"Sì,
ma guarda che io vado piano... Vado davvero piano!". "Non
preoccuparti, ci saranno vari gruppi, ci sarà chi va di corsa ma
anche chi cammina... Tranquilla, ci sarà qualcuno che va più piano
di te!". Già qualche settimana fa, quando abbiamo combinato per
telefono l'appuntamento, le rassicurazioni di Silvio mi avevano
ispirato ben poca fiducia. Alle sei e un quarto dell'ultima domenica
di agosto, nel parcheggio a Verzuolo, una rapida occhiata alla
squadra di partecipanti, una quindicina di loschi figuri, me lo
conferma: le mie perplessità erano più che fondate. Maglietta, o
addirittura canotta, e pantaloncini sono la divisa che va per la
maggiore; assenza di zaino o zainetto microscopico, quasi un
marsupio, l'equipaggiamento medio con cui i componenti della truppa
che anima il piazzale si presentano per affrontare il giro del
Monviso in tappa unica. Nella versione che conosco io, il tour consiste in trentacinque km di marcia per poco meno di tremila metri di
dislivello; tuttavia, a giudicare da quel che ho capito, l'itinerario
di oggi prevede uno sviluppo più ampio, pensato una manifestazione
di corsa in montagna che potrebbe avere il battesimo, con un po' di
fortuna, già la prossima estate. Chi affronta così, (quasi) nudo e
crudo, un tracciato che sfiora i tremila metri di quota e per gran
parte si sviluppa intorno ai duemila... Beh, ha intenzione di
impiegare poco, pochissimo tempo. Ed ha di certo un'incrollabile fede
nella stabilità delle condizioni meteo.
Sulla
piazza di Pontechianale, il gruppo si rinforza con un'altra infornata
di elementi ben poco raccomandabili e sempre più ignudi, nonostante
la temperatura di una limpidissima mattina di fine estate che sa già
di precoce autunno, a circa 1.700 m di quota. Sono intirizzita e
desolata. Già la differenza nell'abbigliamento e
nell'equipaggiamento - io son qui con i manicotti, le calze alte ed i
bastoncini - la dice lunga sull'abisso che mi separa dal resto del
gruppo. Non mi stupirei di veder spuntare coltelli tra i denti...
Trovo un po' di conforto nell'unico individuo abbigliato come un
essere umano, con pantaloni lunghi e pile: speriamo che partecipi
davvero anche lui... E' vero, l'abito non fa il monaco, ma io son
sicura, potrei metterci già adesso la mano sul fuoco, che oggi il
mio ruolo ufficiale sarà quello della palla al piede, nella speranza
che qualche piede mi attenda almeno fino al tratto di percorso che
non conosco e che si dice sia piuttosto ostico.
Mentre
fervono gli ultimi preparativi, una coppia di anziani villeggianti
attraversa la piazza e si ferma ad osservare lo strano esercito: sui
loro volti, la stessa espressione interdetta che si potrebbe assumere
trovandosi davanti ad un piccolo omino verde con tre occhi e sette
zampe. Li immagino escursionisti della vecchia scuola, di quelli che
non muovono un passo senza scarponi ai piedi e zaino da tre metri
cubi sulle spalle... E, pur avendo da tempo felicemente abbandonato
gli scarponi, condivido il loro sconcerto.
Fremo
in attesa della partenza, un po' per il freddo che morde i muscoli,
un po' perché penso che è tardi, sono le sette e mezza passate, il
sole è già alto ed a me si stringe il cuore, perché è così bello
partire prima dell'alba, veder nascere la luce e sapere che le ore di
chiaro potranno essere sfruttate proprio tutte... Oggi non decido io,
mi tocca adattarmi, però adesso basta chiacchiere, per favore...
Andiamo!
Un'ultima
occhiata languida alla testa della valle, al Colle dell'Agnello che
neanche quest'anno ho raggiunto in bici; manco ormai da troppe
estati... Un gruppetto si avvia verso il lago; prontissima, mi
aggrego.
