giovedì 27 agosto 2009

20/23 agosto 2009 - Tortour de Suisse

Non appena Matteo gira la chiave, un urlo lancinante squarcia il silenzio mattutino del campeggio. Pianto e stridore di denti, ma soprattutto di frizione, che gela il sangue nelle vene ed intontisce i timpani tant'è acuto. Io di motori non ho mai capito un beneamato nulla, non è nemmeno che la materia mi affascini più di tanto, ma ho la netta sensazione che si tratti di qualcosa di grave. Matteo non proferisce verbo, ma credo la pensi allo stesso modo.
Primo immediato problema: siamo a Saint Gervais Les Bains, poco oltre il Traforo del Monte Bianco, ed abbiamo in programma di trascorrere ancora due giorni di vacanza in terra francese, spostandoci però a Saint Michel de Maurienne per pedalare un po'. Ci arriveremo? Lo scopriremo solo vivendo. Ci arriviamo, sì. Ma, da un veloce consulto per telefono con il suo meccanico di fiducia, Matteo riceve la funesta diagnosi: probabilmente il problema del furgone è un cuscinetto della frizione che va sostituito; intervento che richiede un certo tempo e, ahimé, la disponibilità di un pezzo di ricambio. Così com'è, il buon Volkswagen potrebbe percorrere ancora 5000 km oppure 500 metri, ma chi lo sa. Aggiungiamo poi che oggi è la mattina del 17 agosto e che il mio meccanico, a Carmagnola, è ovviamente in ferie; sommiamo ancora la disponibilità gentilissima di un meccanico di Saluzzo, che contatto mentre pedalo verso la Croix de Fer (chissà cosa pensa che io stia facendo, con 'sto fiatone) e che mi risponde "Io il furgone ve lo guardo, ma senza il pezzo di ricambio non posso far nulla...".
Così a prima vista, è un bel guaio: non tanto per il ritorno a casa, che volendo, via Modane e Tunnel del Frejus, si potrebbe anche percorrere per intero in autostrada, con poco strazio per la frizione. Il fatto è che il furgone era predestinato, già da un po', a fare da auto al seguito per il mio Tortour. Breve parentesi per chi non è "imparato" in materia: il Tortour de Suisse è una corsa ciclistica che percorre il giro della Svizzera in 1077 km, circa 13.000 m di dislivello e 56 ore di tempo massimo, a cui mi sono iscritta in preda a non so quale dei miei tanti raptus di follia qualche mese fa. Insomma: oggi è il 17 agosto, domani saremo ancora qui, domani sera rientreremo a casa mia a Carmagnola, mercoledì ci toccheranno i lavori forzati per i preparativi della spedizione in terra elvetica e giovedì 20 si partirà per Schaffhausen, in quattro persone; oltre a io me medesima, anche tre elementi obbligatori per il seguito della gara. Viaggiare comunque con il VW sarebbe un azzardo: e se decidesse di rendere l'anima durante la trasferta, o peggio durante la gara? Ahimè, non s'ha proprio da fare... Anche l'ultimo viaggio della speranza, a Saluzzo, mercoledì mattina, quando spedisco Matteo quasi per forza, ha esito infausto.

Si passa dunque al piano B. E meno male che un piano B è possibile. Faccio ricorso a due delle tre Opel Corsa di famiglia (eh sì, siamo clienti molto affezionati quando ci troviamo bene con un prodotto...): ci trasferiremo in Svizzera caricando armi e bagagli un po' sull'una e un po' sull'altra, e poi useremo quella meno vecchietta come auto al seguito. Certo, il programma non mi soddisfa per niente, anzi direi che mi agghiaccia; si tratterà di costringere per chissà quante ore di fila i miei tre angeli custodi in una scatoletta di sardine, in cui stipare anche il corredo di abiti e cibarie per la mia gara e per loro stessi, in cui dovranno anche, a turno, dormire un po'. Per me sarà una gara lunga e faticosa, ma per loro temo sarà molto peggio: nel giro di un giorno ed una notte di forzata immobilità, avranno già dato di testa. Purtroppo questo è ciò che passa il convento, quindi tocca adattarsi.

Giovedì mattina, intorno alle cinque, la carovana è sotto casa mia, pronta a partire. Opel bianca, la vecchietta, ed Opel blu, quella meno vecchia, stracariche di ogni sorta di mercanzia. Due tende e quattro sacchi a pelo, si sa mai che non troviamo posto in albergo. Per la corsa, le mie due bici appese al portabici esterno, più attrezzi da meccanico, parti di ricambio, luci; il borsone dell'abbigliamento estivo, con tre cambi completi già bell'e pronti e divisi in borse di plastica, e quello dell'abbigliamento invernale o per il caso di brutto tempo; la cassa di legno dei generi di conforto, con Coca Cola, acqua, succhi di frutta, lattine di Red Bull tarocco, frutta secca, Nutella, marmellata, miele, formaggio, pane, pasta, the, barrette, gel; il minifrigorifero portatile; i bagagli personali "borghesi" per me e per la scorta; le bici di Matteo e di Luca che approfitteranno della trasferta per fare qualche salita in Svizzera. E le cartine stradali, nonché le stampe dettagliate dell'itinerario di gara, a cui ha provveduto con efficienza inaudita il buon Matteo, già da tempo. Meno male che ci ha pensato lui, a stampare ed a studiare, perché io, come sempre, mi son lasciata arrivare addosso la data di partenza senza provvedere quasi a nulla, se non alla spesa, il giorno precedente, e, anche lì, in compagnia di Matteo che fungeva da mente pensante. Io da sola avrei dimenticato la maggior parte delle cose.

Si parte: Luisa ed io su un'auto, Matteo e Luca sull'altra, destinazione paradiso, o inferno, a seconda dei punti di vista. Per me sarà entrambe le cose. Parto con una strana sensazione, con poca voglia, forse con troppo pessimismo che nasce dal guasto al furgone, seguito immediatamente dalla morte della lavatrice... In realtà è il ricordo, ben vivo anche perché recente, delle altre corse dello stesso genere del Tortour che ho già affrontato e in cui, sempre, mi son dovuta arrendere al tempo massimo od ai cancelli di tempo intermedi, troppo ristretti per le mie possibilità; ormai è un po' di tempo che mi domando "Ma chi te lo fa fare?". Mi piacciono le gare di lunghissima distanza, mi attraggono e mi affascinano. Certo, ha ragione chi dice che dovrei puntare ad obiettivi che siano alla mia portata; ma proprio perché sono alla mia portata, quegli obiettivi non m'interessano, non mi dicono nulla. Le cosiddette corse di ultradistanza sono un altro pianeta, un sogno... Purtroppo, si tratta di un sogno irraggiungibile per le mie gambe, che sta diventando anche troppo costoso. Le spese di viaggio e di iscrizione sono consistenti; certo, se vincessi al Superenalotto potrei continuare a provare questa e poi quella gara in giro per l'Europa, ma, siccome non gioco neanche, la vedo dura... Insomma, il Tortour per un po' sarà l'ultima competizione ciclistica a cui parteciperò; l'anno prossimo mi dedicherò solo alle corse in montagna, altrettanto affascinanti e, almeno per il momento, meno impegnative sia quanto a costi che quanto ad organizzazione.

Così medito mentre seguo i cartelli autostradali, vedo il cielo colorarsi di chiaro ed il disco rosso del sole spuntare all'orizzonte. Questo viaggio non ha molto senso; questa gara andrà a finire come tutte le altre, una bella esperienza ma monca, ed intanto ho mobilitato tre persone che magari avrebbero avuto piacere di trascorrere le proprie ferie in altro modo, magari in bici, almeno per Luca e Matteo. Insomma, son proprio di umore cupo. Meno male che Luisa ronfa della grossa; così non posso sfogar le mie paturnie su di lei.

Milano, dogana di Chiasso, traforo del Gottardo, Zurigo: viaggio lungo, caldo e travagliato, tra deviazioni, errori e vivaci scambi di opinioni tra i due equipaggi circa l'itinerario da seguire per raggiungere questo misterioso posto che si chiama Schaffhausen. Ma anche paesaggi vari e meravigliosi, dalla zona del lago appena oltre la dogana, alle montagne sopra il Gottardo, alle colline dolci e verdissime dell'area di Zurigo. E poi non è finita qui: giunti in loco, ci accorgiamo che la città è grande e che nessuno di noi ha idea di dove si svolgano le operazioni preliminari della gara... Per immensa fortuna, girovagando senza meta, ci imbattiamo in alcuni furgoni che hanno già sulla fiancata il grosso adesivo tondo "Tortour de Suisse": immediatamente, al grido di "Seguite quell'auto!!!", ci lanciamo in un inseguimento rocambolesco per le vie del paese, incuranti di precedenze e sensi unici, finché Matteo e Luca individuano l'oggetto della nostra caccia nel cortile di un albergo, Si tratta di un gruppo di ciclisti che correrà la gara nella versione a squadra di sei persone: grazie a loro, riusciamo a raggiungere l'area destinata all'organizzazione della gara, quando mancano dieci minuti all'una del pomeriggio. Il mio controllo è fissato per l'una.

Entriamo nell'ampio piazzale di fronte ad un capannone industriale. Immediatamente mi assale la solita sensazione, ormai nota, di essere un pesce fuor d'acqua. Intorno a noi ci sono camper, furgoni superlusso tirati a lucido, orde di biciclette talmente sofisticate e costose che, se qualcuno oggi decidesse di compiere una rapina a mano armata, farebbe il colpaccio del secolo; ruote Lightweight, telai ed appendici da crono, caschi a punta, insomma, ho la netta sensazione che ci sia un po' di gente che la prende molto sul serio... Al confronto, con la nostra modesta carovana di due Opel Corsa stracariche e pure sporche, perché non è che io abbia grande cura dell'estetica dei miei mezzi, sembriamo una banda di profughi.
Il sole del primo pomeriggio picchia rabbioso sul piazzale, proprio come nella piana carmagnolese; il minimo movimento costa litri di sudore. Siamo tutti un po' incerti sul da farsi: così, mentre i due masculi si dedicano a ciò che compete loro, cioè la parte meccanica di revisione delle bici, Luisa ed io andiamo a caccia del luogo a cui presentarsi per dire, che so, "Eccoci, ci siamo". Pare infatti che la procedura di consegna dei numeri di gara sia molto articolata. Prima tocca presentarsi al "check in desk", dove ciascun atleta troverà un operatore di riferimento; il mio è la signora Sandra. Qui compilo una scheda con i miei dati e ricevo i numeri di gara, per me e per l'auto, nonché una cassetta di lattine di una bevanda tipo Red Bull, a base di caffeina e simili; mi viene inoltre affidato il famigerato GPS, strumento che dovrà restare collegato alla presa dell'accendisigari in auto, per mezzo di un altro aggeggio chiamato Inverter. Mi giro e mi rigiro tra le mani questo gingillo che, credo, valga più dell'auto su cui sarà installato; sguardo d'intesa con Luisa: se ci freghiamo 'sto coso e scappiamo, ci rifacciamo di tutte le spese del viaggio e ne avanza ancora per una bella cena! Ecco cos'era il famigerato Athlosoft di cui si parlava nel regolamento. In buona sostanza, gli spostamenti dell'atleta, o meglio quelli dell'auto al seguito, saranno registrati in tempo reale grazie al GPS e saranno visibili sul sito Internet della gara. Poche e chiare le istruzioni per farlo funzionare: collegatelo alla batteria, accendetelo e dimenticatelo, così ci spiegano i tecnici.

Al ritorno nel piazzale, trovo Luca e Matteo in frenetica attività intorno alle mie due bici: puliscono, lubrificano, svitano, avvitano, lavorano di carta e stracci e detergente ed olio spray, madidi di sudore. Resto a bocca aperta, anzi, proprio commossa... In fondo è quel che ho sempre sognato: aver qualcuno che, nell'imminenza di una corsa, provvede a tutto ma proprio a tutto, lasciando a me solo l'incombenza di mangiare e riposare. Eppure mi sento a disagio, io qui a non far nulla e loro a sgobbare alacremente. Ora tocca alla seconda fase del controllo pre-gara: due personaggi dall'aria marziale, con maglietta nera e scritta "STAFF" o qualcosa del genere, si aggirano a caccia del numero 151. Proprio mentre io sto menando fendenti di forchetta nella ciotola piena di pasta, ovviamente fredda e collosa, che ho preparato ieri sera. Consiglio, o meglio costrizione anche questa di Matteo: del resto, ho promesso di stare brava ed obbedire ai consigli dei miei fidi assistenti, almeno fino a fine gara...
I due loschi figuri, dall'aria simpatica ed accomodante ma dai modi severissimi, tipicamente svizzeri e per giunta della Svizzera tedesca, mettono alla prova prima di tutto la Opel blu, quella che farà da scorta: luci di posizione, anabbaglianti, abbaglianti; freccia destra e sinistra; contrassegno di assicurazione; giacchino rifrangente per tutto l'equipaggio. E già qui trattengo il respiro, cuore in gola... Poi tocca alla bici, anzi, alle bici. Va tutto bene ma... Mancano i rifrangenti adesivi da attaccare alle pedivelle, alla forcella, al carro, al manubrio, alle ruote. Vagli a spiegare che già avrò le luci anteriori e posteriori, il giacchino rifrangente, tre fascette rifrangenti da fissare intorno al polpaccio, e che per di più il regolamento, scritto da loro stessi, prevede che, tra le 20.30 e le 6.30, l'auto al seguito sia sempre rigorosamente incollata al fondoschiena del ciclista. Con queste premesse, che me ne faccio ancora dei rifrangenti? Devo proprio conciarmi come un albero di Natale? Ahimè, pare proprio di sì. Quasi mi stupisco della calma olimpica con cui reagisco, quando mi dicono, in soldoni, "Niente approvazione delle bici finché non ci sono i rifrangenti, ripasseremo tra poco". Ok, in fondo me l'aspettavo; avevo anche letto la clausola del regolamento che ne imponeva l'obbligo, ma mi pareva, ragionando a buonsenso, che non potesse trattarsi di una previsione così stringente. Sbagliavo, io sono italiana, loro svizzeri. Io le norme le interpreto, loro le rispettano e basta. Riparto con Luisa, sotto il solleone che scoppia la testa, a caccia dei rifrangenti: per fortuna, li recupero quasi subito, al punto di controllo a cui mi sono rivolta la prima volta; due foglietti con piccoli rifrangenti adesivi di varie forme. Nelle mani di Luca e Matteo, quei foglietti diventano opere d'arte: in un attimo, le mie due bici diventano brillanti e sciccosissime; proprio come dice Luisa, mancherebbero giusto le paillettes.
I due gerarchi incaricati del controllo ricompaiono quando il lavoro certosino dei miei fidi è ancora in corso: non possono fare a meno, neppure loro, di sorridere... Che dire, non saremo certo la squadra più forte, anzi, ma siamo senz'altro la più simpatica! Qui intorno han tutti dei musi lunghi che toccano terra, manco stessero giocandosi il futuro del mondo, mentre noi non abbiamo ancora smesso di sghignazzare, scambiarci battute da camionista e piantar cagnara! Secondo me i due mastini ci rinunciano... Per disperazione mi concedono i bollini di omologazione delle bici e, dopo avermi augurato buona fortuna e buon divertimento con un che di profondamente sadico nello sguardo, se ne vanno a tormentare qualcun altro. Ma non è finita... Pochi istanti e si presenta un altro losco figuro, anche lui munito di maglietta nera regolamentare; non per far controlli, questa volta, ma solo per prenderci in giro. "Is this YOUR car? It's quite small... Three people in there?". Guagliò, che t'aggiadì, questo passa il convento, ed ancora grazie! Se ne va sghignazzando...

