martedì 25 aprile 2017

Di corsa tra Neive, Mango, Coazzolo

I sintomi della vecchiaia sono sempre più evidenti. Fino a qualche anno fa, mai e poi mai mi sarei permessa di sgarrare al programma che io stessa avevo stabilito per la giornata sportiva. Se avevo deciso di partire di corsa o in bici alle tre di notte, sarei partita alle tre di notte, senza alcuna pietà per me stessa. Ora, l'età avanza e la volontà vacilla. Così, la sveglia che suona alle 3,30 viene prontamente zittita, accompagnando il gesto con espressioni che mal si addicono ad una signora, e spostata alle 4.30. Ma la sveglia delle 4.30 viene bellamente ignorata, o meglio, spenta in un momento di sonnambulismo. Apro gli occhi alle cinque passate. Ai tempi d'oro, sarei schizzata giù dal materasso inferocita con me stessa, cominciando la giornata con un diavolo per capello. Ora, più anziana e forse un po' più saggia, prendo atto della mia stessa pigrizia, sposto con delicatezza un paio di cani che mi dormono addosso – e che non provano alcun rimorso per il sonno prolungato – e mi alzo, ormai rassegnata a cambiare un po' il piano d'attacco del giorno.

Dalla sveglia alla partenza trascorre oltre un'ora, un po' perché la mia abituale colazione pantagruelica richiede tempo e un po' perché, oltre alla preparazione della podista, bisogna provvedere al nutrimento delle tredici belve. Li ho svegliati ad un'ora per loro inammissibile... Il minimo che adesso possa fare è dar loro la pappa. Rapida occhiata dalla finestra per valutare il meteo: sembra nuvoloso, come del resto era stato annunciato, ma non fa freddo. Ergo, maniche corte, gilet e pantaloncino corto. Zainetto con sacca per l'acqua, perché starò in giro qualche ora, quattro barrette, un gel e rotolo di papiro per le soste d'emergenza. Telefonino da usare come lettore di musica, cuffie, GPS per il reparto tecnologia. Cani sazi, bagaglio pronto, si parte. Venti minuti di auto per trasferirmi da casa fin nei paraggi di Neive: tutto ciò che rimane del mio rapporto con le discoteche, al di là di qualche domenica pomeriggio trascorsa a ballare ai tempi dei primi anni del liceo, è la consuetudine del parcheggio davanti al Pepedoro, locale che, a giudicare dalle pubblicità martellanti sulle radio locali, fa furore, ma che, come tutti i luoghi che vivono di notte, con la luce del sole mette un po' di tristezza.

Fa freddo, ma non troppo. Aleggia una nebbiolina che i raggi del primo sole cominciano a bucare. Non sono ancora le sette: sistemo zainetto ed auricolari, smadonno per districare il groviglio di fili e spallacci, ricomincio da capo. Finalmente si parte. Con cautela: le gambe sono reduci da un penoso tentativo di partecipazione alla 24h a circuito di Torino, tre giorni fa, in cui ho percorso poco più di un centinaio di km prima che la nausea del circuito da un km e mezzo prendesse il sopravvento su di me. Non ce l'ho potuta fare: a tarda sera ho riconsegnato il chip di cronometraggio, ho raccolto i miei stracci, sono saltata in auto e son tornata a casa. Però, cento km di corsa son sempre 100 km e lasciano il segno per qualche giorno. Mi avvio a passo lento tra i noccioleti e la nebbia sospesa, lungo la strada secondaria che taglia l'abitato di Neive e porta direttamente a Castagnole delle Lanze. Il centro storico di Neive rimane sulla destra, lassù in alto. Qui, solo nocciole, viti e qualche cascina. Subito un paio di strappi severi, per gradire, e l'incrocio nell'interno di una curva cieca con il camioncino della raccolta dell'immondizia. Mannaggia, ma oggi i netturbini non fanno festa?

