Se il buongiorno si vede dal mattino, credo che oggi mi passerà sopra un autoarticolato a rimorchio multiplo. Sono giorni che medito l'imboscata: parto da Ceva, salgo a Montezemolo, poi Carcare, Altare, Savona, arrivo a Genova, estirpo dal negozio il buon Matteo, ma solo per un velocissimo saluto, perché lì si lavora ed il tempo è denaro, soprattutto per un Genovese. E siccome da Ceva a Genova Prà ci sono poco più di ottanta km, con un po' di salita, s'impone di essere in sella di buon'ora: altrimenti, rischio d'arrivare oltre l'orario di chiusura per pranzo, ergo rendere vana tutta la fatica.
Regola aurea, però, sarebbe preparare l'auto alla sera, non al mattino alle sei meno un quarto, quando il cervello gira al minimo regime di sopravvivenza. Soprattutto in questa tristissima stagione in cui a quell'ora è ancora buio pesto. Altrimenti succede che scendi in cantina, carico dello zaino per il viaggio in bici e della borsa per il cambio d'abito a fine giro, portando appese alle dita le chiavi di casa e quelle dell'auto; recuperi la bici e le scarpe e ti avvii, carico come un venditore ambulante, verso il garage; quando sei lì... Cerchi la chiave dell'auto e non la trovi più. Ma come, venti secondi fa ce l'avevo in mano. Non è mica possibile che sia scomparsa! Torno in cantina, occhio incollato a terra, per quel poco che si può individuare, al buio, un portachiavi blu scuro sulla superficie di catrame del cortile; nulla fino alla cantina, nulla nemmeno dentro. Dietrofront fino alla bici, perquisizione dello zaino e della borsa, casomai in un attimo di incoscienza l'avessi riposta in qualche tasca; nulla. Il primo istinto è quello di scatenare un conflitto nucleare. Poi mi rendo conto che forse è il caso di cercare meglio: torno in cantina e da lì ancora al garage, altre tre o quattro volte, fino a lasciare la trincea del mio passaggio; nulla di nulla... E intanto si son fatte le sei, già un quarto d'ora di ritardo rispetto all'ora di partenza programmata. Desisto: oggi la Opel, la mia carriola, resterà a casa, perché a far partire un'auto senza l'uso della chiave non ho ancora imparato. Torno a casa, prendo le chiavi dell'altra auto di famiglia, Opel Corsa pure quella, ma un po' meno vecchia ed un po' meno bagnarola: alle chiavi disperse penserà qualcun altro, quando farà chiaro.
Ironia della sorte: mentre smonto la bici per caricarla nel baule, trovo la chiave raminga, agganciata alla chiusura della ruota posteriore. A questo punto sì, il conflitto nucleare sarebbe proprio opportuno... Ma non ho tempo, si farebbe troppo troppo tardi. Parto con le orecchie fumanti, ricordandomi al pelo che il cancello è bene aprirlo prima d'attraversarlo; sei e un quarto ed è ancora, ostinatamente, buio pesto. Se non altro, qualche stella si vede; il meteo per oggi ha promesso acqua, ma chissà, magari sbaglia.
Alla prima rotonda, illuminata come lo stadio di San Siro in notturna, il mio sguardo urta contro un cartellone pubblicitario gigante: toh, questo coso fino a qualche giorno fa non c'era. O forse non l'avevo notato. Troneggia la foto di una fanciulla assai prosperosa, vestita, si fa per dire, di nero; insomma, senza troppi giri di parole, un gran pezzo di gnocca. Accanto, qualcosa di scritto di cui leggo alcune parole a caratteri cubitali: "Discoteca Evita, venerdì sera, Cristina". Urca... Non me la perderei per nulla al mondo, anzi, prenoto già il biglietto! Ma così, per curiosità: chi piffero è costei? Passo oltre scuotendo la testa. Per carità, non è che me ne stupisca: ma davvero c'è qualcuno che decide la destinazione della propria serata in base al tizio, o, in questo caso, alla tizia che si presenterà in un certo locale? Certo, senz'altro è un bel vedere, ma credo ci siano un sacco di esemplari, femminili e maschili, in giro per il mondo e senz'altro più accessibili... Senza necessità di andare a perder le bave dietro ad una che per giunta non ha manco un cognome, e non perché appartiene ad una famiglia nobile, almeno credo. Io mi schiodo di casa, alla sera, solo per i Trelilu!
La nebbia. Ah, erano già tre mesi che non la si vedeva in giro; quasi mi mancava. Finalmente oggi ricompare, da Marene in poi, un bel nebbione fitto e spesso, tanto che il fringuello sulla station wagon al mio seguito abbozza un sorpasso, poi frena e decide che tutto sommato è più comodo seguire i miei fari. Si ritira un buon ordine, anche quando, a ridosso delle montagne, la visibilità è perfetta. Come sono impressionabili questi piloti d'oggi!
A Ceva arrivo, tutto sommato, quasi in orario: sono passate da poco le sette. E' chiaro, un pallido sole tenta di conquistarsi un po' di spazio tra le nuvole; fa freddo, però. Che tristezza. Ma non è colpa della giornata, forse di grigio c'è solo il mio umore, e chissà poi perché! Non importa: so che i chilometri saranno la miglior cura per i mali dell'animo.
Salto in sella, direzione Montezemolo. E' una sensazione inquietante: non tocco la bici da corsa, rulli a parte, da tre settimane, e la sensazione è quella di non esserci proprio mai salita. Mi manca la prospettiva, l'equilibrio; mi ritrovo tra le mani e sotto al didietro qualcosa che non mi appartiene. Per fortuna, qualche km di strada piatta e larga mi dà il tempo di riprendere confidenza con il mezzo: credo di essere l'unica persona al mondo che potrebbe disimparare ad andare in bicicletta! C'è da dire che, in tanti anni, non sono mai arrivata a sentirmi davvero a mio agio su una bici da corsa; basti pensare a come affronto le discese...
Giornata uggiosa, pigra; forse è ancora presto perché il traffico domenicale rianimi le strade. Le gambe protestano un po', girano sì, ma svogliate; faticano ad accettare la temperatura, l'autunno che arriva. Sarebbe stato uno di quei giorni da passare per intero sepolti sotto le coperte: lo dico, ma in fondo so che non ne sarei capace.
Alla rotonda, abbandono la strada principale in favore di quella che va a Sale Langhe. Devo passare da Montezemolo, ma non ho voglia di sciropparmi lo stradone; mi avvio pian piano lungo questa salita dolce, tutta curve ampie e noccioleti e prati, ombre lunghissime del mattino, raggi di sole pallido che non scaldano più, goccioline d'acqua che scintillano sui fili d'erba a bordo strada. Eh sì, pedalo a testa ciondoloni, sola ed ancora un po' rintronata dal sonno, dal freddo, dalla fatica. Possibile che mi senta così demolita? Dai cortili delle cascine mi giunge il latrato di qualche cagnone che vede in me l'unica occasione possibile per fare un po' di chiasso, visto che qui, per qualche ora ancora, non passeranno che auto. Tracce di presenza umana, per ora, nulla.
La salita, dolce dolce, sembra concludersi qualche centinaio di metri avanti a me, in mezzo alle case di una borgata; oltre, in lontananza, s'intravede la strada alta che da Dogliani va diretta a Murazzano e Montezemolo. E' solo un'ombra però: a quanto pare, c'è la nebbia, ed io ci sto per finire in mezzo. Proprio così; quando raggiungo l'incrocio e svolto a destra, mi ritrovo immersa in una soffice coltre d'umidità, fredda, appiccicosa. Il primo pensiero è per la mia incolumità: non ho le luci; qui rischio le piume... Il secondo è per la maglia già umida di sudore, che s'appiccica alla pelle, e hai voglia a chiudere la cerniera del gilet, non serve a nulla. La nebbia in collina, un controsenso, per me che sono abituata a vederla intorno a casa ed a fuggirne proprio pedalando verso le colline. Tira un po' di vento, gelido anch'esso, ma forse è solo l'uggia di questa luce così fioca, grigia. Ogni tanto la coltre si dirada, concede qualche metro in più di visibilità; rabbrividisco quando sento alle mie spalle il rumore di un motore. Per fortuna, stamattina i piloti sembrano essere cauti. Dai pendii la nebbia sale su a fiocchi, veloce, spinta e scompigliata dal vento. Il generatore eolico spunta all'improvviso, sfocato, imponente, con i suoi tentacoli sempre immobili; chissà se di tanto in tanto funziona... Io non ho mai avuto l'onore di poter assistere allo spettacolo.