Infine, l'ultimissima fase di questa estenuante trafila che è la procedura pre-gara. La foto ufficiale, seguita dalla consegna del braccialetto di gara, che mi verrà legato al polso direttamente da un addetto. Meno male che io sono abituata, per mestiere, alle code infinite presso gli uffici pubblici ed ai rimbalzi assurdi da sportello a sportello... Rimedio una foto orrenda ed il bracciale giallo; finalmente, poi, all'alba delle tre e mezza, sono libera di andare a caccia di una camera d'albergo. Ho bisogno di una doccia e poi vorrei tanto buttarmi sul letto e dormire un paio d'ore, visto quel che mi attende; anche la truppa, poi, è ovviamente cotta e stracotta, vuoi per il viaggio, vuoi per il caldo. Credo che il mal di testa sia comune. Eppure no... Niente relax, non si può, perché alle sei è prevista la riunione in cui verranno presentati i dettagli del percorso e della gara. Riunione obbligatoria sia per gli atleti che per gli assistenti. Che giubilo. E noi dobbiamo ancora far la spesa: nonostante abbiamo cibo in auto per un reggimento, dobbiamo ancora procacciarci la cena e la colazione per domani mattina. Così ci fiondiamo in un supermercato, da cui usciamo carichi di vettovaglie che non credo facciano di solito parte della tipica alimentazione di un atleta: due formaggette scelte accuratamente in base alla percentuale di grasso (rispettivamente 40% e 60%), quattro budini al cioccolato con la panna, un chilo di yogurt, carne in scatola (non per me, io quella robaccia non la mangio), bibite dolci, più alcune quisquilie salutiste come frutta ed acqua frizzante. Però... Se persino Luca, il teorico dell'allenamento scientifico, dice che va bene così, significa che va bene così. Riportiamo tutto in albergo, avendo cura di non farci pinzare dal boss della baracca, e ce ne andiamo all'incontro chiarificatore... Che è tutto fuorché chiarificatore, visto che l'intero discorso è tenuto in tedesco. Qualcosa capisco, a furia di frequentare paesi ed amicizie di lingua tedesca, ma è troppo poco per fondarci sopra la gara; quindi, con fare indignato, attraverso la sala gremita di atleti ed accompagnatori e vado a reclamare la traduzione in inglese. Mi dà retta il buon, nonché bellissimo, Gunther, tipico esemplare di teteskone robusto, biondo e con gli occhi azzurri, che mi fa un rapido riassunto; meno male che c'è anche Luca, così a decifrare e mandare a memoria siamo in due... In un attimo, attorno a noi si crea un capannello di gente che, proprio come noi, non ha capito una fava del lunghissimo soliloquio in tedesco, ma non osava ammetterlo! Intanto, Matteo e Luisa, rimasti al tavolo, fanno scempio delle portate del pasta party.

Torniamo in camera più confusi ed intontiti che mai. Quello che sta peggio è Matteo, agitatissimo e teso come se la corsa fosse la sua: ma io so che in fondo è un po' come se fosse proprio così... So che ci tiene, so che ci soffre e partecipa quasi quanto me. Io però non sono per nulla agitata, non lo sono stata per tutto il giorno; mi sento, direi, molto distaccata, come se l'intera faccenda non mi riguardasse. In fondo, credo sia questo il giusto atteggiamento di fronte ad una corsa da mille chilometri: un conto è gareggiare su un percorso in cui ti giochi il piazzamento in pochi secondi, ma qui parliamo di lunghissime ore, in cui soffri, gioisci ed ancora soffri, vuoi mollare e poi vuoi ripartire, insomma, succede di tutto. Ho sonno, questo sì; dopo la levataccia alle quattro, sette ore alla guida e mezza giornata di sballottamenti, ho solo sonno. Mi godo una prima pennichella mentre i fedelissimi organizzano il bagaglio sull'auto scopa, ma sempre con un certo senso di colpa nei confronti di chi sta lavorando per me; una mezz'oretta dopo, eccoli di ritorno: "Domani si farà così, così e così", Matteo scandisce le istruzioni per il via, senza possibilità di replica. Va bene, obbedirò... Ora però spengo la luce e non ci penso più: domani, cioè tra poche ore, è un altro giorno!

La sveglia alle quattro, stessa ora di ieri, è un dramma. Di certo non è questo il modo migliore per prepararsi ad affrontare una gara che richiede due notti sui pedali, anche se, realisticamente, io so che sopravviverò una sola notte, e parte del giorno dopo, prima di finire fuori tempo a qualche cancello orario intermedio oltre i 500 km. Comunque, non è questo il modo di affrontare nemmeno una sola notte sui pedali. Oltretutto, l'ennesima della stagione... Ho perso il conto delle notti trascorse in bici o a piedi dalla scorsa primavera!
Ci ritroviamo tutti alle prese con una colazione di cui, credo, nessuno ha davvero voglia; io continuo la mia opera di ingozzo iniziata ieri, ma più di tanto non riesco a mandar giù. Nel giro di pochi minuti siamo tutti bell'e pronti per partire; bisogna essere a Rheinfalls, pochi minuti d'auto da qui, entro le cinque e quaranta. E' forse qui, nel cortiletto dell'albergo, alle cinque, che mi assale l'unico accesso di nervosismo dell'intera spedizione: non so perché, ma ho timore che sia già tardi, che si debba far più in fretta, altrimenti la gara partirà senza di me; così costringo l'equipaggio a concludere in fretta e furia gli ultimi preparativi per il via. Alle cinque e un quarto siamo al parcheggio nei pressi della linea di partenza: ovviamente, troppo presto. Nonostante il viavai di mezzi, persone, luci, biciclette avveniristiche e scintillanti, ciclisti già vestiti di tutto punto, sguardi truci che si leggono anche al buio, ripiombo nel mio torpore da sveglia notturna e mancanza di caffé, nel vano tentativo di strappare ancora qualche inutile minuto di sonno. Poi mi riscuoto, salgo in sella, seguo la massa: mi ritrovo così dietro la linea di partenza, con le orecchie frustate dalla voce dello speaker che probabilmente sta cercando di infondere la carica, peccato che parli solo in tedesco... Alle mie spalle, le cascate del Reno, bellissimo salto d'acqua non molto alto ma in compenso larghissimo, in mezzo alla città, nelle sfumature d'azzurro della notte. Intorno a me, lo sparuto gruppo di pazzi: in particolare, un tale con il casco aerodinamico a punta e, sotto il didietro, una bici da crono a tutti gli effetti, una di quelle presunte meraviglie della tecnologia che a me però paiono più orrendi aborti della manifattura ciclistica. Io capisco che ci siano, di fatto, 180 km di quasi pianura prima delle montagne... Ma gliel'ha spiegato qualcuno, a 'sto tizio, che passeremo in mezzo a città e paesi, che ci saranno semafori e rotonde e passaggi a livello e soprattutto il traffico delle auto? Mah. C'è poi un ciclista con un braccio solo, l'altro mancante per intero, dalla spalla; ha in viso determinazione ed un sorriso radioso, mi fa restare senza fiato per il coraggio che deve per forza avere, ed anche per l'equilibrio... Io che fatico a stare in sella anche se di braccia ne ho due! Per fortuna, c'è anche qualche elemento dall'aspetto più umano.
Succede tutto troppo in fretta: faccio appena in tempo ad intravedere i volti dei miei amici accanto alla griglia di partenza, che parte il conto alla rovescia. Quello, anche se in tedesco, lo capisco.

Il via è da infarto: i primi cinque km per attraversare Schaffhausen si corrono ad una cosiddetta andatura controllata, dietro l'auto e le moto dell'organizzazione; peccato che io conosca i miei polli... Certo, l'andatura è controllata, ma è anche tarata sulle possibilità di questi alieni che ho intorno; fatto sta che questi saliscendi secchi, presi così a freddo ed a questa velocità senza senso, mi fanno schizzare il cuore fuori dalle orecchie, atrii e ventricoli in tutte le direzioni. Ma dico io, abbiamo davanti mille chilometri, che dannato bisogno c'è di partire in questo modo? Coraggio Gian, sono cinque chilometri, vedi di non perderti per strada già qui... Resto incollata con le unghie e con i denti al didietro del gruppo, su e giù per vie e sottopassaggi e rotonde, finché, all'uscita della cittò, i mezzi dell'organizzazione accostano ed i piloti salutano a gran voce. Allora questo dev'essere il via volante. Mi aspetto di veder schizzare via tutti come biglie impazzite: invece no, il gruppo resta compatto, si viaggia in fila indiana, con mio gran terrore di queste situazioni: io che da sempre pedalo sola soletta, non so stare a ruota ed ho sempre paura di far danni a chi mi circonda. Ma il problema si risolve da sé: a pochi chilometri dal via volante, si svolta a sinistra e l'andatura improvvisamente aumenta a dismisura. Non ci provo nemmeno: andate al diavolo, impiccatevi pure tutti quanti, io resto indietro e pedalo alla mia andatura, altrimenti qui va a finir male. Infatti, nel giro di pochi minuti, tutte le ruote spariscono oltre le morbide curve della campagna; mi ritrovo sola. L'unico timore è che le auto al seguito raggiungeranno i rispettivi ciclisti solo a Steckborn, non prima, perché il regolamento lo vieta; devo quindi percorrere da sola i primi 30 km, sperando di non sbagliare strada. Trenta km appena appena ondulati, roba da mandar fuori di testa chi, come me, va sempre e solo a caccia di salite... Ed è appena l'inizio. Pedalo di buona lena; il cielo si è schiarito ma per ora è nuvoloso: non è detto che sia un male, anzi; come ho potuto constatare ieri, da queste parti il sole, quando c'è, picchia feroce. Sul manubrio ho il Polar di Luca, con tanto di fascia cardio intorno al torace; anche questa per me è un'enormità, visto che sulle mie bici da anni ho abolito qualsiasi strumento di misura. Però, come ottimo compromesso, sullo schermo vedo la distanza percorsa ed il dislivello accumulato, oltre al battito cardiaco; non vedo la velocità. Altrimenti il Polar sarebbe già finito nelle acque del Reno. Così, noto con stupore quanto i km possano scorrere in fretta in pianura: mi sembra d'essere partita solo pochi istanti fa ed invece, in men che non si dica, sono già ad apporre il mio autografo al controllo di Steckborn, da buona ultima. Il fotografo mi dice che altri, passati prima di me, avevano un aspetto ben più distrutto del mio: non fatico a crederlo... Si riparte subito, seconda tappa, altri cinquanta km, destinazione Rorschach, lungo il lago; anche qui, la piattitudine più assoluta. Come se non bastasse, poi, s'attraversano diverse città, con tutto quel che ne consegue in termini di pericolo, di semafori, di ferma e riparti, di difficoltà nel tenere il contatto con l'auto al seguito. Inizia qui anche il mio supplizio alimentare... I miei fidi assistenti, ma sarebbe meglio dire aguzzini, si son messi in testa che io sia qualcosa di molto simile ad una centrale termoelettrica a carbone; ad intervalli che a me sembrano esasperatamente brevi, mi rifilano qualcosa da mangiare: pane e formaggio, pane e sottilette, pane e Nutella, Mars, barrette varie. Senza contare le borracce di maltodestrine o di Coca, ma quelle van giù senza difficoltà. Mantengo la mia promessa di obbedienza per un po', ma arrivo in fretta al punto di esasperazione; tutto 'sto cibo lo ricaccerei volentieri indietro nell'abitacolo!

Scopriamo, nostro malgrado, che lo Svizzero medio non è affatto così ligio e rispettoso del codice della strada come vuole la tradizione; la povera Opel, pure dotata di enorme adesivo "Bicycle race", è bersaglio di colpi di clacson e coloriti insulti e sorpassi azzardati. Mi chiedono dall'auto se ho bisogno di qualcosa... Sì, che finisca questo tratto stramaledetto in mezzo alle città! Per il resto nulla, pedalo bene, mi sembra di andare un po' più forte della mia norma; anzi, mi rendo conto che sto osando troppo, decisamente troppo rispetto al percorso che mi attende, ma tant'è, oggi mi sento così. Sarà l'entusiasmo che è tornato non appena son saltata in sella, sarà la voglia di far bella figura agli occhi di chi, in auto, si sta sbattendo per me.

Altra firma a Rorschach e poi altri sessanta km piattissimi come i precedenti: l'altimetria non ne vuol proprio sapere di salire... La strada attraversa una zona di colline appena accennate, dolcissime, dove il colore dominante è il verde acceso; per fortuna qui il traffico è un po' diradato, i paesi più piccoli. In realtà di quel che scorre intorno a me vedo poco, perché ho quasi sempre gli occhi incollati alla ruota anteriore. Me l'hanno sostituita senza dirmi nulla, mettendo quella della bici di Matteo al posto della mia: me ne sono accorta, dopo un po' di km, dal colore del copertoncino... Non so bene per quale ragione, ma Matteo è terrorizzato dall'idea che io possa cadere vittima di un attacco isterico; credo abbia ordinato alla ciurma di trattarmi con le pinze, come un pezzo di metallo incandescente. E' vero che non ho esattamente un carattere pacato, ma oggi proprio lungi da me l'idea di arrabbiarmi per qualsiasi cosa: sarebbe uno spreco di energie... Ci sono, sì, alcune cose che in altre circostanze mi renderebbero furiosa, vedi la gestione del GPS che purtroppo non posso controllare; ci è stato raccomandato di tenerlo collegato alla batteria, ma so bene che Matteo s'è fissato di voler tenere in funzione il frigorifero portatile e che quindi come minimo alternerà il collegamento dei due apparecchi all'unico accendisigari, arrivando ogni volta al minimo sindacale della carica del GPS, col rischio di farlo spegnere e – conoscendo l'inflessibilità dei giudici di gara – farmi cacciar via dalla corsa. Conosco ormai troppo bene il mio pollo. Ma, anche se l'impulso è quello di scendere e mettermi ad urlare, non posso fare altro che reprimerlo e sforzarmi di non pensarci, tanto non dipende da me.

Nel frattempo mi hanno già superata i primi componenti delle squadre, da 3 e da 6 elementi, che sono partite per la corsa a staffetta un'ora dopo i cosiddetti "solo", cioè quelli come me. E, intorno al km 130, incontro il mio amico Heinz: siamo nei pressi del Liechtenstein, casa sua; così si aggrega e macina qualche chilometro con me, in sella ad una mountain bike con tanto di carrettino portabagagli al seguito. Qualche chiacchiera, ma non troppe, perché il fiato manca e la tensione è alta; Heinz è notoriamente matto come un cavallo, un po' s'affianca e si fa strombazzare dalle auto, un po' salta sui marciapiedi, me lo ritrovo a destra ed a sinistra come un fantasma. Altro controllo ed altra tappa, in cui finalmente s'inizierà ad assaggiare un po' di salita; resto di stucco quando i miei fedelissimi mi comunicano che, fin qui, ho tenuto la media dei 27 km/h: per un passista decente è qualcosa di ridicolo, ma per me è già un grandissimo risultato! Sono stupitissima, nel contempo, e davvero commossa dall'impegno che i miei tre scudieri stanno dedicando a quest'avventura; io che vivevo nel timore che s'annoiassero o si stancassero troppo... Invece schizzano come molle, efficientissimi, non sbagliano un colpo, nemmeno Luisa che pure sta al ciclismo come io sto alla fisica nucleare; dispensano cibo, bevande e consigli, si destreggiano nel traffico ed in dubbie manovre di affiancamento. Proprio quel che ci vuole in questi casi, una squadra a cui non è necessario dire "ho bisogno di questo e di quell'altro". Però cibo... Basta!!!

Heinz mi lascia poco prima di Bad Ragaz, piccolo e splendido paese che conosco già, come anche Sargans e Landquart; sono già stata da queste parti, è un po' di conforto.
La prima salita è un po' traumatica: forse i lunghi chilometri di pianura, a cui non ero minimamente abituata, hanno lasciato un po' il segno su schiena, garretti e soprasella, forse è il sole che si è liberato dalle nubi e picchia senza pietà su questa rampa secca e dritta come un fuso, asfalto bollente del primo pomeriggio; fatto sta che mi sento improvvisamente fiacca, stanchissima, rallentata a dismisura, in una parola, piantata. I chilometri che mi separano da Davos sono a dire poco impegnativi: finalmente la salita c'è, ma non si tratta ovviamente di belle salite a tornanti su strade di alta montagna, bensì di lunghi tratti su stradone trafficato, per di più costellati di lavori in corso e tratti di passaggio a senso unico alternato con semafori che qui tocca proprio rispettare. Impressionante la quantità di cantieri aperti lungo le strade, da queste parti! Così, mi ritrovo a misurare la fatica su pendenze che mi sembrano esagerate ma non possono proprio esserlo, perché qui passano auto e camion senza pietà; sento le gambe pesanti, affaticate, sento il peso dello sconforto nonostante la presenza assidua dei miei amici, che a quanto pare in auto hanno rotto il ghiaccio da un po' e si stanno facendo grasse risate. Attraverso ancora paesi, ordinati e lindi come sempre, mentre il paesaggio intorno a me ha ormai da tempo assunto i contorni di montagna aspra, colori di roccia scura e verde intenso delle pinete, passaggi tra pareti a picco; la mia marcia è scandita dai pasti che mi arrivano dal finestrino, fette di mozzarella, porzioni di torta di mele, tutte cose che, in altre circostanze, mi farebbero irresistibilmente gola, ma che adesso devo proprio trangugiare a fatica. Non vedo l'ora che arrivi Davos, spero prima che le mie forze si spengano, perché lì ci sarà la prima vera salita, quella che va al Passo Fluela. Mi riprenderò, lo so che mi riprenderò, perché le crisi vanno e vengono; qui è solo la testa che si sta ribellando, ma le gambe ne hanno ancora, oh se ne hanno. Scruto le nuvole, sembra che per ora il tempo voglia tenere.

A Davos è prevista una breve sosta dell'auto scopa per fare un po' di spesa: ne approfitto per una pausa, ma solo due minuti ed una pastiglia di antiinfiammatorio per lenire i dolori lasciati dalla galoppata in pianura. Riparto tranquilla e rasserenata: anche questo è un luogo ben noto; la salita al Fluela non è lunghissima, saranno circa 15 km, e nemmeno particolarmente impegnativa. Nella prima parte è un ampio stradone che corre tra i boschi di conifere, poi si apre e diventa un susseguirsi di ampi tornanti verso la testa della valle, coronata da vette aguzze e ripide pietraie. Rapidissimi i miei assistenti che son già qui: hanno fatto la spesa stile cambio gomme ai box Ferrari, uno in coda mentre gli altri fanno incetta dei prodotti nella lista. Implacabili nella loro opera di ingozzo del tacchino: qui sì, rischiano che io abbia una reazione inconsulta...