In effetti, per essere il 25 aprile di primissima mattina, c'è parecchio movimento. E persone al lavoro nelle viti: immagino che questa stagione non conceda requie a chi vive di vigneti e frutteti, neppure nelle feste comandate. Qualche saliscendi, una curva secca a sinistra ed ecco le prime case di Castagnole delle Lanze, precisamente della località Farinere. Sono per lo più gli anziani a spostarsi a quest'ora, per lo più alla guida di una Panda e per lo più con il cappello in testa. La piazza di Castagnole è inaspettatamente animata, soprattutto nei paraggi di un bar. Il passaggio di una podista di un certo spessore, inteso proprio nel senso di dimensione fisica, e parecchio desnuda rispetto alla temperatura, suscita vivace curiosità. Ma è un attimo: supero la piazza, giro verso Neive ed un centinaio di metri dopo imbocco il bivio per Coazzolo. Di qui, una teoria di vetrine vuote, il vecchio passaggio a livello della ferrovia in disuso, qualche condominio che sa di vetusto e capannoni chiusi per via del giorno festivo. Poi, dinuovo le colline. La strada sale dolcemente fino al bivio che interessa a me: non ho intenzione di salire a Coazzolo per la via diretta. Imbocco sulla sinistra una stradina che, dopo un paio di km quasi in piano con passaggio vicino ad una fabbrica di piscine, prende a salire decisa.

A me, che adoro nuotare proprio per il gesto del nuoto e quindi apprezzo le piscine vere, quelle lunghe e con le corsie, l'idea della piscinotta domestica mette una gran tristezza. Come fai a nuotarci dentro? E che te ne fai di una piscina se non ci nuoti? Sguazzi in una pozza per i due mesi scarsi l'anno in cui è climaticamente possibile farlo, almeno dalle nostre parti? Non so... Mi sa di “volere e non potere”, di qualcosa da ostentare, quindi per me privo di qualsiasi attrattiva. A meno che un giorno lo zio d'America mi lasci i fondi necessari a realizzare una mia piscina olimpionica privata. Anzi, solo una corsia di piscina olimpionica privata. La piscina intera non mi serve, tanto sono un'asociale, ci nuoterei comunque solo io.

Ora che mi sono tirata addosso l'odio della lobby delle piscine private, passo oltre e comincio la salita, a cui le gambe rispondono con insperato entusiasmo. Viti a profusione e il paesaggio che si allarga, con i cocuzzoli delle colline che spuntano da un'aureola di nebbia. Le Alpi no, mi sa che oggi non le vedrò, data la coltre di nuvole scure che copre l'orizzonte, ma posso accontentarmi.
Questa per me rimarrà per sempre la strada dove, per la prima volta, ho visto dal vivo il cartello stradale che vieta l'accesso ai mezzi cingolati. Ce ne sono ben due, uno appena oltre il primo tornante ed uno più avanti, in corrispondenza di un gruppo di vecchie cascine bellissime.

Man mano che prendo quota, sento più intenso il soffio del vento e la maglia già bagnata di sudore che si appiccica gelida alla pelle. Ville moderne e cascinali di una volta: poi, la curiosissima chiesetta di Coazzolo. La prima volta in cui l'ho vista è stata un fulmine a ciel sereno: qui, dove tutto intorno non si vede altro che regolarissimi filari di viti ed un senso di rigore, quiete e lavoro, spunta proprio sul crinale una piccola chiesa ridipinta con colori e forme geometriche sgargianti e decisamente inconsueti, soprattutto per un luogo di culto. Opera recente di un artista britannico, David Tremlett, con il sostegno di un imprenditore del luogo. Non posso fare a meno di scattare una foto, anche se ne ho già a decine. Il vento, però, mi convince a ripartire subito, per evitare di prendere un malanno.



Ancora un km di lieve salita, fino al bivio con la strada che, a destra, raggiunge l'abitato di Coazzolo e, a sinistra, porta verso Santo Stefano Belbo oppure verso Mango. E' a Mango che io sono diretta. Ancora qualche panoramicissimo km di blanda salita, in cui lo stomaco comincia a rivendicare le sue spettanze. Prima barretta andata. Non è che i garretti siano proprio brillantissimi, oggi, ma non posso nemmeno pretendere più di tanto. I 100 km... E l'età che rende più lento il recupero. Quando me lo raccontavano, anni fa, non ci credevo. Facevo spallucce. Ma ovviamente, come sempre, il monito era destinato ad avverarsi, prima o poi.

