18-20
maggio 2012 - NOVE COLLI CHALLENGE
Questa
sera, la mia autonomia è più limitata del solito. Con gran pianto e
stridore di denti, arrivo a superare Bologna... Ma lo sforzo per
tener sollevate le palpebre è a dir poco sovrumano. Le corsie
dell'autostrada, le luci, le auto, i cartelli si confondono in
un'unica macchia che fluttua davanti al parabrezza. Qualcosa mi dice
che sarà meglio fermarsi al primo autogrill: a tutela della mia
stessa esistenza, ma anche per riguardo nei confronti delle coronarie
del povero Isacco, ormai ridotto a muto ammasso di membra tremolanti
sul sedile passeggero. Non oserebbe mai sollevare giusta protesta per
la sonnolenza della pilota, il poveretto, anche perché ormai ben ne
conosce il caratteraccio... Ma percepisco distintamente, nonostante
il potente rombo del motore della Corsa, il respiro affannoso del mio
compagno di viaggio, al limite del collasso. Va bene, va bene, mi
fermo. Infilo quasi alla cieca il primo posto che mi capita a tiro
nel piazzale: tempo di estrarre dalla borsa il sacco a pelo e
stenderlo sul sedile, ed eccomi già inumata e pronta per la nanna.
Un ultimo sguardo al mio compare, che, ben più a modino di me,
prepara lo spazzolino, il dentifricio ed il libro da leggere per
conciliare il sonno: poi, incurante del fatto che stanotte si dormirà
senza nemmeno poter reclinare il sedile, per via delle bici nel
bagagliaio, cado in coma profondo.
Alle
quattro della mattina successiva, il trillo della sveglia mi riporta
alla realtà... Ed un'irripetibile sequenza di improperi ai danni
della gerarchia ecclesiastica, partendo dall'altissimo vertice, mi
ricorda che, una volta tanto, l'abitacolo della Opel accoglie anche
un altro essere umano. Il quale si lamenta senza posa della
nottataccia appena trascorsa: e dire che io ho dormito come un
sasso... Sbrano un trancio di pizza, tratto dalla ricca scorta di
vettovaglie che mi son portata da casa; dopodiché, raccolgo tutto il
coraggio di cui sono capace per uscire dall'auto, sfidando la
temperatura polare, e raggiungere l'autogrill. Con la mia solita
lungimiranza, non ho pensato di portare con me un paio di pantaloni
men che minuscoli... A Cesenatico, a maggio, non può fare che caldo,
e che diamine!
Concluse
le libagioni e le abluzioni, ci rimettiamo in viaggio per il tratto
che ci separa dalla meta. A Cesenatico, ormai, potrei chiedere a buon
diritto la cittadinanza onoraria: ci sono stata per tre volte in
occasione della Granfondo Nove Colli ciclistica e per due volte alla
Nove Colli podistica. Quest'anno ci torno per unire le due cose.
Un'idea che la mia mente, pur malata senza speranza di cura, non
avrebbe mai potuto concepire, è spuntata mesi fa nei crani ancor più
sinistrati di un gruppo di tostissimi triathleti: abbinare alla Nove
Colli Running, che si svolge il sabato e la domenica, anche una
randonnée ciclistica sullo stesso percorso, da completare il
venerdì. E siccome un triathleta non può accontentarsi di due sole
discipline, condire il tutto con venti km di nuoto in piscina, il
giovedì.
Alla
frazione di nuoto ho dovuto rinunciare fin dal primo annuncio del
folle progetto, dal momento che galleggio più o meno quanto un ferro
da stiro obeso. A dire la verità, ci ho anche provato, a sfruttare i
due mesi di preavviso dedicandomi ad un corso intensivo di nuoto; mi
è servito se non altro a vincere la paura di immergere la testa
nell'acqua... Adesso, anzi, mi piace moltissimo guardare il mondo da
sotto, con gli occhialini, ma tuttora mi sfugge ancora come si possa
fare a riemergere. In compenso, per le frazioni di bici e di corsa ho
dato sin da subito la mia adesione incondizionata. Così, stamattina
mi ritrovo a cacciar via i sensi di colpa per un venerdì che
dovrebbe essere lavorativo, scaricando dalla Opel i vari pezzi della
mia bici da corsa. Anzi, preciso, da ciclocross, anche se non so
nemmeno in cosa consista il ciclocross.
Isacco
si è unito al viaggio per sciropparsi, pure lui, il percorso in
bici: sta tornando alla vita sportiva dopo un lungo periodo di
convalescenza a causa di un ginocchio ballerino ed è più agguerrito
che mai. In effetti, ha uno zaino degno di una spedizione al K2: c'è
di tutto dentro, cibarie per affrontare un assedio di mesi, abiti per
qualsiasi clima dall'Alaska alla Terra del Fuoco, un laboratorio di
meccanico ciclista in miniatura e, a completamento dell'estetica, un
paio di scarpe, legate all'esterno del sacco, sui fianchi. Non mi
stupirei ci fossero, lì dentro, anche una tenda di sopravvivenza, un
defibrillatore ed i cavi per ricaricare la batteria dell'auto. Non
oso osservare che la Nove Colli prevede un itinerario da 202 km...
Probabilmente, ha pensato che ci fosse uno zero in più.
La
giornata inizia sotto il peggiore degli auspici: la ruota posteriore
della mia Ridley tocca il freno. La smonto, la rimonto, niente da
fare. Guarda, medita, tocca, elucubra: alla fine, Isacco si accorge
di una levetta sganciata. Cavoli. Non si direbbe proprio, che
quest'omino celi in sé cotanto genio! Mannaggia a lui, non perde
occasione per farmi notare che il copertoncino posteriore è
completamente liso ed ha già un paio di buchi... Mannaggia, io non
me ne sarei mai accorta! Ora mi toccherà convivere con l'angoscia
serpeggiante della foratura per tutto il giorno...
Un
rapido richiamo di colazione al bar, una bella cioccolata, e poi
Isacco si avvia: vuol prendere vantaggio perché, a suo dire, al
momento ha una condizione di allenamento tale che da non potersi
concedere altro che un'andatura da tartaruga. Io mi acquatto in un
angolino di sole al Porto Canale, dove l'appuntamento con gli altri
sinistrati è fissato per le sette: l'aria è gelida, la luce scalda
appena. Attendo con trepidazione e con un po' di terrore nei
confronti di quei mostri sacri con cui condividerò, forse, qualche
km, prima di essere inesorabilmente abbandonata a me stessa ed alla
mia lentezza. L'acqua sembra immobile nel canale, le barche oscillano
appena, pigre. C'è già un certo viavai di persone, tantissime in
bici: non sono ancora i ciclisti della granfondo in programma per
domenica, anche se molti di loro sono già a Cesenatico; questa è
gente che va a lavorare o a far la spesa. E' bello constatare che
qualcuno riesce ancora a fare a meno di poggiare il deretano
sull'auto, almeno per gli spostamenti brevi...
Ormai
prossima al congelamento, mi accorgo di due loschi figuri muniti di
bici che si appropinquano. Sono, in effetti, due della combriccola.
Tempo di un caffé e si riunisce l'intero gruppo, proprio davanti
all'ingresso del Municipio: sei ciclisti, Alfiero, Gabriele, Beppe,
Andrea, Giacomo ed io; due assistenti di scorta in auto, una foto di
rito e via. Sette e un quarto, senza troppe formalità ha inizio la
prima tappa della grande avventura.
La
preghiera che rivolgo ai miei bellicosi compagni di viaggio è di
aspettarmi almeno per i primi venti km, tempo di raggiungere la prima
salita. Altrimenti, mi perdo... Garantito, che mi perdo. Di là in
poi, me la dovrei cavare. Questo primo tratto è fonte, da subito, di
suprema angoscia: binari, traffico, rotonde, semafori, incroci.
Quest'anno ho poggiato il mio riverito posteriore sulla sella della
bici da corsa una sola volta: anche se quella volta ho percorso quasi
270 km in una botta sola, non posso ritenermi allenata, né allo
sforzo fisico, né tantomeno all'equilibrio sul mezzo, che per me è
sempre stato molto precario, nonostante tanti anni e tanti km. I vari
incidenti ed in particolare l'ultimo, poi, mi hanno lasciato un senso
di precarietà e paura che, nei tratti di gran traffico, raggiunge il
parossismo. Così, ad ogni rotonda finisco per perdere terreno
rispetto ai miei colleghi, che vedo sempre più lontani e piccini.
Anche perché io, le rotonde, le affronto al limite della velocità
necessaria per mantenere la bici in piedi... Poi mi tocca rilanciare,
ma oggi gli sforzi muscolari intensi, come può essere uno scatto per
ripartire, sono banditi. Oggi devo pedalare per 202 km e 3.200 m di
dislivello circa, ma domani e domenica, sullo stesso percorso, dovrò
correre. E le gambe saranno sempre le stesse...
Mossi
a pietà, i miei compagni di viaggio mi attendono all'ingresso in
Cesena, ammucchiati sullo svincolo, e mi scortano premurosi
nell'attraversare la città, che sarebbe anche molto bella, se solo
la contemplazione non fosse distratta dal disagio e dal dolore del
passaggio sul pavè. Devo badare a non precipitare, altro che
velleità di turista!
Il
nostro passaggio in branco scatena le ire di più di un
automobilista; oggi in effetti per i più è giorno lavorativo: ai
loro occhi, noi siamo i perdigiorno che se la spassano, giocano a
fare i professionisti ed intralciano il traffico. Per fortuna, però,
il supplizio sta per avere fine. All'attacco della prima salita, a
Settecrociari, i cinque fenomeni si fermano per il caffé
propiziatorio: ne approfitto per proseguire e guadagnare un po' di
vantaggio. Bastano poche curve e pochi metri di dislivello, per
essere proiettati in un altro mondo, dominato dalle sfumature del
verde più intenso della primavera. Il caos scompare; tutt'intorno,
morbide colline, casolari ristrutturati, filari di viti. La prima
ascesa, il Polenta, è irregolare, alterna strappi severi a tratti
pedalabili. La mia preoccupazione, fin da subito, è forzare il meno
possibile, per non affaticare i muscoli; largo al rapportino agile,
anche laddove è chiaramente esagerato. Oggi, a meno di incidenti,
sono sicura di riuscire a tornare a Cesenatico, finché mi muovo su
ruote... Ma domani e domenica, 202 km a piedi saranno tutt'altro paio
di maniche.
La
segnaletica permanente del percorso della Nove Colli fa sì che
persino io riesca ad imboccare il bivio giusto. Il calore della
salita compensa almeno un po' il rigore della temperatura; un sole
limpidissimo illumina la distesa delle colline. I cinque demoni, che
pure hanno già nei muscoli i venti km di nuoto di ieri, ben presto
mi raggiungono; li vedo sparire all'orizzonte, uno dopo l'altro, in
un attimo. Beh... Altro fisico, altro motore. Sono muscolosi ed
asciutti, loro; non si portano dietro, come me, le conseguenze della
Nutella spazzolata a badilate e, più in generale, della sregolatezza
di vita e di alimentazione.
Particolarità
della Nove Colli è che una salita non è mai davvero una salita,
così come una discesa non è mai davvero una discesa. Continui cambi
di pendenza rendono spesso difficile capire dove sia l'apice... Le
discese, per fortuna, sono davvero facili, persino per me; l'asfalto
liscio, appena rifatto, e la giornata limpida ed asciutta mi
consentono di osare un po'. Anche troppo, a dir la verità: a Fratta
Terme, lanciata come sono, non mi accorgo del bivio a sinistra; tiro
dritto, senza che il dubbio mi sfiori. E per giunta, ad un bivio
successivo, ormai fuori dell'abitato, mi imbatto in un cartello che
indica Bertinoro: in effetti, qui non c'è traccia di frecce
sull'asfalto. Però, mi dico: Bertinoro è un nome ricorrente quando
si parla di Nove Colli. Sarà giusto per forza. Come se non bastasse,
per colpo di genio, di lì a poco incontro lungo la strada una
signora, a cui penso bene di chiedere: "Scusi, ha per caso visto
passare un gruppo di ciclisti?". Dato che, tra due giorni,
Cesenatico e dintorni saranno invasi da qualcosa come tredicimila
biciclette, non ci vuole un premio Nobel per la fisica per immaginare
che oggi, oltre al "mio" gruppo di ciclisti, ci sia in giro
qualche altro centinaio di gruppi, e che la signora potrebbe aver
visto chiunque in bici... Rassicurata dal suo "sì",
procedo ostinatamente nella direzione di Bertinoro. Mi conforta
l'improvvisa comparsa di Gabriele: se c'è anche lui, allora...