A cinque o sei km dalla fine, l'incorreggibile Matteo scende: mi accompagnerà fino al colle... Di corsa. Ovvio, lui non ha alcun problema a corrermi accanto; anzi, correndo potrebbe raggiungere il colle molto più in fretta di me che sono in bici. Gli voglio un bene immenso, ma non è questo il luogo né il momento per dirlo, e poi non ce n'è bisogno, lui lo sa già. La sua presenza proprio qui accanto mi è di grande conforto, anche se per ora sto abbastanza bene e, in vista degli ultimi tornanti, mi sento tranquilla. Il sole brilla ma non scalda troppo; il colle è quasi a quota 2.400. Matteo mi incoraggia, mi fa i complimenti, dice che sto andando bene, e quasi quasi voglio credergli; mi raccomanda di non rifiutare troppe volte il cibo... Già, una parola! A questo punto i km sono circa 220 e finalmente il dislivello sul Polar ha preso a crescere. In vetta mi attende la squadra già perfettamente organizzata: cambio della maglietta, massaggio alle gambe, barattolone di yogurt, giacca per la discesa. Ho tre assistenti, ma è come se ne avessi quindici! Il massaggio poi è una vera goduria, tanto che di qui non mi alzerei più; invece devo: mi fiondo giù in discesa, destinazione Susch, e poi svolto a destra. Conosco ancora questo breve tratto di strada, almeno fino al bivio per l'Ofenpass; l'ho sempre temuto, perché è leggermente in salita, ma, con mia gran sorpresa, lo supero senza difficoltà. Al paese successivo, Zernez, c'è il controllo, ennesima firma, un istante e via. Devo raggiungere St Moritz, per poi attaccare la salita dello Julierpass. Sono circa trenta km in leggera salita... Ma nel frattempo il meteo è cambiato: un accenno di vento freddo e nuvoloni neri all'orizzonte, luce che diventa livida, mi sa che marca male. Tra non molto, si apriranno le cateratte del cielo. Infatti, a pochi km da St Moritz, il vento è già rabbioso; soffia di fronte e di fianco, tanto da rischiare, in molti tratti, di buttarmi per terra. Mi abbasso sul manubrio, trattengo il fiato per la paura; sento le gocce di pioggia sempre più fitte, ma per ora preferisco non indossare la giacca. Insisto così ancora un po', mentre intorno a me sembra improvvisamente scesa la notte; mi passano dall'auto ancora qualcosa da mangiare. Quando poi gli scrosci d'acqua si fanno più intensi, mi rassegno a coprirmi, giacca da pioggia e berrettino con visiera rubato a Luca. Con mia immensa sorpresa, però, non mi lascio prendere dal panico. La strada è già abbondantemente bagnata, ci sono i rivoli d'acqua che scorrono impetuosi sui bordi; è probabile che buona parte del temporale si sia già scaricata, o si stia scaricando in questo momento. Tuoni e fulmini, meglio incontrarli qui, finché la quota è bassa e non ci sono problemi di freddo né di discesa pericolosa. Temo solo un po' il traffico e le raffiche di vento: una volta tanto, accolgo con sollievo l'arrivo dell'abitato, che mi offre un po' di riparo.

A St Moritz non mancano i lavori in corso che costringono a complicate deviazioni, fino a riprendere la strada verso Silvaplana ed il passo Julier. Non conosco questa salita, se non di fama; non credo possa essere particolarmente impegnativa, infatti non lo è, a parte qualche rampa più severa. L'ascesa è breve, una decina di km, anche meno; l'attacco sotto la pioggia, ma alle mie spalle si estende già un bellissimo arcobaleno. Trovo i miei custodi ad attendermi sotto la pioggia: io vorrei solo che si riposassero un po', anche loro... La strada è ancora dannatamente lunga, io non ho bisogno di nulla in salita, fermatevi da qualche parte e riposate un po'! Macché, non c'è nulla da fare.
Oltre il passo filtra la luce del sole, l'ultimo sole della giornata, perché ormai è sera; il panorama è meraviglioso, se solo avessi la forza di apprezzarlo. Altra firma al controllo, cambio la maglia ed indosso la felpa, prime operazioni per la notte che incombe e che, devo ammettere, mi incute una paura dannata.

La settima tappa, sulla carta, è prevalentemente in discesa; in realtà, non lesina continui cambi di pendenza e strappi, perché spesso l'itinerario di gara impone di abbandonare la strada principale per attraversare i paesi. Non ho idea di che ora sia, ma ormai è buio; non saprei nemmeno dire da quanto. Quando cala la notte, così, mi sembra sempre che siano, chissà, le due o le tre, invece magari sono solo le undici. Quello che spero, con tutto il cuore, è che torni in fretta la luce del sole. Attraversiamo paesi deserti, solo qualche sparuto passante, qualche losco figuro ciondolante, forse ubriaco, ma è possibile che lui pensi lo stesso di me. Al controllo di Sils, ennesima firma. Mi sa che ha ragione Luisa: agli ultimi controlli, non ci saranno più firme ma solo croci, perché nessuno sarà più in grado di ricordare il proprio nome e cognome! Riparto in fretta e furia, dimenticandomi la ferrea norma per cui l'auto al seguito deve essere sempre incollata al ciclista: immediatamente mi fermano con gran strepito di fischietti ed urla, che faccio finta di non sentire. Non sono proprio dell'umore giusto per le sottigliezze.

Imbocchiamo da lì un cammino che sa di infinito e di infernale; una strada che prende a salire in mezzo al bosco, attraversa qualche borgata e poi più nulla, sale e ancora sale e non si capisce per dove. Mi guardo intorno, ma è tutto nero, nere le montagne e nero il cielo; nemmeno una stella, anzi, qualche goccia di pioggia. Il numero 111 è sempre nei miei paraggi e questo è l'unico motivo di conforto; quando abbiamo scambiato qualche parola, a sera, mi ha spiegato di essere partito troppo forte e, come se non bastasse, di essere vittima di un improvviso mal di denti che gli impedisce di mangiare come dovrebbe. Spero che non riprenda a piovere come a St Moritz... Adesso sì che sarebbe una tragedia, perché già così la notte è difficile. La strada sale a strappi, poi spiana e poi sale ancora; so che devo arrivare a Disentis, perché poi da lì la strada mi è nota, la conosco metro per metro per tutto il tratto delle montagne, non mi farà più paura. Ma qui, dove diavolo ci stanno mandando? La strada si restringe, è spesso squassata dagli onnipresenti lavori in corso, ha più buche di un campo da golf. Ormai ho passato i quattrocento km e posso anche permettermi un po' di disperazione... Che però cerco di non lasciar trapelare agli occhi dei miei scudieri, senza dubbio provati quanto me. Non ce la faccio proprio più a mangiare, adesso; devo superare questo momento di sconforto; attendo con ansia di uscire da questo girone infernale, o almeno di capire dove sono... Guardo in alto a caccia di un avvallamento, una linea, qualcosa che somigli ad un colle, perché, se sto salendo da così tanto tempo, prima o poi dovrò pur scendere.

In effetti, da Ilanz in poi la strada prende una piega un po' meno inquietante; ci lasciamo alle spalle la valle chiusa e boscosa – chissà, magari durante il giorno è bellissima, ridente, accogliente, ma stanotte proprio non ne dava l'impressione – e proseguiamo, dopo un paio di tentativi andati a vuoto lungo strade laterali, sulla direttrice principale verso Disentis. "Ci andiamo per la via normale, e buonanotte". Il sonno la fa da padrone: ho la testa pesante, gli occhi aperti che non vedono, i pensieri che viaggiano per conto loro, senza un filo logico; mi sforzo di concentrarmi sulla bici, ma non c'è verso. Cerco conforto nel lettore Mp3 e nei miei angeli custodi, come se loro potessero fare qualcosa per me; possono incoraggiarmi, passarmi le lattine di simil Red Bull e vari, e infatti lo fanno con grande dedizione, ma non basta, purtroppo. Disentis, ma quando arriva Disentis? La vedo da lontano, una concentrazione di luci contro la montagna; non può che essere quella, devo arrivarci, almeno fino lì; poi il falsopiano finirà, perché inizia la salita all'Oberalppass.

Al controllo mi concedo qualche minuto di sonno, ma è un sonno leggero e rapidissimo, che non dà conforto. Paradossalmente, tutta la caffeina che ho bevuto finora mi ha lasciato un senso di agitazione addosso, senza però impedire al sonno di fare i suoi danni; non so se sia così per tutti, ma ho già notato che, su di me, caffé ed affini, le poche volte in cui riescono a sortire un minimo effetto, non lasciano che io mi addormenti del tutto, ma non aiutano a mantenere viva l'attenzione; la mente e gli occhi vagano comunque senza controllo. E la bici di conseguenza.

Riparto, beccandomi anche stavolta il cazziatone del motociclista dell'organizzazione perché per venti metri sono stata fuori dal fascio di luce dell'auto. Che stracciamaroni questi qua. Purtroppo, mi accorgo subito che nemmeno la salita è sufficiente a svegliarmi; anche qui sento gli occhi chiudersi, di tanto in tanto cedo alla tentazione di chiuderli davvero, solo pochi istanti. La prima parte dell'ascesa è su stradone ampio che attraversa i paesi, località sciistiche; accanto a me corre la ferrovia che sale all'Oberalp. Chiedo ai tre moschettieri un po' di compagnia, ora sì che ne ho bisogno: chiacchieriamo, ci lasciamo andare a battutacce scurrili, sghignazziamo a gran voce, con sommo gaudio degli abitanti della valle; svisceriamo gusti ed inclinazioni sessuali quantomeno originali di ciascun elemento della combriccola... Così facendo, le scemenze combattono il sonno, ma tutti quanti abbiamo risorse limitate; sono stanchi anche i viaggiatori in auto: così, non appena torna il silenzio, ricompare puntuale per me anche il sonno. Intanto, a circa nove km dalla cima, comincia il tratto di salita bella, quella che ha davvero l'aspetto di montagna, strada stretta a tornanti in mezzo agli alpeggi. Provo a cambiare ritmo, a rilanciare, alzarmi e sedermi, ma sto davvero male, sento che potrei stramazzare addormentata da un attimo all'altro. Matteo ordina una sosta ad un paio di km dalla vetta, per dormire ancora qualche minuto e per coprire le gambe e vestirmi meglio; per ora sono ancora in pantaloncini corti e felpa. No, non mi va proprio di perdere altro tempo così: dormire pochi minuti non mi servirà a nulla, nella discesa avrò comunque sonno, tantovale andare avanti. La moto dell'organizzazione ci ronza intorno, aggiungendo per me nervoso al nervoso: vero che sono ultima, ma davanti a me ci sono due altri corridori abbastanza vicini. Insomma, non sono proprio dispersa nel nulla; sono ancora in tempo per il prossimo cancello; lasciatemi in pace!
La sosta poco sotto la cima mi tocca davvero; Matteo non sente ragioni ed io sono troppo intontita per reagire. Anche qui, pochi minuti in cui mi assopisco appena; rapido cambio dei pantaloni, indosso i ¾ felpati e via. La cima arriva di lì ad un chilometro e mezzo, la moto dell'organizzazione ancora lì in attesa; la discesa, per fortuna la conosco ed è breve, circa 11 km... Perché è comunque un calvario; veloce com'è, è pericolosissima: basta chiudere gli occhi un istante per combinare un macello. Qualche tornante e le luci di Andermatt sono già vicine; scuoto la testa per mantenere l'attenzione: dietro, i miei fedelissimi danno gran colpi di clacson. Capperi, a notte fonda sveglieremo mezza città... Meglio che mi dia una mossa ed arrivi giù!

In paese conosco bene la strada, dopo aver collezionato tre edizioni dello splendido Alpenbrevet, manifestazione ciclistica che fino a qualche anno fa partiva proprio da qui. Al punto di controllo, davanti alla stazione della cabinovia – anche qui è il regno degli sciatori – mi chiedono se è tutto OK; sì, certo, tutto ok... A parte il sonno. Infatti, poco più in là verso la salita al Passo San Gottardo che si attacca subito, oltrepassato il furgone nero del n. 111 probabilmente intento a ronfare, mi fermo ancora una volta per altri pochi minuti di nanna. Ho una gran rabbia in corpo, ma non posso farci nulla, se non schizzare ancora una volta in sella e dannarmi in salita. L'affronto con un'andatura di certo superiore alla solita, proprio perché ormai mi sono resa conto di non essere da sola, non proprio ultima e dimenticata, ed anche perché un po' più di brio mi permette di tenere lontano il sonno.

Il nero della notte non è più così compatto; filtra il primo chiarore dell'alba, solo una sfumatura che poi si fa via via più ampia. La luce, non posso crederci, finalmente la luce. Ma, appena riesco ad intravedere qualcosa di più, vedo subito che il passo è avvolto nelle nuvole: non si vedrà altro che nebbia lassù. Mi alzo sui pedali, mi risiedo, mi rialzo; anche il soprasella comincia a dare segni di inquietudine. La valle pian piano è inghiottita dalle nubi; perdo la vista del n. 111, che mi ha risuperata ad inizio salita, e poi anche la vista del colle e quasi del bordo della strada. Nuvole basse, umido, grigiore, null'altro. Solo l'arrivo della galleria mi fa capire che ormai manca poco: peccato, quassù è uno spettacolo da favola e invece oggi i miei fedelissimi non vedranno altro che fitta nebbia. Soffro, il male ai piedi mi tormenta ormai da troppe ore, già da ieri; il grigio fumo uniforme poi non aiuta certo l'umore. Capisco d'essere in vetta solo quando la strada spiana; giacca e via, via di qui, giù in discesa verso Airolo.
La prima parte è facile, veloce, su strada molto ampia; devo però prestare attenzione, perché ad un certo punto si raggiungerà il bivio tra la strada consentita alle bici e quella riservata ai mezzi a motore, e lì è facilissimo sbagliare. Ora che il sonno è sotto controllo, mi resta lo strascico di qualche sbadiglio, ed i primi morsi della fame. Finalmente... Ora posso anche tornare ad assecondare quegli allevatori di oche da foie gras che sono i tre matti al mio seguito! Il bivio incriminato è presidiato da due omini dell'organizzazione, che ci mandano tutti sulla retta via. Peccato che, da qui in giù, la strada offra cinque o sei lunghi tratti di pavè: passo sul primo e quasi arrivo ad urlare dal dolore, male ai piedi, alla schiena, alle braccia, a tutto. Ne esco senza fiato e mi preparo subito ad affrontare, con identico strazio, i pavé successivi, stringendo i denti... Airolo, ma quando arriva?

Airolo arriva e, con essa, l'attacco dell'ultima salita. Ormai è evidente che sono fuori tempo massimo; sono le sette del mattino ed il cancello orario in vetta, originariamente fissato per le ore 12, è stato prima anticipato alle 8 e poi ri-spostato, in corso di gara, alle 9. Comunque troppo poco per me, due ore per oltre venti km di salita, e mica una salita qualsiasi: il Passo della Novena. Luca mi incoraggia, "Ne possiamo parlare"; Matteo fa il tifo; io dal canto mio so bene di non avere alcuna speranza, ma forse proprio per questo decido di tentare il tutto per tutto. Mangio un po' di pane e formaggio, ingurgito tutto quel che mi danno e parto con tutta la furia di cui sono capace: scoppierò, certo, ma ci devo almeno provare. Sole e cielo azzurro, finalmente, la valle in tutta la sua bellezza, mi mettono voglia di andar su, le ali ai pedali, anche se a questo punto ho già 470 km alle spalle e ben più di 6000 m di dislivello in salita. Faccio il possibile per non lasciare allontanare troppo il n. 111, che è sempre lì con il suo furgone nero, sorridente e contento; solo sulle rampe più ripide devo cedere un po' il passo, ma non più di tanto. Intorno riprendono traffico e vita; più convinto che mai il tifo dei miei amici, mentre io misuro le forze ma salto sui pedali col naso all'insù. So bene dov'è che va a scollinare questa strada; è ancora lunga, ma gli ultimi dieci km sono di una bellezza che ripaga di qualsiasi fatica. E poi ormai, con la notte alle spalle, è come se mi fossi tolta un pesante fardello dal cuore. Chissà perché tutta quell'angoscia; chissà come mai, nonostante le innumerevoli notti che ho già trascorso in giro per i monti, proprio non riesco ad abituarmi a non vedere altro che il fascio di luce della mia frontale, o dell'auto, in casi fortunati come questo.