Morbidi saliscendi mi portano all'abitato di Montezemolo; ormai credo di conoscere questi metri di asfalto come le mie tasche. Mi accoglie, come sempre, il gigantesco cagnone grigio della casa sulla sinistra, un bovino sotto mentite spoglie canine; attraverso il paese silenzioso, me lo lascio alle spalle insieme alla nebbia. La rotondona al passo, ancora deserta: i motociclisti stamattina latitano. A sinistra, giù per lo stradone e la galleria: continuo a dubitare del fatto che questo tratto di strada sia consentito ai ciclisti, ma non vedo divieti di alcun genere; del resto, il tunnel è illuminato a giorno; rischi non se ne corre. Brividi lungo la schiena, le braccia, mani gelide; il sole è ancora così pallido che la discesa non mi risparmia il supplizio. Certo, potrei fermarmi ed indossare la giacca che ho nello zaino, ma non ne ho voglia, per pochi km. Del resto, è subito la paura a prendere il sopravvento. Quella strana sensazione di incertezza che mi ha assalita alla partenza da Ceva torna ora, prepotente, quando la strada va giù: proprio come se non avessi mai visto una discesa in bici, mi ritrovo a ridosso delle curve – ampie, poi, facilissime – senza sapere cosa fare, se non tirare disperatamente i freni; mi sembra che la ruota posteriore oscilli, sia lì lì per slittare ad ogni metro, ma non è vero. Scendo rigida come un baccalà: se incontro una pattuglia dei Carabinieri, mi sa che mi mettono davanti al naso la cannuccia dell'alcooltest! La incontro in effetti, la Gazzella, ma, per fortuna, passo inosservata. Ormai sono a Millesimo; come sempre, giorno di mercato, bancarelle in costruzione, anziani anche troppo mattinieri che già barcollano sotto il peso di precarie borse di plastica pronte a strapparsi da un momento all'altro. Un pericoloso elemento con cappello e bastone da passeggio attraversa la strada con il naso affondato nelle pagine di un quotidiano fresco fresco di edicola: che salto quando gli passo a rasetta davanti!
Qualche slalom tra gli ostinati cercatori di parcheggio e via, sono fuori dal paese, lungo la leggera ed antipatica salita. La nebbia è scomparsa, ma la giornata è tutt'altro che limpida; nuvoloni minacciano una bella lavata. Confido nelle previsioni meteo, che, per la Liguria, hanno promesso niente pioggia; in ogni caso, però, se anche dovessero sbagliare, non sarebbe un dramma. Oggi niente valichi oltre i 2.000 metri!
La fiacca è tale che mi assale il dubbio: riuscirò ad arrivare al Cadibona? Oh insomma, Gian, basta con queste fesserie. Ormai puoi arrivare più o meno ovunque, purché con la dovuta calma. Carcare, un po' di traffico nel breve tratto di salita che porta poi al bivio del casello autostradale: mi assordano le sirene di alcuni mezzi di soccorso che corrono lungo l'autostrada, Vigili del Fuoco ed ambulanza, chissà cos'è capitato. Un posto di blocco dei Carabinieri, ma non ce l'hanno con me: passo oltre, raggiungo l'abitato di Altare, seguo un copione già letto un po' di volte quest'anno. Spero solo di essere in orario per arrivare a Genova prima dell'orario di chiusura del negozio! E già pregusto la faccia che farà Matteo quando gli comparirò davanti così, senza preavviso! Ed è già la seconda volta: penso che, da oggi in poi, prenderà ad uscire di casa con barba e baffi finti...
Ignoro, come sempre, il semaforo che regola il transito nelle due brevi gallerie sul colle – va bene che sono spessa, ma ci passo anche incrociando un'auto! - e sbuco finalmente dall'altra parte del mondo: il versante del mare! Non tarda a farsi vedere, il mare, un po' grigio e pallido, alla mia destra, ma è meglio che io badi alla strada. Anche stavolta mi congelo in un attimo: e fino a Savona sono dieci e più chilometri... E' bella la strada del Cadibona, ricordo ancora quando la percorrevo sul sedile posteriore della vecchissima 112, ormai secoli e secoli fa, per andare a Savona, da Nicola, a mangiar la pizza, e poi a passeggio sulla spiaggia, d'inverno, a caccia di conchiglie che non c'erano mai. Solo sassolini lucidi e levigati, forme da immaginare e nascondere nelle tasche, acqua che da lontano affascinava, ma da vicino faceva un po' ribrezzo, con quella schiuma biancastra e rami e detriti vari galleggianti. Già allora mi piaceva il silenzio, i gabbiani, l'aria ed il tepore del mare, ma non mi piaceva il mare. Anche oggi infatti ci viaggerò accanto, ma sempre al di qua del parapetto.
A Savona, la solita confusione, la processione di semafori, auto, motorini ed un curioso personaggio in sella ad una bici da passeggio: lo sorpasso, si arrabbia, mi risorpassa di gran carriera bruciando il rosso; si vede che ha i polpacci ben torniti, da ciclista pure lui... Ma datti una calmata! Più tardi, lo riacchiapperò sull'Aurelia, senza appello.
Chissà se, a furia di percorrerli, ho imparato i nomi dei paesi da qui a Genova? Beh, Albissola facile, ci sono le ceramiche, la passeggiata colorata, il viale stretto e sconnesso. Poi? Poi Celle, Varazze. La giornata è cupa, color del metallo; sopra Genova le nubi sono più dense e minacciose. Il mare, grigio, le spiagge deserte, solo qualche bipede che accompagna il quadrupede, qualche zuffa tra cani, qualche podista lungo le passeggiate. Quiete, forse eccessiva per settembre, ma la giornata di meteo poco promettente per me è un'ottima occasione per veleggiare lungo il mare senza troppo affanno né rischio. Non c'è traccia dei ciclisti superprofessionali che di solito sciamano su questo nastro d'asfalto; ci sono, invece, pochi ma buoni pionieri, con abiti, biciclette e carichi tutt'altro che modaioli. Mi ci sento a mio agio: così, se la stoffa consunta dei miei pantaloni ¾ leggeri dovesse cedere e lasciare spazio ad una voragine, sarò meno in imbarazzo.
Cogoleto, una distesa di spiagge vuote; fatico come un asino stanco, e meno male che non tira nemmeno troppo vento. Il solito dolore ai piedi mi accompagna già da un po'; bastano i pallidi raggi di questo sole malaticcio per far gonfiare le dita, che strillano al contatto con la scarpa. Le brevi risalite oggi proprio non mi vanno giù; le affronto proprio con lo stesso ritmo con cui attaccherei i 30 km dello Stelvio. Di mangiare per ora non se ne parla; avrei fame, ma l'unico pensiero è tirare dritto il più in fretta, anzi, il meno lentamente possibile. Arenzano, ormai qui sono di casa; passo in centro anziché seguire la statale, mi ci ricongiungo al semaforo. Qui, è inevitabile, c'è più confusione; molti esemplari di turista incallito che non si lasciano intimidire nemmeno dal rischio di pioggia. Punto una madama bionda che attraversa la strada con studiata lentezza, barcollando sui trampoli dorati: come vorrei vederla ruzzolare a gambe all'aria... Ma in bici non mi conviene tentare il colpo gobbo; rischio di lasciarci la fiancata pure io!