Come
previsto, la partenza è di corsa. Posso capirlo; il giro del lago è
un sentiero quasi pianeggiante, si presta bene a correre. Il mio
problema è quel "quasi", unito al mio cuoricino che, in
avvio e per almeno un paio d'ore, mal sopporta qualsiasi sforzo,
soprattutto se improvvisamente intenso. Così, i primi brevissimi
tratti in salita mi infliggono già metri di distacco dal resto della
mandria. Tutto ciò ha anche il suo lato positivo; il distacco fa sì
che nessuno possa udire i miei penosi rantoli. Una partenza così
significa dolore forte al petto, respiri che sembrano spasmi, gola
che brucia e sensazione di lingua gonfia, più grossa dello spazio
atto a contenerla. I miei compari sono sempre più lontani; il bosco
e le curve li nascondono. Li vedo sciamare sulla diga, mentre io sono
ancora sul sentiero; a Borgata Castello sono già spariti. Tutti,
tranne Silvio che, secondo me, comincia solo adesso a capire quel che
intendevo io, per "piano". Un cagnone si stiracchia sulla
soglia di una casa: in altre circostanze, mi sarei fermata ad
accarezzarlo. Oggi no, chi si ferma è perduto, proprio nel senso
letterale del termine, perché il tracciato della prima parte del
giro mi è ignoto. Invece di imboccare il sentiero che sale al
Rifugio Vallanta, infatti, procediamo un centinaio di metri lungo la
strada asfaltata, per poi seguire, a sinistra, l'indicazione per il
Bosco dell'Alevè ed il Lago Bagnur. All'imbocco del sentiero, un
paio di anime caritatevoli ferme in attesa. Mi metto in coda, ben
determinata a limitare il più possibile il disagio che creerò a chi
vorrà avere la misericordia di aspettarmi: ma non si può cavar
sangue da una rapa, men che meno da una rapa sovrappeso e senza
fiato. Star loro dietro è una fatica per me insostenibile. Passi
corti, veloci, conficco i bastoncini nella terra, quasi quasi infilzo
persino la roccia; nei polmoni caccio tutto il fiato possibile, ma
Silvio ed i compari lentamente si allontanano. Non posso esagerare,
non ce la farò mai a tenere questo ritmo tutto il giorno... Non ce
la farò nemmeno per la prima salita! Il cuore sembra lì lì per
scoppiare; in fondo questo è un ottimo luogo ed un'ottima
circostanza per defungere, verissimo, ma se proprio devo scegliere,
preferirei passare a miglior vita solo dopo la conclusione della
giornata. Non alzo nemmeno lo sguardo da terra; troppo alto il
rischio di inciamparmi e volare lunga distesa. Le radici degli alberi
che affiorano dal terreno, poi, sono insidiose anche se ci si mette
il piede sopra: scivolose come saponette. Ed il mio equilibrio, nella
foga, è più che mai precario.
Solo
quando uno dei compari si ferma a legarsi una scarpa o frugare nello
zaino, riesco ad avvicinarmi. E nei brevi tratti in piano, nelle
radure. Se non altro, il cielo è limpidissimo. Solo quando la
pendenza concede un po' di respiro riesco a partecipare alle
discussioni: un sovrappiù di fiato giunge in mio soccorso
soprattutto quando il discorso va a toccare il tema
dell'organizzazione di corse in montagna, con l'inevitabile
scivolone: "Eh ma in Valle d'Aosta è facile organizzare trail,
ti coprono di soldi". Forse non sono queste le parole, ma questo
è il succo del discorso, che mi fa spuntare tutti gli aculei dritti
come ai ricci. Io sono del tutto ignorante in materia di
organizzazione, ma di una cosa sono arcisicura: per mettere in piedi
eventi "monstre" come il Gran Trail Valdigne o il Tor des
Geants - cito questi perché li ho vissuti sulla mia pelle - si può
avere anche a disposizione più denaro di quel che ne contiene il
deposito di Paperon de'Paperoni, ma, se mancano le capacità e
l'esperienza necessarie, come si dice dalle mie parti, "ciau
bale". Il Tor poi è un capolavoro assoluto di bellezza, di
efficienza quasi militare, di partecipazione. Non posso credere che
chi l'ha creato e ci lavora non ci metta il cuore e l'anima. Poi, ben
venga la pioggia di dobloni, se serve a dare vita a qualcosa di bello
e di vantaggioso non solo per gli atleti, ma per l'intera regione.
"Sì ma tanti organizzatori ci guadagnano". Uff... E
allora? Di grazia, qualcuno vuole spiegarmi per quale motivo il
guadagno debba essere per forza demoniaco? Se qualcuno è contento di
lavorare per soddisfazione personale e con spirito di volontariato,
ben venga, gli fa onore, ma non trovo nulla di male nel fatto che
invece qualcun altro tragga un profitto dall'organizzazione di una
corsa. A patto, naturalmente, che sia tutto alla luce del sole. Mi
sembra appena normale pensare che il lavoro vada remunerato.
