Appuntamento
alle tre e quaranta, notturne ovviamente, al casello dell'autostrada,
a Carmagnola. Roberto non batte ciglio: questo già la dice lunga
sulla sua tempra di ciclista che non teme nulla. A maggior ragione se
si pensa che, non avendo la disponibilità dell'auto, lui ci arriverà
da Castelnuovo Don Bosco direttamente in bici... Infatti così lo
trovo, più puntuale di me. L'inarrestabile Opel accoglie in un
attimo sia la bella bici in carbonio che il passeggero; via sotto uno
splendido cielo stellato, destinazione Aisone.
E'
da tempo ormai che covo la voglia di un bel giro in bici, come dico
io. La passione, messa da parte negli ultimi anni in favore della
corsa, vuoi per ragioni di tempo, vuoi per la paura dopo l'ultimo
incidente, non si è mai spenta; anzi, pian piano, sembra proprio
volersi riprendere lo spazio che per anni le è appartenuto nel mio
cuore, senza rivali né limiti. E' vero, quest'anno ho pedalato in
bici da corsa solo tre volte, ma si è trattato di tre volte "di
peso": due uscite in Langa, rispettivamente da 270 km e 150 km
circa, più la Nove Colli da 200 e rotti. Oltre a ciò, ho macinato
parecchi km in mountain bike ed un'infinità di ore di rulli, ma
questo conta poco...
Le
previsioni meteo di ogni possibile sito internet attendibile sono
tutte concordi nel promettere, finalmente, un sabato ed una domenica
asciutti e caldi, dopo una sequenza snervante di fine settimana
freddi e piovosi. Un'occasione da non perdere. Il mio programma
prevede un itinerario a forma di "8", con partenza da
Aisone e salite dei colli Lombarda, Bonette, Allos, Champs, Cayolle,
Maddalena. A metterci i numeri ha pensato Roberto, entusiasia della
proposta: circa 300 km per 7.700 m di dislivello in salita.
La
mia non si può certo definire una guida scattante e veloce:
soprattutto al buio, soprattutto quando ho la responsabilità di un
passeggero a bordo. E di due bici, che si sa, per il ciclista
"so'ppiezz'e core". Sono già le cinque quando raggiungiamo
Aisone, punto di partenza strategico della Valle Stura per via della
toilette. Visita alla medesima e sistemazione delle bici:
un'irripetibile contumelia squarcia la quiete del paesello, quando mi
accorgo che la ruota anteriore del mio fiero veicolo è sgonfia. Ma
come, sgonfia? Ho caricato la bici nel cofano ieri sera ed era tutto
ok... Non la toccavo da un paio di settimane almeno... Cosa diavolo
può essere successo nel cofano della Opel? Lì per lì, mi getto
alla furiosa ricerca degli attrezzi per cambiare la camera d'aria;
sulla mia indole battagliera per la giornata scende una cappa nera,
spessa, oppressiva, perché so già che, quando mi capita di forare,
non mi capita una sola volta. Come minimo, due o tre di fila.
Insomma, vedo già la gita rovinata. Poi mi fermo per un attimo di
riflessione. Insomma, questa benedetta ruota non può essersi bucata
nella Opel. E ieri sera, ne sono arcisicura, era a posto. Forse per
qualche strano gioco di pressione, s'è sgonfiata nel viaggio, magari
perché la valvolina non era avvitata alla perfezione. Scelgo il
rischio: prendo la pompa e rigonfio il tutto, o meglio, cedo
l'incombenza al buon Roberto che è senz'altro più forzuto di me.
Speriamo in bene.
E'
ormai quasi chiaro quando ci mettiamo in viaggio. Breve tratto di
riscaldamento fino a Vinadio, un po' di saliscendi, qualche brivido
in discesa ed i primi camion che arrivano dalla Francia in colonna. A
Vinadio, tutto tace; scendiamo fino al fatidico bivio: Colle della
Lombarda. Da quanto tempo non passo più di qui in bici. Quasi due
anni, credo. Un cavallo al pascolo ci degna appena di uno sguardo. La
borgata di Pratolungo è cambiata: molte abitazioni sono state
ristrutturate, altre sono oggetto di lavori in corso, condotti, mi
par di notare, con ottimo gusto. C'è anche un "bed &
breakfast". Si fa il pieno d'acqua ad una fontana, poi via, si
sale, sul serio. Il primo "scalino" è ingannevole: la
salita a tornanti sembra meno impegnativa; tutto il dislivello che si
guadagna è lì, sotto gli occhi; la fatica trova subito un riscontro
che dà soddisfazione. Peccato che, dopo la guardiola ormai dismessa
in cui, anni fa, si piazzavano le forze dell'ordine per i controlli
dei movimenti vicino alla frontiera, la musica cambi. La strada si
stende, diventa rettilinea o quasi; morbide curve mascherano appena
la pendenza severa, seguendo il corso del torrente impetuoso.
Intanto, il sole illumina appena le cime dei monti che chiudono la
valle. Lo sento, tutto e subito, lo sforzo di spingere giù i pedali.
Sento il peso dello zaino, anche se ho fatto il possibile per
scaricarne un po' nel borsello da manubrio; si tratta comunque sempre
di peso da spingere su con le mie gambe. Roberto, paziente, adegua il
suo passo al mio. Vorrei essere un po' più loquace, ma non ne ho il
fiato. La temperatura, per ora, rimane bassa; non è ancora tempo di
levare i manicotti. La piccola centrale idroelettrica, un primo
tornante ed un secondo, un altro lungo rettilineo, fino a far
capolino su quello che io chiamo "il secondo scalino", il
tratto intermedio della valle, in cui la strada, guardando dal punto
di vista di chi sale, passa "a destra" e si arrampica su
per una bellissima serpentina. Noi saliamo, la luce del sole scende e
ci viene incontro; è nettissima la differenza di colore tra la
montagna ancora in ombra e quella già illuminata. L'aria è
limpidissima.
