martedì 15 maggio 2018

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Buona lettura!

giovedì 12 aprile 2018

1-2 aprile 2018 – PASQUA E PASQUETTA IN VERDON – secondo giorno


E' già chiaro quando Matteo ed io torniamo allo stato cosciente, al trillo della sveglia. Mi sembra di aver vissuto un'esperienza di morte temporanea: ho dormito come un sasso. In altri tempi di fervore giovanile, mi sarei imbestialita all'idea di aver già sprecato preziosissimi minuti di luce: avrei già dovuto essere in marcia da un po'... Ma oggi ammetto che tornerei volentieri a seppellirmi sotto il caldissimo piumone. Eppure non si può: resta un allenamento da fare e tanta strada in auto per tornare a casa, dalle belve.


La graziosissima padrona di casa ci fa trovare una lauta colazione, sorvolando sul caffè: in questo caso, essere in Francia è un elemento di svantaggio. Più che altro, ciò che a me manca è la componente salata della colazione: abituata come sono a considerare questo il pasto principale della giornata, sento la mancanza di un piatto di pasta o di una bella fetta di formaggio. Mi accontento del pane, del burro e del miele, più un paio di gustose marmellate, ben sapendo che la colazione dolce cederà presto il passo alla fame. Su uno dei tavoli della splendida sala da pranzo, sfoglio l'album delle fotografie che ripercorrono i lavori di ristrutturazione del casolare in cui ci troviamo: da fienile diroccato a splendido edificio a destinazione abitativa e turistica.


Il programma della giornata prevede di spostarci in auto a La Palud. Da lì, partiremo entrambi, Matteo ed io, per il giro della Route des Cretes, lui in bici ed io a piedi. Poi Matteo, completato il giro e tornato a La Palud, proseguirà in direzione di Digne, mentre io recupererò il furgone e lo seguirò, per poi tornare in Italia passando dal Colle della Maddalena. A tornare dalla Valle Roja, vista la via crucis dell'andata, non pensiamo nemmeno per un istante.


La luce sfavillante del sole inganna: il termometro del furgone segna due gradi. Due. Cominciamo bene. La faccenda non migliora molto nella mezz'oretta scarsa che impieghiamo per spostarci verso La Palud. Bando alle incertezze, tanto si parte in salita. Io scendo al bivio con la Route des Cretes, circa un km prima di La Palud: Matteo prosegue con il furgone lungo la strada alternativa che permette di oltrepassare il blocco dei lavori nel centro dell'abitato. Così, parto a piedi con un po' di vantaggio. Saranno solo 21 km, una mezza maratona, ma con un dislivello di tutto rispetto. Di corsa per i primi km, poi la salita si fa più seria: non è il caso di sfinire le gambe, che pure stanno molto meglio di quanto io potessi immaginare. Intanto il sole fa il suo dovere e l'aria si fa tiepida. I primi turisti, rari, fanno capolino in auto e camper, mentre io procedo a passo svelto e concentrato lungo i tornanti di questo tratto di strada che, fin quasi al punto più alto, è a doppio senso di marcia per i veicoli. Raggiungo il primo belvedere e mi affaccio sul baratro, ma solo per un attimo. Poi riparto di buona lena.


Matteo mi arriva alle spalle dopo cinque o sei km dal mio via. Giusto il tempo di rubargli un pezzetto di focaccia, perché, come immaginavo, ho già fame. Poi ripartiamo entrambi. Ci rivedremo lungo la strada per Digne o, alla peggio, proprio a Digne.



Settecento metri di salita passano, tutto sommato, più in fretta di quanto pensassi: tra un belvedere e l'altro, raggiungo il punto in cui, oltre uno slargo, la strada diventa più stretta ed a senso unico. Da La Palud, infatti, il giro si può percorrere solo in senso orario. Decifro per sommi capi il panegirico scritto su un cartellone: qui siamo oltre quota 1.200 m,mentre il Verdon è a quota 500 m circa. Quindi, la parete verticale su cui potrei affacciarmi se solo osassi avvicinarmi al bordo sinistro della strada è alta più di 700 m. Mi fido, preferisco non controllare, nemmeno ad occhio. Proseguo attraversando un breve tratto boscoso, fino a raggiungere il punto più alto, da cui si apre una vista da brividi su tutto: il canyon sotto di me, il lago, il Mont Ventoux innevato, l'altopiano. E la strada che corre sull'altro lato delle Gorges, rieccola. Da qui in poi, alcuni km di picchiata con vista sul vuoto e l'ombra inquietante degli enormi avvoltoi che hanno preso residenza qui e volteggiano lenti pochi metri sopra la mia testa. C'è chi ha piazzato il camper proprio qui, per ammirare l'alba in un luogo da sogno, e riemerge appena adesso tra lenzuola e cuscini; io riprendo a correre svelta e decisa, approfittando del lungo tratto di discesa fino allo Chalet de la Maline ed oltre. Un tornante dietro l'altro, alcune gallerie scavate nella roccia, la luce del sole abbacinante. Oggi non c'è un alito di vento; l'asfalto e le pareti rocciose bianchissime riflettono il calore. Scatto parecchie foto, prima di arrivare allo Chalet, dove la strada torna ad allargarsi ed a consentire il transito nei due sensi di marcia. Il piazzale è affollato di veicoli d'ogni genere, dalle moto ai camper grossi come pullman granturismo. Da qui partono anche alcuni sentieri. Qui, a quota più bassa, la strada si incunea nuovamente nella gola ed alterna tratti di lieve discesa a brevi risalite molto blande. Stanchezza e sete si fanno sentire: in tutto il giro delle Cretes non ci sono fontane. Ma non voglio smettere di correre: il giro è breve, tutto sommato; lo sforzo è sopportabile. Mi rassegno a camminare solo nel tratto finale, una risalita di circa duecento metri di dislivello che mi allontana dalle Gorges per tornare al piano di La Palud, passando, quasi in cima, accanto ad un recinto con alcuni lama. L'abitato compare, finalmente direi, dopo ventun km dal mio via: mi concedo il viale d'ingresso al passo, per non arrivare al furgone e fermarmi di colpo, inchiodando le gambe.


Mi cambio, mi do una lavata artigianale con un asciugamano e l'acqua di una bottiglia, faccio un po' di stretching. Poi arriva la parte più inquietante dell'avventura: guidare il furgone giù per le curve fino a Moustiers. E da lì fino a Digne, ma dovrebbe essere più semplice. Secondo Matteo, il furgone è poco più grande della mia Zafira, dove per “poco” si intende una decina di cm in larghezza e ben quaranta in lunghezza. In verità, io adoro guidare qualsiasi mezzo, ma sono molto in ansia quando il mezzo non è mio...


Giro la chiave ed il furgone si avvia. Ottimo, chi ben comincia è a metà dell'opera. Arrivo in paese e riesco, all'incrocio, a far spegnere il motore, sotto gli sguardi perplessi degli avventori del bar. Poi però fila tutto liscio, se si vuole sorvolare sulla cosa spaventosa che creo dietro di me scendendo fino a Moustiers alla velocità massima dei cinquanta all'ora. Da Moustiers in poi, in qualche tratto oso addirittura i sessanta all'ora: Puimoissons e poi via verso Digne.


Non mi stupisco di non raggiungere Matteo: in effetti, io sono molto lenta sia a piedi che a motore, quindi è perfettamente plausibile che a Digne arrivi lui prima di me. Mi stupisco già un po' di più di non vederlo quando arrivo alla periferia di Digne. “Sarà in centro, imboscato in qualche boulangerie”, penso. Proseguo lentamente, scrutando le figure sui marciapiedi: di lui nessuna traccia. Attraverso il centro di Digne in direzione di Barcellonette: nulla. A questo punto, parcheggio e provo a chiamarlo al telefono. Nessun segno di vita dall'altra parte: uno, due, tre tentativi, nulla. Ok Gian, calma e sangue freddo, adesso riparti e torni indietro per un po'. Con una certa ansia all'idea di guidare il furgone nel traffico cittadino, con il mercato e l'isola pedonale. Arrivo fino al confine della città: nulla. Torno indietro ancora una volta e ancora nulla, nessuna traccia di Matteo. In compenso, la Gendarmerie comincia a tenermi d'occhio. Un furgone in luogo affollato, di questi tempi, è cosa poco rassicurante, ma io ho intenti omicidi verso una sola persona in questo momento, sempre che non gli sia già accaduto qualcosa.


In preda allo sconforto, mi fermo di nuovo. Non so che fare: l'unica idea che mi viene in mente, con i brividi lungo la schiena ed i peggiori pensieri foschi, è rivolgermi davvero alla Gendarmerie e chiedere se per caso abbiano notizia di un incidente occorso ad un ciclista italiano. Tento ancora una volta di mettermi in contatto con Matteo per telefono. Incredibile dictu, stavolta il suo cellulare suona. E lo sciagurato risponde: mi spiega, col fiatone, che sta pedalando e si trova una decina di km oltre Digne, verso Barcellonette. Ma non ha potuto avvisarmi perché il suo cellulare non funziona. Certo. Ovvio. Ci siamo dati appuntamento qui, tu hai il cellulare che non funziona, quindi qual è la decisione più razionale da prendere? Proseguire, ovvio, chi non lo farebbe. Riparto per l'ennesima volta, ma senza più avere misericordia alcuna dell'acceleratore, mentre tra me e me medito se passargli sopra oppure passargli accanto e tirare dritto verso casa, lasciando che i trecento km rimanenti soddisfino la sua voglia insaziabile di pedalare. Sì, ecco, sarebbe splendido, la giusta vendetta, sadismo allo stato puro. Passano parecchi km prima che io lo raggiunga, nonostante la guida in stile curve su due ruote. Quando finalmente ce l'ho nel mirino, solo per un estremo sforzo di autocontrollo riesco a seppellire, almeno un pochino, l'ascia di guerra e fermarmi su una piazzola, permettendogli di salire a bordo, ma non senza fargli presente quel che penso della sua brillante iniziativa. Ci vorranno parecchi km ed un bel po' di curve su per la Maddalena, prima che il mal d'auto intervenga a placare e sovrastare l'istinto omicida, ed un bel bicchiere di Moscato a casa per riportare la pace. Ma la prossima volta non mi becca più! Da oggi in poi, l'auto non si schioda più se non con a bordo tutti i passeggeri, parola mia.