Ancora un paio di tornanti prima del bivio per Camo. La musica non mi distrae dal magnifico panorama di colline tutt'intorno. Oltre la curva a destra, il profilo imponente del castello di Mango. E ancora il vento, insistente. Un paio di km e ci sono: mi lascio il paese a sinistra e scendo in direzione di Neviglie. Il cartello di un sentiero che indica San Donato, sulla sinistra del viale, mi incuriosisce: lo imbocco... Ma il sentiero diventa presto una traccia mal segnata ed un tratturo che mi riporta sullo stesso viale, qualche centinaio di metri più avanti, dopo un giro nelle vigne. Un po' delusa, riprendo la marcia sull'asfalto e svolto a destra per Neviglie.

Ancora lenta salita con vista, questa volta, verso Neive, fino ad un gruppo di cascine in località Ronconuovo; qui si scollina e si scende verso Neviglie. Area pic nic sulla sinistra, rigorosamente deserta, e, appena prima del paese, un bivio sulla destra con strappo secco in salita. E' il mio. Lo imbocco, supero la rampa che le gambe, un po' rilassate, digeriscono male, e poi in picchiata lungo una ripida discesa tra i vigneti, in cui l'asfalto per qualche tratto lascia il posto al cemento. Ancora un bivio a sinistra: qui, per districarsi nel groviglio di stradine, bisogna prima perdersi qualche volta, ma è un capitolo che ho già scritto. Punto decisa verso il fondo della valletta, dove qualche solitario di buon gusto ha ristrutturato ad arte due meravigliosi edifici in pietra; supero un ponticello e poi mi concedo una novità. Di solito, qui, piego a sinistra e vado direttamente verso Neive, lungo una splendida stradina che va a ricongiungersi al primo tornante della strada principale tra Neive e Mango. Oggi invece ho pensato di provare a girare a destra. C'è una strada che non ho mai percorso e che, per ovvio obbligo geografico vista la conformazione del luogo, non può che tornare a Mango o nei paraggi. D'altro canto, potrebbe anche interrompersi in qualche frazione. Ergo, proviamo.

Altra salita, per un breve tratto su asfalto. Poi, un cartello di legno attira la mia attenzione: “Mango”, con la freccia rivolta verso un ampio sentiero tra i filari. E perché no? Proviamo. Affronto con un po' di rassegnazione l'ennesima nuvola di chissà quale intruglio chimico che alcuni lavoranti stanno spandendo nelle vigne: se non altro, questi sono dotati di tuta e mascherine... Non è affatto una precauzione comune, anzi. Io no, non ho nulla di tutto ciò. Passo alla svelta ed un po' scocciata, anche se in realtà non posso certo pretendere che queste persone interrompano il loro lavoro al passaggio di una squinternata che corre. Il sentiero, quasi una bella strada bianca, prosegue fino ad un gruppo di case e ridiventa strada asfaltata. Un altro cartello di legno ed un altro bivio a sinistra mi rimandano però su un nuovo tratto di sentiero, prima ben segnato e poi più vago, prima in un vigneto e poi attraverso i noccioleti, con Mango sopra la testa. La terra grigia e sabbiosa è spaccata e come sfogliata dalla mancanza d'acqua; le scarpe non lasciano quasi traccia.

Seguendo quello che mi sembra il tracciato più logico del sentiero ben poco tracciato, sbuco nuovamente nel viale di Mango già percorso prima. Torno su, ma neppure questa volta entro in paese. Comincio la lunga discesa verso Neive, mentre in cielo si addensano nuvoloni scuri ed il vento rinforza ancora. Sono a circa 25 km di giro; ne mancherà una decina, occhio e croce.

Scendo osservando la strada da cui sono scesa prima, sull'altro versante della valle, alla mia destra. In effetti è proprio ripida. Ci sono mezzi scavatori al lavoro per l'impianto dei nuovi vigneti, su fette di collina nude e bruciate dalla siccità. Incrocio qualche ciclista: in effetti, sono tutti ben più vestiti di me. E poi, mentre procedo di buon passo, sopra pensiero...