Un
insolito viavai di auto è l'unico neo: dove diamine vanno tutti a
quest'ora? Un gruppo di persone dall'aria montanara rude si sposta
per brevi tratti su un fuoristrada; scendono, inforcano i binocoli,
puntano chissà cosa. La strettoia nella valle, in corrispondenza dei
ruderi di alpeggi, è una vera galleria del vento; gelido,
ovviamente. Un'altra teoria di tornanti ci conduce al lungo pianoro,
non ancora territorio delle mucche per questa stagione. Prendo
respiro; mamma mia, se la prima salita è tanto dura, chissà le
altre... Mi è di grande aiuto il fatto di conoscerne ogni metro.
Il
cielo conferma quanto promesso dalle previsioni meteo, è limpido,
anche se, volgendo lo sguardo in direzione della pianura, si nota un
po' di nuvolaglia sbrindellata. Altro "scalino", un paio di
tornanti per giungere nella parte alta del vallone, in vista del
Santuario di Sant'Anna. Il profumo degli alberi è intenso; soffia
una leggera brezza. Roberto è di buona compagnia; chiacchiera anche
se io riesco a rispondere di rado, a monosillabi. Imbocchiamo al
bivio la direzione della Francia, per gli ultimi otto km circa di
ascesa: tornanti in mezzo al bosco prima, un po' d'acqua e fanghiglia
che scorrono sull'asfalto, poi solo più prati e laghetti e marmotte
ancora intontite dal lungo sonno. Seguo con lo sguardo, dall'altra
parte del vallone, la strada sterrata che dal Santuario risale verso
il colle. Mi piacerebbe, prima o poi, percorrerla in MTB.
La
luce quassù è piena, cristallina; i prati pullulano di fiori; qua e
là, qualche chiazza di neve. Poche auto abbandonate sulle piazzole
indicano che qualche escursionista mattiniero è già in cammino. Il
colle, visibile già cinque km prima di arrivarci, richiede ancora il
tributo di qualche rampa severa; per fortuna, l'asfalto è
sopravvissuto alla stagione fredda in buone condizioni. In vetta,
solo il camioncino del venditore di panini, rigorosamente chiuso. Ci
fermiamo per qualche foto e per indossare giacche e guanti: la
discesa sarà lunga e s'infila in un vallone stretto e profondo; dei
ventun km che ci separano da Isola, più di metà saranno in ombra.
Batteremo i denti.
Prendo
un po' di vantaggio in discesa, mentre il compare completa la
vestizione. Mi meraviglio di trovare la strada in condizioni
eccellenti, ben più larga di come la ricordassi e liscia come un
biliardo. Non saranno simpatici, i cugini d'Oltralpe, ma c'è da dire
che in moltissime cose ci superano di anni luce; una di queste è la
manutenzione delle strade di montagna. Prima di Isola 2000, Roberto
mi ha già raggiunta. D'altronde, io sono sempre quella che, per
dirla con Ivano il Terribile, in discesa fa le curve quadre... E qui,
le curve non mancano di certo. L'itinerario verso Isola è tutto un
tornante, per quanto agevole, su uno stradone. M'impegno a mollarli
un po', i freni, ma la fiducia è quel che è. Come previsto, la
temperatura verso il fondo del vallone scende vertiginosamente; trovo
il buon Roberto in attesa all'ultimo tornante, l'unico già
illuminato dal sole, appena sopra Isola.
Non
manco di rendere omaggio al bagno pubblico di Isola. Ho in testa la
mappa GPS di tutte le toilettes di ogni ordine e grado a cui mi sia
capitato di accedere; potrei quasi prestare la mia consulenza alla
Garmin, qualora i responsabili del marchio decidessero di lanciare
un'applicazione apposita. Pochi minuti e si torna in sella,
destinazione St Etienne de Tinée, occhio e croce una quindicina di
km, da me sempre temutissimi. Leggera e massacrante salita. Roberto
non si allontana; assiste paziente alla mia agonia su pedali che sono
pesanti come macigni. Ci sarebbe anche la pista ciclabile... Bella,
per carità, ma è una di quelle piste concepite per chi va a
passeggio nel senso più leggero dell'espressione e costringe ad
attraversare più volte la strada: alla fine, un rischio piuttosto
che una tutela... Ai piedi della rampa che precede St Etienne, si
impone la scelta: sopra o sotto? Optiamo per la stradina sulla
destra, senz'altro meno frequentata, che passa nei pressi di un
laghetto e di alcune cascine. Solo in apparenza è meno impegnativa;
quando meno te l'aspetti, ti piazza una severissima rampa da
affrontare con ogni cautela, pena lo spargimento dei bronchi
sull'asfalto. Mentre io agonizzo, Roberto va su, agile. Una discesa
altrettanto perentoria, un paio di curve a gomito e ci ritroviamo tra
le case di St Etienne. Con la sicurezza di chi c'è già stato mille
volte, imbocco sicura vie e piazzette, salvo realizzare che non ho la
più pallida idea di dove mi stia dirigendo. Amen, St Etienne non è
New York; prima o poi da qualche parte andremo a sbucare. Infatti,
eccoci sulla strada canonica, non esattamente nel punto in cui avrei
voluto arrivarci, ma fa lo stesso. Si torna a fare sul serio: seconda
salita della giornata, Col de la Bonette.