1-2 aprile 2018 – PASQUA E PASQUETTA IN VERDON - primo giorno




“Non stai bene?”.
“Figurati. Per me, che patisco qualunque mezzo in movimento da chiunque condotto, questa meravigliosa sequenza di curve, su da Limone e Vernante e poi giù per la Valle Roja, con un migliaio di dossi talmente alti che solo Messner potrebbe superarli senza l'aiuto delle bombole di ossigeno, è una vera goduria”. Lo penso, ma non lo dico, anche se temo che il mio colorito verdognolo, gli sbadigli continui ed irrefrenabili, i ripetuti cedimenti ad un sonno breve quanto profondo lascino intuire qualcosa circa il mio stato confusionale del momento. Io adoro guidare, davvero, guiderei qualunque mezzo su qualunque strada, è un piacere quasi fisico, ma non posso pretendere di imporre sempre e comunque la mia volontà, soprattutto se il mezzo di trasporto in questione non è il mio. E poi, io amo guidare con la massima flemma, quella del pensionato col cappello e l'acceleratore fisso sui 30 km/h: ma il viaggio di oggi è già lungo... Quindi, alla fin fine, è meglio che guidi Matteo. Mi sacrifico.

Un breve tratto di autostrada mi concede di tornare temporaneamente allo stato di coscienza. I gendarmi, schierati in forze al passaggio della frontiera, non sembrano interessati al nostro furgone: probabilmente abbiamo la faccia di due che vanno a farsi la vacanza pasquale. Per fortuna non ci fermano per chiederci le nostre intenzioni: altrimenti, ci arresterebbero preventivamente, in attesa di accertamenti, perché chi progetta un attentato terroristico è senza dubbio un soggetto pericoloso, ma anche chi ha in animo di partire per il giro del Verdon di corsa a piedi non scherza.

La sosta all'autogrill è d'obbligo: scendere dal furgone è un'impresa per cui, in questo stato, mi servirebbero una corda ed un imbrago. Toccare terra in posizione eretta è un successo: ora tocca raggiungere le toilette. E qui, il primo successo della giornata. Dal bagno sulla sinistra esce un omone che biascica qualcosa facendo segno, sia a me che a Matteo, di entrare nel bagno di destra. Quello degli uomini. Io rimugino a voce alta: “Quello delle donne non funziona?”. E l'omone si illumina e ripete, in italiano molto stentato: “Non funziona!”. E già qui, se io fossi nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, dovrei immaginare che, se un uomo sta uscendo dal bagno delle donne per entrare in quello degli uomini, non è perché il bagno delle donne non funziona: semplicemente, è lui che ha sbagliato porta. Ma io raramente sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, soprattutto dopo tre ore di viaggio in dolce compagnia del mal d'auto. Il temutissimo “bergiabau”, come si chiama dalle mie parti. Quindi, sia pur tra mille titubanze, vinta dall'urgenza della vescica, entro furtiva come un ladro nella toilette degli uomini. Ma immediatamente si materializza un inserviente, maschio, che mi cazzia in francese e mi riconduce sulla retta via, nel bagno delle signore, perfettamente funzionante. Il fatto che ci entri pure lui è un dettaglio...

Insomma: espletate le formalità corporali, riprendiamo il viaggio. Purtroppo. E purtroppo, di lì a poco, abbandoniamo l'autostrada in quel di Grasse, per poi affrontare, dopo quindicimila rotonde e relativo sbatacchiamento della passeggera, la Route Napoleon verso Castellane. Come se non bastasse, Matteo, di norma pilota calmo, riflessivo ed attento a minimizzare il consumo di carburante, oggi dev'essere stato colto dal sacro fuoco del pilota di Formula Uno e prende sistematicamente le curve su due ruote, mentre io non ho nemmeno più la forza di protestare. Avremmo dovuto impiegare cinque ore di viaggio, ne impiegheremo sei, sempre che noi si arrivi interi: pazienza...

La mia agonia si conclude una dozzina di km prima di La Palud, al punto in cui la strada che arriva da Castellane si biforca e, a sinistra, va verso Trigance oltrepassando il ponte sul Verdon, mentre, a destra, prosegue diretta per La Palud. Abbandoniamo il furgone su una piazzola: la temperatura, ormai da parecchi km, non supera i 2-3 gradi, nonostante il sole sfavillante. Optiamo quindi entrambi, io che partirò a piedi e Matteo che si avvierà in bici, per l'abbigliamento lungo; io aggiungo anche la giacca antivento, perché sì, spira anche un vento discretamente gelido.

Il programma di viaggio per la giornata prevede questo: io percorrerò il giro delle Gorges correndo prima lungo la Rive Droite e poi risalendo per la Rive Gauche. Matteo partirà per il giro al contrario; mi incontrerà in un certo punto, presumibilmente intorno al giro di boa geografico del mio itinerario; poi farà il giro del Lac de la Croix, sempre pedalando; mi raggiungerà una seconda volta e infine tornerà all'auto. Per me saranno circa 80 km di corsa con, in sostanza, due punti di assistenza.

Sono ormai le dieci quando ci salutiamo e ci avviamo per i rispettivi allenamenti. Parto con un certo timore: fa parecchio freddo, tanto per cominciare, ed il vento s'infila nella giacca. Poi, ho pochi allenamenti lunghi nelle gambe. L'ultimo, da 77 km la scorsa domenica, è andato davvero bene, ma lì era un circuito, con assistenza ogni due km. Oggi qui è tutt'altra musica. Quasi quasi invidio un po' i pescatori appostati sulle rive del Verdon, che scorre alla mia sinistra. Verdon di nome e di fatto: l'acqua ha un colore incredibile, non sembra nemmeno reale. Un po', devo ammettere, è anche merito degli occhiali fotocromatici, mia recente scoperta che ha un ottimo influsso anche sull'umore. I colori rosso e verde, infatti, con le lenti scure risultano nettamente accentuati e fanno vedere il mondo a tinte più vivaci del reale, cosa che io adoro. Supero il ponte che abbiamo passato poco fa in auto: un cartello mi avvisa che sono sulla “Rive Droite”. Il primo tratto, tutto curve come l'intero giro del canyon, è di pianura, ma funestato dalle raffiche di vento che, quando arrivano di fronte, hanno l'effetto di una mano appoggiata sul petto per fermarmi. Poi la strada prende a salire, impercettibilmente, ma quel tanto che basta per abbattere il mio morale già sempre provato dai primi km di qualsiasi percorso.

Un cartello, dal ponte, avvisa che la strada è interrotta da lì a 12 km. Più o meno a La Palud, quindi. Non credo di dovermi preoccupare: penso che la chiusura non impensierisca chi si sposta a piedi. Alcuni km di salita appena più marcata, una breve discesa, poi ancora salita, su cui per ora mi sforzo di correre: ma ci rinuncio ben presto. Passo svelto, più svelto possibile, ma non sprechiamo inutilmente energie. Il traffico di auto e camper si fa intenso, per quanto possibile da queste parti: ma la strada sarà poi davvero interrotta?

Dopo l'Auberge du Pont Sublime, si comincia a salire, con ampie curve che fanno guadagnare quota ma mi stroncano le gambe. Non ho ancora preso il ritmo, il fiato, nulla. Cerco il lato della strada al sole, perché fa freddo anche in salita. Non ricordo molto di questi chilometri che pure, in passato, ho già percorso più e più volte in bici: e poi, in auto, in bici o a piedi, le strade sono completamente diverse.

Al bivio per la Route des Cretes, un cartello nella direzione di La Palud ribadisce il concetto: “Route barrée”. Ma vedo che le auto passano lo stesso, quindi proseguo la mia stanca corsa. Di lì a poco, appare La Palud, con la malefica salitella che porta in paese. E qui si svela l'arcano: la strada è interrotta perché, in centro paese, è stato completamente rimosso l'asfalto. Vedo un furgone ed un'auto arrampicarsi su per una stradina sulla destra, con pendenza al limite del ribaltamento: ci sarà un'alternativa... Ma io passo a piedi senza alcun problema, dritta e determinata verso uno dei punti segnati con vernice indelebile sulla mia personalissima mappa mentale dei bagni pubblici: la toilette appena all'uscita dell'abitato, sulla destra, subito dopo la grande vasca in pietra della fontana. Una delle cose che adoro, dei Paesi confinanti con l'Italia – perché sono certa che in Francia, Svizzera ed Austria sia così – è la densità di toilette pubbliche, tra l'altro quasi sempre molto pulite. Da noi non esistono: si presuppone che le persone siano puro spirito, scevre da volgari bisogni corporali. E, se esistono, sono in condizioni tali che una contaminazione da Ebola è il minimo che possa capitare a chi ci mette piede.

Tappa in bagno, con calma: ho macinato meno di 15 km, ma mi sento sfinita. Poi riparto alternando corsa e passo svelto, perché la salita, sia pur blanda, prosegue ancora per un po'. Nel frattempo, prendo nello zaino la mini-Colomba pasquale che sbranerò non appena inizierà la discesa. Alla mia sinistra, il canyon, profondissimo ed imponente, è sempre più vicino. Inizia, finalmente, la picchiata verso Moustiers, quasi tutta a fianco del baratro, pareti impressionanti di roccia che si stringono a picco sul fiume. E, all'orizzonte, la vetta del Mont Ventoux, innevata. Una meraviglia da allargare il cuore.

Sbocconcello la colomba a piccoli pezzi: credo siano tre etti abbondanti, con il cuore di crema di cioccolato. Ho una fame che ne mangerei tre... Intanto, la discesa mi dà l'illusione di star meglio e procedere spedita, anche se son sempre le gambe a sostenermi. Gli occhi fissi sul fondo della gola rocciosa e, ogni tanto, anche sulle vetture che mi arrivano di fronte. Breve pausa alla grossa fontana in pietra sulla destra, per riempire la borraccia: anche se la temperatura non è alta, il vento e la corsa seccano la gola. E poi, devo cercare di non patire la sete, ancor meno che la fame.

Negli ultimi km prima di Moustiers, la strada si allontana dal corso del fiume. Guardando dall'alto, noto evidente un tratto di sentiero che si stacca, un po' più avanti, dalla strada che sto percorrendo io e taglia drasticamente l'angolo della rotonda di Moustiers, andando a scendere sulla strada di fondovalle, proprio accanto al ponte sul Verdon, di fronte al verdissimo lago. Da quassù, vedo nitidamente tutto il tracciato. Se lo imboccassi, mi risparmierei un bel tratto di stradone: ma tra non molto dovrei incontrare Matteo che risale dal fondovalle; rischierei di non trovarlo. Meglio non rischiare. Passo oltre il bivio del sentiero, con un po' di rammarico.