…la lapide. Quel pezzo di marmo vagamente triangolare, con la foto di una ragazza bruna, davvero bella, ed un nome scritto in elegante carattere corsivo, Alessia.
Negli ultimi anni ho percorso spesso questa strada, più sovente in salita che in discesa, talvolta in bici e talvolta a piedi. E' ormai da tanto che c'è, quella lapide. Ma, sulle prime, non ci avevo fatto più di tanto caso. Un po' perché, per natura, sono poco incline ai sentimenti nei confronti dei miei simili, siano essi di affetto o di pietà, e un po' perché ai bordi delle strade capita spesso di vedere lapidi, cippi commemorativi, mazzi di fiori legati ad un sostegno qualsiasi. Ma sugli altri cippi, spesso, le immagini e le dediche si coprono di polvere che col tempo nessuno toglie più; i fiori prima freschi lasciano il posto a quelli finti e, poi, anche i fiori finti si sgretolano al passare delle stagioni, forse perché il dolore sfuma in ricordo, forse perché non c'è più neppure chi si curava di ricordare e far ricordare.
Tutto questo però non è accaduto alla lapide di Alessia. Ogni volta che passavo, la vedevo sempre lustra, ricolma di ninnoli, bella come può essere bello un monumento ad un defunto, curata, immaginavo, dalla mano di qualcuno che non avrebbe mai potuto darsi pace.
Un giorno, non so quanto tempo fa, mentre scendevo in bici da Mango verso Neive, ricordo di aver visto, già da lontano, un'auto ferma nei pressi del cippo. Ricordo di aver rallentato molto: c'erano due persone, un uomo ed una donna, delle cui fattezze non mi è rimasto impresso nulla, ma che senza ombra di dubbio erano la mamma ed il papà, intenti a ripulire ed abbellire la lapide. Ricordo di aver provato il fortissimo desiderio di fermarmi, avvicinarmi, chiedere loro cosa fosse successo. Forse avrei dovuto farlo; probabilmente quella mamma e quel papà avrebbero parlato volentieri della loro figlia, chissà se unica. Sarebbero stati contenti di sentirsi dire che era molto bella, perché questo è tutto ciò che io so di quella ragazza, dalla sua foto. Non ho osato, per timore che la mia fosse scambiata per curiosità morbosa. Ma, soprattutto, non ho osato per vigliaccheria, perché ho avuto paura di non poter reggere nemmeno una minuscola scheggia del loro immenso dolore.
Se devo essere sincera, non ho mai apprezzato l'ostentazione dei sentimenti, di qualsiasi natura essi siano, nel bene e nel male. Non sono mai andata a trovare i miei cari defunti al cimitero, perché è una cosa che ritengo del tutto priva di senso, posto che lì non c'è altro che materia organica in decomposizione e che le persone, semplicemente, non esistono più. E, per quel poco che mi importa del “dopo di me”, vorrei che nessuno venisse a cercare me quando non ci sarò più. Ma è una mia scelta. E' anche vero che io non sono genitore, non ho mai desiderato nemmeno per un istante un figlio e quindi non posso, né cerco di immaginare neanche lontanamente quel che possa significare, per una madre o un padre, perdere un figlio. Se non attraverso mia madre, la sua preoccupazione e la sua paura ogni volta che per qualche ragione ha temuto per la sorte delle figlie.
Alla lapide di Alessia non ho mai neppure trovato il coraggio di scattare una fotografia. Ma qualcuno, un inverno, lo ha fatto. Ho trovato in rete, questa immagine (scatto di Carlo Meazza).



Da poche notizie rinvenute su internet, con il beneficio del dubbio dei resoconti di cronaca, ho letto che la ragazza, appena diciottenne, è rimasta vittima di un incidente stradale in una notte di novembre del 2010, sull'auto guidata da un coetaneo. Mi è venuto spontaneo di pensare che diciotto anni siano proprio pochi per guidare un'auto e mi sono domandata come possa un genitore sopravvivere all'angoscia di sapere un figlio così giovane in auto. Ci vuole troppo coraggio per essere genitori.

Da quel giorno, non passo più davanti a quella lapide senza fermarmi almeno un brevissimo istante, per quel nulla che può servire. Nemmeno oggi. Mi allontano come sempre con il groppo in gola. La vita continua, quasi sempre, ma per le mani che curano quella lapide sembra essersi fermata ad una notte di poco più di sei anni fa.