Gallerie, la strada che s'allarga insieme alla vista sul mare; cade qualche goccia, ma non importa: sono vicina, quel che ho nello zaino non farà in tempo a rovinarsi. Voltri, il parcheggio dei bus: per me, l'inizio dell'Apocalisse. Un disastro di traffico, auto moto e gente per strada; gli orologi pubblici sono concordi nel sostenere che siano da poco passate le undici, ma qui intorno si muovono mandrie di scolari di ogni ordine e grado, gli zaini sulle spalle o con le rotelle – si vede che sono vecchia: ai miei tempi questa sciccheria non c'era... - vocianti e pecoroni. Tento lo slalom tra le auto in coda, domandandomi con orrore come si possa anche solo pensare di circolare a Genova con l'auto; interpreto le luci del semaforo con un po' di fantasia e passo avanti, incolume. Al casello dell'autostrada, penso che dovrei essere più o meno nei paraggi; peccato che questa volta, convinta di saper ritrovare la retta via senz'ombra di dubbio, non mi sia nemmeno segnata l'indirizzo del negozio. E a memoria ovviamente non me lo ricordo.
Mi rendo conto d'essere andata un po' troppo avanti; m'infilo in una via laterale che somiglia a quella che avevo percorso in occasione del mio primo raid a Prà, ma non è lei. Chiedo informazioni a due donne, errore fatale: entrambe mi spediscono, con fiera sicurezza, ad un negozio che è sì di articoli sportivi, ma non è quello che cerco io. Ma dico io: perché, se vi chiedo di Repetto Sport, mi mandate da Sole Sport? E che diamine! Rassegnata, ritento la fortuna rivolgendomi ad un gruppo di attempati viandanti impegnati in fitte discussioni politiche: uno di loro mi degna di considerazione... E tre minuti dopo, con il cuore in gola, sono davanti al cortiletto del palazzo ove si trova il negozio.
Frugo nello zaino, trovo il cellulare: qualche istante di attesa, e se non fosse qui oggi? "Pronto?"
"Lo so che è una sorpresa riciclata... Ma, se esci un attimo, ti lascio un paio di cose!".
Non ho ancora staccato la chiamata, che Matteo si materializza in cortile. Sorpreso e sconcertato più che mai. Gli lascio un libro e le foto della vacanza in Francia; poche parole, perché qui c'è gente che lavora... E non sono io! A malincuore me ne vado: so bene che Matteo mollerebbe tutto e verrebbe volentieri ad accompagnarmi per un po'... Avrei dovuto arrivare qui per l'ora della chiusura del negozio per la pausa pranzo, ma sarebbe stato troppo tardi per poi permettermi di rientrare in tempo a Ceva. Senza contare il fatto che, tra un po', qui si aprono le cateratte del cielo! Proprio sopra la mia testa, il nuvolone più nero. Gambe, anzi, pedali in spalla, un po' di malinconia, ma tanto sappiamo già che martedì sera si andrà a spasso in Langa. Oggi è stato un "di più"!
Riprendo la corsa verso Savona, scrutando le nuvole che spuntano dalla linea delle montagne, in lontananza. Converrà rientrare per la via più breve, il Cadibona, la stessa che ho seguito all'andata, oppure rischiare un po' ed andare a Finale, per poi salire al Colle del Melogno? Il dilemma mi attanaglia per tutto il tratto di Aurelia che ripercorro a ritroso, Arenzano, Cogoleto, Varazze, Celle con le vetrine della Olmo. Un po' per il rischio di pioggia ed un po' perché mi sento un vero straccio: ce la farò?
A Savona, però, non me la sento proprio di svoltare a destra. Ho voglia di una salita bella, lunga. In fondo, se anche dovesse piovere, non sarà poi questo dramma; il Melogno è esposto al mare ed è a quota 1.000 m, niente di che. Quindi tiro dritto: per fortuna, è ora di pranzo; poca confusione in giro, son tutti con le gambe sotto il tavolo. Direzione, Finale Ligure. Quanto disti da qui, non lo ricordo proprio; però, non troppo. Del resto non so quanti km ho già alle spalle oggi, e non è che la cosa mi interessi. Respiro ancora a pieni polmoni, vuoi per l'affanno, vuoi per fare il pieno dell'aria di mare, anche se qui sopra la mia testa sfilano le ciminiere della centrale di Vado Ligure, che insomma proprio così poetiche non sono. Altro che iodio...
L'Aurelia qui è meno caotica rispetto alla parte tra Savona e Genova. E' più ampia e non si strozza passando nei paesi. E' tormentata, questo sì, da una frana che costringe alla circolazione a senso alternato, ma è bellissima nei punti in cui offre la vista su pareti rocciose bianche come il sale, a picco. Qui i raggi del sole hanno conquistato il loro spazio: grigio e nuvoloni sono rimasti alle spalle; non mi resta che buttare giù una brioche con un po' di marmellata e proseguire in direzione del casello autostradale di Finale. La salita al Melogno inizia lì. Ed anche la mia pena. Saluto gli sparuti coraggiosi bagnanti del primo pomeriggio e svolto a destra: la pendenza qui è minima, eppure a me pare di scalare le rampe del Colle dell'Agnello. Mamma mia che fatica, il povero cuoricino è già schizzato via dalle orecchie, eppure la bici si sposta in avanti con movimento impercettibile. Che diamine... E' vero, tre settimane quasi senza bici, ma non sono mica stata a far grasso sul divano! Eppure non c'è nulla da fare, nemmeno alzarmi in piedi sui pedali. Mi rassegno a quindici km, più o meno, di pura esperienza mistico-ciondolante; che fiacca mostruosa...
Al paese di Gorra approfitto della fontanella per fare una minima pausa. Necessaria, perché la borraccia è desolatamente vuota, ma anche tanto tanto desiderata: chissà che non valga a riprendermi un po'. Poi riparto, via per questa strada di cui ormai conosco ogni curva. Quante volte ci sono già passata, in compagnia dei più svariati personaggi oppure da sola! Intanto tengo d'occhio i nuvoloni che avvolgono le cime: il colle non si vede, immerso nella nebbia. Il mare alle mie spalle tra non molto sparirà, perché in mezzo alle nuvole sto per arrivarci anch'io. Infatti, quando faticosamente guadagno il traguardo dell'ultimo chilometro, vedo già a malapena la ruota anteriore. In fondo, poi, è l'unica cosa che io abbia guardato per l'intera salita: sollevare la testa costa fatica! Il neurone è pesante...
Passato il Forte, di fronte al bar mi fermo un attimo per indossare la giacca. La differenza di temperatura tra il versante mare e quello di Calizzano si fa sentire all'istante; la discesa verso l'entroterra è umida e viscida di foglie, ricci e castagne che marciscono sull'asfalto. Sembra d'essere catapultati in una di quelle giornate corte e bagnate di fine novembre... Coraggio Gian, c'è di peggio: te lo ricordi, vero, che, quando passi di qui a gennaio, dalle rocce e dalle radici sporgenti a bordo strada pendono lunghissime stalattiti?
A Calizzano si fa largo un po' di sole, timido. Qualche passante già intabarrato, immagine ben diversa da quella che mi sono lasciata alle spalle a Finale: là si girava ancora in canotta, nonostante la giornata grigia. Proseguo verso il Colle dei Giovetti, già pronta ad un'altra salita di sofferenza; invece, con mia gran sorpresa, qui le gambe si mettono a girare come si deve, vivaci, brillanti, per quanto possa essere brillante un pachiderma con gli scarpini. Così posso anche distrarmi e dare uno sguardo al bosco, già in viaggio verso i colori dell'autunno. Solo un improvviso agitarsi rumoroso di frasche mi riporta alla realtà: probabilmente un cinghiale... Speriamo che non decida di attraversare la strada, altrimenti mi maciulla!