La parete di roccia lascia il posto al bosco, negli ultimi km prima di arrivare a livello del lago. Proprio qui, intorno al mio 29° km di corsa, vedo comparire Matteo che mi sale incontro, in bici. Approfitto per una pausa: da seduta, come raccomanda sempre l'altra mia fida scorta ciclistica, Ivano. La pausa si fa da seduti, a riposare le gambe mentre le ganasce lavorano. Uno yogurt, un po' di focaccia, pane e maionese: e sì... Il tubetto di maionese mi fa compagnia nel taschino dello zaino: anche se la sola idea fa inorridire quasi tutti i podisti, io adoro questo alimento maialissimo, che leva la fame e la nausea, almeno a me. Infatti ho già attinto durante la discesa, in verità. Sì, ho la fortuna di uno stomaco che digerisce anche i sassi, nonostante lo sforzo.
Ancora un po' di the dalla borraccia di Matteo: poi la pacchia finisce. Ci congediamo: io scenderò giù fino al lago e poi, dopo un tratto di strada più o meno pianeggiante, attaccherò la risalita verso Aiguines e la Rive Gauche del canyon; lui farà invece il giro del lago. Ci reincontreremo, probabilmente, quando io sarò ad Aiguines.

Ripartire dopo una sosta è sempre una tragedia: scricchiola tutto... Per fortuna, c'è ancora qualche tornante in discesa che mi aiuta a riprendere il ritmo. Alla rotonda, giro a sinistra. E qui comincio a patire un po' il caldo: sono vestita con maglia a maniche lunghe, pantaloni lunghi e calze al ginocchio della Compress, un esperimento. Sono molto comode, in effetti, ma indossarle per una corsa di una decina di ore forse è stato un azzardo. Amen, ormai è fatta. Esaurisco in fretta l'acqua della borraccia: qui la quota è bassa e l'asfalto dello stradone riverbera il sole limpidissimo del primo pomeriggio. Alla mia destra, il lago, sulle cui sponde sono assiepati camper e tavolini da picnic. Mi sforzo di tener duro, nonostante la fatica cattiva: è solo un breve tratto, poi si tornerà a salire e quindi a riposare un po', camminando a passo spedito. Raggiungo il ponte, sul Verdon, con uno splendido colpo d'occhio dal basso sulla strettissima gola: ci sono alcune canoe. Ormai al bivio per Aiguines dovrebbe mancare un chilometro o poco più.

Ci sono, finalmente. Si svolta e si ricomincia a salire. E quindi, al passo. Su questa pendenza, un occhio al Garmin, riesco a viaggiare intorno ai 5,5 km/h, che tutto sommato non è neanche malaccio. Il dolore ai piedi che mi dà il tormento da qualche mese è spuntato nel tratto di fondovalle ed ha tutta l'aria di volermi far disperare: soprattutto il piede sinistro. Ogni appoggio è una fitta sull'esterno: cerco di “storcere” il passo in modo da appoggiare la parte interna del piede e, soprattutto, cerco di pensare ad altro. Fa ancora caldo e la borraccia è ormai desolatamente vuota. Il punto critico del giro del Verdon in effetti è l'acqua: ci sono pochissimi punti in cui è possibile riempire la borraccia, soprattutto da questo lato del canyon. C'è una fontana ad Aiguines, ce n'è un'altra prima del Col d'Illoire, ma le distanze a piedi sono lunghe. Volendo percorrere il giro nella stagione calda, bisognerebbe trovare il modo di portarsi dietro una bella scorta d'acqua, cosa che, per il podista, non è facile.

Resto a secco per i sei caldi km fino all'abitato. Ricordo che in paese la fontana c'è, da qualche parte. Mi piacerebbe anche comprare una bottiglia di Coca Cola in un negozio di alimentari: ma i negozietti sono chiusi. Sono aperti alcuni bar, ma c'è troppa folla nei dehors. E' più forte di me: forse non è paura, ma certo il mio è un profondo senso di disagio quando mi trovo in mezzo a tanta gente. Preferisco, dopo qualche esitazione, tirare dritto, con la mia borraccia in mano, a caccia della fontanella. Incrocio i passi di un omone dai tratti marcatamente nordici, che mi chiede in inglese se io abbia bisogno d'acqua: in tal caso, ne ha una scorta nell'auto parcheggiata proprio lì. Ringrazio, ma vedo proprio in questo istante la fontana. L'omone mi chiede dove io sia diretta: “Devo andare a Trigance”, gli rispondo. Vedo perplessità sul suo volto: da qui a Trigance ci sono ancora 40 km...

Con la borraccia piena, riparto. Per telefono ho sentito Matteo, che è in dirittura d'arrivo. La salita qui si fa più ripida, ma ormai io ho il mio passo marziale che mi porta su senza problemi, una volta placata la sete. Poche curve più su, ecco Matteo alle spalle. Altra sosta, sempre da seduta, altro pasto caotico, dal cioccolato al pane con la maionese, passando per gli amaretti ed il the. A questo punto ho una tale fame che potrei incenerire qualsiasi cosa. 46 km ed un bel po' di salita alle spalle. Ancora una volta, si riparte. Il programma, a questo punto, prevede che Matteo raggiunga Trigance in bici entro le sei e mezza, perché lì è il B&B prenotato per la notte; dovrà prendere le chiavi, poi andare a recuperare il furgone, indi avvicinarsi con il furgone al B&B, oppure venirmi incontro un pezzetto, visto che, a quell'ora, anche io non sarò più molto lontana da Trigance. Programma complicatissimo e che presuppone una velocità di crociera non indifferente per essere portato a termine, ma il bello è che, in questo, Matteo è sempre una garanzia. E' sempre più veloce di qualsiasi previsione.

Proseguo a passo più veloce possibile, mentre, alle mie spalle, arriva una coppia di ciclisti. Salgono a buon ritmo, ma si fermano ad ogni belvedere: del resto, da quassù, lo spettacolo è impareggiabile. La strada che ho percorso prima, dall'altro lato della gola, è talmente vicina che pare di poterla toccare stendendo il braccio; le pareti rocciose sono impressionanti e paurosi sono i salti di roccia verticali. Ho già percorso il Verdon più volte in bici, ma girarlo a piedi è una scoperta, come non averlo mai visto.

La temperatura è già scesa parecchio. Anzi, da questo lato delle Gorges, il sole al pomeriggio su molti tratti di strada non arriva già più, lasciando il campo libero al freddo portato dal vento: se non fosse che sono in salita e sto cercando di menare i piedi il più in fretta possibile, in alcuni tratti avrei quasi la tentazione di indossare la giacca. E' nettissimo il contrasto di luce tra i tratti ancora al sole ed i tratti già in ombra. Il Verdon, là in fondo, è un filo verdissimo, contorto.

Il traffico è intenso, ma sempre cauto: pur con tante auto, tante moto e tanti camper su una strada stretta e destinata a piloti arditi, oggi non ho corso il benché minimo rischio. Ovvio: non è suolo italico, questo. Se fossimo in Italia, avrei già fatto collezione di improperi e colpi di clacson.

Ormai il Col d'Illoire è a poca distanza. Supero la grande fontana sulla mia destra, ma questa volta non mi avvicino nemmeno, all'acqua: sono già abbastanza intirizzita. Riprendo a correre, perché, oltre il colle, mi attende una lunga e comoda discesa in cui sgranchire le gambe. Alla mia sinistra, davvero ad un tiro di schioppo, abbarbicata sull'altro versante del canyon, la Route des Cretes, la strada che compie un ampio e panoramicissimo giro partendo ed arrivando a La Palud. Quello è il programma per domani. Adesso, la lunga discesa mi porta ad allontanarmi pian piano dal tratto più aspro delle Gorges, per raggiungere un bellissimo altopiano deserto, punteggiato da pochissime costruzioni e da qualche gregge di pecore. Memorabile l'incontro con tre meravigliosi pastori australiani ed un collie, di guardia ad un bell'edificio in corso di ristrutturazione. I tratti di risalita sono brevi e molto dolci: mi sforzo di correre comunque o, al limite, di alternare un tot di passi di camminata ad un tot di passi di corsa. Il traffico è cessato all'improvviso, le ombre si allungano. Sono io e solo io nel raggio di chissà quanti chilometri: un silenzio quasi irreale, un paesaggio immobile, una meraviglia.

 
Raggiungo il Pont de Soleils con le luci del tramonto: un gruppo di turisti si sporge a guardare il vuoto sotto questa struttura eccezionale che congiunge due lembi di terra separati da una profondissima crepa. Il corso d'acqua sul fondo non è più il Verdon, rispetto a cui qui mi trovo parecchio spostata a destra, ma l'Artuby. Scatto qualche foto, mi azzardo ad affacciarmi, ma per me, da sempre terrorizzata dal vuoto e dalle altezze, non è spettacolo consentito. Ci sono centinaia di metri di salto da qui al fondo: e pensare che, proprio da questo parapetto, si pratica il bungee jumping. Esperienza che, nonostante la mia paura, mi tenta moltissimo: ma tengo famiglia, madre e cani, non posso rischiare così tanto per un capriccio.

Meglio tirare dritto. Oltre il ponte, la strada riprende a salire dolcemente e, da qui in poi, alterna tratti di lieve risalita a tratti più lunghi di marcata discesa. Oltre una curva, una folata improvvisa ed inaspettata di vento mi inchioda, come se avessi picchiato la faccia contro un muro. Subito dopo, due brevi tratti di galleria buia, che non mi è facile affrontare: le lenti degli occhiali sono scure per effetto della luce e, senza occhiali, io non vedo un tubo... Cerco di sollevare bene i piedi per non inciampare e di superare in fretta l'ostacolo. Di lì in poi, davvero viaggio nel nulla, un paesaggio forse per certi versi sinistro, silenziosissimo, di bosco e prati senza fine. Ormai sono le sei e mezza, circa; Matteo non dovrebbe più essere lontano, secondo i miei calcoli. Faccio i conti con la fame ormai costante e le scorte alimentari ridotte: trangugio, sempre correndo, una barretta al cioccolato e cocco, seguita dall'ultimo residuo di maionese che estraggo a fatica spremendo il tubetto. La strada torna a salire ancora: la pendenza è dolce, ma le gambe cominciano a sentirne il peso. Forse, più che delle gambe, è colpa di un po' di sconforto che mi assale a seguito della stanchezza. Venti passi di camminata, cinquanta passi di corsa, venti di camminata, cinquanta di corsa; mi concentro su questo e non penso ad altro. Ed ignoro i morsi della fame ed anche della sete. Ormai sono a quota 65 km: ad onor del vero, i muscoli non sono così provati come avrei immaginato, però... Insomma, diciamolo pure, ne avrei anche abbastanza. Ecco. Mettiamola così: potrei correre ancora per un bel po', ma dovrei prima fare una robusta cena e magari una doccia.