Allora, abbiamo preso entrambi una bella cantonata: stiamo andando
chissà dove, a casa del diavolo, e per giunta in salita. Mi rassegno
a telefonare a Roberto, uno dei due assistenti in auto: "Siete
fuori strada", mi conferma, "fermi lì che vengo a
prendervi". Torniamo, rassegnati, alla base della salita;
peccato, perché il paese arroccato lassù sul cocuzzolo sembra
davvero bello. Varrebbe la pena di una visita.
Paziente,
Gabriele adegua la sua andatura alla mia nel ritorno verso Fratta, in
modo che io possa sfruttare un po' la scia. Da qui, le nostre due
guide ci mostrano il bivio giusto, peraltro ben segnalato, in
direzione di Meldola. Segue un lunghissimo tratto a saliscendi:
Gabriele si volta spesso, ma io non ce la faccio a tenere il suo
ritmo. Lui è una locomotiva, io devo evitare di sprecare anche la
minima stilla di energia. Devo ridurre lo sforzo ed il logorio dei
muscoli al minimo. Lo lascio andare, non avrei speranza alcuna di
viaggiare con lui. Mi godo, con calma, questo lungo fondovalle
verdissimo, la strada che scorre tra fronde e campi coltivati, la
solitudine. Non me l'ero mai goduta con tanta calma, la Nove Colli;
non in gara ciclistica, quando l'attenzione è tutta per il rischio
di muoversi in gruppo, a stretto contatto con un'infinità di altri
ciclisti, né in gara podistica, quando lo sforzo è davvero troppo
intenso per consentire la contemplazione.
Pieve
di Rivoschio, 9 km di salita abbastanza regolare, mai aspra; passiamo
accanto ad un allevamento di varie bestie di cascina, dai maiali alle
pecore alle capre: tutti, noto con sorpresa, lasciati liberi di
muoversi in ampi spazi recintati, all'esterno. Tenerissimi
soprattutto i maialotti, molti sdraiati al sole a pancia all'aria.
Curva dopo curva, metto in memoria il percorso che pure già conosco,
per ricordare domani cosa mi attenderà dove. Piano, sempre piano,
rapportino e pedalata agilissima. Tento di decifrare le sensazioni
che arrivano dai muscoli: riuscirò a recuperare, in tempo per
domani?
Al
bivio del colle, mi attende l'Audi bianca della scorta. Non si arriva
al paese, che rimane sulla destra; si scende giù a sinistra, verso
San Romano. Anche qui,
asfalto appena steso, fresco fresco, anzi ancora caldo. La vocazione
turistica romagnola si traduce anche in questo: strade risistemate a
puntino prima di un evento sportivo amatoriale. La discesa impone di
chiudere la cerniera del gilet e tirar su i manicotti; non si può
proprio temere di sudare, oggi. Di tanto in tanto, il pensiero va al
copertoncino posteriore liso: speriamo che tenga... A fine discesa,
un breve tratto di falsopiano in salita conduce al bivio per
l'attacco del terzo colle, il Ciola. Torno a pedalare con il
rapportino, andatura tranquilla, tutto il tempo per godermi il
verdissimo panorama di colline. Il cielo non è più limpido come lo
era nel primo mattino; un sottile strato di nuvole alte si allunga ad
attenuare la luce. Le auto, per fortuna, sono merce rarissima quassù.
Un
losco figuro in bici è fermo appena oltre una mezza curva;
dell'intera figura spicca un paio di pantaloncini di una tinta gialla
quantomeno audace... Il mio neurone impiega qualche istante a mettere
a fuoco la silhouette di Isacco, conciato come un reduce dal fronte.
Tempo di un saluto e lo vedo fiondarsi dietro un cespuglio, con
intenzione che non credo sia quella di raccogliere margherite.
Però... Se questo è l'effetto che faccio agli uomini, forse è il
caso che mi preoccupi! In ogni caso, proseguo il mio cammino, onde
concedere al malcapitato la solitudine necessaria perché possa
esprimersi al meglio. La strada corre nascosta dal fitto della
boscaglia; il mucchio di case in vetta, se di vette si può parlare a
proposito delle salite lungo questo percorso, appare all'improvviso.
Domani, qui, ci sarà il tavolino del ristoro. Cinque km di discesa e
dolci curve mi separano dal paese che ha il curioso nome di Mercato
Saraceno, dove oggi, per l'appunto, è giorno di mercato. Chissà se
i miei compari si sono insinuati in mezzo ai banchetti, o se hanno
scovato un percorso alternativo? Mah. Scendo a piedi, attraverso la
piazzetta gremita di gente ed approfitto della brevissima pausa
forzata per riempire la borraccia alla fontana. Non che sapessi che
qui c'è una fontana... Ma in un posto così non può non esserci,
ecco tutto. Bere, bere, devo bere, oggi. Devo sforzarmi, anche se non
è mia abitudine. Acqua e sali, a beneficio dei muscoli, forse più
per convinzione che in realtà.
Attacco
serena la temutissima ascesa del Barbotto. Non per essere
presuntuosi, ma nessuna salita, da queste parti, può impensierire i
garretti che hanno conosciuto le rampe del Colle dell'Agnello, del
Fauniera, del Galibier... A patto, ovvio, di prenderla con calma. Le
ascese della Nove Colli sono brevi; la più lunga supera appena i 10
km. Ed i dislivelli sono più che tollerabili. Ciononostante, oggi
affronto anch'io il quarto colle con una buona dose di apprensione:
non è il timore di non riuscire a salire, quello no, ma è il
terrore degli strascichi che le ripide rampe della seconda parte
possono infliggere ai muscoli delle gambe. Non posso permettermi,
domani, di presentarmi al via della corsa con le gambe indurite.
Sarebbe un fiasco già in partenza.
Cartelli
minatori indicano pendenze da ribaltamento, ma tutto sommato me la
cavo meglio del previsto. E nonostante i pedali da bici da passeggio:
quelli a sgancio li ho aboliti da un bel po'... Sì, in effetti in
salita si percepisce un po' di fastidio perché il piede può solo
spingere il pedale, non tirarlo; tuttavia, l'effetto sulla mia
prestazione è impercettibile. Tartaruga sono e tartaruga resto,
sgancio o non sgancio. Barbotto, km 84, più o meno. A dir la verità,
non posso pronunciarmi sul tema con precisione al chilometro: so che,
tra il percorso della Nove Colli Running e quello della granfondo
ciclistica, si rileva qualche differenza, ma non ha importanza. Tiro
dritto, senza fermarmi, per una di quelle discese che è tutto
fuorché una discesa: di continuo la pendenza si inverte; si torna a
salire più e più volte, a tratti anche in modo deciso. Mi lascio
alle spalle minuscoli grappoli di abitazioni, dall'aspetto spesso
vecchio e consumato dal tempo, raccolti intorno alla fermata del bus
ed al tabellone per gli annunci mortuari. Non dovrebbe mancare molto
al bivio che, domenica, segnerà la separazione tra i ciclisti del
percorso medio e quelli del lungo. Ricordo che, ad un certo punto,
tocca imboccare decisi un bivio verso destra. Ma non ricordavo di
dover arrivare proprio all'ingresso del bellissimo abitato di
Sogliano al Rubicone. Addirittura, in discesa, si fa strada il
terribile presentimento di aver sbagliato strada... Per fortuna, non
è così. Ritrovo, fedeli e consolanti, le frecce bianche
sull'asfalto, che indicano a destra la direzione di Ponte Uso. La
imbocco: ancora qualche km, per lo più in discesa, fino al piccolo
paese in cui oggi passerò, più avanti, una seconda volta.
Ormai
ho perso la nozione del tempo. Non so che ora sia, non so quanto sia
trascorso dal via e quanto impiegherò ancora per completare il giro.
In fondo, non importa. Da Ponte Uso, un altro bivio mi devia lungo un
fondovalle scuro, boscoso, forse il primo tratto in cui è davvero
difficile scorgere traccia di passaggio o di attività umana.
Saliscendi a non finire, prima dell'attacco della vera salita, si fa
per dire. Il quinto colle, Monte Tiffi: breve e per nulla
impegnativo. Posso consumare in tutta tranquillità una barretta di
cereali, salendo di buon passo. Monte Tiffi è poco più di un
cavalcavia; la discesa muore in una vallata ancor più chiusa e
sinistra della precedente. La strada, tuttavia, torna ben presto a
guadagnare quota sulla salita di Perticara, che subito mi accoglie
con uno strappo ripido che pare una manifestazione di stizza. Qui,
sì, s'alternano tratti ripidi ad altri quasi in leggerissima
discesa. Mi superano due ciclisti dall'aria molto seria: corpi
asciutti, polpacci scolpiti e depilati come fossero di marmo, divise
impeccabili, niente zaino, niente neppure nelle tasche. Per non
parlare delle bici, da guardare attraverso il filtro solare del
telescopio, tanto sono linde e luccicanti. "Questa ha già il
numero", commenta uno dei due, riferito com'è ovvio al
pettorale della corsa in bici di domenica. Saluto, ma non commento:
noto un'ombra di commiserazione nel loro sguardo, credo per la mia
andatura da foca. Ho le mie ragioni per restare cauta...
La
salita vera e propria termina al bivio con la strada che poi si
immette nel suggestivo paese. Ecco il viale alberato e la piazza in
cui, nella notte tra sabato e domenica, troverò il punto di ristoro.
Appoggiate alle ringhiere dei dehors dei sue bar sulla piazza, decine
di bici da corsa, i cui proprietari probabilmente si concedono il
piatto ristoratore. I due fenomeni sono appoggiati alla fontanella.
Incrocio, uscendo dal paese, l'Audi bianca della scorta: ho un bel
pregarli che non mi aspettino, che stiano vicini agli altri corridori
e lascino perdere me, che me la caverò. Mi spiace far perdere loro
tutto questo tempo... Posso solo immaginare quanto sia alienante
restare così a lungo segregati in auto.
Giù
in discesa, ancora sull'asfalto appena steso. Qualche tornante e poi
il bivio a destra; una stradina secondaria, brevi salite e discese
sfilando di fronte ad alcune cascine e seminando il panico nel
pollame che razzola in libertà. La prossima salita, il Pugliano, è
la più lunga ed anche la più suggestiva. Il paesaggio della collina
dolce, coltivata a vite, lascia il posto ad un trionfo di calanchi,
scuri costoloni di terra colonizzati solo in parte dalla vegetazione.
Spicca un monte dalla forma curiosa, un panettone con una sorta di
cuspide tozza e tronca in cima. Qui sì, sembra d'essere in montagna.
E il cielo più grigio, più cupo, come il colore della terra.
Attraverso un abitato; la salita prosegue ancora, curva dopo curva,
fino a rivelarmi lo scorcio forse più bello dell'intero percorso, la
Rocca di San Leo. Una meraviglia che finalmente oggi posso ammirare
con calma, sia pure senza smettere di pedalare. Quasi senza
accorgermene, mi ritrovo in discesa: un paio di tornanti e si
attraversa il piccolo borgo di xxx, per poi andare a passare proprio
ai piedi della spaventosa parete bianca. L'itinerario ci fa il giro
intorno; posso osservarla da ogni punto di vista, anche se qui è
bene tenere gli occhi saldamente incollati alla strada: uno dei pochi
tratti in cui l'asfalto è ancora malridotto. Il copertone, incrocio
le dita, il copertone...
Il
lungo ponte, l'abitato, la svolta a destra e poi a sinistra.
Penultima asperità, il Passo delle Siepi, per nulla aspro a dire il
vero; è una salita breve e blanda. Il cielo è sempre più grigio,
l'aria fredda; i pochi viandanti in bici sono scomparsi. Scollino in
fretta, senza fatica. Ormai i km sono 150, ma le gambe, per fortuna,
non sembrano lagnarsi. Chissà i miei colleghi? A quest'ora han già
fatto la doccia, sicuro...