Al trotto, supero gli ultimi due tornanti in discesa. Altro attentato ai miei polmoni, da parte di un anziano che sta bruciando sterpaglie usando come combustibile qualcosa come uranio impoverito, a giudicare dall'odore... Mi salva il sentiero sulla sinistra, che mi fa guadagnare ancora qualche metro di dislivello, per poi scollinare al cospetto della bellissima torre romanica del monastero. Ancora uno strappo alla periferia di Neive, per superare la rotonda ed imboccare a destra la strada del cimitero. Provvidenziale la fontanella: la sacca idrica nello zaino ormai è vuota ed ho una gran sete... Oltre ad una gran fame. Ho consumato due barrette, ma ormai non vale più la pena di attaccare la terza. Mi avvio in direzione della località Albesani: passo oltre, sfilando accanto ad una casa protetta da tre meravigliosi maremmani dall'aria ben poco amichevole. Non mi resta che l'ultima discesa secca, prima di tornare in vista del Pepedoro e della mia fida Zafira in attesa. Avviso la Madre a casa: venti minuti ed arrivo, butta la pasta o mangio le gambe del tavolo!


domenica 9 aprile 2017

Ponte Belbo, Cravanzana, Feisoglio, Gorzegno, Levice, Bergolo, Cortemilia, Castino

Chissà perché, quando Matteo mi ha mandato via mail il tracciato dell'itinerario di corsa che avrei dovuto seguire oggi, ho immediatamente pensato che qualcosa sarebbe andato storto. Geograficamente parlando, intendo dire.

Partenza da Ponte Belbo, nel territorio di Castino. Sono le sei del mattino, più o meno; è ancora quasi buio. Il termometro della Zafira segna un grado e mezzo: per la miseria, quando ho acceso il motore, a casa, ce n'erano dieci in più... Va bene che nei paraggi del Belbo, quaggiù, fa sempre un freddo suino, ma così è troppo! Sono qui in pantaloni e maniche corte; che faccio? Domanda oziosa. Non ho molta scelta. Sono in ballo, devo ballare. Mi carico lo zainetto, stracarico di cibo e con camel bag sulle spalle, e parto. In salita, per fortuna.

Il bar sull'incrocio è già aperto. Supero l'unico distributore automatico di pellet che abbia mai visto e comincio, con calma, la salita verso Bosia, in attesa che la circolazione sanguigna torni a raggiungere le estremità, naso compreso. La luce del giorno, fioca fioca, si sta appena affacciando alla valle: per evitare di portarmi appresso tutto il giorno la pila frontale, il giacchino rifrangente ecc, ho deciso di confidare nella buona sorte e nella sobrietà mattutina dei pochi automobilisti della valle. Ma sarò più tranquilla tra un po'.

La prima salita è morbida ma lunga. Raggiungo e supero i tornanti di Bosia, scatenando i latrati di un buon numero di cani, per la gioia dei padroni ancora immersi nel sonno profondo. Ma, per il momento, né l'ascesa né l'entusiasmo valgono a scaldare un poco le mie ossa intirizzite. La luce illumina appena la parte alta dell'altro versante... E il freddo pungente mi costringe alla prima urgente sosta idrica tra le accoglienti fronde di un noccioleto.

Qualche auto, un paio di furgoncini. La strada spiana appena prima del bivio per il centro di Cravanzana e scende poi leggermente, per me che rimango all'esterno del paese; passa tra un negozio di alimentari ed un'osteria dove un pomposo “Wine Tasting” mi fa venire ancor più la pelle d'oca – siamo a Cravanzana, santiddio, altro che “wine tasting”... Ma il gas di scarico di un'Ape mi intossica i polmoni ed i pensieri. Dovrebbero bandire l'Ape come arma di distruzione di massa...




Quando la strada riprende a salire, mi fermo ad ammirare e fotografare Cravanzana illuminata in pieno dal primo, limpidissimo sole che colora i vecchi muri di mattoni; pochi istanti prima di ripartire in salita, ancora per qualche km in direzione di Feisoglio. Ancora ben poco movimento di veicoli; quanto ad esseri umani in carne ed ossa, a parte gli avventori del bar alla partenza, non ne ho ancora visti. E non ne vedo nemmeno attraversando Feisoglio per tutta la sua lunghezza, fino al magnifico viale con alberi carichi di fiori rosa.
Al bivio successivo, svolto a sinistra sulla sonnacchiosissima piazza. Devo imboccare una strada, già percorsa almeno due volte in salita, molto secondaria, che scende in Valle Bormida, nei paraggi dell'incrocio con la salita per Levice. Ci sono già passata, appunto: quindi, vado sicura.
Le mie certezze, però, si infrangono dopo pochi metri di salita. C'è un bivio. Bene: ma io, quando sono arrivata quassù in direzione opposta, da quale delle due strade sono arrivata? Provo ad andare a memoria e sensazione; imbocco a sinistra. Qualcosa però non mi convince. Salendo a Feisoglio avevo il sole a sinistra; adesso me lo ritrovo completamente a destra... Significa che questa strada torna indietro rispetto alla direzione che ho tenuto finora. Non va bene; dovrei al massimo viaggiare in direzione più o meno perpendicolare. E poi qui è un dedalo di deviazioni verso le cascine, una strada minuscola devastata dalle buche, dove l'asfalto è un lontano ricordo. Di certo non sono passata di qui in bici. Non me lo sarei scordato, questo posto.