Ho ancora indosso la felpa ed i pantaloni ¾, ma per ora nulla è di troppo: soffia un leggero vento contrario che, a quest'ora del mattino, mette ancora i brividi. Scorre la strada di cemento, passano alcuni turisti con bici e borse; ancora una volta Matteo scende e mi corre un po' accanto, con la bottiglia della Coca Cola fresca. Non chiedo che ora è; so bene che per le nove in vetta non arriverò mai. Sono quasi in cima, ma le nove saranno già passate... Infatti, una delle staffette dell'organizzazione si affianca alla Opel per spiegare che, malgrado il ritardo, il mio tempo (ed anche quello del n. 111) sarà comunque omologato, almeno quassù, alla Novena, controllo n. 10. Ci arrivo alle 9.20. Fisicamente sto bene, non mi sento ancora stanca, soprattutto adesso che il sonno è un ricordo. Però mi dicono che, per poter continuare la corsa ed essere considerata ancora in gara, dovrei arrivare a Visp, prossimo controllo, entro le 11. Sì, come no: Visp è a 60 km di qui; è vero che sono 60 km in prevalente discesa, ma si tratterebbe pur sempre di una media dei 40 all'ora, adesso che ho quasi 500 km nelle gambe e su parte di strada molto trafficata. OK, pazienza, ho capito l'antifona... Ormai sono fuori, non c'è niente da fare; è finita anche prima di quanto pensassi. Ma almeno a Visp voglio ancora arrivare. Giù lungo la meravigliosa discesa della Novena, verso Ulrichen: una valle davvero impressionante, tornantoni che schizzano giù in rapida sequenza e poi un tratto drittissimo, quello che, in salita, con il vento contrario, fa sputare lacrime e sangue; nuvolette sospese lungo i pendii, qualche traliccio di troppo ma tant'è.

Ad Ulrichen la temperatura è ben diversa dal colle; il caldo impone di togliere la felpa e rimettere le maniche corte. Ancora una pastiglia di antiinfiammatorio per tacitare i doloretti e via per l'ultima galoppata. In realtà è uno strazio: la strada che da Ulrichen va verso Brig e poi Visp è un macello di traffico, un caos, per lo più turisti, ma anche traffico pesante. Nessuna pietà per il nostro adesivo "Bicycle race", tutti a suonare ed inveire e fare sorpassi azzardati; sono quasi più in ansia per la scorta che per la mia stessa incolumità. Ormai, sapere che sono per forza fuori gara ha smorzato in me l'entusiasmo; devo arrivare a Visp, ma non ho più addosso quella frenesia, quella voglia di pedalare e di osare che avevo mentre salivo alla Novena. E perdere l'entusiasmo significa lasciare la strada aperta a tutto il resto, tutti i dolori che finora sono stati un po' in sordina: i piedi che mi fanno impazzire, il soprasella piagato nonostante le abbondanti applicazioni di "creme de cul", la schiena che chiede misericordia. Divento insofferente a tutto, anche al caldo che di solito amo, alle auto, alla strada che sale e scende e poi s'appiattisce, ai chilometri che mancano a Visp, alle decine di rotonde, svincoli, semafori, sempre più fitti man mano che ci avviciniamo alla meta. Le gambe sono indurite, poco reattive: tutto così, all'improvviso, tutto allo sfascio, quando la testa decide che ormai non ce n'è più.

Visp poi è un caos assoluto, un'unica coda di auto, camper, pullman dall'inizio alla fine del paese; mi tocca spesso fermarmi per non perdere contatto con i miei custodi, poi girare ed ancora girare alla ricerca del negozio di bici ove dovrebbe essere piazzato il punto di controllo. Ci arrivo quand'è quasi mezzogiorno ed ormai, come mi avevano preannunciato alla Novena, non c'è più nessuno.

Certo, se i cancelli orari fossero rimasti quelli promessi nella prima versione del regolamento, a questo punto avrei un paio d'ore di margine rispetto alle tappe successive; come dice Matteo, potrei fare mezz'oretta di sosta, cambiarmi, mangiare da essere umano anziché da pitone come ho fatto sinora, magari godermi un po' di massaggio, e poi ripartire, non dico fino alla fine, ma per altri 200 km almeno, sì, senza dubbio. Il corpaccione me lo permetterebbe, ma il cronometro no, ennesima dimostrazione che non ho il fisico per questo genere di competizioni. Ma non importa, sono molto soddisfatta di quel che son riuscita a combinare fin qui; sono contenta per le risate che ho sentito scrosciare nella Opel a qualsiasi ora del giorno e della notte, per i sorrisi dei miei tre amici che hanno ancora voglia di sghignazzare e punzecchiarsi l'un l'altro, perché in fondo è andato tutto bene, sono qui integra viva e vegeta...

Peccato solo che da qui, adesso, tocchi tornare a Schaffhausen, a recuperare l'altra auto e riconsegnare il GPS. Già, il GPS: alla fine della mia gara l'ho spento, mandando un messaggio al numero di telefono indicato dall'organizzazione per le comunicazioni; ciononostante, sui cellulari dei miei amici fioccano ordini minatori: "Please restart GPS"! E che cavolo vuoi che io restarti, balengo che non sei altro, se ho finito la corsa?
Il viaggio è lungo e travagliato, ma Luca e Matteo sono davvero inesauribili; si alternano alla guida, sempre tra immancabili frizzi e lazzi, con Matteo a fare da navigatore umano che ci porta inesorabilmente ad incasinarci nel traffico dannato di Zurigo. Infatti, prendendo spunto dal nome del fuoristrada in coda accanto a noi, gli affibbiamo il soprannome di "Pathfinder". Azzeccatissimo!

La nostra avventura si conclude in un bell'alberghetto lungo il Reno, dopo vari e vani tentativi di trovare una sistemazione a Schaffhausen. Tutto occupato. Rimediamo però una bella stanza con l'angolo cottura, così ci scappa anche una pasta, per opera di Matteo che è lo chef ufficiale; abbiamo tutti, pedalanti e no, una fame che mangeremmo le gambe del tavolo... Domani si tornerà a casa, non prima che Matteo e Luca abbiano sgambettato un po' sulla salita della Novena, mentre Luisa ed io ci stravaccheremo in qualche prato a prendere il sole.

Detto ciò... Un GRAZIE immenso a Luisa, Luca e Matteo che si sono prestati per quest'avventura e che si sono dati da fare senza risparmio, prima durante e dopo la gara. Siete stati una squadra eccezionale; il vostro sostegno è stato preziosissimo, fondamentale per portarmi fin dove sono arrivata. Spero che vi siate divertiti davvero, che sia stata sul serio una bella esperienza anche per voi... Tranquilli, non concluderò con un "arrivederci alla prossima": questa volta, per un po', ne ho abbastanza anche io!

lunedì 17 agosto 2009

15/16 agosto 2009 - Prova del percorso del Trail Montagn'Hard - II giorno

L'ho sempre pensato, di non essere la persona più adatta alla dura vita del campeggio. Viaggio in tenda per ovvi motivi economici, perché altrimenti, visto che sono perennemente in giro per il mondo, mi toccherebbe vendere un rene ed una porzione di fegato per pagare i conti degli alberghi. Ed anche perché la tenda, almeno nel caso delle mie mete abituali, permette di spostarsi ed accamparsi senza il fastidio della prenotazione, voilà, basta decidere, andare, piazzarsi. Ma confesso, nonostante la disapprovazione di Matteo, che non è questa la mia condizione ideale. Se io fossi un vero uomo rude, ora, al trillo della sveglia, salterei fuori dal sacco a pelo e dalla tenda, farei dieci flessioni ed un paio di salti della staccionata e in quattro e quattr'otto sarei pronta per partire a camminare. Invece sprofondo un po' di più nel sacco a pelo, sfidando il rischio di soffocamento, mi chiudo a bozzolo, quasi il calore stesse già fuggendo via, anche se io non mi sono ancora mossa. Incurante dei richiami all'ordine: è troppo buio, fa troppo freddo alla quota di Les Contamines. Quando è troppo, è troppo: uscire al freddo, camminare fino ai bagni, lavarsi con l'acqua che, calda quando esce dal rubinetto, è già gelida quando raggiunge la faccia, costringere i muscoli a crampi e contratture in improbabili equilibrismi onde evitare il funereo contatto con il wc, ed altre amene incombenze quotidiane... Poi tornare alla tenda, aspettare che il tristissimo focherello della bombola CampinGaz riscaldi l'acqua per il the, rimpiangendo amaramente la caffettiera di casa, mangiare colazione al freddo con il collo incassato tra le spalle per trattenere un po' di calore... Ed osservare il tuo compagno di tenda che ti porge sorridente la tazza e si siede accanto a te in maglietta con le maniche corte, bello arzillo come se nulla fosse, come se questa fosse per lui l'unica normale condizione di vita possibile. E tu combatti per resistere alla tentazione di reinfilarti nel bozzolo.

Solo il pensiero della boulangerie mi conforta. Adesso si esce di qua, si molla il furgone nella piazza del paese e si va a caccia di qualcosa di buono, calorico, maialo quanto basta, appena sfornato. A quel punto, e solo a quel punto, si potrà partire per la gita del giorno. Mont Joly, a noi.
Questa è la salita che, tra tutte al Montagn'Hard, mi è rimasta più impressa. Forse perché l'ho affrontata con l'incubo delle spesse nuvole nere che avvolgevano la cima, nascondendola alla mia vista, forse perché sapevo già che non avrei avuto il coraggio di passare lassù, forse per quel che avevo letto di minaccioso a proposito della cresta. Non vedo l'ora di tornarci. Sono già le otto passate quando ci mettiamo in marcia: giù dalla scaletta della piazza centrale, lungo un bel sentiero che costeggia il fiume impetuoso e grigio. Ora da pigroni: incontriamo padroni a spasso con i cani e madame con il giornale sotto braccio. Altro che partenza prima dell'alba, come si conviene ad un vero montanaro. Mea culpa. Un po' di lievissimi su e giù, quindi un breve tratto di asfalto a sinistra, direzione La Chapelle, ed ancora sentiero. Fin da subito le rampe danno l'idea di quel che ci attende. La prima parte di salita si addentra nella vegetazione, guadagnando dislivello a suon di ripidi scalini, e ci costringe persino ad un improvvisato guado di un torrentello, là dove il sentiero sembra essere franato di recente; un occhio a dove mettiamo i piedi, un altro agli sprazzi di cielo, azzurro sì ma non incoraggiante come ieri. Qualche baffo di nuvola di troppo ci fa pensare che oggi la lavata non la scamperemo...
A Le Planey, grumo di case con una bella fontana, ci accoglie solo un micio incuriosito. Pieghiamo decisi verso sinistra, lungo un tratto che prima è strada sterrata e poi diventa sentiero, sempre con la stessa, identica pendenza impressionante: il nostro cammino è per forza molto lento e graduale, onde evitare di distruggerci i muscoli anzitempo. Io mi aggrappo ai bastoncini conficcati nel terreno, usandoli a mò di piccozze da ghiaccio, ora che il cuoricino ha superato la mattana iniziale e si è rassegnato a battere piano, piano, come sempre. Si chiacchiera e si sale nel terreno umido del sottobosco. Sono 1.500 m di dislivello in salita, tutti in una volta: ma queste rampe ce li faranno superare abbastanza in fretta.

Gli alberi intorno a noi scompaiono all'improvviso; la sagoma del monte appare così, in tutta la sua imponenza, nera per effetto del contrasto di luce e nuda, solo erba e terra, quasi a ricordare un'analoga cima simbolo, ciclistica però, la Bonette. La strada, sempre ripidissima, prosegue in mezzo ad alcuni alpeggi, località Porcherey, concedendo, bontà sua, due o tre tornanti, che ci lasciano il fiato per ammirare ancora una volta i ghiacciai del Bianco, dall'altra parte della valle, vicinissimi. E le case di Les Contamines, mille metri più giù, ma visibili nei minimi dettagli, grazie all'aria così cristallina. Poi, oltre l'ultimo edificio, un'impennata di sentiero, appena una vaga traccia in mezzo al prato, un posto da capre: infatti, il giorno della gara, proprio in questo punto sono stata schivata per un pelo da un gruppo di capre lanciate all'impazzata giù per il pendio. Forse le stesse che, ora, riposano appollaiate sul tettuccio della stalla, proprio lì alla base della rampa, e ci osservano senza interesse.

Mi arrampico con fatica e trepidazione, in una lotta impari con la forza di gravità che ghermisce e trascina verso valle il mio culone, mentre Matteo, per sommo spregio, schizza su di corsa fino al colletto a quota 2.100, dove arrivano i seggiolini degli impianti di risalita. Qui, tutte piste da sci... Finalmente, sono a tu per tu con il mio mostro. Inizia qua la salita alla prima cima, erta e pietrosa quanto basta, il Mont Géroux; salto da superare un po' in piedi ed un po' viaggiando a quattro zampe, attaccata a qualsiasi cosa in perfetto stile Uomo Ragno, solo con equilibrio un po' più precario, e meno male che Matteo vede e provvede, prendendosi ogni tanto carico dei miei bastoncini, che qui e solo qui sono talvolta più d'impaccio che di aiuto.

Non siamo soli; altri escursionisti stanno tentando la prima vetta, alcuni con molta calma, altri con spirito bellicoso. Ci arrivo, con calma, anch'io, ma non mi ci fermo; punto diritta all'altra cima che mi si erge davanti al naso. Breve tratto in cresta, pianeggiante, e poi ancora una vetta ripida e pietrosa, sconnessa, ostica. Qui c'è ancor più gente: la cosa solletica un po' la mia verve agonistica, che però crolla miseramente quando vedo scendere, proprio sotto la vetta, un gruppo di ragazzotte dalla corporatura florida ed in abbigliamento quasi da spiaggia di Rimini, ciabatte comprese. Complimenti Gian, che impresa esclusiva stai compiendo...

Pazienza, tiro avanti: sono sulla vetta del Mont Joly. Finalmente. Ma nemmeno qui mi fermo, non si può mica perdere tempo; una cima superata è già una cima archiviata... Nel breve tratto di discesa che segue, mi sforzo di lasciar perdere il panorama e guardare invece dove metto i piedi. Sulla sinistra la vallata di Les Contamines, sulla destra un'altra valle molto ampia, verde che sembra curata a prato inglese, con quel che d'estate resta delle strutture sciistiche. Matteo mi raggiunge in un attimo; insieme percorriamo il sentiero che corre giusto giusto in cresta, a metà tra un vuoto e l'altro, anche se questo è nulla a paragone di ciò che ci attenderà tra poco.

Da qui in poi ci attende un po' di saliscendi. Già dal Mont Joly si vedeva, in lontananza ma non troppo, una cima dalla sagoma stranissima, come una montagna tonda tagliata a metà, da una parte dolce pendio, dall'altra strapiombo frastagliato di rocce sporgenti, come frange di pietra plasmate dal vento. Andiamo lassù? Ne sarei felice... Infatti ci andiamo, calpestando però prima altre due cime, la Tete de la Combaz e la Tete du Veleray. Il sentiero si fa sempre più esposto, in particolare nei passaggi in cresta tra una vetta e l'altra; stretto e pendente verso il baratro sulla destra. Cammino in affanno perché l'irregolarità della pendenza, il continuo alternarsi di salita e discesa, come sempre mi fanno soffrire; ma qualche battito di troppo lo devo anche al vuoto che si apre alla mia destra, che sembra volermi attrarre giù e mi dà un senso di inquietudine. Il sentiero sporge letteralmente su uno strapiombo; allungando un po' il collo, se ne vedono le pareti di roccia frastagliata: sento i brividi correre lungo la schiena quando Matteo stende le braccia per fotografare il salto di roccia... Faccio fatica a controllare il disagio, non riesco a guardare giù, è bellissimo ma impressionante, mi mancano le gambe. Ma di lì a poco... Cammino con un occhio al sentiero e l'altro alla vetta mozza sempre più vicina; d'improvviso mi inchiodo con il respiro che soffoca in gola: un passo avanti a me, nel sentiero si apre un buco, una grossa apertura circolare che dà direttamente sul vuoto. Pazzesco... Dev'essere un fenomeno davvero insolito, se anche Matteo ne resta stupefatto, tanto da tempestarlo di foto. Un vero e proprio passaggio per l'aldilà! Qui dentro una persona magra potrebbe tranquillamente passare e volare di sotto, senza contare che, pur non arrivando a tanto, non dev'essere simpatico, camminando sopra pensiero, infilarci una gamba. Eppure non sembra una formazione naturale recente... Possibile che, lungo un sentiero così frequentato, non ci sia nulla di nulla a segnalare il pericolo? Inorridisco al pensiero che, il giorno della gara, qualcuno sia passato di qui con il buio della notte o con le nuvole basse ad avvolgere il sentiero... Già il sentiero di per sé, in quelle condizioni, è insidioso, perché qui basta davvero un passo fuori della traiettoria, per guadagnarsi il biglietto di sola andata verso il villaggio vacanze di Belzebù; il buco, poi, potrebbe essere l'itinerario più veloce...