Anche
questa discesa, che l'anno scorso era stata squassata da una frana, è
in perfette condizioni di fondo. Ponte Uso, dinuovo. Tiro dritto in
direzione dell'ultimo colle, il Gorolo: prima, però, mi tocca una
dozzina di km di falsopiano, prevalentemente in discesa. Non ne sono
entusiasta, ma non ho diritto alcuno di lamentarmi: domenica, qui, a
piedi, la mia sofferenza sarà ben altra... Scruto le colline sulla
destra, alla ricerca del passaggio, ma mi rendo ben presto conto che
il mio vago ricordo è in realtà una cantonata. Il bivio è sulla
sinistra, appena dietro una curva. Me ne accorgo per un pelo!
Il
temutissimo Gorolo riserva la staffilata finale. Sulle prime rampe,
già cattive, ritrovo l'Audi bianca. "Se continui così, avanzi
una mezz'oretta", mi dicono. Cavolo... Sudo freddo: significa
dunque che per questo giro c'è un tempo massimo? E sì che se ne era
parlato, nel carteggio di posta elettronica dei giorni scorsi... Ma
io avevo rimosso il pensiero. Due conti al volo: mi sa che le ore di
tempo sono dodici, in fondo quel che avevo chiesto io. Ma non oso
chiedere conferma ai due angeli custodi. Preferisco cullarmi
nell'ignoranza... Affronto ancora con estrema cautela i ripidissimi
tornanti del tratto finale, in verità molto breve. Lo spauracchio di
tutti i granfondisti... Poi via, mi fiondo in discesa. O meglio, mi
fionderei, se questa fosse una discesa... In realtà mi tocca
affrontare un'infinità di brevi ma spossanti risalite, con notevole
dispendio di energie e di improperi. Quando poi davvero mi affaccio
sulla pianura, è una delusione: era così bello lassù... Qui mi
tocca lasciar perdere la poesia e tenere ben aperti gli occhi;
traffico e rotonde mi mettono ansia, per non parlare della spada di
Damocle delle dodici ore. E poi... La troverò, la strada giusta per
Cesenatico? Seguo un po' i cartelli stradali e un po' le fettucce
bianche e rosse. Per la verità, non ho alcuna certezza che quelle
fettucce siano destinate a segnare l'itinerario della Nove Colli, ma
mi sembra che seguano la rotta giusta... In effetti, con l'occhio al
grattacielo, arrivo a Gatteo e infine a Cesenatico. Affronto con il
rapportino persino i cavalcavia: guai a logorare i muscoli...
Dall'alto
dell'ultimo cavalcavia, vedo i due fenomenali assistenti farmi grandi
segni da uno slargo, più in basso: eccoli! E' l'arrivo... Mi fiondo
giù, esito un istante davanti all'ingresso della superstrada...
Pochi istanti ed è fatta. Mi fermano, mi consegnano il pacco gara.
Ed anche una notizia spiacevole: Alfiero è stato tradito dal
reggisella, che si è spezzato nella discesa del Barbotto. Clavicola
e due costole KO... Mannaggia, mi vengono i brividi! Nella jella
cosmica, tuttavia, è stato ancora fortunato, direi; avrebbe potuto
pagare un prezzo molto più alto, in un incidente del genere. Un
altro vantaggio del podismo rispetto al ciclismo: non ci sono parti
meccaniche che si spezzano di colpo, disarcionando il ciclista.
Purtroppo, per lui, addio corsa domani... Mamma mia, credo che questo
sia il dolore più acuto!
Delle
dodici ore, ho avanzato un quarto d'ora. Precisione chirurgica direi,
anche se non posso sostenere che fosse tutto calcolato. Ringrazio i
miei pazientissimi assistenti , stipo il contenuto del pacco gara
nello zainetto e mi avvio verso la Opel, con calma: ormai giro
Cesenatico come se fosse casa mia...
Un
messaggio di Isacco mi raccomanda di andare direttamente al
campeggio. Così faccio. All'arrivo al Camping Zadina, di lui non c'è
traccia. Gentilissima l'accoglienza dei gestori, che mi assegnano una
piazzola proprio davanti ai servizi: lo so, per un villeggiante non
sarebbe il massimo, ma a me questa sera non serve altro che la
comodità. Scarico il bagaglio, monto la tenda - sempre più
sbiadita, ma ancora solida, nonostante i suoi tredici anni di onorato
servizio. Mi godo una lunga corroborante doccia, un po' meno l'uscita
al freddo della sera. Due madame, intente a lavare i piatti, si
rammaricano proprio del clima, che sembra fare le bizze già da
parecchio tempo; ed io che speravo, almeno qui, di avere il conforto
di un po' di tepore....
Con
i brividi addosso, mangio una cena un po' raffazzonata ma per me
buonissima; il mio desco è il cofano della Opel. Focaccia,
formaggio, yogurt, miele, chi più ne ha più ne metta. Ho mangiato
davvero poco, oggi, e lo sforzo che mi attende domani e domenica è
pesantissimo. Ancora nessuna traccia di Isacco: mi siedo in auto, con
la radio accesa, e mi dedico ad un alacre lavoro di massaggio, con
tanto di olio - campioncini di olio che avevo in casa da chissà
quanto. Ovvio, massaggiarsi le gambe da soli non è pratica che
garantisca il miglior risultato possibile; ciononostante, meglio di
niente. Ci metto tanto vigore che, alla fine, ho quasi i crampi alle
mani... Certo che ogni volta ne sono un po' più consapevole: la vita
del campeggio, pure già sperimentata più volte, non è proprio il
mio pane. Il freddo, l'umidità, i servizi igienici comuni, per
quanto puliti; la polvere, la terra, gli insetti, la tenda da dover
poi aprire e pulire una volta a casa... Qualcuno definisce
"selvaggio" il mio stile di vita e di pensiero, ma non è
vero. Selvaggia, non lo sono abbastanza. Ma ahimè, gli alberghi
costano cari... E quindi anche una tenda, anche il sedile di un auto
diventano reggia. In verità poi, a pensarci bene, probabilmente non
andrei in albergo nemmeno se avessi qualche soldino da scialacquare,
perché alla comodità preferisco di gran lunga il salvadanaio un po'
più pesante. Quindi non ho diritto di lagnarmi!
Comincio
a preoccuparmi: ormai sta calando il buio... Che fine ha fatto quel
pellegrino? Lo chiamo al cellulare, spento. Vuoi vedere che mi tocca
andare a raccattare i brandelli di lui giù da qualche riva? Invece
no, questa volta. Squilla il telefono: "Sono a Cesenatico, mi
prendo qualcosa da mangiare ed arrivo". Perfetto: gli concedo
giusto il tempo di comparire in campeggio, due dritte sulla
dislocazione di bagni e bagagli e via, fine delle comunicazioni. Gli
presto, senza far domande, il tubetto di vaselina: pare che il
ritorno alla bici ed in particolare al sellino, dopo un lungo periodo
di inattività, abbia dolorosamente impresso il marchio sulle
pudenda... Lo abbandono alla sua sofferenza e mi tumulo nel sacco a
pelo.
La
notte è lunga, tormentata e fredda. Da vero uomo duro quale sono,
non ho portato il materassino; il terreno è sabbioso e morbido, ma
ahimé non quanto il mio lettone... E poi fa freddo; mi sveglio in
continuazione, mi raggomitolo il più possibile, ma non c'è niente
da fare. Certo che il mio inutile compagno di viaggio potrebbe almeno
proporsi come scaldino... Ma è meglio non proporglielo: potrebbe
travisare, schizzar fuori dalla tenda e mettersi a correre per il
campeggio strillando per il vile attentato alla sua virtù... Tolto
il fatto che non lo sento nemmeno respirare; al buio non vedo nulla,
ma si direbbe quasi che abbia preferito una notte brava sulla Riviera
Adriatica al riposo... Oppure, all'altro estremo, che abbia deciso
per il sonno eterno.
E'
già chiaro da un po', quando mi sveglio definitivamente. Non oso
cacciar fuori dal sacco a pelo qualcosa di più di un occhio... E sì
che stanotte ho tenuto indosso tutto quel che avevo, persino la
giacca in Goretex! Sono le sette e mezza... Beh, una decina di ore di
nanna, a pezzi e bocconi, le ho rimediate. Isacco è ancora vivo.
Esco di malavoglia, ripassando nella mente il programma delle cose da
preparare: almeno, ci provo, a ripassare... Ma i punti della
scaletta, almeno per ora, non mi vengono in mente.
Colazione,
prima di tutto. Dopo la pantagruelica cena di ieri sera, non ho
nemmeno fame, ma mi sforzo di ingollare tutto a mo' di pitone: so già
che, in gara, alimentarsi sarà un supplizio. Isacco è pronto in
pochi minuti: lo attende il viaggio di ritorno a casa in treno. Bici
e bagagli, si mette in marcia, non prima di avermi urlato, dall'altra
parte del campeggio, frasi sconnesse a proposito del tubetto di
vaselina... Non voglio nemmeno sapere cosa possano aver capito i
vicini di piazzola. Per fortuna, a quest'ora, molti sono ancora tra
le braccia di Morfeo!
La
borsa con gli abiti da indossare alla partenza. Soprattutto, le borse
con gli indumenti di ricambio da affidare all'organizzazione. La
prima al km 84, al Barbotto: ci metto la maglia a maniche lunghe ed
il gilet per la notte, la pila frontale e le fascette rifrangenti, un
tubetto di Pasta di Fissan, calze di ricambio, il lettore Mp3 con le
cuffie. Ci metto anche lo zainetto con la giacca impermeabile, così
da viaggiare scarica per il primo terzo di gara e poi da avere con me
il necessario per il freddo della notte e per la pioggia prevista,
mannaggia, domani. La seconda borsa va al Pugliano, il terzultimo
colle: dovrei arrivarci di primo mattino. Ci metto una maglia a
maniche corte, un asciugamano, un altro tubetto di Pasta di Fissan,
che è sempre la migliore amica del podista di lunga distanza...
Perdo un bel po' di tempo a scavare nelle sacche, decidere, disfare,
finché mi rassegno all'evidenza: al momento del bisogno, scoprirò
comunque di aver dimenticato o perso qualche elemento fondamentale.
Arresa a questa amara verità, non mi resta che smontar la tenda e
partire alla volta del centro di Cesenatico.
Ci
arrivo, com'era prevedibile, troppo presto. Il campanile che sovrasta
la piazzetta segna le 9. Che fare? Mettersi a dormire ancora un po'?
Sarebbe saggio, vista la sgroppata di ieri e la faticaccia che mi
attende oggi, per non dire della notte insonne. Ci provo, ma resisto
ben poco, persino io che pure riesco ad addormentarmi in qualsiasi
momento e situazione. Dieci minuti e poi torno a frugare nel
bagaglio, con una gran confusione in testa: cosa mettere, cosa
levare, cosa ricordarmi di sistemare più tardi... Tutto questo
cincischiare non fa che peggiorare la mia agitazione.
Ero
convinta che, a Cesenatico, avrei trovato le condizioni di
temperatura ideali per indossare il nuovo completino "da corsa",
per così dire, anche se, più che per lo sport, sembra studiato per
la spiaggia: in parole povere, top e mutanda. Non esattamente la mise
più indicata per una corsa da duecento km con meteo incerto. E poi,
proprio io, paladina della prevalenza della praticità sull'estetica:
so benissimo che il top, o la canottiera, sono indumenti infallibili
per provocare sfregamenti sotto le ascelle, e che qualsiasi
pantaloncino al di sopra del ginocchio causa abrasioni dei cosciotti
per chi, come me, ha due prosciutti cicciotti che sfregano tra loro.
Si vede che sto invecchiando: a trent'anni passati, so che non ho più
molto tempo per mettere in mostra un corpaccione certo non bello nel
senso comune nel termine, ma senza dubbio - mi sia concesso questo
slancio di vanità - sodo e sano. Prima o poi, da una parte o
dall'altra, spunteranno crepe e crolli e addio... Sarà il momento di
correre con la tuta integrale dal cuoio capelluto all'alluce. Per
ora, i primi cedimenti strutturali si vedono solo in viso, parte che
sarebbe comunque destinata a restare scoperta. Temo che, a breve, mi
ritroverò sulla fronte e sul collo tante rughe da farmi somigliare
alla carta geografica dell'arco alpino, complice anche il sole che ho
sempre amato moltissimo ed a cui non ho mai opposto resistenza con
creme solari o intrugli del genere: mi parrebbe un'offesa al calore
adorabile dei suoi raggi...