Ergo, dietrofront. Torno al primo incrocio dopo Feisoglio ed imbocco l'altra alternativa. Si sale ancora un poco, fino ad una bella radura con alcune vecchie case. Incappo in un altro bivio: l'arrivo di un cagnotto tutto festante, probabilmente un cane da caccia, con i campanellini al collare, mi distrae al punto che non ci faccio caso. Così, di lì a poco, mi rendo conto che anche questa volta sto viaggiando lungo una strada che non è quella giusta. Pazienza, mi dico. Senza dubbio sto scendendo comunque in Valle Bormida. Senza dubbio una strada come questa non va a perdersi nel bosco. Ma, soprattutto, questo posto è bellissimo. Bosco fitto, le foglie degli alberi ancora minuscole e di un verde chiarissimo; i raggi del sole che creano giochi di luci ed ombre fra i tronchi. Dovunque io mi trovi, vorrei poterci rimanere...

La strada corre dapprima in una sorta di gola, chiusa e stretta; poi, dopo un tornante a destra, si apre sul panorama senza fine dei boschi: sembra di essere in montagna, lontanissimi da tutto e da tutti, anche se ho lasciato Feisoglio da pochi km. Non c'è traccia di anima viva fin dove lo sguardo può spaziare. Solo il verde del bosco ed il blu sfacciato del cielo limpidissimo di oggi. Ma, poco più avanti, spunta una vite coltivata strappando il terreno alla collina, con muretti di pietra a sostenere le piante e, poco sopra, una cascina che suscita la mia più profonda invidia per la fortuna dei proprietari. Quassù non c'è proprio alcun rischio di avere dei vicini di casa o dei visitatori sgraditi...

La discesa verso il fondovalle è davvero lunga. Solo negli ultimi due o tre km compaiono le prime abitazioni ed i campi coltivati. Non appena raggiungo la strada di fondovalle, ecco la conferma di ciò che temevo. Non è qui che volevo arrivare. E non riesco a capire esattamente dove sono arrivata. Ora, per salire a Levice, dovrò seguire la principale a sinistra o a destra?

Nel dubbio, mi muovo di buon passo verso destra, scrutando l'altro versante della collina. In capo ad un km, arrivo nel territorio di Gorzegno. Qui, però, s'impone una sosta: se non altro, per capire dove diamine sto andando... Non avendo con me la cartina, che ho stampato e poi utilmente lasciato a casa, mi affido alla funzione Googlemaps sul telefonino. Incredibile dictu, qui ai margini del mondo c'è connessione internet. Benissimo: per salire a Levice, avrei dovuto svoltare a sinistra. Ma non tutto è perduto. La cartina mostra una minuscola strada che da qui, da Gorzegno, sale per l'appunto a Levice, tagliando il versante della collina con un lungo tratto in diagonale. Ergo: mi dirigo verso il centro di Gorzegno, bellissimo. Dopo un paio di tentativi infausti, imbocco la via del cimitero: lì, proprio davanti al camposanto, campeggia un bel cartello blu per Levice. In alto, i resti del castello, dall'aspetto quasi minaccioso, da film dell'orrore.

Un vivacissimo cagnetto bianco e nero interrompe la mia marcia: a stento la padrona lo richiama all'ordine. Corro per un breve tratto in pianura lungo la Bormida, dando finalmente sollievo alle richieste perentorie del mio stomaco vuoto. Ho avvolto alcuni pezzi di fontina nella carta stagnola, con il risultato che, ora, mangio fontina e frammenti di stagnola... Ma non è il caso di andare troppo per il sottile. La fame è brutta.