Qui i km scorrono veloci, senza intoppi, salvo la fame. Centellino le ultime risorse: una gelatina di frutta... In verità, avrei ancora una barretta, ma in fondo non manca molto al traguardo e la salita è quasi finita. Potrei approfittarne per allenarmi a resistere all'appetito! In cima, un dosso senza cartelli di alcun genere, s'intuisce il colle solo perché la pendenza si inverte. Nove km da qui a Bagnasco, tornanti bui in mezzo al bosco. Trovo una bella fontana sulla destra, dove calmare almeno la sete. Da alcuni dei camini della borgata salgono fumo e profumo di legna; è ora di intaccare la perfetta composizione delle cataste di legna nei cortili.
Bagnasco, il semaforo; vorrei ancora salire a Battifollo e scendere a Ceva da lì... Ma la mia pigrizia trova ben due giustificazioni, più o meno valide; la prima è che è già tardi e rischio di far buio (mica vero, son le cinque del pomeriggio passate da poco), la seconda, più credibile, è che tra un po' avrà inizio il diluvio. E ci sarebbe anche la terza, i piedi gonfi che non sopporto più... Ma questa non vale, perché ormai ho imparato a convivere con questo strambo problema; a parte qualche breve istante in cui quasi quasi vien da piangere, per il resto il dolore è costante ma sopportabile. Imbocco la strada principale di fondovalle, che in una decina di noiosissimi km mi riporta alla Opel: dovrei aver messo in saccoccia circa 200 km e 2.000 m di dislivello, secondo una mia stima molto approssimativa. In effetti, dieci minuti più tardi, appena entrata in autostrada, mi sorprende il diluvio, che mi porto fin quasi a casa. Beh, che dire... Tempismo perfetto!
mercoledì 30 settembre 2009
venerdì 18 settembre 2009
13 settembre 2009 - The North Face Trail del Monte Soglio
Il parcheggio in salita, o in discesa, a seconda dei punti di vista, insomma in pendenza, non mi ha mai ispirato molta fiducia. Chiudo la portiera, osservo il muso della Opel pericolosamente puntato verso l'alto: speriamo solo che il freno a mano tenga. Non ne sono così sicura, a giudicare dalle mille volte in cui mi sarà capitato di partire senza toglierlo, il freno a mano, e partire in tutta serenità, ed accorgermi dell'errore solo notando la fastidiosa spia rossa sul cruscotto. Non ha mai opposto alcuna resistenza, il marrano!
In alternativa, speriamo che presto arrivi qualcun altro a lasciare l'auto dietro di me, e che il suo freno a mano, alla bisogna, riesca a sopportare l'impatto. Mi spiacerebbe dover recuperare l'auto giù a Forno... L'eterno dramma del parcheggio, un dramma dai mille volti.
C'è già un po' di movimento qui intorno, anche se mancano ancora dieci minuti alle cinque. Partire da casa alle tre e mezza è stata un'esagerazione: il guaio è che non avevo un'idea precisa di quanto avrei impiegato a raggiungere Forno Canavese, né di quanto avrei tribolato, da lì, per scovare la frazione Milani. Rintracciare le frazioni può essere impresa improba, a volte. In effetti, in questo caso, avrebbe potuto essere così: da Forno Canavese, tocca arrampicarsi su per un buon numero di tornanti, prima di arrivare ai Milani, ed azzeccare almeno un paio di rotonde. Ma una buona organizzazione di gara si vede già da questo... All'ingresso di Forno, le indicazioni per il trail, insieme agli striscioni rossi dello sponsor, The North Face, non lasciavano dubbi sulla direzione da seguire; così alla prima, alla seconda rotonda e su per la salita. In quattro e quattr'otto sono arrivata fin qui.
Il tendone bianco è già illuminato; provo ad avvicinarmi e fare capolino: alla peggio, sarò cacciata con ignominia. Invece no: Roberto, il boss dell'intera baracca, è già all'opera al banchetto della distribuzione dei pettorali. Lo riconosco, perché è lui a riconoscere me; del resto, ormai sono come la gramigna, spunto ovunque, quando so che c'è una corsa interessante da qualche parte... Sono famigerata!
Me ne torno alla Opel, a due passi dal tendone, con il pacco gara: dentro c'è il pettorale, il chip, una bella borraccia ed una maglietta tecnica entrambe a marchio The North Face. Ecco cosa significa avere la fortuna, o l'arguzia, o entrambe le doti, per conquistare l'attenzione di uno sponsor importante!
A questo punto, potrei anche provare a recuperare un po' di sonno, visto che sono qui e manca un'ora e mezza al via. Mi stendo in auto, ma di dormire non c'è verso: i miei occhi seguono tutto ciò che si muove al chiaro dei fari che illuminano la piazza; i concorrenti che si avvicinano al tendone alla spicciolata, le mani dei volontari che s'ingegnano a comporre l'intelaiatura di un gazebo. Chissà la gioia degli abitanti della frazione... Tocca loro la sveglia anticipata, che piaccia o no.
Una settantina di iscritti, se non ricordo male, con qualche nome illustre; ottima partenza per la prima edizione del Trail del Monte Soglio. 55Km e 3.100 m di dislivello: i numeri promettono bene. Veloce controllo del materiale obbligatorio, giacca, riserva d'acqua, e mi ritrovo in griglia, in paziente attesa del via. E' ancora buio pesto e dubito che la situazione cambierà molto nei prossimi dieci minuti... Beh, pazienza, spero di riuscire a non sbagliare subito strada. Lo zainetto oggi è minuscolo: solo la giacca impermeabile, il miniportafoglio, il cellulare, rigorosamente spento, la busta dei medicinali e l'immancabile rotolo di papier de cul. Ah sì, anche qualche barretta. Del resto, dovrei cavarmela entro la giornata: e, se così non fosse, significherebbe che sono guai!
Quattro parole con i concorrenti accanto a me; non mi sento per nulla tesa né agitata, sono tranquilla come un Buddha ed assonnata come un discotecaro che rincasa all'alba. Il conto alla rovescia per la partenza mi coglie di sorpresa, mentre scruto il cielo alla ricerca di un po' di chiarore e trovo solo una marea di stelle. Via: venti metri di corsa e subito passo, perché la strada sale già. Poco asfalto, poi sentiero e strada sterrata: nel giro di due minuti, scompaiono tutti, o quasi, ed io rimango sola nel nulla eterno. In mezzo al bosco, fatico a mettere a fuoco il sentiero e, di conseguenza, non riesco a procedere con passo sicuro; addio alla speranza di poter seguire il percorso altrui. Bosco fitto e nero: mi sorpassa ancora una persona, faccio strada; ne resta dietro un'altra, ma non mi supera... E' Roberto, che farà da scopa per il primo tratto di gara. Oh, benissimo, almeno avrò qualcuno con cui chiacchierare.
L'altro concorrente che resta più o meno insieme a me è Riccardo, il responsabile della sponsorizzazione, in qualità di rappresentante della celebre marca di materiale da montagna: è al suo battesimo nella corsa in montagna; ha il sogno di finire la corsa... Ma guarda, proprio come me! Inutile dire che attacchiamo subito bottone; tanto, la nostra andatura e la pendenza, per ora non proibitiva, ce lo permette. Anzi: il tratto iniziale mi sembra un'unica, interminabile discesa, in mezzo a betulle, cespugli di rovi, prati, sentieri che sembrano tracciati adesso, apposta. In qualche punto, ci informa Roberto, è proprio così; il sentiero è stato riaperto e sistemato apposta per il trail, dopo anni ed anni di inutilizzo. Più avanti, però.
Dove posso, dove la traccia tende alla discesa ma dolce, corro: badando a non esagerare ed a non rischiare una caduta stupida, lavorando di bastoncini. Riccardo mi segue: ha deciso che per oggi sarò il suo riferimento, in virtù della mia "esperienza"... Beh, insomma: un po' di esperienza sì, a questo punto credo di averla accumulata, ma davvero non mi sento in condizione di insegnare niente a nessuno! La lotta contro il tempo massimo non è esattamente la migliore strategia di gara possibile...