Parto
piano, molto piano. D'obbligo il rapportino più agile che ho. Mi
perseguita l'incubo della mancanza di allenamento. Ce la farò? Non
ho molta scelta... Lo zaino pesa, la bici pure, la ciclista non
parliamone. Per fortuna il mio compagno di viaggio chiacchiera
volentieri, mi aiuta a distrarmi, ma il pensiero dei 25 km che mi
separano da lassù... Il traffico, come sempre da queste parti, non
manca. Molte auto, innumerevoli moto. Mi disegno in mente le tappe
intermedie: il bivio per St Dalmas le Selvage; il pianoro con il
parcheggio ed il ristorante; le poche case di Bousieyas. Piano,
sempre piano, ma senza sosta. Ricordarsi di dare un po' di sollievo
al soprasella, di tanto in tanto, ma con cautela, perché sui pedali
"da passeggio" la scarpa, non vincolata, tende talvolta a
scivolare. Un cielo meravigliosamente limpido si allarga su di noi,
man mano che risaliamo. Ce la faccio, non ce la faccio? Mi basteranno
le forze? Che emozione, tornare qui dopo lunga assenza. La "mia"
Bonette. Roberto non l'ha mai vista, la Bonette, pur essendoci già
passato in bici: destino e combinazione di orari da randonneur hanno
fatto sì che, quella volta, fosse buio. Si può dire che l'abbia
"sentita", la salita, ma mancava il panorama, il che non è
poco.
Oltre
il pianoro, brevissimo tratto di pietà della salita, da assaporare
con la voluttà con cui il disperso nel deserto gusta l'ultimissima
stilla d'acqua della sua bottiglia, si riprende a salire verso
Bousieyas. Mentre fatico tra i primi due tornanti che risalgono lo
"scalino" prima del minuscolo paese, avverto un rumore
sordo, come di un motore molto potente ed un po' sofferente. Guardo
giù e non credo ai miei occhi: un TIR, con un unico lunghissimo
rimorchio, sta venendo su. Un TIR? Qui? E dove diamine conta di
andare? Il bestione si arrampica a fatica; se è vero che qui la
pendenza non è micidiale, è anche vero che questa non è certo
strada da veicoli di quel peso e di quelle dimensioni... Incagliato
tra auto che scendono, auto che salgono, camper e ciclisti
sparpagliati, l'enorme veicolo mi sorpassa scaricando una quantità
inaudita di fumo nero, il sospiro di angoscia di quel povero motore.
Con sorpresa e raccapriccio, mi accorgo che i TIR sono due, uguali,
entrambi con la scritta a caratteri cubitali "Aleppo" sul
telone del rimorchio. Ma avranno davvero idea di dove stanno andando?
O forse hanno imboccato questa strada per sbaglio? Sarebbe grave,
perché di qui non hanno alcuna possibilità di invertire la rotta...
Non resterebbe loro altra scelta che quella di salire al colle e
scendere fino a fondovalle. Ma come se la caveranno con la strettoia
di Bousieyas?
Se
la cavano, evidentemente, perché, quando ci arrivo io, di lì a
pochi minuti, dei bestioni della strada non c'è più traccia. Buon
per loro che la salita, come del resto la discesa, è larga e con
fondo in condizioni eccellenti. Mi fermo un attimo alla fontana: devo
riempire la borraccia, certo, ma la triste verità è che ho bisogno
di un attimo di respiro. Un cagnone dall'aria pacifica si aggira tra
le tante bici riunite qui come per un tacito appuntamento. Le lattine
di Coca e di aranciata, messe nella vasca a raffreddare dal gestore
del minuscolo bar, sono una tentazione irresistibile... Ma resisto,
torno in sella, c'è ancora tanta strada. Da qui, circa 14 km. Ed è
dal tornante appena sopra il paese, che si comincia finalmente a
scorgere la meta. Con l'orgoglio un po' ingenuo della "padrona
di casa" - su questa vetta ciclistica ho lasciato uno dei tanti
pezzetti del mio cuore, quindi è anche un po' mia - mostro a Roberto
il panettone pelato, ferito dal lungo graffio della strada che gira
intorno alla cima: "Dobbiamo arrivare lassù"... Non si
scompone, lui. Del resto, con il suo talento innato per le due ruote,
potrebbe ripeterla venti volte di fila, questa salita. E invece
rimane pazientemente nei miei paraggi, sopportando il mio passo
stanco da mulo sovraccarico. Il traffico di auto e camper e moto ci
accompagna anche in questo tratto, fino all'altra mia meta
intermedia, i ruderi di Camp de Fourches. Brevissimo tratto in piano,
quasi impercettibile. Da qui, altri sette km al colle, otto se si
vuol fare il giro della cima ed arrivare effettivamente oltre quota
2.800 m.
Sempre
tormentata dal senso di colpa per la mia stessa lentezza, avanzo a
Roberto la proposta: "Vai avanti al tuo passo; quando arrivi su,
fai il giro della cima. Io mi accontento del colle e scendo giù
direttamente; almeno, risparmiamo un po' di tempo". Anche
stavolta il mio collega di avventure non ha nulla da obiettare;
quattro pedalate ben assestate ed è già lontano.
Subito
la salita riprende. Appena oltre la curva, manca poco che io mi
ribalti: una raffica di vento freddo e rabbioso mi investe. Il cuore
rotola in fondo ai calzini: ma no... Non è possibile... Non ho
ancora tribolato a sufficienza, fin qui? Non basta la salita? Lo so,
lo so, siamo ormai oltre quota 2.500 m; è normale che soffi il
vento, quassù. Ma ho paura delle folate che mi fanno perdere
l'equilibrio, delle auto che mi passano vicino. Procedere, con un
simile ventaccio, è una pena! E' questo il prezzo da pagare per lo
splendido cielo azzurro che la giornata ha regalato? Per fortuna, la
strada segue un andamento ad arco, anzi a più archi, uno dietro
l'altro; il vento non è sempre di fronte. Ma ormai so che il vento è
molto molesto in ogni direzione, tranne quand'è perfettamente a
favore.