Dopotutto, correre è una passione, un divertimento, come lo sono il
cinema o il teatro. Se vado al cinema o a teatro, non mi stupisco di
dover pagare un biglietto anche per il profitto di chi mette a mia
disposizione lo spettacolo. Perché non dovrebbe essere così anche
nelle manifestazioni sportive?
La
fatica purtroppo mette a dura prova quel poco di ars oratoria che mi
ritrovo. Mi tocca abbandonare la contesa, onde evitare di soffocare.
Non conosco questo tratto di sentiero; è con una certa sorpresa che
mi ritrovo in una radura, con un piccolo rifugio. Sull'erba, casse
acustiche e strumenti musicali: pare che, più tardi, qui si tenga un
concerto. Sulla soglia del rifugio, una bella veranda in legno,
ritrovo la truppa di corridori riunita. Lì per lì, resto basita: ma
come... Mi avete fatto sputare i polmoni per raggiungere questo posto
a rotta di collo e poi siete tutti lì seduti a contarvela? Non
avrebbe avuto più senso andar con calma ed evitare la lunga pausa?
Com'è ovvio, non una parola di tutto ciò esce dalle mie labbra;
sono ospite e per di più in difetto, in quanto palla al piede. Il
gestore del rifugio esce con una caraffa di caffé ed i bicchierini
di plastica: sogno o son desta? Un caffé con lo zucchero, un po' di
conforto per il mio povero cuore... Saluto con dispiacere lo
splendido bovaro bernese che nel frattempo s'è insinuato nel gruppo
a raccogliere coccole; è meglio ripartire, mentre altri possono
permettersi il lusso di indugiare ancora un po'. Breve tratto di
discesa su sentiero, poi si torna a salire, per fortuna. In breve i
velocisti mi superano e spariscono in alto; qualcuno resta un po'
indietro a discutere di itinerari e bivi, mentre io faccio del mio
meglio per guadagnare terreno. Non certo per senso di competizione:
solo per farmi poi aspettare un po' meno... Di lì a poco, si compone
una fila di cinque elementi. Io sono la locomotiva e ciò mi crea
ansia: non voglio fare da tappo, ce la metto tutta, sbuffo, ansimo,
quasi quasi agonizzo, con la gola in fiamme e la nausea che sale.
Enorme dispendio di energia per un risultato miserrimo, tanto che,
dietro di me, si chiacchiera del più e del meno, con tranquillità.
Impiego
un po' a raccapezzarmi ed a capire che siamo ormai nei paraggi del
Passo San Chiaffredo. Di solito calco questi sassi in discesa:
incredibile quanto possa cambiare un paesaggio, percorrendo la strada
nel senso inverso rispetto al solito. Ormai gli alberi sono
scomparsi: uno dei corridori gps-dotati annuncia che ci troviamo più
o meno a 2.400 m di quota. Urca, non mi ero accorta di aver macinato
tutta questa strada. Urlacci di scherno giungono dalla coppia di
fuggitivi che ci precede di un centinaio di metri di dislivello: non
ho il fiato né la confidenza necessari per mandarli al diavolo... Il
sentiero lascia il posto a lunghi tratti di pietraia, finché non
raggiungiamo il pianoro dei laghetti, quel tratto in cui il terreno è
disseminato di pietre piantate in verticale, come tante schegge
conficcate. Son passata di qui un'infinità di volte e non ho mai
capito il perché di questo spettacolo curioso, senz'altro opera di
mani umane. Quassù il branco perde il primo componente: proprio
Silvio, uno dei promotori dell'iniziativa, è costretto a tornare giù
perché non si sente bene. Ha la febbre, probabilmente. Jella al
cubo!