Coraggio, Gian, tra non molto arriverà Matteo, con un mezzo o con l'altro. Tento di capire fin dove la strada andrà a salire, mentre il sole si abbassa e le ombre si allungano a dismisura. Qui siamo più ad ovest rispetto a casa, quindi il buio dovrebbe concedermi un po' più di margine. E poi, mal che vada, ho la pila frontale.
Mi superano un paio di auto. In lontananza davanti a me, mi sembra di scorgere una figura che scende. E' lui, è Matteo, finalmente. Anche se non è molto gentile, da parte mia, ammetto che, in questo momento, sono felice di vederlo soprattutto nella sua qualità di portatore di cibarie e conforto... Ha fatto tutto quel che doveva fare e poi, siccome i 180 km percorsi durante la giornata non gli parevano sufficienti, ha pensato bene di lasciare l'auto a Trigance e pedalarmi incontro. Gli chiedo subito dell'acqua: ha di meglio, una graditissima bottiglia di succo di frutta che ha il sapore di un miraggio. Basta questo a farmi sentire già meglio, mentre si avvicinano la fine della salita ed i 70 km percorsi. Sta per calare il buio: Matteo riparte per recuperare l'auto e venirmi un pezzetto incontro, in modo da farmi lo “sconto” di qualche km, mentre io proseguo a piedi. In discesa e con lo stomaco momentaneamente tacitato, sto molto meglio e riprendo a correre di gran carriera. Qualche km dopo il colle, imbocco il bivio a sinistra in direzione di Trigance: do fondo a quel che resta delle energie per approfittare della pendenza favorevole. E' ormai quasi buio quando scorgo i fari del furgone che si avvicinano. 75 km esatti, neanche a farlo apposta: per oggi possono bastare.

Il B&B è una struttura semplicissima e meravigliosa, così come la camera, anche se ci vorrebbe una laurea in fisica nucleare per capire come far scendere acqua calda dalla doccia. E poi la cena, come ai bei vecchi tempi: due belve affamate all'assalto delle scorte portate da casa, sul tavolino della camera. Pane, formaggio, crema di cioccolato, insalata di riso in rigoroso ordine sparso; opera di accurata pulizia delle briciole e perdita immediata di conoscenza sotto al piumone. Il programma di domani sarà un po' più leggero, ma si dovrà comunque correre.


lunedì 12 febbraio 2018

11 febbraio 2018 – SI TORNA A PEDALARE


Era da parecchio tempo che non caricavo più la bici in auto e me stessa in sella alla bici. Ho pedalato l'ultima volta ben sei mesi fa, proprio il giorno di Ferragosto, peraltro con esito penoso per me stessa e per i due tapini che quel giorno mi accompagnavano. Poi, la corsa ha assorbito tutte le mie energie, anche perché, per la prima volta nella mia vita, ho deciso di provare ad allenarmi con un po' più di metodo, affidandomi ai consigli di chi, in materia, ne sa più di me. Non l'avessi mai fatto: prima, l'euforia del miglioramento e poi, ahimè, la dura sorpresa del primo, serio infortunio da quando ho coscienza di esistere. Non certo per colpa dell'allenamento finalmente sensato, ma della jella che, si dice, al contrario della fortuna, ci vede benissimo. Ormai da due mesi trascino un fastidioso problema che, a giudicare da quanto ho letto qua e là su internet, potrebbe vagamente somigliare alla metatarsalgia: ho provato un po' di tutto, anche a stringere i denti e continuare a correre, ma ultimamente il dolore è davvero pungente e le uscite per gli allenamenti sono diventate una pena. Da una parte, sono quasi sollevata: da che mondo e mondo, un podista che si rispetti ha almeno un acciacco in corso, sempre, di cui parlare con malcelato compiacimento e da brandire come scusa per qualsiasi prestazione al di sotto delle aspettative. Io non avevo mai avuto nulla, fino ad ora. Mi sentivo quasi un po' discriminata, diversa. Ora che ho anche io il mio malanno sono finalmente a posto con la coscienza. Però non riesco più a correre... Tra qualche giorno andrò a farmi dare un'occhiata da qualcuno che dovrebbe saperne un po' più di me. Nel frattempo, ho pensato di sostituire la corsa con l'antico e forse unico vero amore, la bici.

In realtà, pedalare è ciò che avrei continuato a fare con vera passione, se nel mio percorso di vita e di sport non mi fossi imbattuta in alcuni incidenti, l'ultimo dei quali avrebbe potuto lasciare conseguenze molto peggiori di un trauma cranico e della rottura degli incisivi. Sono passati ormai parecchi anni, ma la paura non è più guarita. Soprattutto se si tratta di pedalare su strade con un certo traffico. Oggi, però, potrebbe essere una buona occasione per un ritorno in sella ovattato: lungo l'itinerario che ho programmato, se ne vedranno ben pochi, di veicoli a motore.

Il parcheggio di Campetto, accanto al ponte sul Belbo, a metà tra Borgomale e Castino, alle otto e mezza è deserto. Temperatura, zero gradi, tondi tondi. Non è che io sia proprio convintissima, intendiamoci, ma ormai son qui... Tre strati tra maglie e giacca invernale, pantaloni Assos lunghi e spessi, guanti, calze spesse, plantari morbidi per l'avampiede, nella speranza che le sollecitazioni dei pedali non facciano ulteriori danni. Eh, brutta bestia, la vecchiaia. Acciacchi che spuntano come i funghi in un piovoso autunno. A stento mi ricordo come si salti in sella, non parliamo poi di ricordare come si manovrino i rapporti. Ma intanto sono partita. Prima salita in direzione di Bosia. Poche centinaia di metri bastano a ricordarmi il motivo per cui, negli ultimi tempi, io mi sia sempre rifiutata di pedalare in inverno: piedi gelati, irrigiditi e dolenti; mani, idem. Comincio spasmodicamente a staccare dal manubrio una mano per volta, aprendo e chiudendo le dita per riportare un'idea di circolazione nelle falangi; nel contempo, cerco di muovere le dita dei piedi, che però non hanno proprio più sensibilità. La salita è tutta in ombra; la luce lambisce appena le cime delle colline dall'altro lato della valle. Qui in basso è tutto bianco di brina, immobile, cupo.

Pedalo il più agilmente possibile: l'itinerario di oggi sarà impegnativo e non posso permettermi di irrigidire le gambe già adesso. Ma i piedi e le mani fanno sempre più male. Quanto a circolazione periferica, io sono un vero disastro: le dita non si limitano a diventare fredde, ma gonfiano e si irrigidiscono, soprattutto quelle dei piedi. E sì che non indosso più da tempo le scarpe che si agganciano al pedale: ho un paio di scarpe da corsa, molto morbide sia sulla suola che sulla tomaia. Con le estremità inferiori conciate male come in questo periodo, non potrei sopportare nulla di vagamente più rigido.
La salita scalda il resto del corpo, ma è una pena. Mi maledico mille volte per la mia sciagurata idea: ma chi me l'ha fatto fare di venire a soffrire così? Ma come facevo, tanti anni fa, ad uscire in bici in qualsiasi condizione di temperatura, con ostinazione furiosa?

Mi superano in tutto tre auto, prima di raggiungere l'incrocio con la strada che scende a Torre Bormida. Prima, agghiacciante discesa, che affronto come se le ruote viaggiassero su un tappeto di uova. Il mio terrore della discesa ha ormai raggiunto il punto di non ritorno, soprattutto adesso che, con mani e piedi insensibili, non ho sicurezza né nell'appoggio sui pedali, né nella frenata. Nel dubbio, appena riesco, afferro i freni e li tengo tirati. Scendo pianino, ma il freddo penetra immediatamente nel collo, nel tronco, nelle gambe. Qui un po' di sole arriva, ma è ancora troppo presto. Per ora non riesco ad ammirare la bellezza della Valle Bormida che si apre qui sotto. Anzi: un paio di volte mi fermo per scuotere con violenza i piedi, se non altro per capire se sono ancora attaccati alle caviglie. Di muovere le dita non c'è modo. E il ghiaietto e l'umidità sull'asfalto mi incutono una gran paura.

L'arrivo a Torre Bormida, fine della discesa, è una liberazione. Mi immetto sulla strada di fondovalle, tenendo la destra: pochi km e ci sarà il bivio per Levice, sulla sinistra. Uno dei pochi tratti di pianura di questa giornata. Al bivio, svolto ed attraverso il ponte sul torrente Bormida: finalmente, si ricomincia a salire. Lentamente, con molta fatica e ancora per lunghi tratti in ombra. Mi fermo ancora una volta per riattivare la circolazione nelle mani e nei piedi. Il sole inonda la vallata, man mano che si alza, ma il freddo è ancora pungente. Breve e dolce la strada che, con alcuni ampi tornanti, sale a Levice: uno dei pochissimi posti dotati di bagni pubblici puliti ed aperti. Sarà che qui non c'è proprio mai anima viva... Sono tappe strategiche, essenziali, soprattutto adesso che la salopette lunga invernale costringe ad un mezzo strip tease per assecondare le esigenze “interiori”.

Da Levice, conclusa la tappa e l'ennesima sessione di massaggio e scuotimento dei piedi, riparto in direzione di Bergolo. Si sale ancora, ma lievemente, per alcuni km, in cui approfitto per mangiare la prima barretta della giornata. Da Bergolo scendo verso Cortemilia, altro momento di gelido dolore: ad un paio di km dal fondovalle, incrocio Matteo che, partito da tutt'altra parte, mi pedala incontro. Carico come un mulo di ogni sorta di mercanzia, tra cui tubo e telefono della doccia da cambiare a casa mia ed un paio di scarpe da corsa per me, che chissà se e quando potrò tornare ad usare. Ma lui non fatica, soprattutto se si tratta di pedalare al mio ritmo. Mi accoglie con un entusiasta “Che bello rivederti in bici”, a cui io rispondo con un ringhio: “Tralasciando il freddo porco, il male alle mani ed ai piedi, il dolore al culo, è bellissimo, senza dubbio”.