Non
so per quale inspiegabile miracolo, Eolo sembra aver rinunciato ad
infierire. Dopo le prime folate, il vento si placa, smette di
ruggire. Ho una tale paura di non farcela, ad arrivare fin su, che
alla fine i chilometri si rivelano più brevi di quel che sembravano:
curva dopo curva, ecco il colle, a poche centinaia di metri di
distanza. Scruto la strada che fa il giro della cima: le fanno da
ornamento cumuli di neve. Vuoi vedere che non si passa ancora? In
effetti, al colle mi pare di scorgere un losco figuro che potrebbe
anche essere Roberto, fermo in attesa. Pedalata dopo pedalata, il
dubbio diventa certezza: è proprio lui, in attesa, perché non ha
potuto cimentarsi nel tour della vetta. La neve blocca ancora il
passaggio. Un moto di vile soddisfazione, sia pur represso
immediatamente, mi attraversa per un istante il neurone: beh, è
vero, non posso andar su nemmeno io, c'è la neve... Quando so
benissimo che non ci sarei comunque andata.
Mi
copro per benino: si gela, quassù... Poi via, in discesa. Ad un paio
di km dal colle, mostro a Roberto la strada sterrata che sale da St
Dalmas le Selvage; l'ho già sperimentata, qualche anno fa. Solo gli
ultimi 3 km di salita sono sterrati; li ho già assaggiati, qualche
anno fa, con la bici per mano ed i sandali da mare, portati su per
l'occasione, ai piedi.
Un
sonno micidiale mi coglie giù per la discesa: sbadigli da slogar la
mascella, schiaffi in faccia per riprendere coscienza. Non è il caso
di addormentarsi, con questo traffico... Tantopiù che, a quanto
pare, oggi è il giorno dei fenomeni da circo; tra auto e moto di
turisti, salgono alcune vetture con la carrozzeria ricoperta di
adesivi sgargianti ed i motori senz'altro modificati, ma soprattutto
in mano a piloti scriteriati. Questi pazzi si lanciano in sorpassi
criminali e in curve su due ruote, del tutto incuranti di chi viaggia
nella direzione di marcia opposta: ma dove credono di essere... A
Indianapolis? Il primo incontro ravvicinato con un degno
rappresentante di questa cerchia di decerebrati mi risveglia del
tutto; occhio Gian, a quel che fai tu ma soprattutto a quel che
combinano gli altri! E i due TIR? Chissà che fine hanno fatto? Non
possono essersi volatilizzati... Evidentemente ce l'hanno fatta, ad
arrivare giù. Tutto sta a capire se volessero davvero arrivarci, a
Jausiers. In ogni caso, io sì, ci voglio arrivare, possibilmente
integra.
Pecore
e merenderos si contendono i laghetti nel pianoro, un paio di
tornanti più in su del rifugio "Halte 2000". Poi i primi
alberi segnano il confine della quota più ospitale; inizia la lunga
serie di curve che mi porta giù alle prime borgate, con le insegne
degli artigiani del legno e dei venditori di "fromage de chevre
et de brebis". Per inciso, ho una gran fame... Jausiers è ormai
in vista. All'ultimo curvone prima del paese, strabuzzo gli occhi:
tra i tanti ciclisti che salgono, ne addocchio uno che ha, al posto
dei polpacci e dei piedi, due evidentissime protesi. E che va su con
un passo davvero invidiabile! Altro che le mie gambe in carne ed
ossa... La Bonette, a proposito di persone con handicap, mi ha già
regalato, ormai tanti anni fa, l'incontro con un fortissimo ciclista
con le braccia amputate appena sotto il gomito, per un incidente sul
lavoro. Con un articolato sistema di modifiche alla bici, quell'uomo
riusciva non solo a mangiarsi le salite senza alcuna difficoltà, ma
anche e soprattutto a guidare il veicolo in discesa con un'abilità
che io potrei sognarmi anche in cent'anni di esercizio. Chissà che
fine ha fatto...
Trovo
Roberto accanto alla bella fontana sulla destra. Il tempo di riempire
la borraccia - il caldo si fa sentire adesso - e siamo dinuovo in
strada, destinazione Barcellonette. Lancio un'occhiata languida al
carrozzone di "Nico Pizza", sulla piazzetta di Jausiers:
desolatamente chiuso... Una decina di km noiosi e quasi piatti. Alla
faccia della pedalata rotonda, il mio incedere è un disastro. Che
fatica. In paese c'è il mercato: sfiliamo tra i banchi di frutta e
verdura, ma soprattutto di formaggi, con gran pena del mio pancino.
Non ci si può fermare... Altrimenti ci metto tre giorni, a tornare a
casa! Tiremm'innanz. Ancora un paio di km di piattume, fino al bivio
per il Col d'Allos. Per me, il "Tour des Troi Cols" esiste
solo in questo verso: Col d'Allos, Col de Champs, Col de la Cayolle.
Mai viceversa, perché, nell'altro senso, mi toccherebbe infliggermi
una lunghissima e noiosissima, per quanto suggestiva, salita alla
Cayolle ed una lunghissima e noiosissima salita, neanche suggestiva,
all'Allos. Solo il Col de Champs merita di essere scalato da entrambi
i versanti. Roberto non ha nulla da obiettare: ha già messo in
carniere il giro nel verso che io non digerisco, quindi approva di
buon grado l'idea di provare il senso antiorario.