Il
sentiero concede un po' di respiro; un dolce saliscendi, un panorama
da fiaba, riesco persino a muovere qualche passo di corsa. Davanti si
discute se sia opportuno scendere al Rifugio Alpetto prima di
raggiungere il Quintino Sella: sarebbe bello che la gara toccasse il
primo rifugio del Cai, in occasione del centocinquantenario del
sodalizio. Mentre il gruppo si ferma un attimo per raccogliere le
idee, mi avvio lungo il sentierino che scende dolcemente sulla
destra, in mezzo al prato. Perdiamo circa trecento metri di
dislivello per raggiungere il bell'edificio in pietra, oggi meta di
parecchi escursionisti seduti al sole a prendere fiato. Pausa alla
fontanella di fronte al Rifugio, che risente della siccità e getta
acqua ad intermittenza. La guida del gruppo si informa presso il
gestore circa la via più opportuna per raggiungere il Quintino: alla
fine, si opta per ripercorrere in salita un breve tratto della
discesa appena compiuta, per poi imboccare il sentiero a destra al
primo bivio. Una risalita tra prati e ruscelli, un'altra sofferenza
per me che continuo ad inseguire invano. Anche qui, i compagni si
allontanano inesorabilmente, mentre io annaspo. Solo un paio di anime
pietose mi seguono fino al Rifugio: un atto di pietà... Anche qui,
mi sorprende raggiungere il Quintino da una prospettiva tutta diversa
dal solito. E il Monviso, imponente, di fronte a me. Altra brevissima
sosta per riempire la borraccia, ma riparto subito, lungo il sentiero
che arriva da Pian del Re. Un tratto che mi mette in grande
difficoltà: tutto su pietraia, il terreno che odio di più e su cui
procedo con lentezza esasperante, sempre. Mi vien da pensare che,
qui, la traccia è già difficile da individuare in una giornata di
tempo splendido, come oggi; volendoci far passare una corsa, sarà
opportuno abbondare con la segnaletica, perché, se mai dovesse
levarsi la nebbia, si finirebbe fuori strada in un attimo. A maggior
ragione se la prova avrà il carattere di competizione esasperata con
cui mi sembra nascere già oggi, nonostante le rassicurazioni.
Il
tratto su pietraia è lunghissimo e mette a dura prova la mia
pazienza. Ancor peggio per chi mi segue e si adatta, suo malgrado, al
passo da tartaruga instabile. Solo uno dei colleghi, Paolo, sembra
adattarsi di buon grado alla mia andatura, ed anche alla mia
chiacchiera, almeno finché si viaggia in piano. I laghetti poco più
in basso sfoggiano un bellissimo color verde smeraldo; in lontananza
si vede il Pian della Regina e la strada che ancora sale verso Pian
del Re. Ma, al bivio, pietà l'è morta. Si torna a salire, pare per
altri trecento metri circa, destinazione Rifugio Giacoletti. E ancora
una volta provo a forzare il passo. Certo, sto andando a ritmo molto
più sostenuto rispetto alle mie abitudini, ma mi costa una fatica
immensa che non sempre riesco a dissimulare. La nausea è sempre più
intensa; le fitte al petto ricompaiono prepotenti. Non ce la farò
mai, così... Ma il tratto di percorso ignoto e pericoloso dovrebbe
essere quello immediatamente successivo al Giacoletti. Lì non posso
permettermi di restar da sola. Oltre, me la caverò benissimo. Paolo
segue in silenzio, senza apparente difficoltà. Il tratto finale
della salita, sotto un bel sole limpido, è a tornanti secchi: ci
sono parecchi escursionisti che tornano giù. Escursionisti, ma anche
turisti che sembrano capitati qui per qualche strano scherzo del
destino. Certe pance e certi deretani che mi domando per quale
inimmaginabile legge fisica siano riusciti a compiere l'ascesa fin
lassù... Ho fame, sete, sono disfatta. E demoralizzata. Se questa è
la forma con cui mi presenterò al Tor des Geants tra due
settimane... Possibile che io sia così lenta?
Al
rifugio, breve sosta per il pieno d'acqua. Ho un gran mal di testa,
ma preferisco affrettarmi. Si riparte verso la Via del Postino,
mentre qualcuno illustra con minuzia di particolari la vicenda della
morte di un escursionista, qualche tempo fa, proprio qui nei paraggi.
A vedere il sentiero che si tuffa giù nel canalino pietroso, non mi
stupisco che quassù qualcuno ci abbia lasciato le piume. La discesa
mi porta via un'eternità di tempo; del resto, è davvero ripida,
scivolosa, pericolosa. Gli appigli fermi per i piedi sono una rarità;
mi aggrappo con le unghie e con i denti ovunque... Per fortuna,
alcuni dei compagni di viaggio hanno la gentilezza di scortarmi. In
altri tempi, quassù avrei avuto il terrore; ora, l'abitudine non mi
manca, ma non posso certo affermare di trovarmi a mio agio,
tutt'altro. Qui vale qualsiasi appiglio: le mani, i piedi, il
didietro da posare sulle rocce prima che ci cada rovinosamente da
solo. E la risalita non è da meno: il sentiero sparisce; al suo
posto, solo scalini di metallo e corde. Impressionante, questo sì:
ma non terribile. Sarà che ne ho sentito parlare in termini talmente
terroristici che adesso mi pare quasi facile... Qui la decisione è
unanime: la corsa non ci passerà. Troppo pericoloso. Meno male:
quasi mi stupisco... Far passare da qui una gara abbastanza
esasperata come sarà il giro del Monviso è da scriteriati: vorrebbe
dire andare a caccia di guai assicurati. C'è un altro passaggio, più
a valle, che dal Giacoletti si può imboccare per andare a finire sul
sentiero che da Pian del Re sale al Colle Traversette: sarà quella
la via più probabile.