Con
ardite evoulzioni per evitare di dare pubblico spettacolo del mio
posteriore al vento, completo la svestizione e rivestizione, senza
però rinunciare ancora alla maglietta ed alla felpa. All'ombra,
l'aria è pungente. Poi, con la cautela di chi sporge appena l'occhio
attraverso la fessura di una porta, mi avvicino al punto di ritrovo,
a poche decine di metri dall'auto, oltre la chiesa. Ci sono già un
paio di capannelli che hanno tutta l'aria di nascondere dei
corridori, sia pure in borghese: mi guardo bene dall'avvicinarmi, un
po' per non accrescere l'ansia ed un po' per evitare la figuraccia,
ormai assicurata per me, di non riconoscere persone che ho già
incontrato più volte e che mi salutano, loro, come una conoscente di
vecchia data. Sarà la mia pessima memoria, sarà il fatto che non ho
l'abitudine di guardare il mio prossimo in viso... Soprattutto
durante una corsa, sono capace di condividere magari decine di km e
lunghissime chiacchierate senza mai alzare gli occhi al volto del mio
interlocutore. Così, accade più che di frequente che ci si incontri
più avanti, in occasione di un'altra corsa, senza che io riconosca
il soggetto... Il quale, a quel punto, si pone la fatidica domanda:
"Ma questa è furba o scema?". Quesito sulla cui risposta
io stessa nutro forti dubbi...
Giorgio
non c'è ancora. Questa volta ha deciso di tentare l'impresa, pure
lui: non ho dubbi che sarà un successo... Non mi sento di azzardare
rosee previsioni su me stessa, ma metterei la mano sul fuoco per lui.
Ha una testaccia tale... E poi, quest'anno, il clima gli è amico;
niente caldo torrido, a quanto pare, anzi, credo proprio che a sera
inoltrata e nella notte ci sarà da battere i denti.
Torno
alla Opel e ancora al Porto Canale, con l'angoscia di un animale in
gabbia. La folla cresce, tra corridori, amici, parenti, semplici
curiosi. Stavolta c'è anche Giorgio, con la compagna; agitato almeno
quanto me: meglio non stare troppo vicini, onde evitare scintille. In
questi momenti, cerco la solitudine; sopporto al massimo la compagnia
di persone quasi sconosciute con cui parlare del più e del meno.
Manca
un'ora e mezza al via, quando decido che non resisto più. Torno
all'auto per l'ennesima volta, a cambiarmi e prendere le borse da
consegnare al camioncino che le smisterà nei punti del percorso
prescelti. Dopo lunghi tentennamenti, per l'abbigliamento la scelta
cade comunque sul completino minimo, top e mutanda: e che diamine,
siamo pur sempre a Cesenatico... Deve far caldo!
La
folla al Porto Canale è cresciuta. Mi tocca, mio malgrado, la
comparsata alla riunione pre gara, perché l'organizzatore ci tiene
ad additare al pubblico ludibrio quei cinque - solo più cinque, a
causa dell'incidente toccato ad Alfiero - che oggi porteranno nelle
gambe i duecento e rotti km già accumulati in bici. Voglio
convincermi che quei km non si sentono e non sono mai esistiti...
Gli
eventi, di qui, precipitano. Il raduno dei corridori, l'appello uno
per uno, tensione, calca, odori, macchine fotografiche, pacche sulle
spalle, la solita, indigesta benedizione che tuttavia vien buona per
mandare l'ultimo messaggio col telefono... Un attimo dopo, siamo già
in viaggio.
I
primi 21 km, ormai si sa, sono un caos di traffico ed aria
irrespirabile. Al viavai di auto del sabato in riviera, in
particolare del sabato che precede una granfondo ciclistica con
quattordicimila iscritti, si aggiungono le auto di scorta di tanti
corridori e quelle dell'organizzazione, più i branchi di ciclisti in
libera uscita per l'ultima sgambata prima della competizione. Molti
incitano, qualcuno sbraita. Nei paesi, tanta gente a guardarci
sfilare: la Nove Colli Running è poco nota, ma non più così
poco...
L'andatura,
in questa prima fase, è umana per tutti, anche per i primi. Da
Settecrociari, alla base della prima salita, non si potrà ripartire
in ogni caso prima delle 14; di conseguenza, anche i fenomeni si
limitano a scaldare i motori. Si riesce a chiacchierare a destra e a
manca, perfino a gustare i graditissimi ristori con fragole e
ciliegie. Guai a saltarne anche uno solo. Per ora, viaggio senza
zainetto; ho con me solo il telefono e qualche soldo, nella taschina
da stringere al braccio. Ho inviato lo zaino nella borsa destinata al
km 84, con gli indumenti per la notte; da lì, viste le infauste
previsioni meteo, sarà bene proseguire con una giacca impermeabile
al seguito.
Il
sole, per ora, splende, ma non scalda più di tanto. In questo primo
tratto, posso esserne lieta anch'io, che amo sì il caldo torrido, ma
mal lo sopporto quand'è abbinato all'aria irrespirabile di traffico
d'auto. Un po' me ne vorrei dimenticare, un po' mi sforzo di capire
quali conseguenze sulle gambucce abbia lasciato il giro in bici di
ieri. Un po' lo sento, devo ammetterlo, non tanto a livello
muscolare, quanto cardiaco e respiratorio. Almeno credo, a giudicare
da quant'è corto il fiato e da quanto duole il torace. Ma non ho
diritto alcuno di lamentarmi: i miei quattro colleghi di ieri, oltre
alla pedalata, si sono inflitti anche i venti km di nuoto. Ed oggi
sono qui a correre, freschi come roselline di campo... Calma e sangue
freddo. Intanto si transita a Cesena, con i primi brevi saliscendi
che già qualcuno affronta al passo. Io preferisco, almeno qui,
correre, anche se faccio gran fatica; il cuore non vuol saperne di
entrare a regime. Se dovessi guardare alla mia condizione qui...
Sarei già tra i ritirati. Ma ormai mi conosco bene e so che, tra
qualche decina di km, mi sentirò meglio.
Ben
due punti di ristoro a Cesena, uno ufficiale, l'altro offerto da un
bar. Le colline sono ormai ad un tiro di schioppo, per fortuna; basta
piattume, basta traffico. Ancora un paio di km di rettilineo per
giungere all'agognato punto di controllo e ristoro di Settecrociari:
esco dal piazzale con le mani colme di biscotti e dolci vari da
sgranocchiare durante la salita. Così faccio, dividendo il lauto
pasto con Giorgio, perché ho davvero esagerato... Tanto, qui si
cammina, sia pure spediti. Masticare e respirare mi crea qualche
scompenso... Ma è meglio mettere benzina nel serbatoio finché
posso, perché so già che, più avanti, mangiare diventerà un
rebus. Per ora, le leccornie mi attirano ancora; tra qualche decina
di km, tutto mi darà la nausea.
La
prima salita. Il guaio di aver percorso questi stessi km in bici,
solo ieri, è che ho potuto ripassare il tracciato alla perfezione...
E che oggi mi ricordo ogni metro, laddove invece l'oblio sarebbe
stato di grande aiuto. Non ci provo nemmeno, a correre, a differenza
di molti che si ostinano a volerlo fare. Per carità. La ciambella
impegna ogni mia risorsa fisica e mentale. Per fortuna mi viene in
soccorso Giorgio, che ne stacca qualche boccone; altrimenti, confesso
che sarei stata in difficoltà.
L'ambiente
intorno è già tutto diverso, il caos della pianura solo più un
ricordo. Siamo noi, adesso, a creare confusione: podisti, auto e bici
al seguito, una folla ancora chiassosa, finché dura il fiato. Il
sole è sempre più pallido, incerto; un venticello tutt'altro che
tiepido mi fa già rimpiangere la scelta dell'abbigliamento
minimalista... Amen, ormai è fatta, la borsa con gli abiti di
ricambio dista sessanta km da qui. Ho con me solo il giacchino
sottile, quello che si chiude in un pugno; mal che vada, è
abbastanza efficace contro il vento. Userò quello, se necessario.
Se
la strada spiana, accenno qualche passo di corsa; torno
immediatamente a camminare, sia pure a passo svelto, se si accenna
una salita. Giorgio si fida, accorda i suoi garretti ai miei. Leggo
in lui la stessa emozione che ho vissuto io tre anni fa, alla mia
prima Nove Colli. Era il 2010 ed io mi sono arenata al km 158:
tuttavia, non l'ho mai considerata un fallimento, quell'edizione.
Un'esperienza, piuttosto, preziosissima per l'anno successivo, in cui
ho condotto il mio riverito posteriore fino a Cesenatico. Io sono
convinta che Giorgio ce la farà già al primo colpo, solo che gli
"regga" la testa, perché le gambe buone non gli mancano.
Per me è diverso, oggi. Ormai so cosa mi attende: da una parte, è
un vantaggio, dall'altra è fonte di profondo timore. Il confronto
con se stessi, a mio parere, è il più severo, quello che può
riservare le delusioni più cocenti. Ma come, l'anno scorso ce l'ho
fatta, quest'anno ho fallito... Guai. Inutile pensarci adesso. Ville,
giardini e filari di viti scorrono come i fotogrammi di un film
appena visto. Qualche rampetta secca, il paese, poi giù, in discesa;
non è facile e riposante come in bici, ma insomma, un pochino la
gravità aiuta.
Curve
morbide fino a Fratta Terme, cielo ancor più bigio. Attraversiamo di
corsa il viale centrale del paese, poca gente, qualche curioso,
qualche cagnone che disapprova il nostro passaggio. Oggi il bivio non
lo manco più... Seconda salita, Pieve di Rivoschio. Salita per modo
di dire, dato che impone un lungo tratto di saliscendi in buona parte
all'ombra della boscaglia, che rende ancor più cupa la luce già
sofferente della giornata. Si corre, con cautela. Il buon Castagnoli,
indubbiamente dotato del dono dell'ubiquità, compare di tanto in
tanto a distribuire bottigliette d'acqua, persino frizzante. Io non
ho nulla con me, né da mangiare né da bere... Lo ammetto, ogni
tanto approfitto dello zaino di Giorgio, però potrei sopravvivere
anche senza, fino al Barbotto. Mi spiace aver lasciato in auto le
bustine di zucchero, ma, per ora, i ristori bastano ed avanzano.
La
salita a Pieve assesta un primo, duro colpo alla mia fiducia. Una
goccia, due, tre, tante gocce. Piove. E mica poco... In un attimo è
uno scroscio. Dannazione... Per una volta, una su un milione, che
confido nelle previsioni del tempo e non porto con me la giacca
impermeabile... Ce l'ho nello zaino, ma lo zaino è al Barbotto! Io e
la mia stupida dipendenza dagli oggetti... Sotto la pioggia e senza
la mia giacca in Goretex, la mia coperta di Linus, mi sento persa. Mi
crolla il mondo addosso... E adesso che faccio? Certo, indosso il
giacchino, che però è tutt'altro che refrattario all'acqua. Pochi
istanti ed è già zuppo. Giorgio è conciato come me: per lui,
l'aggravante di avere lo zaino al seguito... Anche lui, come me, ha
spedito la giacca al Barbotto. Fradici e bastonati, continuiamo a
salire a passo svelto; per me è già finita, mi vedo ormai prossima
al congelamento, un mucchio informe di poche ossa e molto lardo
tremolante. Imbecille, imbecille, imbecille... E' forte l'odore della
pioggia appena bagna l'asfalto. Minuscole pozze restano sulla
superficie del manto di bitume appena steso. Occhiali bagnati, pelle
fredda, morale sotto i talloni. Sono un'idiota. E Giorgio non sa quel
che rischia, a tentare di consolarmi: "Dai, magari smette! ".
Potrebbe arrivargli un destro in mezzo alle pupille... Gian: ormai
sei qui, ti trovi in questa situazione, c'è poco da recriminare. Per
porre rimedio alla tua somma imbecillità, non ti resta che stringere
i denti, patire il freddo e continuare. Ma è evidente che Giove
Pluvio è magnanimo; ha voluto darmi un saggio della mia
dabbenaggine, ma senza infierire... Smette di piovere. Tra le nuvole,
si fa largo una luce strana, quasi livida. Un lungo tratto quasi in
piano, proprio sul crinale, poi ancora una breve salita;
all'orizzonte, figure cupe di alberi, sagome disegnate contro il
cielo, come fanno i bambini.