La
salita al Col d'Allos, a quest'ora di metà pomeriggio, rivela subito
le proprie armi: non la pendenza, costante ma sempre contenuta...
Bensì il clima, ferocemente caldo, soprattutto per le nostre ossa
che, fino ad oggi, non hanno ancora assaggiato, per quest'anno, la
vera estate. La strada offre ben pochi tratti in ombra; la terra ha
il colore dell'arsura, l'asfalto è punteggiato di bollicine nere che
crepitano sotto il peso della ruota. Esaurire l'acqua della
borraccia, come succede a me, non è una buona idea. Per mia fortuna,
non patisco mai molto i morsi della sete; per mia doppia fortuna, la
salita è relativamente breve, 17 km circa, scanditi dai cippi
bianchi e gialli a bordo strada, per arrivare a poco più di 2.200 m
di quota. Chilometri che, con una Lombarda, una Bonette ed un
allenamento quasi inesistente nelle gambe, pesano, comunque. Per non
parlare dello zaino.
Conoscere
la rotta, metro dopo metro, ha anche un lato negativo; non puoi mai
ingannarti, nemmeno per un attimo, illudendoti che la vetta sia
proprio lì oltre quella curva. La strada risale lenta la valle, poi
con un paio di tornanti piega netta verso sinistra; il colle non si
vede ma si intuisce. Alla terrazza del rifugio, presa d'assalto da
frotte di motociclisti, si può dire d'essere arrivati. Solo più
pochi metri...
Roberto
è già qui, pronto a vestirsi per la discesa. Tiro un sospiro di
sollievo quando scopro che anche lui, come me, è parecchio affamato.
Io ho ancora una buona scorta di miele e qualche barretta, ma è di
cibo vero che ho voglia adesso... Restiamo d'accordo di tenere gli
occhi ben aperti al passaggio nei centri abitati e di tirare i freni
davanti al primo supermercato o alla prima "boulangerie"
che ci capiti di addocchiare. Così fiduciosi, ci lanciamo giù per
la morbida discesa tra i pendii che d'inverno fanno la felicità
degli sciatori: ma quegli scheletri di metallo degli impianti di
risalita sono così tristi... Per non parlare degli orrendi casermoni
turistici che straziano la conca verde su cui stiamo planando. E'
proprio qui, tra gli obbrobrii edilizi, che le nostre pupille si
inchiodano sull'insegna di un negozietto di alimentari. Una freccia
indica una sorta di piccola galleria commerciale: eppure, a dispetto
del promettente invito "ouvert", qui di aperto non c'è un
tubo. Tutto spento, buio, immobile, silenzioso come il resto di
questo paese fantasma, La Foux.
Ci
rassegnamo a proseguire la discesa fino ad Allos. La fame distorce i
miei ricordi; mi sembra che la distanza che ancora ci separa dal
paese sia incolmabile... Non è vero; con mia grande sorpresa, la
meta arriva ben prima di quanto mi aspettassi. Senza più bisogno di
concordare alcunché, il compare ed io svoltiamo entrambi nella parte
vecchia, dove sembrano concentrarsi le botteghe. Con disappunto,
constatiamo che qui non sembra esserci traccia di un negozietto di
alimentari; in compenso, c'è una panetteria. Mentre scorriamo le
pupille sulle torte con la marmellata ed il croccante di mandorle,
ecco che Roberto butta l'occhio su qualcosa che... Sembra troppo
bello per essere vero. Su un ripiano dello scaffale, giacciono
languidi dei panini... Dei signori panini: pagnottone tonde da venti
centimetri di diametro, che hanno tutta l'aria di esser ripiene di
ogni leccornia. Ci scambiamo una rapida occhiata: se non oggi,
quando? Ok: vada per i panini, oltre al dolce ed a due bottigliette
di Coca Cola, ovviamente. A quanto pare, la panettiera - antipatica
come sono antipatici più o meno tutti i suoi connazionali - non ha
un coltello a disposizione per tagliare i panini in due; amen, ci
arrangeremo. Usciamo dalla bottega con il morale alle stelle: alla
prima panca, ci accampiamo e, con un misto di timore reverenziale e
di pura lussuria, ci accingiamo ad affrontare i mostri. Come
previsto, gli ingredienti sono innumerevoli: maionese, olive, uovo
sodo, insalata, pomodori, zucchini, noci... Insomma, energia a pronta
assimilazione per il ciclista. Senza contare l'olio che impregna il
pane. Ci sarà un chilo di roba a testa, qui... Eppure, vuoi mica
avanzarlo? Tra l'altro, con questo caldo, la maionese rischia di
deteriorarsi... Non sia mai. Morso dopo morso, con pazienza e
dedizione, i nostri eroi riescono ad avere la meglio sui mastodontici
panini, non prima di aver curato la documentazione fotografica
dell'evento, finché non giunge il tragico momento di sollevare i
deretani dal seggio. Un certo qual senso di pesantezza ci opprime...
Lentamente
ci trasciniamo in sella, consapevoli che, con cotanta zavorra sullo
stomaco, tra pochi km ci toccherà affrontare le rampe severe del Col
des Champs. Se non altro, per un po' non patirò più la fame...