Riprendiamo esterrefatti il cammino verso l'Aiguille Croche, imponente, arcigna nella sua forma di vela; il sentiero ci si arrampica proprio sul bordo, su su fino alla cima, aspro e polveroso. Incontriamo una ragazza che scende in perfetta tenuta da corsa in montagna, e fila non poco... Beata lei!

La discesa dalla vetta è rognosa, sofferente, troppo ripida; offre una vista molto ampia che potrebbe essere splendida se solo non trasmettesse quel fastidioso senso di vuoto, che combatto scendendo con gli occhi incollati alle punte dei piedi. Eterno, interminabile, polveroso il sentierino a tornanti: giù sotto di me c'è una strada sterrata, ma non arriva mai... In lontananza si vede un lago artificiale.

La strada porta al Col Joly ed è il regno di famigliole con marmocchi e merenderos di vari ordini e gradi. Persino una coppia che spinge un passeggino interamente coperto da un lenzuolo, per riparare la preziosa creatura dal sole... Ma che è? Il marmocchio sbiadisce forse? Ma per favore... Sorpassiamo sogghignando sotto i baffi, con un moto di pietà per quel povero virgulto finito in pessime mani di genitori iperprotettivi, e tiriamo dritto. Solo che il Col Joly non è la nostra meta, stando a quel che dice Matteo. Cartine alla mano, ordina il dietrofront: io osservo perplessa quei segni rossi, quelle curve, quelle quote, ma proprio non riesco a raccapezzarmici. Tento di seguire una linea con il dito: forse dovremmo andare lì? No, scuote la testa Matteo, troppo lontano; su questa cartina, una distanza del genere corrisponde ad un centinaio di metri nella realtà! Mah, sarà che io sono abituata a consultare al massimo le carte autostradali... Seguo senza obiezioni il passo sicuro di Matteo, che torna a farsi largo tra la folla adiposa domenicale. Seguo ma fatico; pago la fatica spesa sui saliscendi che hanno preceduto l'Aiguille Croche, ed anche il fatto di aver mangiato, finora, troppo poco.
Seguiamo la traccia del sentiero segnato come TMB, Tour de Mont Blanc, per un interminabile tratto in leggera discesa, di cui non si intuisce né la fine né la destinazione, attraverso prati dolci e verdissimi che contrastano con le orribili pozze di acqua stagnante e rossastra. Io tra l'altro sono senz'acqua da un bel po', ho bevuto l'ultimo sorso al Col Joly... Ma direi che qui non è il caso, visto che i bastoncini affondano di continuo nella melma disgustosa. Curve ed ancora curve, piccole costruzioni deserte, la testa che gira e va un po' per conto suo; poi la pendenza si inverte, si riprende dolcemente a salire, ma sempre nello stesso indefinito ambiente che non lascia intravedere mete, né alpeggi, né colli, niente che possa farci dire "si va lì". Alla nostra destra, aspri contrafforti rocciosi; sopra di noi il cielo che si sta velando, chissà che non arrivi la pioggia. Il Bianco da qui non si vede più, solo vette lontane ed anonime.
Ad un bivio, approfitto di un istante di incertezza nella scelta della direzione, per sedermi un istante su una pietra e poggiare la testa sulle braccia. Urge un po' di zucchero, una gelatina di frutta o un po'di frutta secca: le mangio, infatti, e mi sento meglio in fretta. Vedere un gruppo di escursionisti in marcia verso di noi, poi, mi dà conforto; in lontananza si delinea un avvallamento che potrebbe somigliare ad un colle. Matteo ha ben chiaro il profilo del nostro viaggio; me lo spiega più volte, ma non c'è nulla da fare, posso capire solo se quell'itinerario lo faccio scorrere sotto le suole. Attraversiamo i recinti di due mandrie, mucche belle, floride e pigre, che ci degnano appena di un movimento della coda, e poi avanti: con mia immensa sorpresa, sbuchiamo su un colletto su cui sorge una croce di pietra e da cui si vede alla perfezione, molto vicino, il Mont Joly. Ora capisco: abbiamo disegnato un semicerchio. Insomma, un sacco di chilometri per trovarci sempre più o meno nello stesso posto: caratteristica del Montagn'Hard aspramente criticata da qualcuno... A me invece l'idea di un percorso mostruosamente impegnativo, che però si snoda in un'area ristretta, dà grande conforto; significa che, pur faticando come un mulo, torni spesso in vista di un luogo in cui sei già stato, insomma che conosci già,.

Dobbiamo scendere leggermente e poi risalire dall'altra parte della conca, nella direzione di un edificio che sembra un rifugio. Attraversiamo il pascolo mentre, proprio lungo la nostra via, i pastori radunano una mandria di mucche intorno alla mungitrice automatica: sorprendente come le bestie si avvicinino spontaneamente al macchinario, quasi fossero già abituate, e probabilmente lo sono. Una bella donna bionda, dai lineamenti fini nonostante il lavoro rude, ci conferma che siamo sulla strada giusta; ci tocca però un lungo giro nell'erma e nel fango, oltre ad un precario guado del torrente, per aggirare la mandria, raccolta proprio sul sentiero. Le bestie osservano con occhio bovino, e come potrebbe essere altrimenti, i miei goffi movimenti all'inseguimento di Matteo che, agile come se camminasse sempre su un bel terreno liscio e regolare, è già avanti. Breve tratto attraverso la boscaglia fitta, rami che s'impigliano nei capelli e graffiano la faccia, quindi ci congiungiamo ad una strada, sempre sterrata, e riprendiamo a salire. Ma per poco. Approfitto di un bel torrente impetuoso per riempire la borraccia, sotto lo sguardo di disapprovazione del compare: ci sono le mucche qui intorno... Guardo in su, vedo solo un canalone verticale; può darsi, ma non importa, io sto morendo di sete e l'acqua la prendo qui. Tu fai quel che ti pare!

Altro colletto, altra discesa verso il fondovalle, in direzione dell'abitato di Plaine Joux. Finalmente capisco qualcosa: Matteo mi indica ancora il Mont Joly davanti a noi; dovremo andare a passare lassù, non sulla cima ma oltre il colletto a quota 2.100. E si apre il toto – a che ora finiremo; ho la sensazione che non sarà presto. Infatti ormai conosco il mio pollo; so bene che, se Matteo azzarda la previsione su quanto manca, sia in termini di tempo che di distanza, è d'uopo aggiungere un paio d'ore ed un bel po' di chilometri. Il tapino si basa, per le previsioni, su se stesso, senza mai tener conto della palla al piede!
Lungo la discesa, un gruppo di escursionisti dall'aria poco incline alla fatica e molto alla tavola ci offre lamponi e mirtilli raccolti in un cappellino: mi ci vuole un attimo per capire che ce l'hanno proprio con noi, a rischio della mia solita figuraccia. Un po' di corsa giù per il pendio, seguendo lo spazio libero da alberi dell'impianto di risalita: ci riesco, ma solo dopo aver ceduto il mio zaino per qualche decina di metri a Matteo, che in compenso salta come un camoscio pur reggendo il suo ed il mio fardello.

Alle porte del paese, ci tocca un po' di asfalto. Siamo un'altra volta senz'acqua. Per me non è un gran problema, ma il mio compagno di viaggio è preoccupato; si guarda intorno con ansia a caccia di una fontanella, manca solo che estragga il bastoncino da rabdomante... Io temo più per la mia fiacca che per l'acqua. Matteo ha sentenziato "600 m di dislivello"; guardo in su e ne vedo almeno 800. Speriamo che passi questa cotta. Breve salita e, con mio gran disappunto, breve discesa nell'abitato; poi finalmente si comincia a fare sul serio. Mentre Matteo si allontana in mezzo alle case a caccia di una fontana, io m'incammino pian piano lungo le ripide rampe della sterrata che sale verso il Mont Joly; pian piano la salita regolare sortisce il suo buon effetto: mi sento già meglio. Lì dove io fatico a posare un piede avanti l'altro, il collega mi raggiunge di corsa, al limite del soffocamento, con le borracce quasi piene; ironia della sorte, appena più avanti, quasi nascosta da un gruppo di case in pietra, ci imbattiamo in una fontana. Ottima occasione per rinfrescarsi la faccia.

Ancora salita ripida lungo un sentiero ampio e fangoso in mezzo al bosco, poi spuntiamo all'aperto in vista del colle e, poco sotto, di alcuni alpeggi, anch'essi costruiti in legno e pietra, raccolti uno accanto all'altro. Pochi i segni di vita quassù, anche se gli edifici sono in ottimo stato. Proseguiamo lungo la strada sterrata, incontrando un paio di grossi fuoristrada: l'itinerario della gara passa di qua, ma raggiunge il colle seguendo qualche folle traiettoria in mezzo ai prati, su pendenze al limite dell'arrampicata; io non ne voglio proprio sapere, oggi. Già la strada che porta al Pavillon du Mont Joly è sufficiente: da qui, naso contro il sentiero, seguo ancora Matteo fino al colletto appena sotto la cresta dell'anticima del Joly; ovvio che io scivoli senza misericordia e finisca per terra un paio di volte, mentre lui sale su e scompare alla mia vista... Quando finalmente, e faticosamente, scollino anch'io, mi trattengo dall'insultarlo solo perché da quassù la vista è splendida, c'è il Bianco di fronte a noi nelle prime luci della sera.

Abbiamo chiuso un anello; si tratta ora di ripetere in discesa la prima salita della giornata: un centinaio di metri di scivolate sui talloni fino all'alpeggio, una coccola al cane dei pastori, sterrata, sentiero che, in discesa, come sempre sembra più ripido ed ostico rispetto alla salita. In effetti, costringe le gambe ad un faticoso lavoro di frenata, ma nel giro di un attimo ci avvicina ai tetti delle case di fondovalle, sempre più nitidi. Sento il piacevole effetto inebriante dell'euforia, la soddisfazione d'aver compiuto una piccola impresa ormai conclusa: non c'è più da preoccuparsi, solo da esser contenti e soddisfatti. Abbiamo voglia di scendere, abbiamo fame! Per questo, mal tolleriamo l'ultimo quarto d'ora della strada sterrata accanto al torrente. Conquistiamo il furgone di Matteo dopo circa 45 km e 3.500 m di dislivello: ora attendiamo con rassegnazione il nostro destino di dolore; si sa, che il male alle gambe è subdolo; per ora non lo sentiamo, ma domani...

15/16 agosto 2009 - Prova del percorso del Trail Montagn'Hard - I giorno

E' noto che il colpevole, prima o poi, torna sempre sul luogo del delitto. Soprattutto se è un colpevole testone ed ostinato come me. La macchia lasciata dalla disfatta dello scorso luglio s'ha da lavare, magari col sangue no, possibilmente, ma di certo con un bel po' di sudore!

Ai primi di luglio, una mattina di sabato alle quattro, ero al via di una corsa in montagna alla sua prima edizione, La Montagn'Hard, nomen omen, a Saint Nicolas de Veroce, poco oltre il Traforo del Monte Bianco: sulla carta, una corsa durissima, si oltre 110 km e 10.000 m di dislivello. Mio malgrado, ho ceduto al km 57, proprio sotto la vetta del Mont Joly: dopo un'intera giornata di pioggia e temporali, l'insieme di troppe circostanze poco simpatiche, tra cui una lunga cresta da affrontare, le nuvolacce nere incalzanti e l'avvicinarsi del buio della sera, mi hanno convinta, da pusillanime quale sono, a lasciar perdere. Ma non me la sono perdonata: tornando con le pive nel sacco a Saint Nicolas, ho promesso a me stessa che presto sarei tornata, perché a questo Mont Joly avrei dovuto fare un discorsetto. Quella metà di gara che ho potuto vivere mi ha lasciata di stucco, tanto è stata dura ed avvincente; non avevo mai visto tanti sentieri così esageratamente ripidi tutti insieme! Puro dislivello, e che sfida per i garretti!

E chi è il poveretto che, ahilui, sempre si presta, allo stesso tempo complice e vittima dei miei capricci sportivi? Neanche a dirlo... Io ci ho messo l'idea, e poi al buon Matteo ho scaricato l'incombenza di programmare tutto, di trovare le cartine, di segnare i percorsi, di tradurre la mia bella pensata in qualcosa di praticabile. Certo, sarebbe stato bello poter ripercorrere l'intero itinerario della gara, e con gli stessi tempi, quindi partenza prima dell'alba e nottata intera su sentiero. Peccato che la mente disturbata che ha creato cotanta meraviglia abbia fatto ricorso, in moltissimi punti, a passaggi fuori sentiero, facili da seguire con le bandierine a segnalarli, ma pressoché impossibili da riprodurre viaggiando in autonomia, a meno di conoscere la zona come le proprie tasche, o di rischiare seriamente di perdersi. E peccato che, tra sei giorni, io abbia in programma una corsa in bici che mi terrà in sella una o due notti... Non è il caso di aggiungere, a così breve distanza, una terza notte insonne. Mi preoccupo, sto quasi quasi diventando saggia!

Intorno alle otto e mezza di sabato mattina, dopo tre ore di viaggio nella più completa tranquillità, a dispetto degli annunci minatori sulle code ferragostane in autostrada, siamo a Les Contamines. Cielo blu profondo, terso, una meraviglia;la vetta aguzza e spoglia del Mont Joly a far da custode, sopra le nostre teste, a 2.500 m di quota; ma quella sarà la nostra meta per domani. Oggi saliamo lungo il versante opposto della valle: prima un tratto su asfalto, due o tre km, fino all'abitato di Bionnay, in direzione del fondovalle, e poi su. Dovrei ricordarmi questo passaggio, ma per ora nulla mi torna in mente. Una rampa in cemento in mezzo alle caratteristiche case in pietra e legno, da cui sgorgano cascate di gerani colorati, e poi ecco l'immagine: la strada che diventa sterrata e s'inerpica nel bosco, con la pendenza che ormai ho imparato essere caratteristica di tutte le salite del Montagn'Hard. Spietata.
La nostra prima destinazione, dopo una breve pausa per la raccolta di lamponi e fragoline selvatiche, è il Col de La Forclaz. Già... Ma chissà dove? Lasciamo la strada per un sentiero sulla sinistra, erto come la strada ed anche peggio, ma spesso ci troviamo di fronte a bivi mal segnalati, a tracce che si perdono in mezzo a pascoli e case, in dubbio e senza alcun riferimento. Siamo ancora molto bassi sulla valle, tant'è che intorno a noi ci sono parecchie abitazioni e giardini, raggiungibili da strade sterrate o con il trenino a cremagliera di cui più volte attraversiamo la massicciata. Ma siamo ancora freschi e chiacchieriamo; le deviazioni non ci creano affanno, anche se sono già sufficienti a darci un'idea di quanto sia difficile provare il percorso di una gara simile in autonomia.

Ci troviamo un po' dappertutto, tra sentieri e piste da sci, case ed alpeggi, finché usciamo per la prima volta in una radura nei pressi di un colle: lo spettacolo di qui è una vera sorpresa, da levare il fiato; mai e poi mai, navigando nelle nuvole basse e pesanti il giorno della corsa, avrei immaginato che da qui si potesse godere una vista del genere. Il Monte Bianco proprio qui davanti ai nostri nasi, scintillante alla fortissima luce di questa bella giornata, così vicino che sembra quasi di poterci salire. E pensare che qualcuno di mia conoscenza ha osato parlare di un brutto percorso...

A noi però tocca scendere ancora verso la stessa valle, lungo un sentiero ostico almeno quanto lo è stato quello in salita; la forte pendenza costringe le gambe ad uno sforzo esagerato per frenare la marcia... Già, giù di qua bisognerebbe saper correre, e così non ci sarebbe alcuna necessità di frenare; purtroppo non è storia per me, che rischierei l'osso del collo e varie altre appendici. Si vede nitido il fondovalle, oltre alla cerchia di montagne intorno, una più bella dell'altra: anche la zona dei Fiz, dove sono stata a correre ad inizio agosto, altro luogo meraviglioso, altra corsa un po' maltrattata da pioggia e temporali, ma se non altro conclusa, in rigorosa ultimissima posizione.
Rinuncio a capire il senso di questo itinerario, che del resto non ha altro senso se non accumulare più dislivello possibile, e forse è bello proprio per questo; fatto sta che, a ridosso del paese, puntiamo diritti verso destra, come ricordo, e riprendiamo a salire. Altro splendido sentiero ripidissimo in mezzo a vere e proprie distese di mirtilli: è forte la tentazione di fermarsi a raccoglierli, ma non si può, la salita chiama, non permette soste, al massimo consente di strappare qualche pallino blu qua e là. Matteo mi lascia fare il passo, protettivo e generoso come sempre; devo fare attenzione, perché in alcuni punti basta poco per fare il gran salto... Ora che siamo fuori dal bosco, e che intorno a noi restano solo i mirtilli, s'intravede la nostra cima, ancora un po' sopra le nostre teste, ancora qualche tornantino; di fronte a noi, per l'intera ascesa, ancora e sempre i ghiacciai del Bianco, enormi, infiniti. Comincio ormai a riconoscere, pur nella mia somma ignoranza, alcune delle cime che mi sono già state indicate fino alla nausea, su tutte l'Aiguille du Midi.