Come
un miraggio, vedo Ilaria che scende di corsa in senso contrario alla
gara... Fa assistenza all'inossidabile Luciano, dopo aver
collezionato lei stessa una serie di risultati strepitosi sia ai
Mondiali di 100 km che all'Abbots Way, e solo per citare i più
recenti... E' un attimo, già sparita.
Appena
oltre il ristoro di Pieve di Rivoschio, km 57, dove ancora faccio il
pieno di manicaretti, approfitto del wc chimico - invenzione degna
del Premio Nobel per la Pace e per qualsiasi altra ragione al mondo -
per la prima, ahimè, di una lunga serie di soste di, chiamiamola
così, meditazione. Pausa che si protrae, forse, qualche minuto di
troppo, sufficiente perché il mio socio si involi. Riprendo al
trotto in discesa, ma senza forzare: se riuscirò a raggiungerlo,
bene, altrimenti pazienza, guai a sprecare anche solo un briciolo di
energia inutilmente. In effetti, corri e corri, non lo raggiungo per
tutta la discesa. Nel tratto di pianura e leggero falsopiano in
salita che segue, lo vedo, occhio e croce a duecento metri davanti a
me: azzardo forse un'andatura un po' troppo spedita, corro anche là
dove le gambe non sono troppo d'accordo; accorcio nettamente la
distanza, ma... Nulla da fare: quando la strada riprende a salire,
questa volta per l'attacco della terza salita, lo zainetto blu si
allontana. Il mio compare ha il vantaggio di un passo molto più
svelto del mio, nella camminata. Pazienza, che vada. Mi spiace solo
non riuscire a restituirgli il pacchetto di salviettine che mi ha
prestato!
La
salita del Ciola è traditrice, lo so già. E' lunga ed infida,
logora le energie. Con la luce del sole calante, si affievolisce
anche il mio vigore. Proprio come l'anno scorso: gambe molli, testa
che gira, nausea, sempre più forte. Mi sforzo di non pensarci; passo
svelto, una curva, un'altra, un'altra ancora. Passa l'auto
dell'organizzazione, "Tutto bene?", "Benissimo",
rispondo, per mentire soprattutto a me stessa. Faccio quasi fatica a
tenere la direzione, mi sento confusa, la testa che gira... E una
nausea tremenda. Se almeno potessi rimettere, magari passerebbe... Ma
il coraggio di mettermi due dita in gola non ce l'ho ancora.
Un
brusìo lascia intuire la presenza del punto di ristoro. Magra
consolazione, perché di mangiare non se ne parla... Trangugio giusto
qualche noce e qualche patatina fritta, perché la sola idea di
masticare dolci mi disgusta; in compenso, non lesino la Coca Cola ed
un po' di succo di frutta. Riparto quasi subito, suonata come una
campana, quasi barcollando. Mi costringo a correre, perché si va in
discesa... Non so se sia la bellezza di questa notte ormai quasi
scesa, il conforto dei primi ciclisti della randonnée notturna che
arrivano alle spalle o forse il firmamento di vivacissime lucciole
che spuntano dal bosco lungo la strada, fatto sta che mi sembra di
sentirmi meglio. La discesa è lunga, molto, cinque o sei km che in
questa condizione diventano eterni. Fa freddo e il giacchino non
basta a ripararmi come si deve. La nausea c'è, ma è sotto
controllo.
Tornante
dopo tornante, le luci e le voci del paese di Mercato Saraceno sono
sempre più vicine. D'un tratto, una luce sulla sinistra: a fatica
metto a fuoco la sagoma di un tavolino e di alcune persone intorno.
Prima ancora di realizzare che, nel capannello di persone, c'è anche
Giorgio, metto a fuoco una meravigliosa macchinetta per il caffé a
cialde... Fantastico! Un piccolo ristoro privato: davvero
eccezionale, questa gente... Una famiglia qui in piedi a quest'ora,
per attendere noi! Trangugio volentieri un caffè e due ottimi
biscotti di meliga, poi via, di corsa, attraverso il paese ed
all'attacco della quarta salita. Gli avventori dei bar sulla
piazzetta ci guardano stralunati: e sì che non siamo certo i primi a
passare, stasera... Il ponte sul torrente offre uno splendido scorcio
sulle rocce tonde sferzate dall'acqua e sapientemente illuminate da
un faro azzurro. Meno di cinque km, cattivi finché si vuole: alla
sommità, al Barbotto, km 84, troveremo le nostre borse, oltre ad un
pantagruelico punto di ristoro. La salita, a tratti anche aspra,
riscalda un po' le nostre membra intirizzite. Poche case, qualche
finestra illuminata, qualche altro concorrente che, come noi,
barcolla sotto i colpi della fatica e del sonno. Passo svelto, il più
possibile. Anche sull'ultima rampa, quella che culmina nel tratto
illuminato da due file di lucine a bordo strada, fiammelle che ci
portano finalmente al punto di ristoro. Qui ci sarebbe di tutto, per
chi ne volesse approfittare: massaggi, pasta, braciole... Ma non è
roba per me, che ho l'assillo dei cancelli orari anche se non indosso
l'orologio. Qui, la barriera oraria sarebbe a mezzanotte. Nessuno ci
ferma, quindi deduco che siamo in orario, ma non voglio sapere che
margine abbiamo. Mi cambio con la rapidità e la precisione di un
team di formula Uno ai box, mangio con altrettanta furia: una ciotola
di brodo, formaggio, biscotti in ordine sparso. Coca Cola e birra a
condire il tutto... Spero che poi la discesa mi aiuti a digerire.
Vedo
Ilaria; Luciano è già qui, seduto sulla panca, con un asciugamano
addosso. Solidarietà podistica vorrebbe che io mi avvicinassi e
domandassi almeno "Come va?", ma l'espressione di Luciano
non è troppo conciliante. Ripenso a come vorrei rispondere io,
quando ho un diavolo per capello, magari sono stanca o non sto bene,
e qualcuno ha la malaugurata idea di rivolgermi la stessa domanda...
Meglio soprassedere.
Mi
spiace che Giorgio si affanni a volermi seguire a tutti i costi. So
bene che avrebbe piacere di una pausa più lunga. Vorrei che si
rassegnasse a gestire la sua corsa indipendentemente da me... Invece,
riparte addirittura prima di me, pur di non rischiare di restare
indietro. Insomma... A me fa piacere la compagnia, purché non
diventi una costrizione, per nessuno. Non mi passerebbe per
l'anticamera del cervello di rincorrere qualcuno che va più forte di
me, ma mal sopporto anche l'idea che qualcuno stia faticando, e
mettendo a rischio il successo della sua prova, per seguirmi. Che
senso ha?
In
extremis, afferro ancora due belle pizzette che ho visto con la coda
dell'occhio mentre stavo per ripartire. Raggiungo il fuggitivo,
menando le mascelle. Qui si sale e si risale ancora a lungo, prima di
poter correre in discesa, passando accanto a minuscoli grappoli di
tre, quattro case, finestre buie, cortili silenziosi. I ciclisti
della randonnée piombano a grappoli di due, tre, quattro per volta;
spesso ci si saluta, talvolta ci si ignora. Del resto, da ciclista
notturna, li capisco benissimo: la priorità, per loro, è badare a
dove mettono le ruote, cosa che di notte non è sempre facile; è
ovvio che non possano permettersi distrazioni.L'importante, per loro
stessi e per noi, è che ci evitino!
Sapevo
che il pancino non avrebbe gradito l'eccessivo ed improvviso carico
di lavoro che gli ho inflitto al Barbotto. Infatti non tarda a farmi
le sue rimostranze, costringendomi ad una seconda improrogabile
sosta, con il favore delle tenebre. Ed io che ho dimenticato in auto
la bustina dei medicinali, compreso il sacro Imodium... Idiota al
cubo, se penso a quante volte ho messo e rimesso mano ai bagagli!
Riparto
in discesa, cincischiando con il lettore Mp3. Un paio di km di
furiosa lotta con il marchingegno che non sembra volerne sapere di
obbedire ai comandi: ma porca miseria, io ci contavo, questa sarebbe
stata la mia salvezza... Almeno tre volte evito per un pelo di finire
in qualche fosso, di già che non è semplice spostare lo sguardo dal
minuscolo schermo illuminato al buio della notte. Poi, finalmente,
riesco a spegnere il congegno ribelle. Lo riaccendo e parte, come se
nulla fosse. Di lì a poco, alle porte di Sogliano al Rubicone, il
bivio a destra che, per i ciclisti della granfondo, significa
divisione tra i percorsi corto e lungo. Per noi la scelta non c'è.
Lungo, a destra.
Al
banchetto del ristoro, trovo Giorgio, un po' giù di morale. A
malincuore, rinuncio alla piadina ed alle altre leccornie presenti
sul tavolo: la pancia ha già dichiarato guerra ad oltranza... Ancora
un lungo tratto di discesa, tutto da correre, non c'è santo che
tenga. Anche se le mie gambe cominciano a dare preoccupanti segni di
stanchezza. Ci sosteniamo a vicenda, Giorgio ed io, anche se i
tentativi di conforto dell'uno hanno poco successo sulla disposizione
d'animo dell'altro. E' la crisi, per me almeno la seconda...
La
notte è lunga ed è appena iniziata. Ed abbiamo più di dodici ore
di corsa nei muscoli. Le curve della strada cominciano a confondersi
con quelle della fantasia... A Ponte Uso, bene o male, arriviamo.
Sosta brevissima al ristoro, come sempre. Abbiamo passato da poco il
centesimo km: breve tratto in piano, il ponte, ancora un bivio a
destra. E' la salita a Monte Tiffi. Breve, regolare, ma preceduta da
un lungo tratto in fondovalle, dritto, noioso, assassino per la mente
già ottenebrata dal sonno. Giorgio non vuole sentire ragioni,
lamenta di aver sonno, di volersi fermare almeno un po'. E lo va
ripetendo già da un po'... Secondo me non è una scelta saggia: fa
un gran freddo, qui. Figuriamoci poi a sdraiarsi, come vuol fare lui,
in un prato! Sull'erba umida... Brrr... Faccio del mio meglio per
dissuaderlo, ma non c'è niente da fare. Mi caccia via. Obbedisco,
mio malgrado, fedele al principio che, soprattutto in questo genere
di massacri, ciascuno deve agire come meglio crede di fronte alle
difficoltà... Mi concentro sulla musica. Per mia fortuna, sono molto
influenzabile, da questo lato; la musica può trasmettermi emozioni
ed una gran carica!
A
passo spedito, in questa notte nerissima con poche stelle, senza
un'anima umana né animale intorno, affronto la salita di Monte
Tiffi, la breve discesa ancor più cupa e, ancora, la risalita al
Perticara. La testa leggera, confusa, la fatica che aggredisce i
muscoli e le ossa e risale su dalle gambe a tutto il corpo, il
respiro che infiamma la gola, l'aria fredda che fa stringere il
colletto del giacchino, quando non addirittura tirare su il
cappuccio. Notte silenziosa, immobile. Che fine avranno fatto tutti
gli altri? Ci siamo proprio dispersi, pare. Sembra non esserci
traccia di vita per chilometri, tutt'intorno. Neanche il verso di un
animale, il fruscìo di una lucertola che scappa, niente. Solo il
vento freddo che taglia le orecchie. E la stanchezza, sempre più
pesante. Ancora la nausea, la fiacca, le forze che se ne vanno.
Calma, Gian. A Perticara c'è un bel punto di ristoro, ti puoi
fermare, riprenderti, mangiare qualcosa. Almeno lì devi arrivare.
Poi si vedrà.
Mi
sembra di camminare per un'eternità, mille piccoli doloretti a farmi
compagnia, sperando che non decidano di fondersi tra loro. L'angoscia
di non farcela, questa volta. Le luci del paese mi danno un po' di
conforto: ancora uno sforzo, su lungo il viale, ecco la piazza.
Arrivo al punto di ristoro, per rendermi conto che non ho voglia di
trangugiare nulla; la nausea la fa da padrone. Mi appoggio al tavolo,
non credo che le gambe abbiano ancora intenzione di reggermi a lungo.