Tumultuosi rivolgimenti di pancia accompagnano i pochi km rimasti di
falsopiano in discesa, fino al bivio, seminascosto, per la nuova
salita. Rapportino e via: qui la pendenza è più severa, ma in
soccorso del ciclista giungono un po' d'ombra più fitta ed un buon
numero di tornanti che, si sa, alleviano la pena e danno l'idea di
"salire di più". Qui l'asfalto è in condizioni più
sofferenti, rispetto alla strada del Col d'Allos; del resto, si
tratta di una via di collegamento molto meno nota e sfruttata. Crepe,
tappeti d'aghi e di pigne, buche, pochissime auto. Una dozzina di km,
forse meno. Non vedo Roberto, chissà se ha azzeccato il bivio? Il
dubbio è fugato di lì a poco; lo vedo in piedi accanto alla
fontana. Ecco, una bella borraccia d'acqua gelida è quel che ci
vuole per agevolare la digestione del panino-discarica. Proprio vero,
abbiamo stomaci foderati di amianto... Chiunque altro si azzardasse
ad affrontare pendenze a doppia cifra dopo aver così impiccato lo
stomaco sarebbe già al cospetto di Belzebù. Invece noi risaliamo
con molta calma, e molta fatica da parte mia, il fitto bosco, curva
dopo curva. Quando torniamo alla luce del sole, le ombre sono già
lunghissime. Ancor più suggestivo è il pendio della montagna,
d'improvviso pelato come una zucca e che, girata una curva, diventa
color del carbone, come se la terra abbrustolita fosse tutto quel che
resta di un incendio distruttivo. Scatto ancora qualche foto: sono
talmente lenta che quasi quasi non mi è nemmeno necessario impostare
l'opzione "foto in movimento"...
Al
colle, vestirsi è d'obbligo. L'arsura del giorno, quassù oltre
quota 2000, si tramuta in un baleno in brividi; la discesa sarà
tutta in ombra. Roberto si avvia al suo passo: lo tormenta la
batteria del Garmin, ormai vicina ad esalare l'ultimo respiro. Forse
a St Martin d'Entraunes, giù in fondo, gli riuscirà di trovare un
bar in cui mendicare qualche minuto di collegamento elettrico. Io
scendo piano, a freni tirati, complici anche il gelo alle gambe e la
stanchezza. Il sole è sparito dietro le montagne: mi illudo che in
realtà non sia ancora il tramonto, che sì è vero, diventa buio ma
a casa, in pianura, c'è ancora luce... Il neurone, sfinito, divaga.
La discesa è eterna, interrotta da un paio di brevi risalite; la
bici va un po' dove vuole. Sera, timore, agitazione. Ancora una
velocissima pausa alla bella fontana in pietra e poi giù: al bivio,
incontro il povero Roberto, semiassiderato eppure stoicamente di buon
umore. Non manifesta nei miei confronti nemmeno il più flebile
istinto omicida: ci sarebbe da proporre il suo nome per un'immediata
beatificazione!
La
salita del Col de la Cayolle mi terrorizza. E' nulla, in sé... Ma,
messa in coda a Lombarda, Bonette, Allos, Cayolle, diventa più
ostica di una parete liscia e strapiombante. Sarà che a me il
crepuscolo infonde un invincibile senso di tristezza... Tra poco sarà
buio, sarà freddo, avrò sonno... E se non ce la dovessi fare?
Il
mio compare fa del suo meglio per tenermi allegra. La prima parte
della salita, una decina di km, forse qualcuno in più, è molto
blanda; "pedalabile", la definirebbe un ciclista decente.
Un Mortirolo, per me che proprio "non ne ho più". Anzi, in
queste condizioni patisco ancor più il falsopiano, rispetto alla
salita "vera". Mi consola un po' la sensazione di ritardare
la notte, tornando a guadagnare dislivello, ma è un'illusione che
dura poco.
Alle
prime case di Entraunes, scorgiamo una forma tondeggiante in mezzo
alla strada. La forma si sposta pian piano a bordo strada... Ma si
decide a dileguarsi solo quando le siamo proprio accanto. Forma molle
e pelosa con tutto l'aspetto di un tasso! Stupendo, ma non avrà vita
lunga, se continuerà ad aggirarsi con tanta flemma sull'asfalto...
Al primo bar, Roberto si ferma. A St Martin non ha trovato soccorso
per il Garmin morente; forse qui avrà più fortuna. Io vinco la
tentazione di una bevanda calda e proseguo: è meglio che non perda
altro tempo. Non ho idea di che ora sia, ma non credo manchi molto
alle dieci. Qui comincia il vero Col de la Cayolle, pendenza di tutto
rispetto ed ampi curvoni, vegetazione di impronta marittima che pian
piano scompare nell'oscurità. Finché posso, evito di accendere la
luce frontale; lo sforzo di distinguere le asperità del terreno alla
fioca luce delle innumerevoli stelle aiuta a combattere il sonno.
Tutt'intorno, un silenzio di pietra, freddo come l'aria sulla pelle.
D'improvviso, dalla boscaglia alla mia sinistra si leva un verso
indefinibile, una specie di barrito, un trapestìo frenetico, poi più
nulla. Recupero al pelo la sbandata; rido del mio stesso spavento, ma
pedalo con un briciolo di lena in più. Non passa molto tempo prima
che mi raggiunga il mio compare; la sua luce illumina la strada
davanti a me. Un po' di carica l'ha rimediata... Poveretto, non sa
che, ad andare in giro con me, bisogna procurarsi batterie
plurisecolari!
All'ultimo
baluardo di civiltà, ultimo paesello abitato prima del colle, il
sonno ha già allungato su di me i suoi artigli. Sgranocchio il
croccante, un po' per tenermi sveglia, un po' perché, incredibile ma
vero, ho ancora fame... Ma non basta. Neppure bastano i racconti
delle peripezie ciclistiche di Roberto, pure interessanti e spesso
molto divertenti. E neanche il meraviglioso firmamento di stelle.
Meno quattro km, meno tre, eppure ho paura di non farcela... E dopo?