Da Cortemilia, inizia un giro che ho provato domenica scorsa a piedi e che sono curiosa di mostrare oggi al mio compagno di viaggio. Sperando di ricordarmi i mille bivi. Superato il ponte sul torrente Uzzone, svoltiamo quasi subito a sinistra, in direzione di Monte Oliveto. La salita è aspra, sale con alcuni ripidi tornanti: in un punto, il Garmin di Matteo segna addirittura il 16%. Breve tratto di requie prima di Perletto e poi ancora rampe, in salita sulla via Piazze. Guai a tardare a mettere il rapportino... Si va su per i boschi, con il sole basso che abbaglia tra i rami degli alberi. Una stradina minuscola, con pendenza irregolare, tra pochissime case abitate, cappellette e costruzioni in pietra purtroppo diroccate. Un secco bivio a sinistra, con direzione Serole, mostra le prime tracce di neve sulla strada: già, non ricordavo più che in settimana ha nevicato...

Da qui in poi, molti tratti di strada sono ingombri di neve. Non per intero: ci si passerebbe, volendo, comodamente in sella. Infatti, Matteo lo fa. Io preferisco, in molti casi, scendere e spingere: soprattutto nel tratto di pianoro più in alto, dove la strada diventa per un tratto sterrata ed è coperta di neve per intero. Neve, per fortuna, gelata, che sostiene quasi ovunque il mio peso. Tutto intorno, una distesa bianca; lingue di bianco a segnare i rilievi dei muretti a secco sui pendii. Perdo un bel po' di tempo a portare la bici a fianco, mentre Matteo, alla fine del tratto nevoso, pazientemente attende. Però, camminare mi aiuta a riportare un po' di sangue fino in fondo alle dita dei piedi.



L'asfalto riprende in condizioni migliori, anche se qui, in discesa, bisogna prestare attenzione al ghiaccio formato sulla strada dallo scioglimento della neve. Raggiungiamo la strada principale che da Cortemilia sale a Serole, per due o tre km, non di più: ne approfitto per mangiare un avanzo di panettone ormai secco. Imbocchiamo poi il bivio a sinistra per Puschere, dove accumuliamo ancora un po' di dislivello in salita, un paio di tornanti fino ad un gruppo di cascine. Altro tratto di discesa: qui la strada, una poderale su cui tra l'altro potrebbero passare solo gli aventi diritto, è in pessime condizioni. Alcuni punti sono sterrati, altri hanno visto l'ultima riasfaltatura ai tempi delle Guerre Puniche. Io, per non saper né leggere né scrivere, faccio su e giù dalla bici. La strada arriva sul fondo dei calanchi, sempre in condizioni precarie, ma migliora subito dopo il ponticello in curva, quando si torna a salire, gradualmente, a strappi. Soprattutto, si torna al sole. Olmo Gentile è ormai ad un tiro di schioppo: superiamo alcuni gruppi di cascine e case in pietra, dove si percepisce traccia di presenza umana – auto parcheggiate, camini che fumano – ma non si vede né si sente anima viva.


Attraversiamo il minuscolo paese di Olmo Gentile, per poi imboccare l'ultimo bivio a sinistra prima della salita che porta alla torre. Discesa abbastanza lunga e ripida, con fondo umido ed ingombro di ghiaietto, tanto che persino Matteo la affronta a freni tirati. Scendiamo per alcuni km e ci sembra di essere lontani da tutto, come se stessimo andando giù in un pozzo. Finché la strada asfaltata finisce, ma lo sapevo già. Due cagnetti bianchi ci tendono un agguato poco convinto. Da qui, un km e mezzo di sentiero che, ovviamente, è anch'esso ricoperto di neve. Affrontiamo il primo tratto, per forza, con le bici per mano: le scarpette da corsa, per me, e le scarpe da bici di Matteo non sono le calzature più idonee all'uopo... Speriamo di non scivolare. Anche qui la neve è ancora in parte gelata. Attraversiamo un frutteto, superiamo un guado: da qui, nella neve e su una pendenza non trascurabile, è passata un'auto, ci sono le tracce degli pneumatici. Complimenti per il coraggio e l'abilità di guida: l'avessi fatto io, mi avrebbero ritrovata al disgelo...

Dal guado, il sentiero diventa strada sterrata e quasi sgombra dalla neve, perché più esposta al sole. Si risale ancora qualche centinaio di metri, Matteo in sella, io sempre prudentemente a piedi con la bici per mano. Fino all'asfalto. A sinistra, si raggiungerebbe Perletto per via diretta. A destra, ancora una sequenza di rampe secche, impegnative, che passano accanto ad alcune case in pietra, ristrutturate, una più bella dell'altra. La torre di Perletto, sulla sinistra, è molto vicina e ci dà l'idea dell'orientamento. Ma noi, salendo ancora un po', arriviamo proprio sotto San Giorgio Scarampi, sulla strada che da Roccaverano scende a Vesime. Ne percorriamo non più di duecento metri, per imboccare immediatamente un bivio a sinistra. Lunga e ripida discesa tutta a tornantini, insidiosa per il fondo stradale. Qualche tratto decisamente ripido risveglia in me il terrore: lo affronto a velocità appena sufficiente a tenere la bici in piedi: anzi, in un punto, addirittura scendo di sella. Ho sempre avuto una paura invincibile della discesa, sempre; però, andando avanti con gli anni, la cosa è peggiorata. Oltre ad una certa pendenza, mi sembra di percepire il ribaltamento in avanti: razionalmente è impossibile, ma non ce la faccio. Ho davvero paura. Così, finisco regolarmente per impiegare più tempo a scendere che a salire. Infatti, per ora, la media del giro di oggi si aggira sui 10 km/h o poco più...

Ancora una volta siamo sulla strada principale. Destinazione, Vesime, per la tappa cioccolata calda. Nella speranza ardente che il bar sull'angolo sia aperto... Matteo mi precede: quando lo vedo fermo davanti alla vetrina, mi rincuoro. Una cioccolata densa e buonissima: peccato che, anziché una tazza, ce ne vorrebbe una vasca da bagno colma...

Ritemprate un pochino le forze – io cominciavo ad avvertire furiosi i morsi della fame – ci avviamo per l'ultima fatica, mentre il cielo, fino ad ora di un azzurro prepotente, comincia a velarsi di grigio. Direzione Cortemilia per un km, più o meno, e poi bivio a destra per Scorrone. Salita ormai nota, assai cattiva, con rampe molto impegnative e pochi tratti di recupero. La collina, con questa luce cupa, mostra il suo aspetto più severo; nemmeno più il conforto di un raggio di sole...

Il lupone meraviglioso, a guardia del cortile di un'azienda agricola, mi accompagna con i suoi latrati verso l'ultimo tornante in salita della giornata. Si scollina, si svolta a sinistra, direzione Castino. Per arrivarci, ancora qualche km di odiosa leggerissima salita: sarà che, per oggi, ne ho proprio abbastanza... Ultimi tre o quattro km di discesa decisa, su strada ampia ma per me un po' più angosciante perché, qui, qualche auto passa. Stoicamente non ho più voluto fermarmi per indossare la giacca antivento: arrivo giù che sono rigida come uno stoccafisso. Circa 72 km e 1.800 m di dislivello: per oggi può bastare. Non mi resta che portare la temperatura dell'abitacolo della Zafirona al calor bianco e pazienza se Matteo ben presto comincia a mostrare segni di disagio: chi osa protestare sarà scaricato ed abbandonato lungo la via. Uomo avvisato...




domenica 4 febbraio 2018

4 febbraio 2018 - DI CORSA TRA CORTEMILIA, PERLETTO, OLMO GENTILE


Era già da qualche tempo che, a furia di percorrere il giro Cortemilia – Serole – Roccaverano – San Giorgio Scarampi – Vesime – Cortemilia, in bici ed a piedi, scrutavo con curiosità i bivi con le stradine laterali che si inerpicano su per la collina e spariscono nel fitto dei boschi. Più volte mi sono ripromessa di andare a piantare il naso nel misterioso interno del quadrilatero di strade.

L'occasione è arrivata per vie traverse. A gennaio ho tentato, con poca convinzione, l'Ipertrail della Bora: gara di corsa in montagna che prevedeva, tra le altre cose, di seguire il tracciato esclusivamente per mezzo della traccia GPS. Non che fosse un obbligo di regolamento, ma era una scelta obbligata, a fronte dell'assoluta inutilità pratica delle cartine fornite per il percorso. Tralasciando il triste epilogo del mio trail, mi è rimasta l'esperienza – molto traumatica sul momento, per me completamente digiuna di navigatori da escursionismo, ma decisamente interessante una volta elaborato il lutto – della navigazione con GPS cartografico. Matteo mi aveva prestato il suo Garmin 800 da bici, per l'occasione: beh, il giocattolino mi è piaciuto così tanto che ho deciso di tenermelo, immaginando subito una buona quantità di interessanti usi. Primo tra tutti, proprio l'itinerario con partenza da Cortemilia ed esplorazione solitaria dei meandri delle stradine più nascoste.

Elaboro il percorso, in formato idoneo ad essere trasferito al GPS, sul sito Openrunner. Un itinerario quasi circolare che prevede il passaggio a Perletto, da lì alla frazione Cuniola di Serole, poi ad Olmo Gentile, fino al confine con San Giorgio Scarampi, indi ritorno a Perletto e Cortemilia, ma in modo da viaggiare sulle stradine che Google Maps traccia come minuscoli spaghettini bianchi. Un azzardo, se vogliamo: non so neppure se si tratti di strade asfaltate o sterrate, se siano effettivamente percorribili o magari per qualche ragione sbarrate. Ma non sarebbe un gran danno, in ogni caso: non sarò mai così lontana dall'auto da non poter serenamente tornare indietro ed avrei comunque sempre il riferimento del quadrilatero di strade principali. Il mio giro dovrebbe prevedere 41 km per circa 1.100 m di dislivello, nei limiti della precisione del sito internet.

Così, domenica mattina, sempre più tardi di quanto vorrei, causa organizzazione, nutrimento e sistemazione di tutta la caninità di casa, mi metto in viaggio per Cortemilia. Eh sì, a casa ho il mio paradiso, in senso sia paesaggistico che sentimentale, ma a meno di un'ora di auto ne ho un altro, diverso ma altrettanto suggestivo. Il termometro segna 4 gradi sotto zero mentre, da Alba, salgo verso Benevello, poi giù verso il freddo pungente del fondovalle Belbo, ancora in ombra alle otto del mattino, in questa stagione. Altra salita verso Castino ed ultima discesa verso Cortemilia, mentre la radio passa una canzone che mi fa drizzare le orecchie. Scoprirò poi che si intitola “Io voglio vivere”, dei Nomadi: un ritornello che mi si incide subito in mente e mi farà compagnia per tutto il viaggio.