Siamo
ora nella valle del Pian del Re, che si vede alla nostra destra e
sembra vicinissimo. Un lungo traverso ci porta ad immetterci sul
sentiero che arriva proprio da lì. A questo punto, il grosso del
gruppo prende il volo e se ne va, non prima di avermi chiesto se
conosco il seguito del percorso. Nessun problema. Con me rimane
Paolo, che, come me, accusa la fatica. La risalita verso il
Traversette è aspra, tutta a tornantini ripidi su pietraia, fino
alle casermette pericolanti. Non l'ammetto, ma fatico molto, anche se
ormai ho tirato i remi in barca. Adesso si va su a modo mio, con
calma. E' ormai pomeriggio inoltrato; le ombre sono lunghe, il vento
gelido sulla pelle. Man mano che risaliamo il fianco della montagna,
ci ritroviamo immersi nell'ombra, quello stacco netto tra la luce e
l'oscurità che si vede solo in montagna nelle giornate limpide.
Colle o galleria? Se non ho capito male, l'itinerario prevede il
passaggio attraverso il Buco di Viso. I garretti mi portano
faticosamente all'ingresso della galleria; Paolo non perde colpi, è
sempre qui. Per fortuna, ho portato con me la pila frontale. Non sono
mai passata attraverso il Buco di Viso. Infilo la giacca, per
proteggermi dall'aria gelida, e mi ci butto. La pila frontale non mi
permette di evitare una formidabile craniata contro la parete; un
attimo dopo, si riemerge alla luce abbacinante del sole, con un po'
di fatica per superare la strettoia strisciando come lombrichi.
Chissà se i compari ci hanno attesi al colle? In tal caso, qualcuno
li troverà mummificati lassù, la prossima primavera... Scendiamo
chiacchierando lungo la pietraia. Ci fanno compagnia alcuni camosci,
con tanto di piccoli. Anche questo è un tratto che necessita, in
gara, di balisaggio capillare. Qualche diverbio con l'equilibrio,
qualche dubbio sull'itinerario: il Rifugio Monviso è sulla sinistra,
ma è giusto che il sentiero si allarghi molto verso destra.
Percorriamo la discesa fino al bivio: al Rifugio, altra pausa per
fare il pieno alle borracce. Un tentativo di corruzione, da parte di
Paolo, nei confronti dell'asinello del Rifugio, per farsi portare a
soma fin sul Colle di Vallanta cade nel vuoto. Coraggio: dovrebbe
trattarsi solo più di cinquecento metri di dislivello, in uno
scenario che toglie il fiato da quant'è meraviglioso. La mole
imponente di Sua Maestà il Monviso ci sorveglia mentre percorriamo
l'ultimo breve tratto di discesa, mentre superiamo il torrente,
mentre sfiliamo accanto ai laghetti. La salita è aspra e ostica:
ultima, certo, ma non ci risparmia la fatica. Soffia un vento gelido:
tiro su i manicotti, rinuncio alla giacca solo per timore di perdere
tempo. Strappi ripidissimi e severi, sfasciumi, pietraia, sentiero
scuro e pietre nere, qualche lingua di neve. Ora che posso salire con
più calma, mi sento meglio; la nausea è sparita. Paolo lamenta un
po' più di fatica, ma mi segue senza gran difficoltà, anche se ogni
tanto mugugna. Dal canto mio, provo ad incoraggiarlo: dai che non è
tutta così... Dai che poi spiana. In effetti, il secondo tratto,
ormai immerso nell'ombra, offre persino qualche brevissima
contropendenza. Quel che esaspera, qui, sono i lunghissimi passaggi
su pietraia. Ma la cascata di luce ed il vento che rinforza sono i
chiari segni della vicinanza del colle: ci arriviamo prima di quanto
io pensassi. Al cospetto della meravigliosa parete del Monviso.