So bene che la discesa, in queste condizioni, è una tortura. E un
rischio. Ma che ci posso fare? Taccio al mio compagno i miei patemi,
pesto sui pedali. Questa salita è quasi finita... Ma la prossima?
Il
colle. Metto piede a terra ed un vestito di gelo mi ricopre ogni
centimetro quadrato di pelle. Prima che il freddo mi congeli le
articolazioni, indosso tutto quel che ho, due giacche, guanti sottili
ma lunghi, bandana al collo. Il cielo quassù è di una bellezza
struggente: ci sarebbe da fermarsi, avendo a disposizione un paio di
sacchi a pelo di quelli seri. E invece no. Precedo di poco Roberto in
discesa, ma il sonno, bestiaccia crudele, mi aggredisce subito e
senza scampo. La voce del compagno d'avventure diventa lontana, la
strada si annebbia, le curve non sono più dove mi aspetto di
trovarle. Pur con le palpebre sollevate, gli occhi non vedono più.
Devo fermarmi almeno un momento, non ho scelta. Lo so, non ha senso
quassù, siamo ancora sopra ai duemila di quota, si congela. Non
posso, non posso, non ho scelta. La prossima curva non la vedrò.
Raccomando a Roberto di andare giù, fermo la bici, mi siedo a terra,
così come mi trovo. Appoggio la testa, piombo in un sonno
profondissimo. Neanche mi rendo conto che, se dovesse mai salire su
un'auto, mi passerebbe sulle tibie. Me ne accorgo al risveglio, dopo
pochissimi minuti, quando il freddo mi ha ormai quasi levato il
respiro. Rigida, intirizzita, risalgo in sella per disperazione; per
un attimo mi sento sveglia, padrona della situazione... Alla luce
della frontale, però, distinguo a fatica il nero dell'asfalto dal
nero della vegetazione. Nemmeno il più flebile movimento tra i muri
del primo minuscolo abitato; solo il fragore del torrente, monotono.
Questa discesa è lunga trenta km, terribile da affrontare col sonno.
Gli occhi tornano a chiudersi, è tutto buio, tutto muto, tutto
uguale. Altri piccolissimi abitati, tutto immobile, come
cristallizzato. L'acqua delle fontane scorre per nessuno. Mezzanotte
dev'essere passata da un po'. Non voglio, non devo più fermarmi; non
so dove sia Roberto, ma di certo mi sta aspettando al freddo, non
posso farlo soffrire così... Le pareti del canyon si sostituiscono
al nero del cielo, senza stelle è tutto ancor più buio; le palpebre
pesano come macigni. Vado giù ripetendomi ad alta voce "Sveglia
Gian, sveglia"... E più di una volta correggo bruscamente una
curva che un istante prima m'è parsa un rettilineo. Ho la netta
sensazione che non arriverò viva al fondo... Lo so, ormai è quasi
fatta, ormai manca solo il Colle della Maddalena, ma la stanchezza
esaspera le distanze, le paure, i confini. La fortuna, forse anche un
po' la memoria scolpita di questo itinerario, mi aiutano ad azzeccare
tutte le curve, tutti i ponticelli, anche se rasento il limite. Non
vedo l'ora che la strada mi costringa a tornare a pedalare; un minimo
di sforzo fisico è alleato nella battaglia contro il sonno. E poi,
se potessi levarmi di dosso un po' di questo freddo terribile...
Uvernet,
lo stradone, Barcellonette. Un tale cammina a bordo strada, mi guarda
stralunato, ricambio lo sguardo allucinato. La luce dei lampioni è
un magro conforto. Dov'è Roberto? Per un attimo, un brivido ancor
più gelido mi attraversa la schiena: e se si fosse fermato ad
aspettarmi lungo la discesa, e se io non l'avessi visto? Tiro un
lungo sospiro di sollievo quando, in piazza, scorgo sulla sinistra
una forma vagamente umana abbandonata su una seggiola. E' lui! In
carne, ossa e brividi... Si rialza, visibilmente sofferente, ma
neppure questa volta manifesta nei miei confronti intenzioni
violente. Risale in sella, semplicemente. Riusciamo ancora a perderci
tra le tre viuzze in croce di Barcellonette e ritrovarci, uno più
rintronato dell'altra, sulla strada che va verso Jausiers. Dieci km
che a me paiono mille; falsopiano in salita, pedali come macigni,
sonno, sonno, sonno. Jausiers in effetti mi ha già vista un'infinità
di volte mezza addormentata: con le varie edizioni della Randonnée
Fausto Coppi, son passata di qui sempre a notte fonda o alle
primissime luci dell'alba. Ricordo perfettamente quella panchina su
cui mi sono accasciata nel lontano 2007... Questa notte, purtroppo,
non va meglio. Il sonno non si può dominare, men che meno in bici,
quando un attimo di mancanza di coscienza può costare carissimo. Di
veicoli, a quest'ora, ne passano ben pochi, ma qualcuno c'è... Non
ce la faccio. Se non mi fermo, cado, non ho scelta. All'uscita del
paese, sono costretta a fermarmi. Lascio le chiavi della Opel a
Roberto: lui non patisce, sta bene; che vada su e scenda subito ad
Aisone, in auto potrà riposarsi un po' e scaldarsi. Il suo fanalino
rosso scompare nella notte, mentre io quasi cado di peso contro il
muro di un'officina, forse un deposito. Schiena e testa appoggiate in
verticale, gambe allungate, braccia conserte. Mi addormento.
Il
rombo di un Tir mi sveglia, ma non è ancora ora. Ho un freddo
becero, ma troppo sonno. Richiudo gli occhi, li riapro ancora, spazi
di pochi minuti probabilmente, altrimenti sarei già congelata.