Gli infiniti ghirigori in mezzo al bosco mi fanno perdere del tutto quel poco di orientamento che ho, ma è bellissimo camminare fendendo il tappeto di foglie secche con le punte delle scarpe, ritrovarsi di tanto in tanto sul naso una foglia depositata dolcemente lì dall'autunno che avanza. Riccardo segue, corre se io corro, cammina se cammino: a dire il vero, sono un po' preoccupata, perché so bene che i tratti di corsa sono destinati a lasciare il segno sui miei muscoli, tutto sommato abbastanza allenati... Che succederà ai suoi? Vero è che Riccardo non è un novellino dello sport, tutt'altro: ma il sentiero non perdona...
Perdiamo Roberto al primo punto di rifornimento con acqua: non so se questo sia anche il primo cancello orario, ma in fondo non ha grande importanza. L'orologio, come sempre, è strumento che non mi appartiene; finché nessuno mi cattura al lazo per riportarmi indietro, significa che sono in orario e posso proseguire. Quindi ancora avanti: ormai la luce del sole comincia a far sentire il proprio calore; si annuncia una giornata da abbondanti sudate, per la mia gioia!
Riccardo ed io ci rituffiamo in mezzo al bosco, l'occhio sempre attento a seguire le tracce di vernice rosa sulle pietre, sui tronchi, dovunque sia utile indicare il percorso. Salite brevi, secche, rampe che spezzano le gambe, ed altrettanto improvvise discese, ancora al riparo del fitto della vegetazione: del percorso che ci attende, per ora, s'intuisce poco o nulla.
Riccardo ed io camminiamo di gran carriera, quando una voce ci richiama: "Ehi, io sono la scopa!". Un tornante sotto di noi, vediamo arrivare di corsa un signore che evidentemente ha qualche lustro più di me sul groppone... Ma ha gambe molto, molto più efficienti delle mie! "Ho aspettato al ristoro, pareva che dovessero esserci ancora due concorrenti dietro di voi, invece non era vero... Credevo che non vi avrei più raggiunti!". Cavoli, con quel passo lì, due lumache come noi le si acchiappa senza problemi. Scopriremo poi, chiacchierando, che il nostro custode si chiama Ettore, ha la bellezza di settant'anni – gliene avrei dati dieci di meno – e nella vita ha fatto più o meno di tutto: dalla corsa in montagna all'alpinismo, con una marea di salite illustri, ultima il Monte Bianco, e con la Punta Doufour già in canna per la prossima stagione. Come se non bastasse, ci trotta accanto senza fatica, eppure ha una gamba arricchita di svariati chiodi e placche... E l'altra che ha subito lo stesso trattamento qualche anno prima. Che personaggio! Ascoltare i suoi racconti mi fa perdere la nozione del luogo e del tempo. Poche cose mi attraggono più di un paesaggio ed un percorso affascinante: tra queste, una vita affascinante, come la sua. E narra d'aver cominciato a correre a trentotto anni... Guai se si fosse cimentato prima!
Attraversiamo piccole frazioni e vigneti dall'aspetto un po' patito; non riesco a trattenermi dal rubacchiare un grappolino d'uva... Ma, per tacitare la coscienza che protesta, scelgo il più piccolo e macilento che trovo. Di lì a poco, attingo per la prima volta della giornata alla mia riserva chimica. Già: la mezza maratona di venerdì sera, mi duole ammetterlo, ha lasciato il segno; i muscoli dei coscioni e dei polpacci sono tesi, danno fastidio; è quell'orrenda sensazione che, di lì a poco, si contraggano e si blocchino del tutto. Non so se questo possa accadere davvero, ma non ho alcuna voglia di far l'esperimento, non adesso: quindi, scavo convulsamente nel microzaino, ovvio senza fermarmi, e, dopo qualche peripezia, ne estraggo la bustina trasparente che contiene il mio corredo farmaceutico da corsa. Gli "aiutini", come li definisce qualche grillo parlante. Qualcuno che, a sentirmi dire che ricorro alla chimica per portare a termine le mie mattane, sia in gara che no, s'indigna, grida al doping ed esclama: "Eh ma così è facile!". Eh sì, caro il mio genio, così è proprio facile... Provaci tu, guarda, ti cedo il mio sacchettino magico; provaci tu, a prender pastiglie e poi mettere insieme altrettanti km, altrettanto dislivello, giorno dopo giorno. Poi, quando arrivi alla fine, ne riparliamo. Ma sì Gian, lascia perdere, il mondo è pieno di gente convinta di sapere cosa sia giusto e morale per gli altri; probabilmente non ha un concetto così chiaro per se stesso, ma questa è un'altra storia. Giù una capsula di Muscoril: meno di mezz'ora dopo, la vita mi sorride, soprattutto, le gambe si rilassano, anche se la salita di Belmonte mi costa un po' di fatica in più, perché il cuoricino si "addormenta" per qualche tempo. Io di medicina non capisco nulla, ma si tratta di un farmaco che rilassa i muscoli e, per quanto ne so io, anche il cuore è un muscolo. Almeno, così mi pare di ricordare dai pochi, disastrosi studi di biologia delle scuole medie e superiori.
"Credo che si debba andare lassù", dico a Riccardo indicando una chiesetta bianca contro il cielo, sopra le nostre teste, approfittando dello squarcio di panorama che si vede mentre passiamo su strada asfaltata. Poi ci rituffiamo nel bosco e su per una salita ardua, ripida, ove i cartelli di legno indicano la "Via pedonale al Santuario di Belmonte". Bosco, terra e placche di roccia; pietroni enormi, tondeggianti, che mi ricordano un po' le prese avvitate al muro nell'unica palestra di arrampicata che abbia mai frequentato, a Pollenzo: qui potrebbe essere posto da boulder! Riccardo è un po' in affanno, silenzioso, ma segue. Pur essendo tutt'altro che pingue, è di corporatura robusta, alto; su per queste pendenze, invece, farebbe comodo somigliare ad attaccapanni ambulanti, ma non è il nostro caso. Spuntiamo in vetta, da buoni ultimi, tra gli applausi dei volontari del punto di controllo; gentilissimi come sono, mettono entusiasmo ed una parola di incoraggiamento proprio per tutti!
Ripartiamo subito giù per la scalinata; poveretto, al mio collega non lascio nemmeno dieci secondi di tregua. D'altronde, per me è più che mai vero, nei trail, che chi si ferma è perduto: le gambe si inchiodano subito.
Una freccia disegnata su una pietra sembra indicare, al bivio, la direzione a sinistra: così pensiamo tutti, anche Ettore, la scopa. Solo che poi, cammina cammina, di segni colorati non de ne vede più; solo un tappeto di cocci di bottiglia, uno spettacolo barbaro, per decine di metri di sentiero, e ancora bosco, alberi che crescono con le radici conficcate tra due massi enormi, tanto da non capire come facciano a trarre il nutrimento e la stabilità. No, questa non può essere la strada giusta: probabilmente, la freccia è stata fatta su una pietra che poi la massa dei corridori ha mosso e spostato. Si torna indietro: Ettore di corsa, in avanscoperta; Riccardo ed io al passo, per conservare in noi ogni stilla di energia. Abbiamo da poco superato il km 20; ne mancano ancora 35; meglio non fare i furbi. Il nostro custode si cosparge il capo di cenere per l'errore; ma no, che importanza ha? Non saranno cinque minuti di ritardo a cambiare la vita ed il destino della gara...