C'è anche il buon Mario. Non posso mentire sulla mia condizione
funerea... Ma Mario non ha dubbi: "Ricordati - sentenzia - che
le crisi vengono e passano". Con queste parole che rimbombano
nel cranio vuoto, trangugiata una ciotola di brodo caldo, mi accascio
sulla panchina, stravolta. Questa volta è proprio finita... Non so
se sia vero sonno, o una forma di momentaneo delirio. Mi riscuoto di
lì a qualche minuto, intirizzita; tutta un dolore, mi tiro in piedi,
ringrazio, saluto, riparto. Semplicemente perché non c'è
nient'altro che io possa fare. Devo andare, tutto qui. Guai a mollare
adesso. Mai e poi mai.
Mi
rimetto in carreggiata, con un mal di testa fulminante. Alla peggio,
stramazzerò da qualche parte... L'importante è ripartire. Breve
risalita, l'incontro ravvicinato con gli ultimi avventori tardivi di
un locale notturno, poi giù in discesa, curva dopo curva su un
asfalto che è un biliardo.
Il
primo, pallidissimo chiarore. Sarà un sogno o lo vedo davvero? Sono
stordita, sonno, fatica. Percepisco persone, oggetti, movimenti là
dove non c'è assolutamente nulla... Ma il banchetto del punto di
ristoro c'è sul serio. E' un momento di conforto, anche se non ho
fame e non riesco a trangugiare altro che un po' di zucchero. Meno
male che ho fatto il pieno al Barbotto, ma ormai saranno almeno
trenta km fa... Proseguo la mia corsa stanca, con il sole che pian
piano si leva ed un motivo nuovo per darmi il tormento: l'anno
scorso, a quest'ora... Dov'ero? Non riesco a ricordare dove mi abbia
sorpresa il giorno. Ero qui? Più indietro, più avanti? Si insinua,
tremendo, il sospetto che fossi più avanti, molto più avanti...
Allora questa volta sono in ritardo? Il cancello orario, la
famigerata barriera del km 158... Rischio di non passarci in tempo?
So benissimo io stessa che simili elucubrazioni non hanno alcun
senso, che non ho alcun ricordo certo della scorsa edizione, quanto a
tempi e posizioni, e che non so nemmeno con certezza a che ora sia
l'ostacolo... In ogni caso, non ho altra scelta, devo sbrigarmi,
muovere le chiappe, andare avanti. Bivio a destra, ormai potrei
procedere ad occhi chiusi; la stradina laterale, la rampa, le
cascine, i pollai, i cani, i castagni. Tracce di vita umana non se ne
vede ancora: è troppo presto... Forse, speriamo.
Chissà
a che punto è Giorgio. Spero ce l'abbia fatta a ripartire. Non è da
lui, cedere così, anche se questa volta è dura davvero, non solo
per la fatica e per il sonno, ma anche e soprattutto per il dolore
della corsa quasi continua e per l'offesa che l'asfalto reca alle
articolazioni. Bisogna convincersi che il più è fatto, che su nove
salite ne mancano solo più tre... Ennesima sosta tecnica; non ho più
il favore delle tenebre, ma a quest'ora non c'è in giro nessuno...
Nemmeno i miei colleghi di fatica. Sono ore, ormai, che non si vede
altro corridore. A quel che ho capito, ben pochi sono ancora dietro
di me, neanche una decina, ed anche per questo mi cruccio: non certo
per la posizione in classifica, ovvio, bensì per l'ansia di aver
tenuto un'andatura troppo lenta rispetto all'anno scorso. Il cancello
orario del km 158 incombe... E continuo a non voler sapere che ora
sia.
Mi
tocca ora qualche km su una strada larga, piatta, di fondovalle.
Terribile... Corro perché devo, ma è una corsa pesante, stanca. Il
cortile dell'autodemolitore, il piazzale deserto di un ristorante.
Nessuno che venda un po' di coraggio? Una voce all'improvviso mi fa
sobbalzare: ma guarda chi si vede... Il redivivo, allegro e giulivo
come non mai. Racconta di essersi fermato sì a dormire, ed anche al
caldo, coprendosi il corpo con la paglia; sono i crampi, che l'hanno
costretto a ripartire. Mi coglie, purtroppo, in un momento per me
tutt'altro che lieve. Il sollievo che speravo dalla luce non è
arrivato, anzi; tornano la profonda stanchezza e la nausea della
scorsa notte. Mi trascino fino al punto di ristoro, dove però riesco
solo a bere un po' di Coca e di the; di mangiare, come succede ormai
da troppi km, non se ne parla.
Attacco
la salita aggrappandomi alla speranza del cambio d'abito: in cima al
Pugliano ho inviato la seconda borsa. Lì, almeno, sarò costretta a
prendere qualche minuto di requie. "12 km" - annuncia
Giorgio - c'era scritto sul cartello". Possibile? Non l'ho
visto, il cartello, ma 12 km mi sembrano proprio tanti... Scavo nella
memoria a caccia del giro in bici di ieri, ma il neurone è confuso,
non mi aiuta. 12 km, a quest'andatura, senza forze, sono eterni.
Coraggio, Gian... Se ti trovassi adesso nel bel mezzo di un'assemblea
di condominio, o se anche fossi solo chiusa in ufficio ed inchiodata
alla scrivania, soffriresti ben di più. Fai quel che puoi,
l'importante è non fermarsi.
Non
appena si guadagna un po' di quota, la magnificenza del paesaggio,
aggiunta alla splendida luce di quest'ora del mattino, rincuora.
Siamo nel tratto dall'aspetto più selvaggio ed aspro, montagne dai
fianchi di sabbia rossa, solcati da profonde venature, tutt'intorno
un silenzio irreale. E' il momento più freddo della giornata;
ringrazio d'essere in salita, lo si patisce un po' meno. All'arrivo
nel paese, commetto un errore di valutazione, che senz'altro
infastidisce Giorgio ma ha un effetto peggiore su me stessa. Mi
pareva che il colle fosse appena oltre l'abitato... Invece no, curva
dopo curva, mi rendo conto che è ancora molto lontano. Nulla che gli
somigli appare all'orizzonte, solo un cielo bigio, qualche raggio di
sole troppo timido, qualche abitazione isolata con le finestre ancora
rigorosamente sprangate. Non so che ora possa essere, e guai a chi me
lo dice... Potrei uccidere per molto meno e, in questa condizione, mi
spetterebbe l'attenuante della temporanea infermità mentale.
Tuttavia, mi pare di sentirmi un po' meglio...
Questa
volta, per dirla in gergo, ho proprio "cannato" la misura.
Per carità: se l'intera salita è 12 km, e se il paese è più o
meno a metà, non possono esserci più di sei, sette km dal paese al
colle. Il guaio è che, se te ne aspetti meno, quei sei, sette km
diventano prefigurazione dell'eternità. Tanto che, finalmente,
quando scorgo la sagoma dell'orrendo edificio con campanile piazzato
proprio sul bivio, quasi non mi par vero.
Mi
assale di colpo una frenesia incontenibile. Cerco con furia, nello
scatolone, la mia borsa con il ricambio; mentre mi ripeto che devo
far le cose con calma e buonsenso, ci scavo dentro con la
concitazione del cane che dà la caccia a chissà quale preda, reale
o immaginaria, nascosta sotto terra. E' come, per un sortilegio, se
le scarpe, quando mi fermo, diventassero incandescenti. Bevo, ma non
quanto dovrei; mangiucchio qualcosa, ben poca roba, non ne ho voglia,
anche se la fame è forte. Il prossimo colle è il penultimo...
Oltre, alla fine della discesa, ci sarà il cancello orario. Se lo
passo, allora è davvero fatta. Se no... Non voglio pensarci. Non so
e non voglio sapere che ora sia adesso. Tutto ciò che conta è
sbrigarsi. Non resisto più, devo partire. Giorgio è ancora seduto,
alle prese con la sua borsa. Dovrei aspettarlo ma... Non posso, non
ce la faccio. E' più forte di me. Qualcosa mi trascina via. Attacco
la discesa, tanto il mio compare mi raggiungerà di sicuro... Non mi
sfiora ancora il dubbio che le sue lamentele a proposito del mal di
gambe possano avere un fondamento. E' un trattore, non lo ferma
nessuno... Mi raggiunge, infatti, dopo un chilometro di discesa,
mentre io, col naso all'insù, ammiro la Rocca di San Leo. Immagine
nota ormai, eppure sempre affascinante, superba. La roccia bianca
riflette quel poco di luce fiacca... Giorgio mi fa presente che ho
abbandonato vari pezzi del mio bagaglio qua e là al ristoro: la pila
frontale sul tavolino, la borsa con i ricambi per terra... Sì, mi
rendo conto di non essere affatto affidabile, ancor meno del solito,
in questo momento.
Devo
tenere a freno l'euforia. Mi sento come se avessi già il traguardo
in tasca, ma non è affatto così... I km nelle gambe adesso, occhio
e croce, saranno 145; ne mancano ancora quasi sessanta. Se quei
sessanta non mi spaventano più di tanto, è solo perché non li
penso come numero, bensì come sequenza di immagini e luoghi che
conosco ormai a menadito; tuttavia, sono pur sempre sessanta.
All'incrocio, incontriamo un corridore seduto per terra, che lamenta
dolori ad un ginocchio, e poco più avanti un amico che ci chiede
notizie di lui. Poi giù lungo la stradina sconnessa, quella che
circumnaviga la Rocca. Dall'altezza del sole, dalla quiete delle case
e dei giardini ancora deserti, cerco di capire che ora sia; il fatto
perverso è che mi basterebbe, per saperlo, dare un'occhiata
all'orologio sul cellulare, ma preferisco il dubbio... La discesa è
lunga, resa più penosa dal fatto che il paese, l'attacco dell'ultima
salita, si vede già, sembra ad un tiro di schioppo da noi. Invece,
in mezzo ci sono ancora parecchi tornanti ed un lungo rettilineo, con
il ponte. Giorgio si lamenta con più convinzione, sembra giù di
morale. No, non si molla adesso: almeno al km 158 bisogna arrivare.
Non me la sento di promettergli che ce la farà: è vero, so bene che
è una roccia, ma ricordo anche la mia prima esperienza alla Nove
Colli, lo stato di distruzione totale delle gambe in cima al Passo
delle Siepi, il penultimo colle... Ed il cancello già
inesorabilmente chiuso. Non posso sapere quale sia davvero la
condizione delle sue gambe adesso. E, in ogni caso, la meta dei 158
km non sarebbe certo da buttare via...
In
paese arriviamo in tre, ricongiunti con un altro collega di fatica.
Breve sosta al ristoro, per bere, più che altro. Strabuzzo gli occhi
alla vista di una bottiglietta di grappa sul tavolino: ce n'è
davvero per tutti i gusti... Ma sembra che nessuno abbia ancora
voluto favorire, visto che la bottiglia è sigillata. Riparto al
volo; tempo di attraversare la strada ed attaccare la penultima
salita che Giorgio, che si era seduto un momento, mi si materializza
alle spalle. Inizia il conto alla rovescia: quando arriveranno i
ciclisti? L'anno scorso, se non erro, mi hanno raggiunta proprio
nella discesa di questo colle. Oggi però non c'è ancora alcuna
traccia di movimento, né le auto di scorta alla gara, né le moto
della polizia, nulla di nulla... Non c'è nemmeno un minimo di
pubblico, ma questo si può ben spiegare con il meteo. Cadono già le
prime gocce... Il mio tormento orario non trova pace. Faccio un conto
a spanne: la partenza della granfondo è alle sei; qui siamo vicini
ai 150 km di gara; i primi impiegheranno quattro ore, quattro e mezza
al massimo. Se non se ne ha ancora notizia, significa che non sono
ancora le dieci e che quindi, al cancello orario delle undici e mezza
al km 158, manca ancora un bel po' di margine... Questa è la
migliore delle ipotesi. La peggiore, invece, è che la granfondo sia
stata annullata, magari per via del terremoto. Non ho notizie
precise, sono fuori dal mondo qui; ho sentito che c'è stato un
terremoto, non lontano di qui, ieri, ma non so nulla delle
conseguenze, né se ci siano state vittime o danni. D'altro canto,
annullare una manifestazione che coinvolge ben oltre diecimila
persone in bici, più le famiglie, per quanto di possa concepire un
intento di solidarietà, mi parrebbe assurdo, un danno secco sia per
chi ha speso tempo e denaro nella trasferta ciclistica, sia per chi
da questo evento trae profitto, senza, per contro, alcun beneficio
per chi è stato colpito dal disastro.