Dalla vetta si scende verso un ampio pianoro ove sorgono un rifugio e gli impianti da sci; incontriamo nella breve discesa fin lì un sacco di gente: sono i merenderos più arditi, mentre quelli più incalliti, giù nel prato, portano le auto a calpestar l'erba fino al punto prescelto per cuocere le braciole. Orrore & raccapriccio... Passiamo oltre, noi che in questo momento siamo alle prese con un altro problema: le borracce vuote. Ancora discesa, lungo un pendio aperto alla vista panoramica sul roccioso compagno d'avventure, tutto bianco e maestoso. Quasi mi sembra impossibile che la giornata voglia restare così limpida e calda. Dovremmo dirigerci verso un posto chiamato Bionnassay... E più o meno ci riusciamo, solo che imbocchiamo, fidandoci di un cartello dall'aria un po' dubbia, un sentiero che precipita giù nel buio del bosco, sempre più fitto, finché ci ritroviamo su una strada asfaltata. Carte alla mano, Matteo sentenzia che sì, siamo più o meno giusti, ma al paese arriveremo, anziché per sentiero, per strada. Nessun problema: io non sono un'integralista e mi godo volentieri anche la superficie regolare e rilassante di questi tre o quattro tornanti, ove troviamo persino una fontanella, proprio di fronte al recinto con tre cavalli sonnacchiosi e tormentati dalle mosche.

Nel paese di Bionnassay ricordo bene d'essere passata; c'era anche uno dei tanti punti di ristoro. Ma la salita che affronteremo adesso non sarà la stessa che ci è toccata in gara, perché, secondo Matteo, parte di quel tracciato, nel tratto in alto, è al di fuori dei sentieri segnati. Va benissimo, anche perché la salita alternativa è una meraviglia. Appena prima dell'attacco, ci godiamo ancora una volta la vista di un imponente ghiacciaio... E di una linea ferroviaria che arriva proprio fino al suo limite! E' una cremagliera, credo la stessa linea che abbiamo più volte incontrato all'inizio del giro, e, a quanto pare, è anche molto frequentata; si vedono trenini che salgono e scendono nel giro di pochi minuti. Impressionante, mi ricorda il trenino del passo Furka in Svizzera. O i miei trenini Lima con cui giocavo da piccola; che meraviglia sarebbe stato, farli correre su e giù per il fianco di una montagna anziché da un capo all'altro di un banale pavimento di marmo!

Destinazione Col de Tricot, ci arrampichiamo in mezzo alla pineta seguendo qualcosa che dovrebbe essere un sentiero, abbastanza indefinito; c'è però una marea di gente che passa da queste parti, in senso opposto al nostro, quindi perder la strada è difficile. Fatico e sbuffo, mentre Matteo s'avvantaggia verso una bella cascata e poi verso una scaletta di metallo. Solo quando usciamo dal fitto degli alberi mi raccapezzo: ci troviamo in un bellissimo pianoro e, proprio di fronte a noi, abbiamo uno dei ghiacciai del massiccio del Bianco, ma questa volta vicino davvero, tanto che basterebbe attraversare la valle e lo si potrebbe toccare. Visto così, purtroppo, il povero ghiacciaio dà segni di sofferenza, tutto grigio e sporco e maciullato com'è. I danni del caldo... Resto senza parole, quasi vorrei chiedere una deviazione per andare a metter le zampe sul ghiaccio, ma temo sia già tardi, e poi si sa, in montagna quel che sembra vicino non è detto che lo sia, affatto. Seguo Matteo lungo il sentiero che ora si fa più dolce, verso la curva morbida del colle; sorpasso rocambolesco di una comitiva di escursionisti sovraccarichi e via, in mezzo ai fiori e con la brezza del colle sulla pelle, siamo in un attimo alla nostra meta. Intermedia, s'intende, perché da qui si scende giù verso le poche case di Miage, piccolo abitato che si vede da quassù, al fondo della pietraia. La discesa è una traccia ripida e disagevole; sembra brevissima, ma, come detto poc'anzi, non lo è affatto, costa fatica e storte alle caviglie. Anche qui Matteo s'avvantaggia; io rallento... Mi succede d'improvviso la stessa cosa che già m'era successa in gara, proprio in questo stesso punto; sento un formicolio lungo le gambe, le braccia, le labbra, la vista un po' confusa, la testa che gira. Mi fermo un paio di volte appoggiata ai bastoncini, per evitare di stramazzare per terra; poi pian piano mi riprendo, raggiungo Matteo fermo in attesa con aria interrogativa. Appena saputo della piccola disavventura, mi rifila una brioche: il cibo per lui è la panacea di tutti i mali, in questo caso direi a ragione...

Con le ombre già lunghe davanti a noi, ed a dispetto di qualche svarione nella scelta dei bivi, c'incamminiamo decisi verso Les Contamines. Io faccio il pieno alla borraccia nell'acqua del torrente, che scende direttamente dal ghiacciaio proprio di fronte a noi ed ha un colore leggermente grigio; lui no, non si fida ed anzi, mi rimprovera di non pensare abbastanza alla gara della prossima settimana... Anche stavolta, però, le orecchie a punta non mi verranno.
Ci avviamo verso Les Contamines via strada sterrata, nella vana speranza di essere un po' più rapidi, visto che entrambi cominciamo a sentire improrogabile il desiderio di pappa. Una strada ripidissima su cui, per qualche strano miracolo della fisica, van su e giù i fuoristrada.

Questo è uno dei momenti più belli di ogni giornata di gran fatica... Manca solo la discesa, o quasi, e, se le gambe sono ancora impegnate e cominciano anche a protestare un po', la mente è rilassata, tranquilla, soddisfatta. Se poi si è anche in compagnia, c'è il senso di complicità per aver condiviso una bella impresa, anche se in tutto questo, come sempre, io ho poco merito e, da sola, mi sarei persa a dieci metri dal parcheggio!
Una rampa secca, un bivio inatteso, ci riportano su per un centinaio di metri di dislivello o poco più; anche qui, rampe incredibili con tracce di pneumatici... Del resto, la discesa dal Mont Joly, dopo aver abbandonato la gara, l'ho percorsa a bordo di un Suzuki Vitara! E lì ho pensato che forse sarebbe stato più proficuo, ai fini della mia sopravvivenza, buttarmi lungo la cresta rocciosa in mezzo ai fulmini...
Ancora una deviazione e, questa volta, un vero sentiero, minuscolo ed impervio, ci riportano nel mondo della civiltà, a Les Contamines. Peccato solo che il tratto finale di asfalto per tornare all'auto sia qualcosa di più del "paio di km" preannunciato da Matteo: ma ormai conosco il mio pollo; si sa già che bisogna sempre aggiungere un paio d'ore ed una decina di km alle sue previsioni di tempi e distanze da percorrere...
Faccio resistenza passiva, cammino e scrivo messaggi sul cellulare, lascio che Matteo vada avanti, arriverà appena prima di me all'auto. Ci saluta lo stesso cielo terso di questa mattina, solo con qualche sfumatura più scura, ora che è sera ed il Mont Joly s'è vestito di un severo abito scuro. Lo guardo e sorrido: domani mattina ti salterò in testa...

giovedì 13 agosto 2009

8/9 agosto 2009 - Prova della seconda parte dell'UTMB: Courmayeur-Chamonix

Quando riapro gli occhi, Isacco è seduto e scruta preoccupato il cielo attraverso il parabrezza. A fatica mi scrollo dal sonno troppo breve, riemergo dal sacco a pelo e lo prendo un po' in giro: "Ti vedo teso...". Povero Isacco, trascinato quasi a forza in quest'avventura che ha davvero dell'assurdo, costretto a dormire sul sedile della Opel per poco più di tre ore, nel parcheggio di fronte al palazzetto dello sport di Courmayeur. Se non altro, ci svegliamo ai piedi del Monte Bianco, che non è proprio uno spettacolo da poco; sono le tre e mezza.

E' da più di un anno che coltivo il sogno di poter provare l'itinerario completo dell'Ultra Trail del Monte Bianco, tutti i 166 km e 9.400 m di dislivello che poi dovrò affrontare in gara tra il 28 ed il 30 agosto. L'anno scorso avevo rivolto il mio appello alle Guide di Courmayeur, che mi avevano risposto picche, ed a una guida alpina del Cuneese, che, dopo aver accettato apparentemente senza problemi, si era data alla macchia il giorno prima della data stabilita per partire, rendendosi irreperibile al cellulare, alla mail, al piccione viaggiatore, e non degnandomi di risposta nemmeno quando, nei giorni seguenti, gli avevo scritto per esprimere ciò che pensavo di lui. Poi ci avevo provato da sola, ma era un tentativo destinato al fallimento già prima di iniziare, perché io non sono mai andata per sentieri da sola e non sono capace di leggere cartine, usare bussole ed altimetri, non troverei la strada nemmeno se fosse segnata da un lunghissimo tubo fluorescente fucsia stile insegna del negozio.
Un paio di settimane fa, parlando con un altro montanaro, Edoardo alias Grizzly, del giro del Monviso, ho provato a lanciare l'idea: "Non è che per caso te la sentiresti di accompagnarmi al giro dell'UTMB?". Idea inaspettatamente accolta senza problemi. Da lì a preparare, programmare, studiare il percorso ed avanzare ipotesi sui tempi, è stato un attimo. Purtroppo, dev'essere proprio destino, questo giro non s'ha da fare; prescelto il fine settimana, fin dal lunedì le previsioni meteo di mezzo mondo si sono coalizzate nell'annunciare pioggia, diluvio, temporali, orages, mancavano solo le piaghe d'Egitto. Cosa fare, cosa non fare? Isacco da una parte, "se piove non vengo", Grizzly dall'altra, "Consapevoli che è una caxxata, si può provare". Io che, se fossi stata sola, non mi sarei neanche lontanamente posta il problema; avrei messo un paio di ricambi in più nello zaino e via, sarei partita comunque, almeno per provare, perché non sia mai che si rinuncia senza provare. E' quel che rispondo quasi con rabbia, non verso di lui ma verso la jella meteorologica, ai dubbi di Isacco: "Sentimi bene... Io non rinuncio solo perché le previsioni han detto così. E' troppo tempo che sogno quest'avventura. Io ci vado, piuttosto ci vado da sola, provo, poi si vedrà".

Non so per quale strano potere persuasivo, fatto sta che stamattina, o meglio stanotte, visto che son le tre e mezza, siamo qui tutti e tre: Isacco perplesso, che scruta il cielo e non è troppo convinto di veder le stelle – ma ci sono, sul serio!; Grizzly ancora sprofondato nell'abitacolo della sua auto, a fianco, altrettanto perplesso ma certo meno teso. Io che mi sento in preda ad un'inspiegabile euforia. Il mio neurone sa che non c'è alcuna speranza che noi si riesca a concludere l'intero giro del Bianco; ben prima dei limiti fisici, che già rendono ardua l'impresa, saranno le intemperie a mettere prematuramente fine al nostro viaggio. Isacco poi brontola già da ieri sera che si fermerà a Chamonix. Ma tutto ciò non vale a scalfire il mio insensato entusiasmo. Mi preparo velocissimamente, mi vesto, infilo le scarpe i manicotti i guanti, preparo lo zaino, spazzolo un po' della focaccia che ho ancora in serbo, porterò il resto come bagaglio; intanto guardo e riguardo le stelle, quasi per assicurarmi che siano ancora lì, ed il Bianco illuminato dalla luce azzurra e fioca della luna. Dai contorni delle cime, ben visibili anche nel buio della notte, si affacciano i nuvoloni, ma quelli no, non voglio vederli.

Ci avviamo di buon passo alle 4.10 verso una Courmayeur deserta e silenziosa, scherzando sul nostro amaro destino segnato, forse per esorcizzare la tensione che tutti per forza sentiamo: i miei due colleghi credo per timore del maltempo, io per la paura di non farcela, di dover cedere alla stanchezza, perché la prova del percorso è l'unica cosa che mi interessa, davvero. Il Grand Col Ferret, almeno per il tratto fino a Chamonix, è il punto più critico, a quota 2.500 m; lì sì che finire sotto il diluvio potrebbe essere poco piacevole. Se riuscissimo, come saggiamente consiglia Isacco, a passare lassù prima che inizi a piovere, cioè prima delle due del pomeriggio stando a quanto sostiene Meteo Chamonix, sarebbe molto ma molto meglio. Da lì in poi, le quote raggiunte sono meno preoccupanti; se anche dovesse piovere, pazienza.
Fino a Villair approfittiamo della strada asfaltata e delle luci dei lampioni; la compagnia dei muri in pietra, dei tetti in lose, delle fontanelle ci mancherà. Poi l'asfalto scompare, tocca alla strada sterrata, e ancora, un paio di curve più avanti, al bivio per il Rifugio Bertone. La salita al Rifugio è impegnativa; porta su con secchi tornanti e pendenze ripide da superare spesso su pietroni, fondo irregolare, in mezzo al bosco. Circa novecento metri di ascesa che lasciano sempre più in basso le mille luci artificiali del fondovalle; le intravedo e le cerco per non guardare in alto, perché su le stelle sono già sparite, inghiottite dalle nuvole. Sono spariti anche i miei due colleghi, partiti come missili; ne sento le voci più in su, ma non ci provo nemmeno, a tenere il loro passo. Evidentemente nutrono molta fiducia in se stessi... Io no, per niente. "Andate piano che è lunga", si narra sia il consiglio nientemeno che di Marco Olmo: lui poi predica bene e razzola malissimo, perché i 166 km li chiude in meno di una giornata, ma io lo seguo alla lettera. Alla luce della frontale, ancora, perché quella del sole stenta a farsi largo tra le nuvole. Sembra coperto in modo uniforme; secondo me non c'è, almeno per ora, quel pericolo di fulmini che tanto preoccupa Isacco. Alla peggio, tra poco si apriranno le cateratte del cielo.

Tornante dopo tornante, arrivo ad uscire dal bosco: ancora una rampa in mezzo ai prati ed eccomi al Rifugio Bertone. Qualche luce trapela dalle finestre delle case lì accanto: la scaletta, i tavoli del rifugio, chissà dove sono finiti gli altri due. Mi richiamano immediatamente le loro voci, han fatto una pausa ma sono già bell'e pronti per ripartire. Da qui si sale ancora un po' fino al bivio per la Testa Bernarda; noi però teniamo la sinistra, l'interminabile sentiero a saliscendi verso il Rifugio Bonatti. Vista Monte Bianco e luci del fondovalle proprio a picco sotto di noi: non è che lo spettacolo mi riposi, odio il senso di vuoto. Qualche goccia, di tanto in tanto, a ricordarci il nostro imminente ed infausto destino.

Dalla curva della montagna spunta la testolina di un cane, bianco e nero, che subito si fa sentire imperioso: stiamo arrivando nei pressi di un alpeggio, quindi a casa sua e dei suoi due o tre compagni di lavoro, che si uniscono in un festoso concerto. Festoso per me, che adoro i cani e non perdo l'occasione di allungare loro qualche carezza; terrificante per il povero Isacco, che per poco non mi salta nello zaino pur di nascondersi alla furia delle fiere. Cagnotti di razza indefinibile, a guardia di un rudere d'alpeggio che, pur deserto quando passiamo noi, reca evidenti i segni della presenza dei pastori. Butto l'occhio dentro la porta aperta e, da buona cittadina, inorridisco al pensiero delle condizioni di vita in questo posto: io non avrei proprio il fisico... Casa mia è sì una giungla, ci regna il caos più assoluto, tocca usare il machete per riuscire a spostarsi, però ci sono i servizi e l'acqua corrente, calda e fredda, ed i detersivi.
I latrati dei cani si confondono con gli improperi di Isacco, ormai in fuga precipitosa e disordinata in mezzo all'erba; riguadagnamo a fatica il sentiero e tiriamo avanti. I gatti, a lui piacciono i gatti, come si fa a ragionare con gente così?

Le nuvole per ora sono alte e compatte, una coltre spessa ed immobile. Superiamo un altro alpeggio, ma questa volta niente cani; quota 2000, Armina. Ancora un po' di saliscendi e spuntano le bandiere del Rifugio Bonatti. Nonostante il maltempo, non siamo soli; ci sono alcuni turisti stranieri ed un tenerissimo micio bianco e grigio, dall'aspetto amichevole, curioso di cacciare il naso nei nostri zaini mentre facciamo una sosta per riempire la borraccia. Poi il sentiero ci riporta in alto, sempre a mezza costa; da qui si vede già Arnuva, il punto in cui la strada asfaltata di fondovalle va a morire e lascia il posto al sentiero che sale al Grand Col Ferret. Grizzly, da buon alpinista, era perplesso all'idea di andare fino lì a piedi anziché in auto... “Si va in macchina fin dove è possibile, e solo da lì si comincia a camminare!”. Eh già, peccato che noi, oggi non si sa ma in gara di sicuro, si debba percorrere un anello. Quel che si evita prima, si dovrà percorrere poi.