Al bivio, imbocchiamo questa volta la direzione giusta. Discesa: la attacchiamo di buona lena, giù di corsa e... In un attimo, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovo con il didietro a terra. Un secondo per realizzare cosa sia successo, mi rialzo, sento un gran bruciore alla mano sinistra: con orrore mi accorgo che, sentendomi scivolare, devo avere istintivamente buttato le mani indietro a parare il volo; peccato che la sinistra sia finita proprio di peso, il peso del corpo in caduta, sullo spuntone di una pianta recisa alla radice. Non ci voglio pensare, tiro dritto, riparto... Ma un attimo dopo, la mano è coperta di sangue. Cavolo che bel buco. A questa vista, le gambe vacillano. Non è il dolore, ma quello che in piemontese si chiama "sgiai"... Insomma, a me il sangue fa impressione! Mi abbatto a sedere per terra, mentre i miei due fidi compagni prendono in mano la situazione: Ettore estrae dallo zaino il cerotto e la valigetta del pronto soccorso; Riccardo rivela doti eccellenti di infermiere; in un attimo, mi ritrovo la mano fasciata come un salame. Efficientissimi! Se non altro, ora non sanguina più; al problema di disinfettarmi e valutare la necessità dei punti, penserò alla fine della gara, cioè tra sette o otto ore, non importa.
Riprendo la marcia mangiando un po' di miele per superare il senso di brivido e vertigine che mi dà la vista del sangue; la mano fa male, brucia, e reggersi sul bastoncino da qui in poi sarà un bel divertimento. Via, di corsa, s'è già perso anche troppo tempo, per colpa della mia imbecillità... Ancora una volta usciamo dal bosco e ci troviamo in quello che sembra un fondovalle, anche se non ho un'idea precisa di dove ci troviamo. Ettore indica una costruzione lassù, in alto, leggermente a sinistra; vedo una macchia bianca, dev'essere quella, la costruzione in località Mares. Mamma mia quanto sembra lontana: probabilmente, lo è sul serio.
Si riprende a salire, alternando tratti molto ripidi su sentiero a percorso su strada sterrata. Finalmente, dopo venticinque km mal contati, le gambe sembrano voler entrare a regime: imbocco la salita di buon passo, anche se poi rischio un paio di volte di sbagliare strada. Per capire che c'è un sentiero, in alcuni punti, bisogna davvero lavorare di fantasia: una traccia impercettibile tra l'erba ed il fango. Nel momento in cui devio su uno dei miei percorsi immaginari, Riccardo passa avanti; correggo la traiettoria, seguo: è in quel momento, quando mi accorgo che trovo difficoltà a procedere ad un passo appena più lento di quello che terrei io, che scatta qualcosa. Il turbo... Anche se, nel mio caso, parlare di "turbo" fa un po' ridere, un po' tanto. Azzardo un complicato sorpasso e tento di allungare: non certo perché voglia lasciare Riccardo indietro, e ci mancherebbe, ma solo perché le gambe lo chiedono.
Il sentiero ripido, tagliati alcuni tornanti della strada sterrata, ci si reimmette. E' qui che il mio collega di sventure, con cui già un bel po' di km fa si è discusso degli stratagemmi per evitare o limitare i dolori muscolari, attinge pure lui alla mia riserva chimica: ecco, lo sapevo, è un novizio ed io l'ho già traviato... Procedo al mio ritmo; raggiungo il punto di controllo poco oltre: cavoli, ma qui ci sono presidi ovunque! Questo trail ha mobilitato un vero e proprio esercito di persone... Cappella Bioletto: le bottiglie di vino ed i pentoloni non sono per noi, che corriamo, per regolamento, in semi-autosufficienza. Ci butto un occhio con languore, ma capisco subito che non c'è trippa per gatti. In compenso c'è la fontana. Pieno all'unica borraccia che mi è rimasta: l'altra l'ho ceduta al collega rimasto a secco, ma non è un problema; per fortuna non ho mai gran sete. Chiedo un pezzetto di nastro adesivo per fissare la fasciatura sulla mano: fantastico, c'è anche quello! Un bel pezzo di nastro nero e via, abile ed arruolata.
Riparto di gran carriera mentre Ettore e Riccardo giungono alla fontanella: confesso che un po' mi sento colpevole e carogna a lasciare indietro il novizio che si è fidato di me... Ma devo approfittare del momento positivo, i muscoli scalpitano!
Strada sterrata, sole finalmente caldo, caldissimo, anche perché qui la vegetazione si fa meno fitta. Pietre e sabbia chiara, tornanti, pendenza severa. Procedo a testa bassa, passo regolare, scaricando tutto il peso possibile sui bastoncini; non mi sfuggono, però, le more: le più belle valgono bene due secondi di pausa per raccoglierle ed incamerarle. Con mia grande sorpresa, raggiungo un altro corridore, poi un altro ancora: allora, anche questa volta, non ho sbagliato, quando, in partenza, esortavo Riccardo a non preoccuparsi: "Vedrai che, sulla salita, qualcuno lo acchiappiamo...". Qualche esitazione in corrispondenza di un bivio: in effetti, forse un paio di tacche di vernice in più non sarebbero state sgradite. Procedo qualche metro: "E' giusto!", strillo ai due colleghi che seguono un po' dubbiosi: poi riparto. Ancora salita: la pendenza si fa un po' più dolce, il panorama si apre sull'intera vallata; intorno a me ora solo più rocce e prati. In effetti, tocca passare su un paio di cocuzzoli rocciosi; la costruzione in località San Bernardo di Mares, dove dovrei trovare il prossimo punto di ristoro, si vedeva un attimo fa, neppure troppo lontana, ma ora è sparita dietro le due piccole cime. Come sempre, non ho guardato l'altimetria con la dovuta attenzione, prima del via; però, se la salita più lunga nonché la vetta più alta è il Monte Soglio, direi che questa salita che sto percorrendo ora è appunto il Soglio. In effetti, adesso che ci penso, Ettore qualche ora fa ha detto che, dalla località Mares, il Soglio non dista più molto.
Qui non si sale più molto; su e giù, su e giù, cosa che le mie gambe, offese e rancorose per l'affronto della mezza maratona, non gradiscono affatto. Chissà dove s'è nascosta la costruzione che avevo visto poc'anzi? Non ho capito cosa fosse, se un rifugio o una chiesetta; più probabile la seconda ipotesi, a giudicare dal nome. Ancora un lungo traverso in leggera salita, attraverso il pendio: lassù in alto spunta la sagoma di una persona; mi sa che ci sono quasi. Non che abbia bisogno di un punto di ristoro, ma è pur sempre una tappa intermedia.
Quando supero lo scalino di pietre, spunto su un pianoro: c'è un sacco di gente qui! E c'è il banchetto delle vettovaglie, dove, con somma goduria, ottengo non uno ma due bicchieri di Coca Cola dai due gentilissimi fanciulli che presidiano il tavolino. Acchiappo anche una crostatina ed un po' di frutta secca, che sbocconcello poi lungo il sentiero. Ormai credo d'aver messo a fuoco il Monte Soglio: è quel panettone proprio davanti a me, spoglio e severo, incappucciato da minacciose nubi che salgono a gran velocità. Il sentiero, qui, procede quasi in piano e quasi in cresta; tira un vento dannato, gelido, che appiccica alla pelle la maglia bagnata. Ecco, lo sapevo: scommetto che lassù mi ritroverò immersa nella nebbia. Pazienza, non è che sia poi quel gran dramma, ma un raggio di sole sarebbe stato di conforto...
Approfitto del sentiero pianeggiante per armeggiare un po' con il mio bagaglio: indosso il gilet per riparare un po' il torace e soprattutto la gola; mi maledico per aver lasciato a casa la bandana, che mi avrebbe protetto un po' le orecchie; arraffo per la seconda volta la mia scorta chimica: speriamo che mezza bustina basti a far passare l'indolenzimento ai muscoli. Che piattola sono: quando sento che le gambe si induriscono, mi preoccupo, già mi vedo ferma su qualche sasso in preda ai dolori. Almeno, così, passa tutto e non ci penso più.