Uno
scroscio di pioggia rinfresca le mie elucubrazioni. Lancio al volo la
domanda a due fanciulle che scendono in bici: "La granfondo
c'è?". Mi assicurano di sì... Avrò la certezza solo alla fine
di questa salita, dove tutti gli anni viene sistemato un punto di
ristoro per chi pedala. Macino di buon passo i pochi km fino allo
scollinamento; qui trovo la conferma: un gruppo di volontari sta
lavorando alacremente per sistemare la struttura del ristoro. "I
primi dovrebbero arrivare per le dieci e mezza", mi dicono.
Previsione più azzeccata non avrei potuto avanzare. Questo significa
che non sono ancora le dieci e mezza... Incredibile, eppure mi sembra
che il sole sia alto da un'eternità! E significa anche che c'è
almeno un'ora per coprire i sei km della discesa su Ponte Uso. Anzi,
più di un'ora, visto che, prima della testa della corsa, compaiono
di solito le vetture della Polizia, le auto delle squadre, tutto il
gran carrozzone pubblicitario. Fantastico, allora è fatta... Mi
sforzo di trasmettere la mia euforia a Giorgio, che non mi pare così
convinto. Sulla collina proprio di fronte a noi, si vede il
lunghissimo serpentone multicolore dei ciclisti che scendono dal
Barbotto, superano il primo passaggio a Ponte Uso ed imboccano la
salita di Monte Tiffi: una sequenza quasi infinita, come un rubinetto
lasciato aperto, innumerevoli puntini che precipitano giù lungo la
sequenza di tornanti. A me, per cui la bici è stata ed è ancora il
primo amore, anche se non ho più il tempo di pedalare,
quest'immagine fa scoppiare il cuore di felicità. Li osservo come
ipnotizzata...
Giorgio
lamenta ancora mal di gambe; in effetti, dopo centocinquanta km,
difficile che il problema possa attenuarsi. Al massimo, peggiora...
Lo esorto ad arrivare al punto di controllo, poi si vedrà. Va
ripetendo che si fermerà un po', si prenderà una pausa... Ci credo
poco.
La
discesa è lunga, anzi, sembra ancor più lunga perché la vediamo
tutta, sotto di noi. Ed i ciclisti che passano sulla strada a
fondovalle prendono forma, si distinguono meglio. Arrivati giù a
Ponte Uso, per un chilometro circa condividiamo la medesima strada,
solo in senso opposto. E, nonostante svariati anni di ciclismo e
parecchie granfondo, continuo a stupirmi e rabbrividire quando li
vedo procedere in scia, la ruota anteriore dell'uno quasi attaccata
alla posteriore dell'altro, o quando li vedo affrontare a tutta
velocità una curva ad angolo retto... Pochi salutano ed incoraggiano
i podisti; sono ancora nel cuore della gara, tutti concentrati
sull'obiettivo. Oltre l'incrocio, poi, le nostre strade si dividono,
per il momento.
Il
punto di ristoro sembra già avviato alla smobilitazione; in effetti,
dietro di noi non restano molti podisti. Non ha importanza; quel che
conta è che noi si sia in tempo. La mia sosta è fulminea, ma non
quanto quella di Giorgio, che da svariati chilometri spergiurava di
volersi fermare e riposare. Lo vedo ripartire persino prima di me, ma
tracanno ancora qualche bicchiere prima di seguirlo... Da qui
all'arrivo, manca una maratona; il cuore dice che è fatta, ma pecca
di eccessivo ottimismo. Tutto può ancora succedere, quando a
reggerti e portarti avanti sono le tue proprie umanissime gambe. Ci
accompagna un cielo sempre più bigio, un clima che di certo non fa
pensare a maggio a Cesenatico, ma tant'è. Qui bisogna tener la testa
a posto; ci sono, mi pare, quindici km di noiosissimo falsopiano,
tutti da correre, o almeno provarci. Ci fanno compagnia sciami di
ciclisti "autonomi", in ogni direzione; a gruppetti, a
grupponi, con bici di ogni tipo. Senza contare auto e moto, perché
il traffico è ancora aperto. Arrivano anche, finalmente, le
staffette della Polizia: a quanto pare, la testa della granfondo è
vicina. Seguono le auto delle squadre... Ma sul più bello, proprio
nell'imminenza dell'arrivo dei primi, il percorso dei corridori si
separa da quello dei ciclisti; noi dobbiamo seguire la strada interna
all'abitato di Ponte Uso,
mentre i nostri colleghi di fatica a pedali passano sulla
circonvallazione. La mia ennesima "sosta tecnica", poi, mi
fa perdere definitivamente il momento "clou" dell'azione.
Pazienza.
Raggiungo
nuovamente Giorgio, passato avanti durante la mia pausa forzata. Mi
esorta ad andare avanti, senza più aspettarlo, perché ha bisogno di
camminare un po'. In realtà, non è che io lo stessi aspettando,
anzi... Mormoro tra me e me un riconoscente "grazie"; so
che ormai, a questo punto, non cederà più, dovesse impiegare per
raggiungere Cesenatico tutte sei ore ancora a disposizione. Allungo
il passo, per quanto possibile. Gruppi di ciclisti "da
classifica", anche se non più da podio, mi sfrecciano accanto.
E, in senso contrario, arrivano le auto... Ecco, ogni anno mi domando
il motivo di questa immensa pecca in un'organizzazione così
mastodontica come quella della Granfondo Nove Colli. Le strade aperte
al traffico... Mi domando come sia possibile che non accadano
incidenti ogni anno.
Ormai
ho le ali ai piedi, corro anche se la strada tende leggermente a
salire. Il bivio per l'ultimo colle appare prima di quanto mi
aspettassi. Il Gorolo: quattro km, duri davvero, e poi è fatta. Per
modo di dire, perché all'arrivo ne mancheranno ancora trenta, i
peggiori... Ora i ciclisti formano una folla continua; tocca stare il
più possibile a sinistra per non intralciarli. Saluti ed
incoraggiamenti spesso decisamente pittoreschi piovono all'indirizzo
dei corridori; il mio pantaloncino molto sgambato, praticamente una
mutanda, se ne guadagna una buona parte. Beh, insomma, non mi potrò
mai distinguere per le mie doti atletiche, però, se non altro, ho il
conforto del fatto che il mio lato B, nonostante i trent'anni ormai
quasi trentuno, ha ancora il suo perché.
Un
ciclista mi offre addirittura una barretta: il gusto vagamente al
caffé, unito alla mia fame ormai atavica, fa sì che io riesca a
mangiarne metà nonostante la nausea. Il resto mi servirà più
avanti. Nel frattempo Giorgio mi ha raggiunta dinuovo: in salita, il
suo passo è più svelto del mio ed il dolore ai muscoli si attenua
un po'. Così, possiamo osservare insieme le rampe dell'ultimo tratto
di salita, ben evidenziate dal serpentone dei ciclisti. Io poi mi
distraggo con le bici, i rapporti scelti dall'uno e dall'altro,
l'agilità o meno della pedalata... I corridori che passano adesso
sono ancora abbastanza avanti in classifica; hanno un'andatura
invidiabile anche sulla più dura delle rampe, che a me sembra aver
messo una mano sulla fronte per fermarmi e ricacciarmi indietro. Ma
si tratta di stringere i denti per pochi minuti. Il tratto finale,
quasi un viale tra le folte chiome degli alberi, spiana. Punto di
ristoro, brevissima sosta e via, sull'onda dell'euforia, anche se
questa è tutto fuorché una discesa e tocca ancora risalire più e
più volte. Sono lunghi, però, i tratti in cui si può correre.
Ormai non c'è più misericordia: mi sforzo di correre tutto il
possibile, anche se le gambe sono legnose, dure, doloranti. Giorgio,
che deve patire dolore più di me, rimane pian piano più distante. I
ciclisti sfrecciano a mandrie; ormai si avvicina la "pancia"
della corsa, la massa indistinta di quelli che non corrono per la
classifica ma, magari, per un loro personale risultato. Più avanti
arriveranno quelli, i più simpatici e scanzonati, che corrono per le
libagioni ai punti di ristoro: in questa occasione, è un ottimo
motivo! I ristori della Nove Colli sono famosissimi...
L'orizzonte
è cambiato, ormai; le ondulazioni ed i colori delle colline sono
alle spalle. Si vede, in lontananza, il mare, di un colore grigio che
si fa fatica a distinguere dal cielo. La strada è in vista per
tratti molto lunghi, così da poter individuare fin dove si scende e
dove si comincia a risalire. Ogni paese, ogni frazione reclama la sua
bella inversione di pendenza... E lì, non c'è niente da fare,
cammino. Un po' perché non ho più forze, un po' perché mai e poi
mai vorrei che saltassero fuori proprio adesso i crampi, sarebbe un
delitto. Altri corridori, poco avanti a me, probabilmente la pensano
allo stesso modo. E intanto fioccano le urla dei ciclisti, tra il
serio ed il faceto. Se non altro, mi diverto... Ridere attenua un po'
il dolore. Trenta km sono ancora tanti... Mi torna in mente una
novella di Gianni Rodari che ho letto da piccola; era forse una di
quelle della raccolta "Novelle fatte a macchina" e parlava
di quanto possa essere relativo il significato di un numero. C'era un
personaggio che aveva trenta capelli e trenta automobili...
Pochissimi i capelli, tantissime le auto, ovviamente. Anche i trenta
km, adesso, sono tantissimi.
Tuttavia,
qualcosa distrae la mia attenzione dalla distanza e dalla fatica.
Purtroppo, direi, in questo caso. Ormai corro più o meno sempre a
breve distanza da un corridore assistito da una fanciulla bionda alla
guida di una Mini, la qual fanciulla fa il possibile e l'impossibile
per procedere, in auto, quasi a fianco del suo protetto. Cosa che,
nella pancia di una corsa ciclistica che sfiora i 14.000
partecipanti, risulta un tantinello ardua, e soprattutto pericolosa.
Seguo le mosse della ragazza in un crescendo di incredulità ed
angoscia: si ferma, s'accosta, riparte, si riferma, riparte ancora,
come uno yo-yo, di continuo, solo che le sembri di avere quel minimo
di margine rispetto al gruppone di bici in arrivo. Ovviamente nulla
le importa se, ripartendo, dà una bella sgasata in faccia a chi
sopraggiunge, sia esso ciclista o podista. Di tanto in tanto,
ciliegina sulla torta, si ferma, spalanca la portiera, scende,
attraversa la strada per correre dal suo assistito... Ma starà
accadendo davvero, oppure è colpa delle allucinazioni da fatica? Mi
torna in mente all'improvviso che questo genio dell'automobilismo in
gonnella imperversava già sulla prima salita, procedendo a due
all'ora accanto al corridore, salvo ricevere gli strali giustamente
offensivi di chi era costretto a respirare il suo scarico... Il guaio
è che il pericolo è già grave sui rettilinei, dove comunque i
ciclisti hanno un margine di visibilità. Ma il cuore mi cade in
fondo ai calzini quando la vedo rallentare fin quasi a fermarsi
appena oltre un tornante... Terrorizzata, faccio segni disperati ai
ciclisti ancora ignari, che hanno appena imboccato la curva, e
intanto mi sale alla lingua una gragnuola di improperi ai danni di
questi due che definire deficienti è ancora un complimento... Ma
possibile che tra tutti e due, assistente ed assistito, non riescano
a mettere insieme un cervello? La truppa di ciclisti in arrivo dà
voce a quel che io non ho più fiato per esprimere; la Mini parte e
si leva, si fa per dire, dalle ruote. Ma solo per ricomparire, poco
più avanti, e riprendere il suo criminale tira e molla. Ecco un
altro dei tanti motivi per cui l'assistenza ai corridori dovrebbe
essere proibita, senza se e senza ma. Vuoi correre una prova come la
Nove Colli Running? Benissimo, ci sono i punti di ristoro, ti fai
bastare quelli e ti porti, al limite, uno zainetto con ciò che
ritieni ti sarà necessario. Se questo non ti è sufficiente, amen,
significa che questa non è la prova per te, potresti tentare con
l'uncinetto.