A Cortemilia, mi sforzo di non dimenticare, come mio solito, qualcosa di fondamentale in auto, con il risultato che chiudo la Zafirona, ripongo la chiave nello zaino, poi la riprendo, riapro l'auto, ripetendo la litania per ben quattro volte. Ora dovrei avere tutto: giacca, riserva alimentare (panettone, fontina e cioccolatini assortiti), borraccia, batteria di ricambio per il GPS, cavo per la batteria, guanti. E, al polso, l'altro GPS Garmin, quello per rilevare il percorso fatto e creare la traccia ex novo. Mai stata tanto tecnologica in vita mia! Parto con la giacca Goretex sopra la tuta, che pure è già pesante: la temperatura è gelida, sarò in ombra per un po' e tira una leggera aria pungente. Traccia GPS avviata, si parte.

Supero il ponte sul torrente Uzzone, poi imbocco la seconda via a sinistra. Breve tratto in piano in mezzo alle palazzine, poi la salita comincia subito sotto la Pieve di Monteoliveto, sede dell'Ecomuseo regionale dei terrazzamenti e della vite. La stradina, via Perletto, prende quota tra i muretti a secco su cui crescono gli ulivi: un'immagine più ligure che piemontese, non fosse per la temperatura, anche se le cascate gialle di forsizie fiorite fanno ben sperare per l'avvicinarsi della primavera. La pendenza è significativa ed io, l'ho già capito, non sono al massimo della forma, che poi, anche quando è al massimo, è ben misera. Depongo subito le armi: in salita, oggi, si cammina, sia pure di passo più svelto possibile.

Le abitazioni si diradano man mano che sale la quota. La vista spazia sull'altro versante della valle, dove riconosco la strada da cui sono scesa, quella che va a Castino, ed anche la temibilissima salita di Castel Martino. Il sole illumina già il mio percorso, ma è ancora pallido e freddo. Il GPS, che tengo d'occhio, per ora mi conforta sulla direzione da prendere.

Poco più di tre km di salita impegnativa mi portano a Perletto, che per la via principale di fondovalle sembra molto più lontana. La sua torre a pianta quadrata è già in vista, sul cocuzzolo della collina. Ma non entro in paese: la traccia sullo schermo del GPS indica una brusca svolta a destra, ad angolo retto, subito dopo un paio di meravigliose case in pietra. Via Piazze: il cartello si vede solo una volta imboccata la strada, che comincia subito con una ripida strada in salita.

La pendenza rimane significativa per un buon tratto, mentre la stradina si fa largo tra querce e faggi. I primi raggi del sole che si alza creano suggestivi giochi di luce. Io continuo a camminare più che altro: percorro di corsa i brevi tratti a pendenza minore o pianeggianti, ma il fiato manca ed il petto duole. Non c'è verso. Godiamoci la giornata. Qua e là, abitazioni e ciabot in pietra, purtroppo spesso abbandonati ed in parte crollati, ed una vista splendida sulla vallata che sale a Serole, in cui il colore dominante, in questa stagione, è il marrone delle foglie secche. Bellezza aspra, severa, tutto intorno il silenzio. Molti sosterrebbero con disprezzo che in questi posti non c'è nulla: è vero ed è uno dei motivi più forti per cui li amo.

La strada prosegue seguendo le curve delle vallette, a volte ancora immersa nell'ombra e ricoperta di brina, a volte già al sole. Fa un freddo che taglia la faccia, al punto che, più volte, mi viene il dubbio di dover indossare la giacca. Ma resisto: tra non molto, andrà meglio...

In alto, i boschi lasciano il posto a pendii coltivati. Intorno all'ottavo km, l'asfalto finisce. Rimane una bella strada sterrata, molto agevole, in perfette condizioni di fondo, almeno per ora, con il terreno gelato. Pozze di ghiaccio qua e là. Ma sono cinquecento metri, non di più: oltre lo scollinamento, ricomincia l'asfalto. Si scende, si attraversa una minuscola frazione in pietra, si percorre un lungo tratto a mezza costa che porta sulla strada principale tra Cortemilia e Serole. Pochi km di leggera salita, che mette a dura prova la mia fiacca e soprattutto i miei piedi, da un paio di mesi doloranti nella parte anteriore in modo parecchio penoso. Ogni passo, soprattutto in salita, è una staffilata, anche se ormai mi ci sto quasi abituando, non avendo trovato rimedio. Ho acquisito un'andatura in salita a piede piatto che dev'essere orrenda a vedersi, ma più o meno mi consente di procedere e limita un pochino la spinta sull'avampiede.

Appena prima dell'abitato di Cuniola, un bivio sulla sinistra e l'indicazione per Puschere. Si ricomincia a salire seriamente e, quindi, a camminare. Un paio di tornanti, un gruppo di edifici, cascine. Nel cortile, c'è un uomo che lavora. La seconda persona che incontro in una dozzina di km abbondanti. Sulla mia destra, una cima costellata di antenne: sarà quello il Monte Puschere? Controllerò sulla carta. Proseguo oltre le cascine. Qui, la traccia GPS giunge utilissima: io avrei proseguito dritto, mentre il marchingegno mi intima di girare a sinistra, in discesa. E' una strada poderale con divieto di transito, esclusi soci e residenti: pazienza, non credo di arrecare danni o fastidi passando a piedi. Ora che sono in quota, davanti a me vedo la torre di Olmo Gentile ed anche quella di Roccaverano. Sembrano entrambe molto vicine, in effetti lo sono, in linea d'aria.

Anche qui, piccoli gruppi di case e cascine, tutte rigorosamente con muri in pietra su cui si inerpicano edera e glicini. Qualche traccia di presenza umana c'è: finestre aperte, auto in cortile, camini che fumano. Ma non muove nulla, non si sentono voci. Solo qualche latrato di cane. Rapidi tornantini in successione, poi la strada piega verso destra , fa una curva stretta su un ponticello: siamo sul fondo di una sorta di canalone, con pareti quasi verticali. Il primo tratto, finora, in cui ci si sente effettivamente lontani dal mondo ed un po' sperduti. Ma qui si impone una sosta: ho bisogno di bere, visto che non ho ancora toccato la borraccia, e di mangiare qualcosa. Un pezzo di panettone, per esempio. Ma lo zainetto va riorganizzato, perché così non ci siamo. Tiro fuori tutto e rimetto sul fondo la giacca, più in alto i generi di conforto alimentare. Così, rinvengo anche una banana che avevo dimenticato di avere nella scorta. Vada per banana e panettone. Perdo un po' di tempo: purtroppo, con le dita intirizzite ed irrigidite, anche le mosse più semplici diventano un'impresa.

C'è una pace infinita quassù. Quiete e silenzio. Mi risuona ancora in mente la canzone di questa mattina: “Io voglio vivere / ma sulla pelle mia/ io voglio amare e farmi male...”. Ecco, tutto questo per me è vivere. Ed anche farmi male, senza dubbio. Non me ne andrei più.

Oltre il ponticello, con l'asfalto un po' sconnesso, si torna a salire leggermente. Alterno tratti di corsa e passo, maledicendo ogni tanto i piedi. Si risale dolcemente tra bosco e rare abitazioni, sempre affascinanti, tutte con lo stesso stampo, pietra, archi e muri severi. E muretti a secco ovunque a sostenere le viti ed i noccioleti. Il cielo si sta coprendo; il grigio avvolge tutto il panorama di boschi punteggiati di piccole frazioni.
Un altro bivio che azzecco grazie allo strumento. Vedo sulla sinistra un sentiero un po' nascosto, che potrebbe essere utile per una sosta tecnica. Ma sì, perché no? Qui non c'è anima viva, finora ho incrociato quattro auto in quasi venti km... Abbandono la strada e mi sposto un po' nel bosco. Improvvisamente, un suono di allarme: ossignur... Che succede? Avrò mica invaso una segretissima base militare? Mi guardo intorno cercando di capire cosa possa aver prodotto quel sibilo: ma è il GPS... Sullo schermo campeggia la scritta perentoria: “Fuori percorso”. Mamma mia, ragazzo... Sei utilissimo, credimi, mi piaci, ma non cominciare a rompere le palle perché, parola mia, ti catapulto nel Bormida, chiaro?
Dicevo, appunto: fin qui, ho incontrato quattro auto. La quinta, naturalmente, arriva proprio mentre io sono lì con la parte migliore di me in esposizione. Va bé che il fitto del bosco probabilmente mi nasconde ed il nero della tuta mi mimetizza, ma... Provo un certo disagio, ecco. Quindi, accelero le operazioni e mi rimetto in marcia.

Olmo Gentile è ormai ad un tiro di schioppo. Un paio di rampe tra le case del minuscolo paese e ci arrivo, proprio mentre sul sagrato della chiesa si riversa, all'uscita della messa, credo l'intera popolazione: quindici persone, ad occhio. Mi voglio rovinare, venti.
Rapido passaggio in centro paese; imbocco subito il bivio a sinistra che picchia giù verso il fondovalle, come ordina la mia guida elettronica. La stradina è ripida ma con ottimo fondo: dovrebbe essere quella che Matteo aveva tentato di percorrere in bici, salvo poi dover risalire non potendo proseguire sullo sterrato. Ancora muri in pietra, cappellette, archi, poche abitazioni. Quanche cane è l'unica traccia di vita.

L'asfalto, in effetti, finisce all'interno del cortile di una casa. Ma la traccia GPS prosegue su un tratto sterrato in mezzo ai noccioleti, sconnesso, ghiaioso, poco più di un sentiero. Km 23,5. Vediamo quanto è lungo questo pezzo.

Il fondo migliora dopo circa cinquecento metri, diventando una bella strada sterrata fino ad un guado in cemento. In questo pianoro sul fondo dell'imbuto, dove il sole non arriva neppure adesso che è alla massima altezza, c'è una splendida abitazione in pietra, a due piani, con un giardino molto curato, ma al momento apparentemente deserta.
Oltre il guado, si risale, ancora su sterrato, con un paio di rampe in mezzo al bosco. Vedo tracce di pneumatici: probabilmente, più avanti si andrà a sbucare su qualche strada. Infatti, così è: dopo poco più di un km e mezzo di strada sterrata, mi reimmetto sull'asfalto, prendendo a destra in salita. Si torna su, con alcuni tratti ripidi che percorro al passo, prima tra le cascine e poi solo più tra noccioleti e boschi, con qualche tornante, fino a superare una spalla di collina. Sono un po' giù di morale, molto stanca, troppo per lo sforzo finora affrontato, e tormentata dal male acuto ai piedi. Ma la vista di San Giorgio Scarampi mi rincuora.