Un altro bivio dubbio: mi aiuta l'urlo di un escursionista, che ha già incontrato gli altri corridori e sa qual è la giusta direzione. Sempre dritto! Finché, dietro un costone della montagna, compare il Soglio in tutta la sua imponenza. Si intuiscono due sentieri che ne risalgono la cima; uno piega a destra e sale dolcemente, l'altro è una rampa perfettamente dritta di fronte a me. Inutile dire qual è l'itinerario corretto...
Comincio la lunga arrampicata: occhio e croce, da qui saranno trecento metri di dislivello, anche se la vetta s'è già nascosta; ci sono troppo sotto. Però, un centinaio di metri sopra la mia testa, spuntano alcune sagome, minuscole e nere: di certo sono altri sorveglianti. Salgo a passi brevissimi, misurati, frequenti; pensavo peggio, in realtà: non è così mostruosamente ripido come si annunciava, questo sentiero, che più che un sentiero sembra il percorso da cui l'acqua cola verso valle. Mirtilli ovunque: ai più grossi e succosi lancio una caccia spietata, gara o non gara. Non credo d'averne lasciato indietro nemmeno uno!
La pendenza sostenuta e regolare mi rincuora; in quattro e quattr'otto passo in mezzo al piccolo gruppo di edifici in pietra. "Ancora centosettanta metri di dislivello e c'è il ristoro con bevande calde, su in cima". Perfetto: non nego che un the caldo mi farebbe davvero piacere. Fa freddo quassù, tra vento e microscopiche goccioline d'acqua strappate alle nuvole basse. Tutto grigio intorno, le nubi, le rocce, persino il prato. Là davanti, ancora un corridore: procede lentamente, poi si ferma, riparte; quando lo raggiungo, lo incoraggio, per capire se è tutto ok. Pare di sì; il problema sono i crampi.
Ancora un po' di pazienza e di passi; supero il cocuzzolo roccioso, spunto al di là: ecco la vallata, il tavolo del punto di ristoro. Anche qui c'è un vero e proprio spiegamento di forze, tutti pronti ed in piena attività, anche per le ultime ruote del carro come me. The caldo, che sollievo; ho i brividi quassù. E frutta secca, zucchero, cioccolato. "Siamo al km 36". Perfetto,questa sì che è una bella notizia, anche perché io ero convinta di essere più o meno al trentesimo. Discesa: su sentiero stretto e sconnesso, verso quel che resta di un gruppo di baite, poi tutto a sinistra. Sullo sfondo, una città, non so quale, ma molto lontana da qui. Attraverso i pascoli a zig zag, giù per questa rotaia di terra: vorrei provare a correre, accenno qualche passo più veloce, ma il ricordo del volo di qualche ora fa è ancora vivo, la mano pulsa e fa male; sarebbe opportuno, se possibile, evitare il bis. Lavoro di bastoncini, questa volta non per scaricare peso ma per soccorrere il mio precario equilibrio. Sotto una roccia, seduti in paziente attesa, altri due controllori; altri ancora, tre, più avanti.
Il sentiero è ostico ancora per un lungo tratto: una tribolazione senza fine, per me che spesso devo fermarmi, studiare un momento il salto, appoggiare i bastoncini, muovermi con ogni cautela, neanche avessi scritto sulla schiena "Fragile – Maneggiare con cura". Mi sento un pachiderma. Di lì a poco, mi raggiunge e mi supera il corridore che ho sorpassato negli ultimi metri di salita al Soglio: va giù spedito, qualche centinaio di metri avanti a me. Procedo sotto gli occhi incuriositi delle mucche, implorando la fine dell'agonia, mentre giù a fondovalle si delineano più precise le sagome dei palazzi e delle strade in città. Quanti condominii... Non posso fare a meno di chiedermi se per caso abbiano bisogno di un amministratore!
Un colpo di tuono, lungo, cupo, mi riporta alla realtà: mi volto, guardo in su. La vetta del Soglio è stata inghiottita da una coltre di nubi dense, scure; non vorrei essere nei panni di chi arriva lassù adesso, né in quelli dei volontari che lassù ci devono proprio restare. Speriamo che il temporale non s'allarghi: beh, in ogni caso, se anche decidesse di farlo, ormai la Cima Coppi è alle spalle.
Salti, asperità, roccette finiscono giù in una radura: si passa su una bella strada sterrata, dove finalmente posso correre anch'io. Infatti corro, anche se la mia corsa si risolve in un incedere appena appena più veloce della camminata, un po' strascicato. Raggiungo il collega, di cui non conosco il nome: gli chiedo dei crampi, pare stia meglio, ma patisce un po' la distanza. Dai, che a questo punto si arriva alla fine, con le unghie e con i denti! Intanto, arriviamo ad un tornante, dove la padrona della casa attigua ha allestito un meraviglioso ristoro fai da te: acqua di fonte, un'enorme caffettiera, un sacchetto di prelibati torcetti ed un po' di zucchero. Come non rendere onore a tanta abbondanza? Il caffé, poi, è la mia vita... L'altro corridore decide di approfittare della sosta un po' più a lungo; io ringrazio e riparto subito. Ancora un bel tratto di corsa lungo la strada, poi un bivio, anche qui presidiato da due persone. Se avessi contato i volontari incontrati finora, credo che avrei già superato il centinaio! Su quaranta km ad occhio e croce messi nel sacco fin qui, non è male, affatto.
Passo accanto ad una fonte, mi sciacquo il viso; un signore intento a rivoltare l'erba tagliata nel prato mi chiede dove andrà a passare la gara: mi chiede di un mulino... Ma io casco dalle nuvole, non so nulla. Tutto quel che so è che, da qui, potrà mancare una quindicina di km. Ancora discesa, si torna in mezzo alla vegetazione. Incontro l'ennesimo presidio: uno degli assistenti mi chiede cos'abbia fatto al naso... Il naso? Perché, cos'ha il mio naso che non va? Porto le dita alla faccia: sanguina... Oh ma cavoli, possibile? Se continuo così, oggi finirò per aver bisogno di una trasfusione! Ringrazio Giancarlo – proprio così, è lui a notare l'omonimia – e tiro dritto, cercando di fermare il sangue e di ripulirmi alla bell'e meglio con un fazzoletto di carta e l'acqua della borraccia. Che strano: per me una cosa del genere è un caso più unico che raro... Da mettere insieme alla febbre alta della settimana appena passata, ai problemi de panza annessi e connessi? Avrò mica preso qualche brutta malattia? Eppure ultimamente ho imparato a guardare ma non toccare... E poi le analisi Fidas, tra l'altro recentissime, alla voce "malattie veneree" davano esiti negativissimi! Tiro dritto sorridendo... Occhio Gian, basta con le boiate, qui tocca fare attenzione, altrimenti voli. Il sentiero prende una pendenza a dire poco esagerata; in alcuni punti, in piedi non si può proprio restare: complice il fondo di terra morbida e friabilissima, l'unico modo per mantenere un minimo di equilibrio è poggiare la pianta del piede, di taglio, e lasciare che il corpo frani insieme al terriccio. Mentre mi destreggio malamente in simili evoluzioni, sento dal folto del bosco delle voci e qualche abbaio: qui l'assistenza è davvero capillare, c'è gente ovunque. Anche perché il sentiero, benché segnalato, non è sempre così intuibile.
Vari smottamenti ed un paio di culate dopo, approdo ancora una volta ad una strada sterrata. Corricchio, attraverso un torrentello, mi fermo un attimo per dare una parvenza di umanità alla faccia; in corrispondenza di un bivio, incontro due corridori che vanno in senso inverso al mio: ma... Che succede? Uno dei volontari, a presidio del bivio, mi dice che devo proseguire a sinistra e che poi ripasserò qui, in questo stesso punto, arrivando da destra. Eppure io sento nitida la voce dell'altoparlante... Ma dove diavolo mi trovo? Che razza di giro mi tocca fare? Continuo a correre, ma in testa s'affollano mille pensieri angoscianti. Non è possibile: se l'arrivo è così vicino da sentirne le voci, significa che da qualche parte devo aver sbagliato strada; io sono sicura che, dopo il Soglio, il tragitto della gara prevede ancora una salita... Non capisco più nulla: solo più tardi, alla fine delle mie fatiche, mi renderò conto che in questo punto sono esattamente sopra la frazione Milani, ma che me ne sto allontanando per andare a percorrere ancora un anello, quello del Mulino Val. Ecco da dove spuntava il mulino a cui accennava il contadino...