Coraggio Gian, è ora di rimettersi in marcia. Quasi mi tocca
prendermi a calci per costringermi a tornare in sella. Freddo, sete,
tanta sete, borraccia vuota. Mi trascino fino a La Condamine,
lentamente, troppo lentamente, come se avessi un pilota automatico,
ancorché molto scarso. Il fragore del torrente rimbomba contro le
pareti; in certi punti sembra quasi che scorra alla mia sinistra,
anziché a destra. Sosta per prendere acqua alla fontana, altra sosta
proprio all'attacco della Maddalena, di natura "tecnica".
Il dolore al soprasella, finora, se n'è rimasto in disparte, ma
adesso reclama la sua fetta di attenzione; con la prima rampa,
comincia la tortura. Pazienza, Gian. Diciassette km ed è davvero
finita. Sedici, quindici. Mi alzo con fatica sulla vallata
silenziosa, bramo i cippi bianchi e gialli che segnano i km faticati,
mi disegno in mente la strada, curva dopo curva. Anche questa volta,
il sistema che segnala la frana ormai secolare non ha nulla da
rilevare; passo, incurante del divieto di transito alle bici, tiro
avanti. Potrebbe venir giù la montagna intera; io voglio andare a
casa... Luci di Meyronnes, ancora silenzio, aria immobile, quasi che
il vento abbia paura di rompere l'incanto facendo frusciare le
foglie. Le mani stringono il manubrio, i piedi scoppiano nelle
scarpe, anche se sono comodissime scarpe da corsa e non quelle specie
di armi di distruzione di massa che sono gli scarpini da bici. Un
infinito traverso, un paio di camion, ancora stelle. Chissà se il
mio compare è già all'auto?
Salgo
con fatica, ma sono felice, ora che posso ragionevolmente credere di
farcela. E che diamine, al colle ormai ci arrivo, a costo di
arrivarci a piedi... Non ho più l'allenamento di un tempo e mi
dispiace, però sono ancora in grado di combinare numeri del genere.
E' meraviglioso... E bravo questo corpaccione!
Anche
a Larche, tutto tace. Solo gli irrigatori automatici delle aiuole
disobbediscono, non capiscono nulla della poesia di questa notte. Il
sonno cede spazio alla felicità, almeno per un po'... Maison Meane:
una minuscola finestra illuminata scalda il cuore. Non è
un'impressione: il cielo è già meno nero. Una sfumatura
impercettibile all'occhio, ma evidente all'animo di chi attende con
ansia febbrile la luce del giorno. L'alba mi coglie sugli ultimi
tornantoni che precedono il valico, mi riempie di gioia ma chiede il
pegno di un freddo ancor più pungente. Prati, fiori, chiazze di
neve, il gabbiotto del venditore di liquori, le figure sfuggono
all'oscurità, quasi si affollano a richiamare la mia attenzione. La
Valle Stura, ormai quasi casa. Via, in discesa: prima le placide
acque del lago, poi il pianoro colonizzato da camper di ogni foggia,
dimensione e nazionalità. La Fontana di Napoleone, con la sua vasca
di pietra tristemente spaccata ed il frammento che giace lì,
appoggiato alle sue radici. Ampi e lunghi tornanti verso Argentera,
mentre il cielo assume meravigliose tonalità di rosa. Una donna
anziana è la prima presenza umana che incontro, sulla soglia di una
vecchia casa in paese. Poi il vento, contrario, manco a dirlo.
Raccontatemi pure quel che vi pare circa il flusso delle correnti in
montagna; io so solo che, in presenza di un ciclista, il vento è
contrario. Sempre, inderogabilmente, è una verità di fede. Ed è
freddo...
Le
pecore hanno colonizzato lo scheletro di obbrobrioso cemento
abbandonato al Villaggio Primavera, si aggirano persino sulle scale,
brucano chissà che. Un intenso profumo di croissant mette a dura
prova la mia forza di volontà. Il rettilineo lungo, veloce, gelido,
e poi le Barricate, il paravalanghe, la galleria. Un film che mi
scorre davanti agli occhi senza bisogno di aprirli... Ciononostante
li tengo ben aperti, onde evitare di tornare su al colle spalmata,
come direbbe un mio terribile amico, "sul radiatore di uno
Scania". La luce è un toccasana contro il sonno, anche se non
posso dire che i sensi siano perfettamente sotto controllo.
Pontebernardo, Pietraporzio, Sambuco. Due brevi risalite che paiono
rampe insormontabili, per non parlare poi della famigerata "erta"
di Vinadio. La Valle Stura, per l'ingenuo ciclista che sogna una
discesa, è infida e maligna. Vinadio, qualche curva, qualche camion.
Il campanile romanico di Aisone, il semaforo. Quasi 300 km e circa
7.000 m di dislivello nelle gambe. La piazzetta, la Opel. E, nella
Opel, una forma di vita, sia pure momentaneamente fuori servizio. Lo
sveglio, mio malgrado; chissà da quanto tempo è qui... Un'eternità.
Prima
che il sonno prenda il sopravvento, salto al volante, destinazione
casa. Ce la faccio, sia pure con l'aiuto di un robusto caffé doppio
nei paraggi di Cuneo. Povera barista: immagino lo sconcerto
nell'accogliere, come primi clienti della giornata, due zombie
puzzolenti con le occhiaie... Il viaggio finisce a Carmagnola: per
me, ma non per Roberto, che deposito alla stazione ferroviaria. Gli
toccherà un tratto di viaggio in treno ed un altro tratto, ancora,
in sella. Ma lui non patisce nulla, non se ne accorgerà nemmeno!