male viene per nuocere: il meteo cupo scoraggia i turisti da passeggiata, soprattutto quelli con torme di marmocchi al seguito. Sopporto volentieri il disagio del clima, in cambio della quiete. Mare e cielo hanno lo stesso colore metallico... Ciononostante, qualche temerario osa avventurarsi in spiaggia in tenuta da bagnante. Sarà qualcuno che ha una fiducia ostinata ed incrollabile nelle previsioni del tempo, che per oggi promettevano una giornata calda ed asciutta. Rabbrividisco al solo pensiero: sarà che io sconto anche un po' di stanchezza e patisco il vento perché sono sudata, ma mai e poi mai rimarrei all'aperto con meno di due strati di vestiario, oggi.

Le gambe sono tutt'altro che in forma. Legnose, doloranti, oggi va così. Sono un po' delusa, anche se, in tutta onestà, non è che potessi aspirare ad un risultato molto migliore di questo. Grazie, si fa per dire, a quella stramaledetta 24 ore a circuito di San Benedetto del Tronto del primo dicembre... Oltre ad aver seriamente rischiato di demolire l'auto nel viaggio di ritorno, mi sono anche procurata un'infiammazione con i controfiocchi al ginocchio destro: ormai ero quasi arrivata a credere di non poter più correre... Dieci km al massimo e poi il dolore sull'esterno del ginocchio spuntava e cresceva nel giro di poche centinaia di metri, fino a rendermi del tutto impossibile la corsa. Ho sempre confidato nella capacità del mio corpaccione di risolvere da sé i guai, senza andare a sprecare soldi miei e soldi del Servizio Sanitario Nazionale in chissà quali visite ed esami specialistici, ma devo ammettere che questa volta sono giunta a nutrire qualche dubbio in proposito. Per fortuna, alla lunga, per questa volta ho ancora avuto ragione; sia pure tra improperi, dolore, rabbia e tristezza al pensiero di non poter più correre, il problemaccio, com'era arrivato, se n'è andato. Il guaio è che due mesi di seri allenamenti sulla distanza sono andati in fumo... E probabilmente ho messo su della gran ciccia. Pazienza: tocca rassegnarsi.

Mentre corricchio a velocità da carro funebre sul lungomare, quasi stordita dal movimento regolare di un mare quasi placido nonostante il vento, mi rendo conto che forse è il caso di tenere d'occhio l'orologio. Avendo io viaggiato fin qui con molta lentezza, ho fatto tardi: a Savona, di questo passo, non arrivo di certo prima delle sette e mezza. Già, ma poi? Ci saranno ancora treni per Ceva, e quando? Già, un viaggiatore accorto e previdente si sarebbe preparato una tabellina con gli orari delle partenze dalle varie stazioni, da Finale a Savona. Io non ho la più pallida idea di niente di tutto ciò. Mah... Finale, Varigotti, le bellissime scogliere, oggi ancor più arcigne per effetto della luce; i gabbiani con le loro grida stridule; la vista sulla costa, che ogni tanto sfuma nella foschia; i brividi per le folate di vento. Non mi va giù l'idea di non arrivare a Savona, ecco... Ma le gambe stanno cercando di farmi capire che non hanno intenzione di portarmi fin là di corsa. Il mio viaggio rischia di diventare eterno... OK, la costa non è il deserto; non è grave perdere l'ultimo treno, alla peggio si dorme in stazione e si prende il primo dell'indomani. Ma scoccia, anche perché a casa ci sono i miei beniamini pelosi in attesa.

A Noli la stazione non c'è, almeno credo. Passo lungo la spiaggia, butto l'occhio ai cartelli stradali, ma non vedo nulla che mi ispiri. A Spotorno, il prossimo paese, se non erro dovrei essere più fortunata... Raccolgo le ultime forze per allungare ancora un po' il passo: sempre più rari i pedoni che incontro sulla mia rotta. Il vento rinforza, la luce cala; è ora, per chi può, di ritirarsi al calduccio. Ma a Spotorno ci sarà poi davvero la stazione? E' la domanda che comincia a tormentarmi. Curioso, come la stanchezza ingigantisca piccoli problemi che in realtà non sono degni della benché minima ansia. In fondo, se anche non dovessi trovare un treno, non ci sarebbe poi nulla di male... Prima o poi, ne arriverà per forza uno!

Con il cuore in gola, non solo per la fatica, entro in paese. Poche centinaia di metri e, con sollievo, addocchio il cartello con il simbolo del treno. Perfetto... Abbandono il lungomare, seguo le indicazioni. La stazione appare, effettivamente, di lì a poco. Mi precipito, come posso, al tabellone dei treni: partenza per Torino, 17.25... Guardo l'ora e mi affloscio: sono le 17.27. Il prossimo treno sarà tra due ore... In un impeto di disperazione, pigio forsennatamente i tasti del bigliettaio automatico, che, per fortuna, non si offende per la mia mala grazia. Poi, con le residue forze, schizzo al binario deputato. Vedere un fitto assembramento di persone mi rincuora... "E' già partito il treno per Torino?", chiedo al primo viaggiatore in attesa che mi sembra avere la faccia di chi sa quel che dice; "No... E' in ritardo". Beh... Credo di non aver mai gioito così tanto, di cuore, per il ritardo di un treno. E' proprio vero; io viaggio in treno una volta ogni morte di Papa e puntualmente incappo in un ritardo... Mi vien da dire, questa volta, meno male! Trovo persino una cabina in cui cambiarmi la maglietta al riparo dal vento gelido. Ancora qualche minuto e la locomotiva spunta fischiando. Il tragitto è di quelli in stile carro bestiame; manco a pensarci, di trovare un sedile; ancor grazie che si trovi spazio vitale in piedi. Mi ritrovo in mezzo ad una vera babele di lingue, stili e motivi di trasferta: dai pensionati che fanno la spola tra Torino e la Riviera agli studenti fuori porta, alla famigliola di orientali, credo filippini, ai vù cumprà vocianti con la loro voluminosa mercanzia. In tutta sincerità, non amo la multietnia e non riesco a trovare nulla di pittoresco in tutto questo crogiolo di origini... Ma faccio buon viso a cattivo gioco, il viaggio è breve. E pazienza se il posticino a sedere che faticosamente mi ritaglio - per terra, accanto ad una delle porte - è spazzato dalla corrente gelida degli spifferi, e pazienza anche se la stanchezza mi provoca un fortissimo mal di testa. Mi consolo con l'ultimo frammento di formaggio, alla faccia dell'igiene e delle mani ormai lerce - a cosa serve il sistema immunitario altrimenti? - finché mi accorgo di essere ormai a destinazione. La Zafirona è ancora lì, in paziente attesa; mi ci fiondo e, per prima cosa, accendo il riscaldamento al massimo. Poco più di settanta km nelle gambe, occhio e croce, mi rendono arduo persino manovrare i pedali... E il fatto di patire la lunga distanza, per me, è un duro colpo all'orgoglio. L'unico mio lato positivo è sempre stato proprio quello di reggere bene la fatica prolungata; se mi s'incrina questa certezza, sono dolori... Coraggio, datti da fare Gian, tira via la ruggine. Ci vorrà un po' per recuperare, ma è ora di scrollarsi di dosso un bel po' di patemi, fisici e morali. La radio a tutto volume terrà lontani i mugugni, almeno fino a casa. Poi affogherò la tristezza tra peli e bava dei miei beniamini: la migliore psico e fisioterapia!