Non arrivo alla strada principale tra Roccaverano e Vesime, che pure è lì a poche decine di metri. Proseguo, oltre un bivio a sinistra, come raccomandato dal GPS. Cinquecento metri quasi in piano e poi giù per una lunga e sinuosa discesa, molto veloce, con la torre di Perletto in bella vista sulla sinistra. Sono quasi al km 28. A questo punto, dovrebbe finire la prima delle due tracce GPS. Ho dovuto suddividere il percorso in due tracce perché, sul sito di Openrunner, la versione gratuita del programma consente di utilizzare un numero limitato di punti con cui tracciare il percorso... Ed un itinerario così frastagliato ne richiede parecchi. Così, seleziono la seconda traccia e riparto. O almeno, credo di seguirla... Il GPS mi chiede se io voglia raggiungere il punto di partenza di questa traccia, che secondo i miei calcoli dovrebbe essere proprio alla fine della precedente. Ingenuamente, rispondo di sì e mi fido della freccia bianca che compare lungo la strada, anche se avrei dovuto immaginare che quella freccia bianca, assente nel precedente tratto di strada, probabilmente non era lì per indicarmi la retta via.

Fino ad un certo punto, la strada è giusta per forza: c'è solo questa... Scendo giù giù fino a fondovalle, dove vedo un bivio che però ignoro, perché la freccia mi guida altrove. In effetti, Perletto è così vicina sulla sinistra ed io me ne sto allontanando... Qui so dove sono, strada nota: percorro un paio di curve della strada principale tra Roccaverano e Vesime e poi devio a sinistra, lungo la stradina che corre a fianco del Bormida. Quanta acqua! L'ultima volta che sono passata di qui era il periodo della grave siccità della scorsa estate; il letto del torrente era asciutto.

Quando arrivo nei pressi della strada che porta a Perletto, la freccia bianca mi intima di girare a destra ed oltrepassare il ponte. E qui casca l'asino. Se facessi così, andrei a finire sulla noiosissima strada principale tra Vesime e Cortemilia: l'ultima cosa che ho intenzione di fare. Io credevo soltanto di aver caricato la seconda traccia: in realtà, il GPS mi sta portando alla partenza dell'unica traccia che “sente”, cioè la prima, quella del percorso già completato, che partiva da Cortemilia. Mi sta conducendo a Cortemilia dalla via principale.

Poco male. A sinistra si va a Perletto. Probabilmente, avrei dovuto arrivarci da una strada diagonale, ma non importa. Mi arrampico su per la via Ponte, l'accesso primario al paese, con tanta fatica e pena nonostante la pendenza davvero minima. Le gambe sono dure, pesanti, ed il fiato è sempre più corto. Il cielo ormai plumbeo, minaccioso di pioggia, non aiuta. Però, nell'angolino in alto a destra dello schermino, vedo la traccia di questa mattina, che da Perletto dovrò ripercorrere a ritroso fino a Cortemilia. E vedo la freccia che mi dice via via dove sono io. Comodissimo. Anche in paese non incrocio più di un paio di anime.

Il nome di Perletto mi è noto da molto prima che cominciassi a frequentare questi luoghi per ragioni sportive. Ci abita una collega, o meglio una ex collega di mia mamma di cui sentivo spesso parlare, da ragazzina. Erano particolarmente in simpatia reciproca. Chissà dove abita di preciso.

Una rotonda, la bella torre imponente alla mia destra e poi il cartello per Via Piazze. Ecco, ci siamo. Mi allontano dall'abitato fino a raggiungere l'incrocio in cui stamattina, giungendo da Cortemilia, ho svoltato a destra in salita. Ormai manca poco a Cortemilia, quattro km scarsi. Meno male, ammetto mestamente.

Ancora una brevissima risalita, poi giù, con pendenza decisa e passo molto meno. Incrocio una signora in compagnia di una ragazzina e di un cagnetto: come mio solito, non posso fare a meno di fermarmi ed accarezzare il cagnetto, a cui faccio due complimenti. Riparto, niente più soste: rivedo l'agriturismo sulla sinistra, il B&B poco più avanti, ricompongo mentalmente tutti i dettagli notati all'andata, anche se ora non ho più necessità di rassicurazioni. Anzi, posso anche spegnere il marchingegno. Arrivo di corsa fiacca fin sotto Monte Oliveto e poi fino al ponte sul torrente Uzzone. Basta, direi, per oggi. La Zafirona è sempre lì in paziente attesa: si torna a casa, cinque ore e mezza di marcia per 41 km e circa 1.100 m di dislivello totale.

A casa, appena entro, superato l'assalto in massa dei cani, mia mamma esordisce: “Ti ricordi quella mia ex collega, la Michela? Quella che adesso abita a Perletto? Mi ha telefonato poco più di un'ora fa. Ha detto di averti incontrata mentre era a passeggio con la nipote ed il cane, ma ti ha riconosciuta solo dopo che sei ripartita”. Ecco, per la serie, come è piccolo il mondo. Ma soprattutto: meno male che oggi non ero impegnata in una missione segretissima...



domenica 21 gennaio 2018

21 gennaio 2018 - DI CORSA TRA LE VALLI UZZONE E BORMIDA


Inutile nasconderlo: lo sanno anche i sassi, che io non ho mai avuto un buon rapporto con la discesa. La temo. In bici, soprattutto, ma anche a piedi e talvolta persino in auto. Quel che è strano è che la temo a volte più, a volte meno, dipende dai giorni. Non tanto dalla condizione del sentiero o della strada, dal meteo o da altri fattori che sarebbe anche logico considerare, no, dipende proprio da me. Ci sono giorni in cui non ci faccio quasi caso e giorni, come oggi, in cui una sorta di ansia inspiegabile mi fa fare le curve, giù da Borgomale prima e da Castino verso Cortemilia poi, ai quaranta all'ora, con le unghie conficcate nel volante. Il fatto che la temperatura sia sotto zero non giustifica la mia scarsissima fiducia nella stabilità della Zafirona. Mi sembra di viaggiare sul sapone: la sento proprio, l'auto che scivola, anche se in realtà non c'è un tubo che scivola. Come potrebbe? Sono quasi ferma... Per fortuna, a quest'ora della domenica mattina, da queste parti c'è ben poco traffico. Non c'è nessuno che mi mandi al diavolo.

A Cortemilia, parcheggio nella piazza principale del paese. Zero gradi, precisi. Ciononostante, alle otto e mezza, c'è un discreto viavai dal vicino supermercato: sono sorpresa, come se poi fosse normale partire, alla stessa ora, per un giro di corsa da cinquanta km. A ciascuno il suo.
Indosso già in partenza la giacca in goretex, perché fa davvero freddo. Ed io invecchio, divento pigra e lamentosa, soffro il freddo ed il caldo come non mai. Guanti, bandana, zainetto con le vettovaglie: tutto pronto. Si parte, in leggera salita, lungo la strada della Valle Uzzone. Un bellissimo cielo azzurro promette bene, nonostante qua in fondo il sole non sia destinato ad arrivare presto. I primi venti km del giro, circa, mi sono chiari: devo risalire la valle, sempre sulla strada principale, in direzione di Cairo Montenotte, fino a scollinare al bivio per Dego. Il resto sarà un'avventura. E' Matteo che mi ha proposto e preparato l'itinerario: peccato che questa mattina, con il solito tempismo, la stampante abbia rifiutato di collaborare. Così, tutto quel che ho è un foglietto di carta su cui ho scarabocchiato, più o meno, la traccia, i bivi da imboccare e quelli da evitare. Speriamo basti.

I primi chilometri sono un'agonia. La leggera pendenza in salita non aiuta il morale né il fisico. Mi porto dietro, da alcuni giorni, un senso di fiacca imbattibile, che stamattina più che mai si fa sentire. Mi distraggo con i panorami che, per me, sono di una bellezza struggente: boschi, poderi coltivati, muretti a secco; il sole, proprio davanti a me, basso e violentissimo. Ma le gambe sono pesanti e rigide, il fiato manca. E ben presto si affaccia la fame. In effetti, né la cena di ieri sera, né la colazione di questa mattina sono state all'altezza delle mie pantagrueliche abitudini. Fame, di quelle serie. Ma ho l'arma segreta, sperimentata solo di recente e subito promossa ad alimento prediletto per le lunghe distanze. Continuo a correre e sfodero dalla taschina sullo spallaccio un goduriosissimo tubetto di maionese, come se fosse un gel: qualche ciucciata e lo stomaco, per il momento, è fuori combattimento, con gran soddisfazione del palato. Pezzolo Valle Uzzone, primo paese; Castelletto Uzzone, il secondo. C'è purtroppo un gran viavai di cacciatori: speravo che la caccia fosse già chiusa, invece pare di stare a Beirut. Non posso evitare una sosta tecnica, ma mi apparto con circospezione e rapidissimamente.

I km scorrono e la fame torna prepotente a farsi sentire. Il morale, nel frattempo, è scivolato sotto i tacchi: faccio una tale fatica a portare avanti il mio corpaccione, che più volte medito di tornare indietro e lasciar perdere, per oggi. Mi incoraggio con un proposito: comprare un pezzo di focaccia o un po' di pane, qualcosa di concreto e voluminoso, non appena troverò una panetteria. Già: fosse facile. Un cartellone mi appare, quasi per magia, con la pubblicità di un fornaio: peccato che sia a Castelletto, cioè già alle mie spalle. Mestamente proseguo, passi brevi e faticosi, corro per modo di dire. Pochissime auto, quiete, silenzio, solo qualche abbaio qua e là dai cortili.