Purtroppo
non ho più le forze per superare i novelli Romeo e Giulietta e
togliermeli di torno; purtroppo, allo stesso modo, il buon Romeo non
sembra avere le energie per lasciarmi indietro. Insomma, mi porto
dietro queste due croci, senza speranza di levarmele dai piedi. Sarà
la stanchezza che mi rende meno tollerante, ma so io che uso farei,
su entrambi i fenomeni, del tubo di scappamento di quella
stramaledetta auto. La maleducazione e la noncuranza della fanciulla,
nel ripartire quasi sistematicamente quando un corridore è proprio
lì vicino, sono sconfinate. Ma il culmine è raggiunto poco più
avanti: l'auto riparte da bordo strada e, come se non bastasse, il
corridore a sua volta si sposta in centro strada per prender qualcosa
dal finestrino, proprio mentre sopraggiunge un gruppone di ciclisti.
Volano insulti di ogni genere ed intensità... E, poco più avanti,
la fanciulla scende indignata e commenta con il degno compare,
oltremodo stizzita: "Insomma, siamo tutti stanchi, devono fare
un po' attenzione anche loro!". E qui davvero fatico a tenere le
mani e la lingua a posto... Ma monumentale imbecille che non sei
altro, ti rendi conto che sei nel bel mezzo del percorso di una corsa
ciclistica? Ti rendi conto che non ci sei solo tu, ma con te
condividono la strada migliaia di persone in bici? Ti rendi conto di
cosa può capitare ad un ciclista che in discesa perda il controllo
del mezzo perché tu gli hai tagliato la strada, e tutto per passare
una stramaledetta borraccia e riprenderla millecinquecento volte al
chilometro? Cos'è, forse la stanchezza ti dà licenza di uccidere o
far finire qualcuno sulla sedia a rotelle? E poi suvvia, se questa
perla di atleta è qui più o meno insieme a me, significa che è un
morto di sonno tal quale alla sottoscritta... Che bisogno c'è di
rendersi ridicoli, facendosi assistere come se fosse in gioco la
vittoria?
Se
non altro, non sono la sola a notare l'assurdità della vicenda...
Leggo lo stesso stupore e sconcerto negli occhi di altri corridori
che mi capita di avvicinare nel lunghissimo tragitto verso
Cesenatico. Non c'è niente da fare, tantovale che mi rassegni. Alla
fine della discesa, c'è ancora il lungo, lunghissimo stradone piatto
e trafficato, c'è la sequenza interminabile di rotonde, di
capannoni, di incroci, cartelloni, magazzini, parcheggi,
supermercati... E lontano, piccino piccino, il grattacielo. Al
ristoro da cui mancano 21 km, ho persino mangiato qualcosa di
decente: un pezzo di pane con formaggio. Ciò non impedisce che, nel
lungo tratto in pianura, io mi senta pian piano mancare non le forze,
che è strano, ma la lucidità. Vero che non ne sono mai stata
generosamente dotata, nemmeno nella vita di ogni giorno... Ma adesso
ho la sensazione che l'attenzione si spenga, gli occhi si vogliano
chiudere, come capita quando mi tocca partecipare per lavoro a
qualche noiosissimo convegno e combatto con tutte le mie forze per
non addormentarmi... Piattume e traffico, traffico e piattume. Gian,
occhio alle frecce, per carità. Sbagliare strada qui sarebbe un
ottimo motivo per scegliere il suicidio. Il cielo è plumbeo; fa
freddo, o forse è la stanchezza che acuisce la sensazione di
brivido. Sveglia Gian, sveglia, non è il momento di svenire. Uno,
due punti di ristoro, a pochi km l'uno dall'altro; la Mini sempre
nelle vicinanze, ormai unica triste certezza. Il tempo e la distanza
si dilatano a dismisura. Quindici km di pianura sono l'eternità...
Mi gira la testa, non devo mollare, non devo, non si può.
Di
tanto in tanto, uno scroscio di piogga mi costringe ad indossare la
giacca impermeabile; metti e togli, metti e togli, almeno tre volte,
perché sembra di finir sotto una cascata, anche se dura poco. Ogni
movimento costa una fatica immane...
Ad
una rotonda, il percorso dei podisti si separa da quello delle bici;
andiamo a passare all'interno del paese, mentre i ciclisti restano
sulla circonvallazione. Così, in uno spazio più ristretto, mi
ritrovo a respirare le sgasate della Mini. Il mio livello di
sopportazione è quanto mai vicino al culmine. Giuro che a questi due
finirò per mettere le mani addosso prima che la corsa sia finita...
Per fortuna, o sono io che crollo, o è il fenomeno assistito che
accelera; fatto sta che il distacco, proprio negli ultimi km,
aumenta. I due pian piano spariscono avanti, non li vedo più. Con
immenso sollievo, procedo tra vialetti e marciapiedi, avida dei
dettagli registrati ieri che mi confermino che ormai è quasi fatta.
Raggiungo qualche avversario che di correre non vuol più sentir
parlare; in particolare, due podisti che hanno più o meno il mio
ritmo. Ed a loro mi aggrego, ben lieta e sollevata di riuscire ad
impegnare il neurone nella chiacchiera e fargli dimenticare la voglia
irrefrenabile di staccare la spina. Sto davvero per svenire... Per
mia immensa fortuna, uno dei due, Adalberto,
più dell'altro, Luciano, è un gran chiacchierone, simpatico
e per nulla provato, almeno nella lingua, dai duecento km alle
spalle. A due km due dall'arrivo, dall'altro lato della strada, ecco
un'altra "vecchia" conoscenza, Andrea... Non corre più,
cammina, ma ormai è fatta anche per lui. Non mi lascio sfuggire
l'occasione di prenderlo un po' in giro, ricordandogli la promessa
che gli avevo fatto nei giorni precedenti la gara: "Te l'avevo
detto, che ti avrei fatto mangiare la polvere sulla linea del
traguardo...". Bonariamente, s'intende, anche se un po' di
rischio lo corro, perché, a questo punto, pochi hanno la lucidità
per discernere il serio dal faceto...
Sempre
menando le lingue, bruciamo le ultime poche centinaia di metri, gli
ultimi due cavalcavia. Non mi sembra vero. L'impresa è quasi
riuscita... Nove Colli in bici, Nove Colli a piedi... Il buon
Adalberto, che ha ancora voglia di scherzare, lungo il vialetto
finale telefona a Mario Castagnoli: "Mario, senti, ci siamo
persi, stiamo andando verso il grattacielo...". All'altro capo
del telefono, credo, un attimo di sconforto e di terrore, poi il mio
collega buontempone rivela, trionfante: "Mario, lucida le
medaglie... Stiamo arrivando!". Ed è proprio così: ultima
curva e controcurva e poi, davanti a noi, solo più il rettilineo
finale, la voce metallica del microfono che annuncia il nostro
arrivo, gli applausi davvero sinceri ed ammirati - almeno a me così
sembrano - della folla assiepata in attesa dei ciclisti, dei ciclisti
già arrivati e cambiati, persino di quelli che stanno per tagliare
il traguardo, come noi, ma che mettono per un attimo da parte il loro
trionfo per ammirare il nostro. Una sensazione di gioia
incontenibile... Da sentirmi, per un attimo, quasi fatta di materia
divina: anche se poi, in capo a qualche ora, mi renderò conto di
essere sempre la medesima, immutabile imbecille. Ma con un bellissimo
ricordo in più. Stupenda l'accoglienza di Mario, visibilmente
provato e stanco, anche più di noi: immagino che la responsabilità
dell'organizzazione di un simile evento sia schiacciante, ben peggio
della fatica di noi che in fondo ci limitiamo a mettere un piede
avanti l'altro. E' commovente la passione che Mario ci mette, quel
sorriso che si allarga sul suo viso segnato da una e, probabilmente,
più notti insonni, ogni volta che un suo protetto raggiunge l'arco
di arrivo. Credo che, tra tutti, sia lui a macinare più km, avanti e
indietro, dall'arrivo al palco al punto di ristoro alla tettoia
destinata a segreteria, e poi indietro... Nella concitazione del
momento, tra le tante voci che si accavallano, afferro che il
fenomenale tuttofare deve andare a prendere qualcosa in auto; poi,
trascinata via dai compagni di viaggio e dai volontari all'arrivo, mi
perdo. Raggiungo il tavolino della segreteria, provvidenzialmente
piazzato al riparo di una tettoia; comincia a piovere e questa volta
pare voler fare sul serio. Indosso la giacca, più che altro per
proteggermi dal freddo; sono sudata e stanca e la temperatura è
tutt'altro che confortevole.
Le
volontarie, solerti, compilano il mio diploma: "Donna
d'acciaio"... Mi vien da sorridere: ricordo che, sul diploma
dell'anno scorso, era scritto "Uomo d'acciaio". Credo di
essere l'unica atleta a poter vantare entrambi i titoli, anche se,
che io sappia, non ho subito alcuna modifica fisiologica! Ma, tempo
di girarmi, arriva la sorpresa più bella... Mario mi porge un
cofanetto di velluto blu; all'interno, una splendida targa che
riproduce l'immagine del Porto Canale, così come rappresentata ad
opera, pare, di Leonardo. E la dedica: "Nove Colli Running -
19-20 maggio 2012 - Agostini Giancarla - 208 km bici/202 km corsa".
Resto senza parole e senza fiato, al punto da non essere nemmeno in
grado di ringraziare come si deve. Un regalo meraviglioso, un valore
per me inestimabile, per l'oggetto in sé, per la fatica che
riassume, ma anche, anzi soprattutto, per la fiducia nei miei
confronti: Mario non aveva certo la palla di vetro per sapere in
anticipo che io ce l'avrei fatta... Eppure è improbabile che abbia
forgiato questa splendida creazione nel giro di qualche minuto.
Sono
ancora stordita e confusa. Resto qui in attesa di Giorgio, che non
dovrebbe tardare: Enrica, la sua compagna, in attesa proprio sotto la
linea del traguardo, mi ha già avvisata che l'inossidabile dovrebbe
concludere l'impresa nel giro di mezz'ora. Ovvio, aspetto, anche se
batto un po' i denti per il freddo. Nel frattempo arriva anche
Andrea, in compagnia di Alina che oggi fa l'assistente: volto ormai
noto non solo per gli appuntamenti sportivi condivisi, ma anche
perché mi sono innamorata delle sue due dolcissime cagnotte dalmata.
Andrea ha una caviglia gonfia in modo abnorme appena sopra l'elastico
della calza, tutta livida... Anche questa è una dimostrazione di ciò
che significa la Nove Colli. Ed è molto provato... Ma ce l'ha fatta,
al primo colpo. Come Giorgio, che arriva di lì a poco. Mi avvicino
con cautela: non so verso quale estremo penda in questo istante il
suo umore, se euforico o nero di tempesta; tuttavia, a giudicare dal
fatto che Enrica gli è già andata incontro ed è ancora viva, direi
che per questa volta il pericolo è scongiurato.
Anche
per lui, consegna del diploma e della medaglia. Poi, a malincuore,
abbandoniamo il luogo del delitto, Giorgio ed Enrica verso l'albergo,
io a raccattare la Opel. Ormai conosco Cesenatico come le mie tasche;
poco più di un chilometro, credo, a passeggio verso il Porto Canale.
Per fortuna, questa è una città balneare, cosicché nessuno si
stupisce troppo di vedere uno zombie in mutande per le vie. Ventotto
ore e venti minuti circa, se non erro: quasi un'ora in più dell'anno
scorso, ma voglio pensare che sia l'effetto della pedalata del giorno
precedente.
Piove.
Sotto il precario e parziale riparo del portellone della Opel, mi
asciugo, mi pulisco alla bell'e meglio, mi cambio. Dopotutto sono
sola in auto; il mio afrore di allevamento di suini non affliggerà
nessuno. Riparto subito, radio a palla, prima che il sonno possa
anche solo pensare di fare capolino. Con mia gran meraviglia, a
differenza degli anni scorsi, esco da Cesenatico e raggiungo
l'autostrada in un battibaleno. Le palpebre diventano di piombo solo
negli ultimissimi km prima di casa; posso ringraziare il fatto che
ormai qui la Opel vada avanti a forza d'abitudine, perché io la
strada non la vedo più... Indovino, per fortuna, il cancello di
casa, nonché la serratura. Il tempo di salir su e mi schianto sul
divano... Così come sono. Domani è un altro giorno!