Proprio attraverso il nostro colle, laggiù in fondo alla testa della valle, i primi ciuffi di nebbia fanno capolino, aggiungendosi alle nuvole che finora erano rimaste alte ed immobili. Riccioli soffici che fanno irruzione al di qua e rapidamente si estendono nella valle, restando così a mezz'aria, tagliandoci la vista in giù oltre che in su. In breve tempo, quel che vediamo dell'altro versante della valle è solo una fetta di parete, né la base né le vette. Mi sa che l'acqua lassù non la scampiamo...

Incontriamo sul nostro cammino nientemeno che tre asinelli, in marcia ordinata verso di noi sullo stesso sentiero, uno in fila all'altro, soli. E le tracce di scarponi, fresche, nella terra umida indicano che qualcuno ci precede, non molto avanti, verso Arnuva: infatti, quando la vista s'allarga verso il fondovalle, vedo due loschi figuri già coperti dai poncho, anche se non piove ancora. Com'è ovvio, non mi sogno certo di accelerare per raggiungerli; non avrebbe senso, soprattutto ora che iniziamo la discesa. Poche centinaia di metri verso il pianoro di Arnuva, tra tornantini ed arbusti; non mi spiego perché Isacco e Grizzly siano un po' più indietro, ma ne approfitto per prendere un po' di vantaggio, così poi dovranno aspettarmi in cima al colle per meno tempo. Ricordo bene questa salita, non va presa sottogamba.
Nel piazzale di fronte al bar, colgo per caso una scenetta da manuale: da una fiammante lussuosissima BMW, di quelle che si comprano solo ipotecando anche la mutanda, la propria e quelle delle due generazioni a venire, scendono un uomo sulla sessantina, grasso con la pancia flaccida che deborda sopra la cintura dei pantaloni e la sigaretta in bocca, ed una biondona mozzafiato con più curve della salita allo Stelvio, strizzata in jeans di tre taglie di meno e sistemata in modo molto precario su quindici centimetri di tacco a spillo. Eh, sì, proprio vero, l'amore è cieco... Ma il profumo della pecunia si sente a distanza di un miglio! Complimenti naturalmente per l'abbigliamento, proprio l'ideale per una gita in montagna! Tiro avanti con un ghigno in volto; è curioso, quest'estate ho già assistito ad almeno altre due scenette simili; allora non è un luogo comune! Brrr, meno male che non sono nata bionda e formosa, o meglio, formosa sì, solo che la distribuzione delle masse è uscita completamente sballata...

Piove, ahimè. Questa volta non sono più goccioline sparse, è pioggia in piena regola. Mi raggiungono anche Isacco e Grizzly mentre mi fermo per indossare la giacca impermeabile: è vero, camminare con la giacca, soprattutto in salita, significa rimediare una bella sudata, ma meglio così, per me, piuttosto che sentire l'acqua fredda della pioggia che bagna la pelle e la maglia. Riparto all'attacco del ripido sentiero verso il Grand Col Ferret; un primo salto di rampette secche e rocce, un breve tratto in piano verso il ponticello. Mi volto per vedere quando mi riacchiapperanno gli altri due: Isacco sale con una velocità impressionante, sarà che è piccolo e leggero, ma quest'anno è davvero ben allenato. Ne aveva già dato prova la scorsa domenica al Tour des Fiz, nonostante il ginocchio dolorante.

Il Rifugio Elena è illuminato; dalle finestre filtra la luce calda che riflette il colore degli interni in legno. Ma noi non ci badiamo: si continua a salire, su, nella nebbia. Poco fa avevo intravisto in mezzo al grigio alcune sfumature di colore, sembrava una comitiva che saliva lentamente; se non ho avuto un'allucinazione, tra poco la raggiungeremo. Grizzly ed Isacco, magnanimi, lasciano che sia io a fare il passo. Ora non piove più, anche se l'effetto della nebbia fitta è più o meno lo stesso: siamo fradici. Procedo di buon passo guardandomi le punte dei piedi, l'unica cosa che riesco a vedere adesso; intorno si sentono confuse delle voci, ma è difficile capire da dove arrivino. Solo quando siamo davvero vicini, vediamo delinearsi alcune figure, persone che salgono piegate sotto il peso di zaini enormi: vere e proprie torri montate sulla schiena, con tanto di materassino arrotolato, saranno venti chili di roba per uno! Rabbrividisco: per carità, questo sarà anche il vero spirito del viaggio in montagna, ma io una cosa del genere non la farei... Già mi lamento del mio zaino troppo pesante, ed avrò si e no cinque o sei chili di bagaglio, non di più. Sono viziata, ecco!

Superiamo uno dopo l'altro i nostri avversari, perché poi va sempre a finire così: quando capita che, in salita, io mi imbatta in qualche altro escursionista che vedo alla mia portata, non riesco a trattenere lo spirito agonistico. Misera soddisfazione, mi devo accontentare di rivaleggiare con chi nemmeno ci pensa, a far la gara, ed ha sei tonnellate di zavorra in più rispetto a me; altrimenti, chiunque altro mi mangia in insalata. Però è curiosa questa processione di anime dolenti, che compaiono via via dal nulla della nebbia, che trascinano faticosamente i piedi e sbuffano come locomotive, che rispondono al saluto, quando riescono, con un filo di voce, uno sbuffo di tonalità appena diversa da tutti gli altri. Chissà cosa pensano i malcapitati, quando Grizzly passa loro accanto fischiettando, quando Isacco a pochi metri dalla cima fa un allungo di corsa.

In vetta non mi fermo, tanto la giacca l'ho già indosso; anzi mi affretto a scendere il più possibile, almeno per sfuggire alla rabbia del vento gelido lassù. Sul colle c'è una gran folla, una Babele di lingue, chi l'avrebbe mai detto in una giornata così? Anche in questa valle a farla da padrone è la nebbia, ma il sollievo è sapere che, almeno per un po' di ore, il peggio è passato. Il punto pericoloso è alle spalle; ora ci attende la lunga discesa verso La Fouly, in terra svizzera. I miei due compagni di viaggio mi raggiungono poco dopo, Isacco snocciolando miserie per aver dovuto correre, a rischio di risvegliare il dolore al ginocchio; ricominciano i battibecchi, “Facciamo tutto il giro fino a Courmayeur”, “No io mi fermo a Chamonix ammesso che ci arriviamo”, e via così. Lo so, che la mia è un'illusione bella e buona, ma so anche che la speranza è l'ultima a morire; voglio crederci e comunque farò di tutto per arrivare il più lontano possibile. Cominciando dal risparmio delle gambe, anche e soprattutto in discesa.

Il Bianco ora non si vede più, ma, scendendo al di sotto della coltre di nebbia, si allarga la vista su questa verdissima valle e su un alpeggio, crocevia di alcuni sentieri. Crepe che incrinano il verde dei prati e salgono verso chissà quale colle; verrebbe voglia di andare a cacciare il naso, ma non si può: la nostra direzione è un'altra.
Un alpeggio, un saluto al pastore ed ai cagnotti; un rifugio, ancora un lungo tratto in costa; scendiamo al di sotto di quota 2000 e ci infiliamo tra bosco ed arbusti, pietre bagnate e scivolose, fiori coloratissimi che fanno contrasto con il grigiore della giornata. Prendo un po' di vantaggio, verso il fondovalle, mentre Isacco si leva il vestiario da pioggia e resta in attesa di Grizzly; m'infilo in una pineta dal profumo intenso, poi giù al bivio verso Ferret, ma tengo la sinistra. Incontro un gruppo di escursionisti che salgono; una signora mi chiede, in francese, se per caso più su ho trovato il sole: tento una risposta nella stessa lingua, “No, pas de soleil...”. Vorrei aggiungere qualcosa del tipo “solo tanta nebbia”, mi viene in mente “neige”, ma forse significa neve, insomma, per evitare di dire una boiata lascio perdere.
Ancora un tratto di ripidissima discesa su terra e sassi, tra le radici dei pini, quasi a picco, e poi un ponticello: lo oltrepasso e mi fermo in attesa dei due compari. Quasi quasi mi preoccupo un po': strano che siano rimasti tanto indietro... Qualche minuto ed arriva Isacco: Grizzly è poco dietro. Ci incamminiamo per una comoda strada sterrata accanto al torrente, troviamo anche una fontana; risaliamo ed ancora una volta scendiamo al torrente, con una breve deviazione in mezzo alla pineta. Luogo ideale per una sosta tecnica! Peccato che poi mi tocchi rincorrere i due marrani, che nel frattempo mi superano...

Siamo a La Fouly, piccolo centro dall'aria molto turistica, affollato e chiassoso. Isacco ordina, senza possibilità di appello, una sosta per mangiare: a malincuore mi adatto, anche se le gambe non gradiscono affatto. Una panca, un po' di focaccia con le olive; Grizzly, più saggio, attacca un pezzo di Parmigiano, Quasi inorridisco quando il poveretto esprime il desiderio di trasferirsi dieci metri più avanti, al ristorante... No no no, proprio non ci siamo! Già scalpito per ripartire...

Ci rimettiamo in marcia nella direzione sbagliata; se ne accorge Isacco, che in un attimo riporta il gregge sulla retta via. Ancora strada sterrata, in piano e poi in leggera salita; so di essere già passata di qua, ma non ricordo proprio nulla, non il rumore del fiume, né i tronchi degli alberi spezzati e bruciati, né il piccolo sentiero che si stacca sulla sinistra e che imbocco al seguito di Isacco. Ciononostante, sento una tranquillità indescrivibile. Non c'è proprio nulla che possa turbare questo viaggio, non c'è limite di orario, in fondo non c'è neppure una meta; non so ancora quanto camminerò, fino a che ora, fino a quale destinazione, ma non ha alcuna importanza, ho tutto il tempo che voglio. E nemmeno per la strada mi devo preoccupare; se fosse per me, mi sarei già persa dieci volte, ma sono in compagnia di due persone che sanno quel che fanno, soprattutto Isacco che conosco un po' meglio. Lui che dice di aver deciso di partecipare a questa follia, oggi, solo per essere sicuro che io possa tornare a casa intera; beh, lui scherza, ma solo fino ad un certo punto... Io non sono proprio capace di adoperare il buonsenso quando qualcosa, proprio come l'idea di questo viaggio, mi coinvolge e mi entusiasma tanto da perdere il senno; mi dà grande serenità l'idea di avere accanto qualcuno che invece sa tenere la situazione sotto controllo. E' curioso, anche perché non mi era mai capitato, fino ad ora, di riporre fiducia spontanea in una persona più giovane di me; del resto Isacco ha un'esperienza di montagna che io non potrò raggiungere in una vita intera, e poi devo pur prendere atto del fatto che sto invecchiando!

Salita blanda nel bosco, qualche goccia di pioggia, poi un tratto a mezza costa, tra i 1.300 ed i 1.400 m di quota; Créte de Saleina, un breve tratto di roccia bianca tagliata dal sentiero ed attrezzata con catene, precauzione persino esagerata in questo punto. Poi ci fiondiamo nuovamente verso il fiume, in mezzo alla pineta, accompagnati per un breve tratto dal cagnotto nero in compagnia di due escursionisti francesi. In fondo alla discesa, Isacco ed io ci fermiamo un momento in attesa di Grizzly; la strada sterrata che imbocchiamo qui ci porta poi all'abitato di Praz De Fort, splendide case in pietra e legno scuro, qualcuna dall'aspetto davvero vissuto, cataste di ciocchi di legno per l'inverno, incastrati uno sull'altro con precisione matematica. Nel lungo tratto in piano tra Praz de Fort ed Issert approfitto per sgranocchiare frutta secca ed un po' di barretta, appena prima che riprenda a piovere. Per l'ennesima volta indossiamo le giacche impermeabili, poi torniamo a salire: un sentiero si stacca a sinistra della strada asfaltata e ci conduce, con un salto di circa 400 m di dislivello, a Champex-Lac. Salita non troppo impegnativa in mezzo al bosco; questa sì, la ricordo: l'anno scorso, in gara, l'ho percorsa nella notte, in preda alla fame, con le visioni del piatto di pasta che di lì a poco avrei spazzolato al ristoro di Champex. Oggi invece sto bene, non ho alcun problema né di stanchezza né di gambe né di fame; certo, preferirei splendesse il sole ed invece sulla faccia cola la pioggia, tanto che non posso nemmeno tener su gli occhiali, che non servono a nulla. Il paesaggio che vedo io è ancor più incerto e sfumato di quanto lo renda la nebbia.

Il sentiero sbuca sulla strada asfaltata e l'attraversa ancora più volte tagliando i tornanti, fino a giungere a Champex, al lago, placido e di colore cupo come la giornata senza sole. Inforco gli occhiali bagnati per individuare Isacco, seduto al riparo dello spiovente di un tetto, sulla soglia di una casa, in maniche corte: quasi quasi ho freddo per lui! Altra pausa in attesa di Grizzly; mi sforzo di essere tollerante e rispettare le esigenze altrui, come sarebbe appena normale... Ma fremo, perché so che ogni volta poi le gambe fanno una fatica nera a riavviarsi. Si mangia qualcosa, scrutando le minuscole chiazze di azzurro che ogni tanto si fanno largo tra la nebbia, e poi ci si avvia a caccia di un negozietto di alimentari dove fare un po' di scorta. Io ho da mangiare per un esercito, ma ne approfitto volentieri per comprare una bottiglietta di Coca Cola, resistendo a mille altre tentazioni ordinatamente disposte sugli scaffali: Ritter di ogni tipo, biscotti, gelati, e poi le creazioni di pasta sfoglia e formaggio sotto il vetro del bancone...
Accampati sulla porta del minimarket, sistemiamo gli zaini, quando un tizio esce dal negozio con un plico di volantini sotto il braccio: pubblicità dell'Ultra Trail del Bianco, guardacaso. Ci chiede se lo conosciamo già: gli rispondo in italiano, “Siamo già iscritti”, dubito che capisca, ma finge bene e se ne va. Ad essere sinceri, non credo che in questo momento noi si abbia l'aria dei seri ultra-trailer duri e puri, no no. Sembriamo più che altro tre scappati di casa, che non hanno ben chiaro dove si trovano e soprattutto perché.

Un po' di strada asfaltata, poi ancora sterrato ed infine ancora strada; dovremmo salire a Bovine, ma chissà per quale ragione continuiamo a scendere, in mezzo alle ultime propaggini del paese, casette sparse e giardini da fiaba. Stiamo seguendo i cartelli che segnalano, in via permanente, il tradizionale TMB, il giro del Monte Bianco che gli escursionisti completano di solito in qualche giorno di marcia, ma forse da qualche parte c'era una scorciatoia. Poco male, alla fine imbocchiamo comunque la salita giusta, passando accanto ad una sorta di rifugio-ristorante da cui provengono canti, urla e fragorose risate: mi sa che qui il pranzo alcoolico sta già dando i suoi frutti! Strada sterrata, lamponi e mirtilli, pendenza dolce dolce ed ingannevole: all'improvviso, infatti, ci ritroviamo su un sentiero che definire impervio è proprio poco; una salita ardua, irregolare, dura, tutta su rocce e radici, tutta scalini da superare a forza di ginocchia e mani e mettendo alla frusta i bastoncini. Porgo la mano ad una mucca nerissima che mi fissa sbarrando il sentiero; per tutta risposta, ne ricevo una ruvidissima leccata, sembra quasi una passata di carta vetro. Isacco è un camoscio, sparisce più avanti, leggero ed agile su questi passaggi aspri; Grizzly mi segue, subito dietro, mentre sbuffo, mi inciampo, rovino a terra un paio di volte per l'appoggio scivoloso nel fango, rimedio una botta al gomito. E intanto osservo le tracce di ruote di bicicletta e mi domando come diavolo sia possibile anche solo pensare di scendere in bici giù di qua. Eppure qualcuno ci riesce: li abbiamo incontrati poco prima! Se ci provassi io, otterrei sul mio scheletro più o meno l'effetto di uno schianto frontale con un TIR...
Ci litigo, ma mi piace da matti questa salita, che in pochissima strada ci fa mangiare buona parte dei novecento metri di dislivello complessivi. Quando fatico in salita, ho sempre la sensazione che il tempo si fermi, che dal fondo alla cima non sia passato che qualche minuto; l'opposto mi capita in discesa, che ogni volta mi sembra eterna...
Il sentiero così aspro ed ostico va poi a finire, quasi all'improvviso, in un lungo tratto in piano verso il rifugio di Bovine, sarà un chilometro o poco più di traccia in mezzo ai prati, accanto al recinto elettrificato che tengo d'occhio con un po' di timore. Lo spettacolo quassù ripaga la fatica: in fondo alla valle, la piana di Martigny, un'ampia area proprio perfettamente piatta e densa di abitazioni, strade, fabbriche, che stride con la corona di montagne circostante. Sopra la nostra testa, si distingue nettamente la linea della perturbazione, dritta e grigia; al di là di essa, le nuvole sono più sparse e frastagliate; filtrano i raggi del sole della sera. Chissà che ora è? Potrebbero essere le sei, forse di più, non ne ho idea. Secondo Isacco, le previsioni del tempo hanno promesso una notte asciutta; noi siamo ancora sotto la pioggia, ma tutto fa pensare che la situazione sia destinata a cambiare. Speriamo che quella linea di perturbazione si sposti sopra di noi e ci sorpassi, lasciandoci il cielo!