Alle prime case di Scaletta Uzzone, mi fermo per togliere la giacca: il sole finalmente è salito abbastanza da illuminare direttamente anche la strada; si sta un po' meglio. Intanto, un anziano si avvicina alla recinzione di un piccolo cortiletto ed allunga la mano verso due cagnolini, che abbaiano festosi: ritiro la giacca, rimetto lo zainetto in spalla, passo e li saluto, tutti e tre. Provo a deviare verso l'interno del paese, casomai ci fosse una panetteria. Il mio stomaco incrocia le dita. Macché: vedo solo una sorta di locanda, con alcuni avventori che, al mio passaggio, battono le mani sui vetri e salutano: in effetti, non credo si vedano molte podiste da queste parti, in una gelida mattina di gennaio... Proseguo: all'uscita del paese, trovo un piccolo negozio di alimentari, davanti a cui campeggia un cartello di cartone con una scritta a pennarello nero: “Chiuso il 21/01 mattino”. Ma che fortuna. Pazienza. Mi terrò la fame. E poi, è evidente che si tratta solo di una sensazione: non è possibile aver fame, trangugiando maionese.

Al bivio, mi reimmetto sulla strada principale, che comincia a salire più decisa. Per un breve tratto, mi metto a camminare, per riprendermi un po' e mangiare senza soffocare una chicca di altro genere: uno Snickers, barrettona di cioccolato suino, caramello ed arachidi. Poi riprendo a correre, per una questione di principio: piano, pianissimo, ma non posso mollare già adesso...
Man mano che prendo quota, la temperatura diventa più confortevole, anche se i tratti di strada in ombra sono ricoperti da uno strato di brina. Alcuni tornanti mi fanno guadagnare rapidamente quota. Nelle poche case sparse nei paraggi della strada, ora fervono le attività, soprattutto di potatura. Rumori di motosega e falò accesi.

Arrivo al bivio: proseguendo per questa strada, andrei a finire a Cairo Montenotte. Invece, devo girare a sinistra, direzione Dego e Santa Giulia. Il panorama che si apre allo scollinamento è spettacolare: una vista ampia e limpidissima sulle montagne della Liguria, con le pale eoliche sui crinali in piena attività. A vederle di qua, sono tantissime.

Finalmente la strada concede un po' di tregua. La salita, lunga e faticosa, mi ha inchiodato le gambe, soprattutto perché, ultimamente, combatto con un dolore ai piedi che mi costringe a correre, anche in salita, con il piede piatto, per limitare al massimo lo sforzo sulla punta. E' un movimento innaturale, goffo e faticoso, ma tant'è. In un tratto in leggera discesa, supero un'auto parcheggiata, con una coppia ferma vicino all'imbocco di un sentiero. Pochi passi e la signora esclama: “Non le fa niente, eh!”. Non mi fa niente, cosa? Mi fermo, mi giro: un meraviglioso lupone cecoslovacco sta correndo amichevolmente verso di me. Mi basta fargli un cenno per vedermelo letteralmente volare addosso: baci, coccole, un turbinio di peli. I suoi padroni sono molto sorpresi: di solito, il loro cane incute timore... Può darsi, ma non certo a me! Né il lupone, né il piccoletto che lo accompagna, un botolo vagamente simile ad un Jack Russell. Mi stacco a fatica e malvolentieri dall'abbraccio peloso: devo proseguire... Ho percorso venti km o poco più; non sono nemmeno a metà. E chissà che ora è. Il Garmin, volendo, me lo potrebbe rivelare, ma... Preferisco non saperlo. Immagino di essere in clamoroso ritardo sulla tabella di marcia, anche se una tabella di marcia non esiste. Mi raggiungerà Matteo, partito in bici da Genova, più avanti, ma sa Santa Giulia in poi saremo comunque sulla stessa strada; mi troverà per forza.

Qui la strada alterna parecchi saliscendi, correndo in mezzo a vallate di boschi fittissimi e poche, sperdute, meravigliose cascine. Le gambe mal tollerano le risalite. Sono sempre tra i cinquecento ed i seicento metri di quota, con uno splendido panorama di cocuzzoli e torri in cima ai cocuzzoli. Ora, quassù, fa decisamente caldo, persino troppo per lo spessore della tuta che indosso, con maniche e pantaloni lunghi. Tra l'altro, ho bell'e finito l'acqua, già da qualche km. Non sarà facile trovare, in pieno inverno, qualche fontanella aperta.

Supero l'abitato di Santa Giulia e proseguo. Almeno, mi sembra la cosa più sensata da fare, per quel poco che posso capire dal mio geroglifico. Non ci sono molte alternative. Certo, se avessi la cartina, saprei orientarmi un po' meglio con i punti di riferimento nei dintorni, ma pazienza, speriamo bene. Tengo la sinistra; attraverso la frazione Gorra e continuo a salire. I muscoli delle gambe sono proprio stufi: induriti, affaticati dal dislivello e dalla fiacca pregressa. La strada prosegue deserta, bellissima, sempre in quota. Prendo nota, mentalmente, di due bivi con stradine che scendono a Scaletta Uzzone ed a Castelletto Uzzone, due paesi in cui sono passata prima: saranno per forza strade che “tagliano” la collina, da andare ad esplorare. Anche perché qui è bellissimo, non c'è un'anima. Qualche rara cascina qua e là, ma non si percepisce segno di presenza umana. E il sole, quassù, scalda anche in pieno inverno.

Arriva un messaggio di Matteo: “Dove sei? Io sono a Dego”. Dove sono. Buona domanda. Mi guardo intorno: sono nel nulla eterno, in questo momento. Ho passato da poco la frazione Gorra, ecco, tutto quel che gli so dire. Nessuna risposta. Avrà capito: del resto, se mi ha proposto questo itinerario, significa che lo conosce, presumo. Ingenuamente presumo.

La stradina d'un tratto finisce, immettendosi su una strada appena più grande. Nessun cartello che indichi alcuna località, né a destra né a sinistra. E la mia cartina non è di grande aiuto. A sinistra si sale, a destra mi sembra si scenda leggermente; il panorama, da qui, non mi aiuta a capire dove mi trovo. Anche se so di non essere molto distante dalla strada che scende verso Cortemilia con ampi tornanti. Che fare? Proviamo a sentire Matteo; magari ha qualche dritta. Lo chiamo: non è che ci si capisca molto, però, perché la strada da cui provengo, da lui suggerita nell'itinerario, gli è ignota. Da qui la mia ingenuità: avrei dovuto presumerlo... Beh, a questo punto tiriamo la monetina. Vada per la sinistra. Mi incammino, un po' di corsa stanca, un po' di passo. La strada sale ed io sono abbastanza fiacca, per non dire cotta. Ho anche molta sete: non c'è stato verso di trovare acqua.

Un tornante e qualche curva più avanti, ecco svelato il mistero. Sono al Todocco. Però, per quel che mi ricordo dalla cartina che non ho potuto stampare, e per quel che mi ero segnata sugli appunti, al Todocco non avrei dovuto arrivare. Richiamo Matteo: ora so dove sono, ma devo capire dove andare per evitare che lui finisca in Valle Bormida ed io in Valle Uzzone o viceversa. Responso: torno indietro al bivio, un paio di km. Si doveva andare a destra. Ma la deviazione non è stata vana: qui c'è una fontanella e c'è pure l'acqua. Riempo la borraccia, mentre un morbidissimo micio fiducioso mi si struscia tra le caviglie e va a bere nella vaschetta ai piedi della fontana. Tracanno un bel po' d'acqua: come mio solito, ho dimenticato in auto la bustina di sali e mi devo accontentare. Poi riparto, stavolta in discesa. Lungo tratto prima in leggera discesa, poi in piano, fino all'incrocio con la strada che, a sinistra, scende a Cortemilia. Ancora un incontro sgradito con le squadre dei cacciatori, riunite a fine battuta: passo, li ignoro. Proseguo in direzione Cortemilia per qualche centinaio di metri: poi, l'itinerario prevede di imboccare un bivio a destra, per Serole. Una stradina piccola, con una grata in metallo all'inizio. Eccola, è senz'altro questa. Passo accanto ad alcune cascine e proseguo, in leggera discesa, finché squilla il cellulare: è Matteo che mi chiede dove sia. Arriverà tra pochissimo. Ripongo il telefono nella tasca dello zaino e, come al solito, faccio inavvertitamente partire un tot di altre chiamate, oltre a cambiare la lingua del dispositivo da italiano a tedesco. La tentazione di catapultare l'aggeggio in fondo a qualche burrone è fortissima.

Matteo arriva, in effetti, dopo pochi minuti, in bici, carico come un mulo. Proseguiamo insieme per qualche km di questa meravigliosa stradina ancor più nascosta e sconosciuta, con vista a perdita d'occhio sulle colline, finché si arriva ad un incrocio che già conosco: a sinistra si va a Serole e poi Cortemilia, dritti si va a Roccaverano. Ecco svelato l'arcano.
Breve pausa, da seduta, mangiando un pezzo di focaccia ed uno di pandolce genovese che Matteo rinviene nei bassifondi dei suoi bagagli. All'orizzonte si vedono le pale eoliche, sul crinale. Poi si riparte ancora: dovrebbero mancare circa dieci km alla conclusione del giro. Ci sarebbe stata, per la verità, ancora una deviazione al Monte Puschere, ma direi che, per oggi, ne ho abbastanza.
Scendiamo ancora insieme a Serole, minuscolo grumo di case, un gioiellino, dove so che c'è una fontanella. La scommessa è se sia aperta o meno. Attraversiamo la piazzetta deserta: in una nicchia nel muro in pietra, eccola lì. Matteo è scettico, ma la fontanella butta acqua. Provvidenziale.

Fatto entrambi il pieno, torniamo sulla strada principale. Leggera salita, fino alla frazione di Cuniola: mamma mia, mi sembra l'Everest... Va bene essere stanchi, ma qui si esagera! A questo punto, Matteo prosegue: scenderà fino a Cortemilia, risalirà a Castino, da lì giù fino al ponte sul Belbo e ancora in salita fino a Benevello. Mi attenderà lì, dove io arriverò comodamente in auto. Per me, a piedi, la discesa su Cortemilia è ancora lunga. Però è dolce, accompagna il passo piacevolmente e mi lascia godere ancora un po' del sole primaverile e del paesaggio collinare. Mi intrigano le stradine che si staccano sulla mia destra: mi riprometto di andare in esplorazione, prima o poi, perché sono certa che conducano da qualche parte, non solo alle frazioni sperdute su per i boschi.

La pendenza della discesa si accentua negli ultimi km prima di Cortemilia. Incontro poche persone a piedi, due passi per smaltire i pranzi domenicali: gli ultimi tornanti, fino al ponte ed alla piazza centrale. Cinquanta km tondi, neanche a farlo apposta. E, sulla piazza, il distributore di carburante più economico che abbia visto nei paraggi. Come non approfittarne?