Supero un imponente ponte e mi ritrovo dinuovo in salita, su una stradina tranquilla e secondaria, tra noccioleti e ciliegi in fiore. A dire il vero, le gambe danno segni di ribellione. Concedo loro qualche tratto al passo, alternato a tratti in salita, e mi sforzo di bere il più possibile. Il caldo adesso è arrivato, eccome. Proprio come si vedeva dalla mappa, la strada prosegue con pochi tornanti e lunghi traversi, fino allo strappo finale ed all'inserimento su una strada più grande. Ed ora? C'è un tabellone di legno con la cartina. Dalla mappa e dal punto in cui è segnato il “voi siete qui”, parrebbe che, per andare a Levice, si debba girare a destra e salire. Ma non è che la situazione sia chiarissima. Provo a far così: di corsa in salita. Ma non sono convinta. Un paio di km dopo, riprendo in mano il cellulare, pregando per la resistenza della batteria. Infatti: per raggiungere Levice, toccava andare a sinistra, in discesa.

Dietrofront ed altro pezzo di formaggio. Ho una fame che potrei assalire un cinghiale a mani nude, nonostante sia vegetariana. E una fiacca... Mi lascio portare dalla pendenza. Levice appare di lì a poco: un meraviglioso grumetto di edifici, la bellissima piazza centrale tutta in pietra. Ma non sarò in grado di apprezzare appieno tanto splendore se prima non troverò qualcosa di consistente da mettere sotto i denti.
Un cartello indica un negozio di alimentari in centro paese. Mi fiondo giù per la ripidissima strada che porta alla piazza della chiesa, seguendo le indicazioni del negozietto come se fossero la mia stella polare. Ma, in piazza, non vedo alcun negozio: solo un bar, proprio in faccia alla chiesa. Pazienza, qualcosa da mangiare ci sarà.

Entro con cautela: il baruccio, più un loculo che un locale, è stipato di anziani e meno anziani seduti lì a guardarsi in faccia e fumare, mentre fuori tutt'intorno è bellezza e luce abbacinante. Mi sento immediatamente tutti gli occhi addosso: soprattutto quelli di una ragazzina fasciata in una gonna corta con calze velate, poco adatta sia all'età che al luogo, che mi squadra da sotto in su e poi viceversa, con l'evidente dispetto di chi si vede rompere le uova nel paniere. Tranquilla, fanciulla... Tempo di comprare due pezzi di focaccia ed una lattina – chiedendo un panino ho seminato il panico – ed uscire. Fatico a far capire che voglio due pezzi di focaccia ed una sola lattina, perché la focaccia è tutta per me... Ma esco trionfante ed un po' più fiduciosa.

Mi siedo su una panchina piazzata, per lungo, sul tratto di piazza in discesa: vorrei fare i miei personali complimenti a chi ha avuto l'idea geniale... Ma non è il caso di stare a sottilizzare. Divoro il primo pezzo di focaccia e la lattina, mentre la piazza si riempie delle auto dei fedeli per la messa. Troppa gente per i miei gusti. Peccato che la fontanella non funzioni: prenderò acqua a Bergolo... Nella sacca ne ho ancora un po'.

Riparto su per la ripidissima rampa che riporta alla strada principale. Direzione Bergolo: ora va molto meglio. La salita blanda non è di ostacolo alla digestione. Fa decisamente caldo... Sotto Bergolo, imbocco la prima via sulla destra, in salita, che porta ad un bivio all'imbocco del meraviglioso paese. Ora, da qui, secondo la carta di viaggio, dovrei scendere a Pezzolo Valle Uzzone per una strada che, pure questa, ho già percorso; da lì raggiungere Todocco e ricongiungermi con la strada che scende a Cortemilia. Più o meno al Todocco dovrei incontrare Matteo in arrivo in bici da Genova. Ma c'è un problema, anzi due. Non sono affatto sicura di quale sia la strada che scende a Pezzolo – anche se, a mente fredda, pensandoci dopo, capirò che c'è una sola alternativa possibile – e, soprattutto, per arrivare fin qui, tra errori di strada e deviazioni varie, sono già vicina ai quaranta km. Riprendere il programma originario significa macinare molti km più del previsto e, soprattutto, impiegare molto più tempo, rinunciando per forza a rientrare a casa ad un'ora decente per le varie incombenze. Ergo, decido di ripiegare sul piano B.