Saliamo ancora un centinaio di metri di dislivello; al colle, un cancello ci separa dalla ripida discesa su sentiero di terra in mezzo alla vegetazione. Mi avvio, mentre Isacco aspetta Grizzly; più tardi mi raggiungerà per dirmi che il nostro collega ne ha le scatole piene e si fermerà a Trient. Mi dispiace, cavoli, stento a credere che uno con il fisico asciutto ed allenato di Grizzly e la sua esperienza di montagna possa non farcela a reggere un banale percorso escursionistico: impegnativo, sì, per quant'è lungo e per il ritmo serrato a cui lo stiamo percorrendo, ma pur sempre privo di qualsiasi difficoltà tecnica. Secondo me non sono le gambe che cedono, è solo che la testa non è abituata a sopportare l'idea di una faticaccia così lunga. Infatti Isacco ci prova, a spiegarmelo: ascensioni su cime anche molto difficili e percorsi facili ma distruttivi per la fatica continua e prolungata che richiedono, son due cose molto diverse... Sarà per questo che persino le guide alpine si sono tirate indietro?
Ridendo e scherzando, scendiamo verso il Col de La Forclaz, dove passa la strada asfaltata e dove c'è traccia di vita civile, bar, un piccolo albergo; io mi sento, non so bene perché, sempre più euforica man mano che passano i chilometri. Le gambe non battono ciglio; sarà anche merito dell'antiinfiammatorio “preventivo” che ho trangugiato qualche ora fa, seguendo il pessimo esempio di Isacco.

A La Forclaz, in attesa dell'arrivo di Grizzly, Isacco ed io approfittiamo dei bagni pubblici per sistemarci, rinfrescarci, nientemeno che lavarci i denti; se ci fosse anche una doccia, sarebbe il non plus ultra... Ma non possiamo chiedere troppo. Ci cambiamo, una volta per tutte, gli abiti ancora bagnati di pioggia, anche perché tra poco sarà buio e dobbiamo prepararci per la notte. Poi, un po' preoccupati per il ritardo di Grizzly, decidiamo di avviarci per risalire un tratto della discesa appena percorsa: speriamo di no, ma potrebbe essersi fatto male... Non appena mettiamo piede sul sentiero, però, ce lo ritroviamo davanti; s'è fermato qualche volta per i crampi e, in ogni caso, davvero rinuncia a proseguire. Andrà a chiedere ospitalità all'albergo.

Ci si saluta: di qui, Isacco ed io scendiamo verso il paesetto di Trient, circa duecento metri più giù, mentre ormai calano le ombre della sera. Anche qui, ricordo questo passaggio, il sentiero lungo il canale artificiale, l'abitato in cui c'era uno dei tanti punti di ristoro, poi il ponte sul fiume. Il mio collega è a caccia di acqua: inspiegabilmente tutte le fontane del paese sono sigillate. Io ho ancora la borraccia quasi piena; do per scontato che, in ogni caso, troveremo acqua lungo la salita: errore fatale! E' l'unico tratto lungo del nostro viaggio in cui non c'è proprio nulla, nemmeno un minuscolo rivolo, solo le pozzanghere della pioggia e le gocce d'acqua che pendono dai fili d'erba, dalle foglie, riflettendo la luce della frontale in mille colori. La salita in mezzo al bosco è tranquilla, ripida ma non troppo; buio pesto, solo ogni tanto intravedo il bagliore della frontale di Isacco, molto più avanti. Intorno a me il silenzio assoluto, solo qualche fruscìo di tanto in tanto, qualche animaletto che scappa al mio passaggio, il verso improvviso di qualche volatile notturno. Sono preoccupata per il buon Isacco che, senz'acqua, sarà già nel panico, se conosco un po' il mio pollo; per me non sarebbe un problema, visto che sono abituata a bere anche troppo poco, ma non mi stupisco di sentirlo raccontare, quando finalmente lo raggiungo e lo trovo fermo in attesa, che ha bevuto persino l'acqua delle pozze! Gli porgo quel che resta della mia borraccia; rido: e che diamine: non so quanto sia durata la salita, proprio ho perso completamente la nozione del tempo, ma non credo che nel giro di un'ora o poco più si possa rischiare la disidratazione. Per di più di notte, quando si suda pochino...

Un cartello indica Catogne, quota 2.011; il sentiero attraversa il prato per un tratto quasi in piano, di fronte a noi le montagne nere si stagliano contro il cielo illuminato di stelle a perdita d'occhio e della luce della luna, che faceva già capolino poco fa dal costone di un monte. Chi l'avrebbe mai detto, dopo la pioggia di oggi – o di ieri? - che ci saremmo imbattuti in una notte così?
L'aria è frizzante in discesa. Mi sento felice come non mai, davvero non c'è altro posto al mondo in cui vorrei trovarmi adesso. Per la gioia di Isacco, ci imbattiamo in un torrente che scorre proprio accanto al nostro sentiero, cosicché possiamo riprendere la marcia con le borracce piene e l'animo in pace. Lunga discesa in mezzo ai prati, a riempirci gli occhi di questo splendido cielo; un po' meno poetico l'arrivo ad una stazione di funivia o qualcosa di simile.

La strada sterrata per me significa il tracollo: è qui che comincio a pagare le ore di sonno mancanti, troppe, non solo nei giorni precedenti l'avventura, ma da tanto tanto tempo a questa parte, ore sottratte alla nanna per l'ufficio e gli allenamenti in bici ed a piedi. Il sonno mi assale, d'improvviso, tanto che sono costretta a rallentare; mi sforzo di pensare ad altro, di canticchiare, ma gli occhi vogliono proprio chiudersi, il campo visivo si restringe, la testa è sempre più pesante. Scendere a Vallorcine è un vero calvario, anche perché la strada sterrata fa calare il livello di attenzione al minimo indispensabile.

Ringrazio tra me e me, di tutto cuore, Isacco che, all'ingresso del paese, fa una pausa per mangiare; ci sediamo sugli scalini dell'ingresso di un edificio, io butto la testa contro il muro e mi addormento all'istante. Pochi minuti di sonno, qualche parola, poi ancora sonno, istantaneo, brevissimo ed intenso, come se il corpo s'affrettasse a sfruttare ogni minima occasione per recuperare quel poco di energia. Non m'era ancora mai successo di arrivare a questo punto, durante una notte a piedi.
Ripartiamo per un tratto in piano verso Il Col de Montets, dove inizia la salita che poi conduce a Courmayeur ed a La Flegere: ancora strada sterrata. Il sonno non mi dà proprio tregua, non riesco nemmeno a sostenere un discorso con Isacco; rallento in modo esagerato, trascino un piede avanti l'altro. Mi appoggio ai bastoncini, in ginocchio a terra, chiudo gli occhi per pochi secondi; poi mi rialzo, riparto, mi fermo ancora una volta, ancora qualche secondo di requie, poi la strada e finalmente il Col de Montets. Mi spiace di costringere Isacco a questa lunga attesa, ma scopro che anche lui non è in ottime condizioni: ha male alla pianta dei piedi e patisce il sonno. Ora la salita dovrebbe aiutarci un po'; la fatica di solito scaccia i fantasmi, poi questa è bellissima, finalmente illuminata dalla luna, ripida, dura, cattiva finché si vuole, ma libera dagli alberi, offre una vista spettacolare sulla vallata. La frontale diventa quasi inutile. Seguo diligentemente il passo di Isacco, finalmente un po' più calmo, forse per il sonno, forse per non mollarmi così da sola nella notte, anche se in questo momento provo mille sentimenti diversi, fuorché la paura. Solo un attimo di brivido quando Isacco si ferma: guardo avanti a lui, distinguo nel buio una curva, due occhietti gialli brillanti, pian piano metto a fuoco la figura imponente di uno stambecco. Bellissimo, maestoso, proprio lì a pochi metri da noi, che quasi potremmo toccarlo; in realtà sono due, uno accanto all'altro: restano sul sentiero, quasi ci accompagnano mentre noi avanziamo; percorrono un paio di tornanti, proprio come se volessero farci strada, ci tengono d'occhio ma senza timore, poi cambiano direzione e vanno ad appollaiarsi su una parete rocciosa a picco, con equilibrio che ha un che di magico. Ma l'avrò poi visto davvero, tutto questo, o l'avrò sognato?
Continuiamo la salita con i nasi all'insù; quando la pendenza si fa appena meno aspra ed il sentiero sfuma in mezzo alle rocce, accanto alla cascata d'acqua, sappiamo che anche questa è quasi finita. Isacco segue sicuro la traccia degli ometti di pietra; meno male che c'è lui, io mi sarei già persa dieci volte. Scivolo, incespico, pianto una bella ginocchiata sulla pietra, ma almeno la vetta è raggiunta, o quasi. Dalle rocce giungiamo in mezzo ai prati, al sentiero che conduce alla Tete au Vents; ci abbattiamo per un momento su una pietra, ci vestiamo perché, scollinando, ci troveremo sotto vento: siamo a oltre duemila metri, quindi tanto caldo non farà...

Lo spettacolo che ci appare al culmine della salita è da mozzare il fiato; i ghiacciai del Monte Bianco, particolari nitidissimi alla luce della luna, colori in tutte le sfumature dell'azzurro, luci del fondovalle che sembrano vicinissime anche se sono mille e più metri sotto di noi, forse di più, non lo so; le creste frastagliate, i lumini dei rifugi o chissà cosa sono, là appese sulle pareti; il vento gelido che taglia la faccia. Due splendide stelle cadenti in rapida successione attraversano il cielo.

Il guaio è che non ce la facciamo più... Non sono le energie che mancano, è il sonno che, in questa seconda discesa notturna, proprio non vuole più concederci requie. Io non penso d'essere in grado di scendere ancora molto; rischierei davvero, visto che sento di addormentarmi persino mentre cammino. Isacco, forse per solidarietà, è piazzato più o meno allo stesso modo. Detto, fatto; anche se siamo su una cima che si chiama Tete au Vents, dove è probabile che non patiremo l'afa, troviamo una grossa roccia piatta che possa farci da schienale inclinato e ci fermiamo qui. Isacco stende a terra il poncho, per proteggere i nostri preziosi posteriori dall'umidità dell'erba, ed indossa tutto quel che ha nello zaino; faccio anch'io lo stesso, metto su la giacca invernale rubata al corredo ciclistico e quella in GoreTex, più il berretto di pile. Ci stendiamo l'uno appiccicato all'altro sotto il telo di sopravvivenza, per sfruttare l'”effetto stalla”, e nel giro di pochi secondi finiamo entrambi nel mondo dei sogni. E' il mio terzo bivacco notturno in alta montagna, naturalmente all'avventura, senza sacco a pelo, senza materassino, senza alcun conforto di alcun genere, se non il calore del corpo del mio “vicino di branda” che è un vero scaldino, non so come faccia; eppure dormo, eccome se dormo, un sonno profondissimo, proprio necessario. Mi risveglio solo per brevi istanti, scossa dai brividi, sento il respiro regolare di Isacco accanto a me ma non raggiungo lo stato di coscienza necessario ad aprire gli occhi. Mi sembra un'eternità quando la sensazione di freddo diventa troppo forte perché io riesca a sopportarla... Tremo come una foglia, ho i piedi gelati ed i polpacci nudi che quasi non sento più, la faccia esposta all'aria, eppure ci vuole Isacco che con decisione mi scrolla da questo stato di torpore, sgradevole per il freddo eppure piacevole allo stesso tempo, perché son qui irrigidita a guardare le stelle e le montagne e tremo e non riesco a pensare a nulla, eppure sento che potrei restarci finché non arriverà il sole, anzi in fondo lo vorrei proprio. “Erano le tre quando ci siamo fermati, adesso sono le cinque e mezza”, mi fa notare il compare: sì, ha ragione, forse è ora di rimettersi in marcia. A malincuore, davvero; sono in uno stato d'animo tale che in fondo l'impresa sportiva potrebbe anche passare in secondo piano, si potrebbe restare quassù ancora un po'...
Muoversi costa uno sforzo sovrumano; i muscoli sono irrigiditi, le ossa fiaccate dall'appoggio sulla nuda pietra, la gola che brucia, la testa ancora stordita dal freddo e dal sonno che non è bastato e non basta mai. Raccogliamo le nostre cose, ci rimettiamo in cammino; il rifugio di La Flegere sembra lì a due passi, ma sarà necessario camminare ancora molto per raggiungerlo. Intanto il cielo si fa sempre più chiaro, i ghiacciai riconquistano il legittimo colore bianco, e poi le cime s'incendiano di rosso; Isacco scatta foto e mi illumina sui nomi, sui posti, le guglie; d'ora in poi, quando leggerò romanzi e biografie di montagna che parlano di questo luogo, ricorderò dov'è che ho visto la Mer de Glace, l'Aiguille du Midi e tanti altri. Sentiero ed ancora sentiero, balzi su roccette e poi via via pianura, fino ai casermoni di La Flegere, dove sono in corso lavori per costruire chissà quale altro obbrobrio. Rischio di inciampare ad ogni piè sospinto, perché qui tenere gli occhi fissi a terra è un delitto; mi perdo a guardare e contare le innumerevoli guglie del massiccio di fronte a me, alcune così sottili che sembra incredibile restino in piedi. Splende il sole: se per la giornata di ieri si può dire che le previsioni abbiano azzeccato persino il minuto, oggi la storia pare ben diversa; si annunciavano temporali violenti in mattinata, ma qui non ce n'è traccia, solo alcuni passaggi di baffi di nuvole molto alti. Poi il bosco ci toglie l'orizzonte; ricordo che, da qui a Chamonix, il cammino è ancora interminabile. Raggiungo, dopo una breve sosta, Isacco che mi aspetta seduto su una pietra, il viso un po' più scuro di ieri per la barba che è cresciuta, in senso reale oltre che metaforico; lo sguardo che sembra quasi cattivo, anche se so che è solo la stanchezza. Sono davvero felice quando mi dice che, nonostante tutto, è contento di aver preso parte alla mattana, che quest'avventura gli ha dato rinnovata carica per affrontare con il giusto spirito la prova distruttiva che ci attende a fine agosto; non commento, perché in fondo la faccia tosta io ce l'ho solo quando non serve, ma so bene che, se siamo giunti fino qui, posso solo dire grazie alla sua decisione di partecipare. Non solo: è merito suo del fatto che adesso siamo qui, ed anche dello stato d'animo di assoluta tranquillità in cui io ci sono arrivata. E pazienza se Isacco è irremovibile dalla scelta di fermarsi a Chamonix. So bene che, se volesse, ce la farebbe ancora a proseguire, ma non posso proprio insistere oltre: nella condizione di stanchezza in cui si trova adesso, credo reagirebbe proprio male. Un po' di rammarico ce l'ho, perché il cielo è più azzurro che mai; lungi da mela certezza che io stessa sarei in grado di percorrere ancora 77 km e quattro salite, però vorrei davvero, con tutta me stessa, poterci provare. La luce violenta del giorno terrà lontano il sonno, almeno finché camminerò; le gambe dolgono ma non più di tanto, e in ogni caso, con orrore dei puristi, ho con me una buona scorta di chimica che mi permetterebbe di tenere lontana la sofferenza fisica. Pazienza: ha ragione Isacco, son pur sempre 90 km quelli che abbiamo alle spalle, con circa 5.000 m di dislivello, percorsi in autonomia, col disagio della pioggia, con poco sonno, con zaini ben più pesanti di quelli che avremo in gara. E sono più che soddisfatta della condizione in cui arrivo in piazza a Chamonix, dopo una discesa interminabile; stanca sì, ma ancora pimpante quel tanto che basta a rispondere a tono alle battutacce del mio compare.

In paese, neanche a farlo apposta, incontriamo Grizzly in compagnia dell'amico che, ieri sera, lo ha raccattato a Trient, un ragazzo che vive e lavora a Chamonix. Comprati i biglietti del bus per il ritorno a Courmayeur, ci resta un'oretta di attesa che passiamo al bar, ascoltando a bocca aperta il racconto dell'amico di Grizzly, reduce da una spedizione alpinistica in Pakistan, e successiva toccata e fuga in panetteria, da cui usciamo con due meravigliose baguettes ancora calde e morbide. Crolliamo sui sedili del bus, provando in questa occasione l'esperienza del teletrasporto: ci risvegliamo infatti sul piazzale di Courmayeur senza esserci minimamente resi conto di aver compiuto uno spostamento... Sarà un po' più dura, per me, guidare fino a casa, senza autoradio e con Isacco che mi fa più o meno la compagnia di un pelouche, addormentato come un sasso sul sedile passeggero, tranne brevi momenti di lucidità. Ripartiamo lasciando qui il nostro bagaglio di entusiasmo e voglia di fatica e suole consumate: torneremo a prendero tra non molto, a fine agosto. Avremo da realizzare un sogno più grande di noi.