Tiriamo
entrambi un gran sospiro di sollievo. E' tardi, ma ormai ce l'abbiamo
fatta. Se anche il buio dovesse coglierci - non ho idea di che ora
sia adesso - da qui a Borgata Castello il sentiero è evidentissimo
ed arcinoto, almeno per me.
Un
maestoso stambecco accoglie il nostro passaggio al colle. Altri
stambecchi, cinque o sei, poco più in basso, nel prato. Da qui in
poi, decenza imporrebbe di correre a perdifiato fino a Castello:
tuttavia, ammesso che le gambe lo consentano, cosa di cui dubito, il
fatto è che non ne ho alcuna intenzione. Procediamo di passo,
chiacchierando fitto fitto di lavoro, di corse, di cani. La parete
del Monviso accompagna la tortuosa discesa verso il Rifugio Vallanta,
con il sottofondo del fragore del torrente. L'entusiasmo ora è alle
stelle, anche perché ormai ci sentiamo al sicuro; la lingua resta il
muscolo più attivo.
Al
Rifugio, indossiamo le giacche ed attingiamo alle nostre riserve
alimentari. Non me ne vado prima di aver tormentato un po' il
mastodontico San Bernardo, che credo viva qui da sempre, una sorta di
Matusalemme in forma canina. La povera bestia sopporta in silenzio.
Dal
Rifugio Vallanta a Borgata Castello, non correre è proprio una
bestemmia. Il sentiero è quasi una strada bianca, facilissimo, con
pendenza tenue. La valle è ormai tutta in ombra; un pastore richiama
all'ordine le sue vacche, con urla secche e ripetitive. Cammina e
cammina, torniamo al livello degli alberi, passiamo accanto a quel
che resta di vecchi alpeggi in pietra, seguiamo il torrente. Man mano
che scendiamo, l'aria si fa più pesante, carica di umidità. Mi
dispiace tornare a valle. In vista del Lago di Pontechianale, le
rampe del sentiero si fanno più severe. Chissà quanto, di tutto
ciò, hanno visto i missili in forma umana che abbiamo conosciuto
questa mattina. Per carità, ciascuno è libero di intendere la
montagna nel modo che più gli aggrada, ma io fatico a capire certi
atteggiamenti sempre e comunque esasperati. Credo ci siano persone
che improvvisano una gara in stile quattrocento metri ostacoli anche
per andare in bagno... Io adoro le gare di corsa in montagna per via
dell'assistenza, della possibilità di correre leggeri senza doversi
preoccupare di trovare la retta via, ma se corro è solo per sfuggire
alla tagliola dei cancelli orari. Forse la mia è solo invidia... Tra
me e la corsa c'è un abisso!
Borgata
Castello arriva prima di quanto io immagini. Una cinquantina di km,
circa 3.200 m di dislivello: "un po' lunghetta", osserva
Silvio al telefono, mogio e febbricitante. Lunga no, non troppo,
secondo me; piuttosto, si tratta di un percorso molto lento, per cui
è opportuno prevedere una partenza all'alba se non prima, onde
evitare di aver gente sparsa per i monti a sera inoltrata. E' anche
un itinerario molto delicato in caso di maltempo, per via dei tanti
punti in cui è facile perdere l'orientamento, oppure inciamparsi
malamente. D'altro canto, a mio parere, tolto il passaggio della Via
del Postino, non presenta tratti troppo esposti, ad eccezione degli
ultimi metri di salita al Colle Traversette, qualora si decidesse di
passar da lì anziché dal Buco di Viso. Certo, se alla gara dovesse
essere affiancata una prova non competitiva, in quel caso a mio
parere sarebbe bene tagliare alcune appendici del percorso, sempre
per evitare che qualche partecipante sia sorpreso dal buio lungo il
percorso. Vero, c'è un'infinità di gare che prevedono di far notte
sui sentieri, ma gestire il buio credo richieda uno sforzo
organizzativo eccessivo, per il momento.
Al
parcheggio non c'è più nessuno. Poco male, noi due reietti ci siamo
goduti la discesa finale in tutta tranquillità ed abbiamo persino
recuperato espressione umana in viso. Uno splendido cielo serale
conclude degnamente una giornata da favola, a dispetto delle
previsioni meteo infauste. Speriamo che la stessa sorte tocchi al
giorno della gara. Ci sarò anch'io, in ogni caso... Ma in versione
rigorosamente non competitiva. Dopotutto, ormai ho un'età!