Attraverso il paese di pietra e comincio la discesa verso Cortemilia, incurante dei messaggi di disappunto di Matteo, che mi rimprovera pure di essere partita troppo presto. Il caldo è davvero eccessivo per la stagione. E non c'è un filo di ombra...

Il tempo di una foto alla torre e scendo l'ultimo km verso il centro di Cortemilia. Mi fiondo alla fontanella, battendo sul tempo un marmocchietto e la madre; ci butto sotto la testa e riempio la sacca, aggiungendo una bustina di sali. Non amo affatto la sola acqua durante lo sforzo. Pochi istanti di tregua, per poi ripartire attraverso la piazza gremita di motociclisti e di gente vestita da cerimonia per chissà quale evento. Appena oltre il ponte, di fronte al supermercato, imbocco a sinistra la Via Salino e, poche centinaia di metri dopo, ad un bivio, piego ancora a sinistra in direzione dell'Agriturismo Castel Martino.

Questa è una salita cattiva, ma cattiva davvero. Nelle condizioni di gambe di adesso, con tanti km e tanta salita già alle spalle, è inutile che io provi a correre. Gli strappi sono troppo ripidi, il caldo è troppo aggressivo. Cammino di buon passo per i pochi km, davvero pochi rispetto al dislivello, che mi portano a scollinare tra ville iperlussuose con tanto di sorveglianza ed un bellissimo agriturismo, una rampa dietro l'altra, senza misericordia. Approfitto del fatto di non poter correre per trangugiare il secondo pezzo di focaccia, ormai mezza liquefatta dal caldo. Ma la focaccia va sempre bene, sotto qualunque forma si presenti. La strada spiana nell'ultimo tratto, in vista di Castino; qui diventa sterrata, ma comunque del tutto praticabile. Sulla destra si vede la strada principale che collega Cortemilia a Castino; si sente, in lontananza, il rumore delle moto. Quel tracciato è molto amato dai motociclisti. Lungo il mio itinerario, invece, non ho incontrato nemmeno un'auto.

Alla ripresa dell'asfalto, in una bella radura inondata di sole, riprendo a correre. E' ormai primo pomeriggio e so che, dopo un bel tratto di rettilineo, ci saranno un paio di curve in discesa.

Arrivo ad un incrocio con la strada che, da Castino, va diretta a Cravanzana restando in alto sul versante della valle. Comunico a Matteo che prendo la direzione di Cravanzana, tanto per allungare ancora un po': chissà che non riesca a raggiungermi... Ma è ancora troppo lontano. Poco male: svolto a sinistra e trotto lungo un tratto di saliscendi tra noccioleti e splendide case ristrutturate, con vista sulla Valle Belbo. Pochi umani e molti cani, incluso un Border Collie che mi abbaia furiosamente e corre avanti ed indietro sul bordo di un muretto a secco... Ma ben si guarda dal saltare il mezzo metro di altezza che lo separa da me. Le gambe stanno bene, io mi sono ripresa, tanto che in breve arrivo al bivio per Cravanzana. Che fare? Tornare a Ponte Belbo dalla principale, oppure tornare indietro da dove sono venuta, andare a Castino e scendere di lì? La seconda, nella vana ipotesi che Matteo, informato dei miei movimenti, mi raggiunga. Ogni tanto dimentico che, pur essendo molto veloce, non viaggia in elicottero...

Ripercorro a ritroso gli ultimi tre o quattro km, causando un'altra arrabbiatura al Border Collie. Arrivo nel centro di Castino e svolto a sinistra, per l'ultima galoppata in discesa. Sfortuna vuole che mi superi, nella discesa, l'intero raduno delle auto “tuning” o, come dico io, “tamarrate”... Con annesso concerto di fracasso inaudito e gas di scarico a volontà. Il caldo non molla. Raggiungo Ponte Belbo abbastanza in fretta: per prima cosa, apro tutte le portiere della Zafira e mi abbatto nel bagagliaio, stesa con le gambe in alto. L'arrivo di Matteo e Mik, incontrato per la via, mi risveglia da una pennichella che mi sembrava durare da giorni... 68 km, per oggi può bastare.