La discesa è infinita. La strada muore in un sentiero che attraversa il più fitto del fitto del bosco, tra ortiche, rovi e rami che pendono ovunque, graffiano la faccia; è buio e si sente solo il fragore del torrente. Poi, d'improvviso, alcune case: una frazione, persone lungo la strada che salutano ed incoraggiano. Ancora sentiero, e strada sterrata, ancora corsa: mi stupisco di quanto a lungo io riesca a reggere quest'andatura. Ormai è un po' che trotto! E mi sento di averne ancora per macinare un bel po' di strada, anche se, in un attimo di distrazione, a momenti mi spiaccico per terra, a dispetto della facilità elementare della strada sterrata.
Bivio a destra, anche qui festa grande: un gruppo di anziani mi festeggia, mi incoraggia. "Dai che ci arrivi sicuro ai Milani!". Ci potete scommettere... Ormai, a questo punto, non mi ferma nemmeno una scarica di pallettoni da cinghiale! Tiro dritto con il sorriso che si allarga da un orecchio all'altro, quello che spunta quando sai che ormai ce l'hai fatta. Mangiucchio un pezzo di barretta: sopra la mia testa, sulla sinistra, sorge la torre di un mulino. E' proprio un mulino a vento, come quelli che appaiono sulle fotografie dell'Olanda! Che bello!
La salita riprende secca oltre il ponticello sul fiume; poco sentiero, solo per tagliare un paio di curve, e poi si sale su per la sterrata. Le ombre sono nette, lunghe; chissà che ora può essere? Non ne ho idea. Cammino e cammino: solo la fame, per ora, dà un po' di noia. Sempre il solito errore: ho cominciato a mangiare troppo tardi, mentre avrei già dovuto pensarci prima, pur non avendo fame. Adesso, il meglio che io possa fare è attaccarmi al miele, per far passare la fiacca in fretta.
Con passo lento ma poca fatica, mi ritrovo proprio sotto il mulino: c'è un balconcino, una persona affacciata. Oltre la curva, un altro banchetto del ristoro: anche qui, volontari carichi di entusiasmo ed allegria a dire poco contagiosi. Coca Cola ed una crostatina: e meno male che il regolamento parlava di semi-autosufficienza! Qui ci rimpinzano come oche da foie-gras!
Riparto con calma, per sbocconcellare la crostatina senza disperdere preziose briciole ovunque. Si sale ancora, sempre lungo la sterrata; intorno solo arbusti e cespugli. La terra bianca riverbera ancora la luce. Poi un lungo tratto pianeggiante e, sempre in lontananza, l'eco dell'altoparlante. Io ormai rinuncio a capire. Sembra vicinissimo... Ancora uno strappo in salita; raggiungo altri due concorrenti: un po' stupiti per la mia foga, mi dicono che mancano sei chilometri. Sei chilometri... Ma è niente! Ancora sentiero, ancora leggero saliscendi: corro dovunque possibile, tanto ormai non ho più bisogno di conservare le forze e le gambe. Devo solo provvedere ad evitare di sfasciarmi un'altra volta. Raggiungo una cappella in mezzo alla vegetazione ora folta e verdissima, sempre più man mano che si scende; di qui il sentiero è strettissimo, tortuoso, un vero attentato al mio precario equilibrio. Nella foga, in qualche punto mi appoggio malamente al bastoncino con la mano sinistra... Una fitta, un paio di santi abbattuti con mira perfetta, sempre avanti. Quel maledetto altoparlante mi dà alla testa, giuro che se lo acchiappo lo sbriciolo! Ora sono nel folto del bosco e non vedo più nulla oltre ai pochi metri di sentiero davanti a me. Curve, discesine e strappi, ancora bivi. Incontro un paio di viandanti che mi chiedono quanta gente ci sia ancora dietro: se non ho sbagliato il conto, direi sei persone.
D'improvviso mi ritrovo allo stesso crocevia che ho superato un po' di tempo fa, non saprei dire quanto: ritrovo infatti lo stesso volontario. Un chilometro ancora ed è fatta: parto al trotto, anche se la prima blanda risalita smorza bruscamente il mio entusiasmo. Chissà che ora è. Tardo pomeriggio, di certo. Di gran carriera, supero altri due autoctoni, prodighi anche loro di applausi e complimenti: un attimo dopo, mi ritrovo sull'asfalto; poche decine di metri e posso dire che, anche per oggi, mi sono guadagnata la pagnotta. Anzi, non la pagnotta bensì il salamotto. Infatti, la medaglia di partecipazione consiste in un piccolo tagliere di legno a cui è legato un salamino.
Ed anche questa è fatta: 11h 11', leggo sul tabellone orario del cronometraggio. Una sfilza di numeri 1, sarà forse un presagio? Tiro un sospiro di sollievo: ho ingiustamente dubitato del freno a mano della Opel, che non s'è mossa dal punto in cui l'ho lasciata. Mi cambio alla bell'e meglio, mi asciugo: oggi, poi, cedo alla tentazione della pasta. Saggia decisione, perché il piattone che mi si materializza davanti agli occhi è ghiotto ed abbondante. Sparisce in un attimo, vittima della furia delle ganasce: poco ci manca che non mi spazzoli anche il piatto di plastica...
Soddisfatta la voglia di una bella giornata, con un gioiellino di gara riuscita in modo eccellente benché si trattasse di una prima edizione; soddisfatto anche il bruto appetito, a suon di penne con un ottimo sugo, mi rimetto al volante e riparto, mentre ancora qualcuno arriva di corsa tra gli applausi della piccola ma festosa folla. Il salamino non lo mangerò io: tra un paio d'ore sarà da me, reduce da un giro in bici oltralpe, la ben nota idrovora genovese... Sono pronta a scommettere che gradirà!
In alternativa, speriamo che presto arrivi qualcun altro a lasciare l'auto dietro di me, e che il suo freno a mano, alla bisogna, riesca a sopportare l'impatto. Mi spiacerebbe dover recuperare l'auto giù a Forno... L'eterno dramma del parcheggio, un dramma dai mille volti.
C'è già un po' di movimento qui intorno, anche se mancano ancora dieci minuti alle cinque. Partire da casa alle tre e mezza è stata un'esagerazione: il guaio è che non avevo un'idea precisa di quanto avrei impiegato a raggiungere Forno Canavese, né di quanto avrei tribolato, da lì, per scovare la frazione Milani. Rintracciare le frazioni può essere impresa improba, a volte. In effetti, in questo caso, avrebbe potuto essere così: da Forno Canavese, tocca arrampicarsi su per un buon numero di tornanti, prima di arrivare ai Milani, ed azzeccare almeno un paio di rotonde. Ma una buona organizzazione di gara si vede già da questo... All'ingresso di Forno, le indicazioni per il trail, insieme agli striscioni rossi dello sponsor, The North Face, non lasciavano dubbi sulla direzione da seguire; così alla prima, alla seconda rotonda e su per la salita. In quattro e quattr'otto sono arrivata fin qui.
Il tendone bianco è già illuminato; provo ad avvicinarmi e fare capolino: alla peggio, sarò cacciata con ignominia. Invece no: Roberto, il boss dell'intera baracca, è già all'opera al banchetto della distribuzione dei pettorali. Lo riconosco, perché è lui a riconoscere me; del resto, ormai sono come la gramigna, spunto ovunque, quando so che c'è una corsa interessante da qualche parte... Sono famigerata!
Me ne torno alla Opel, a due passi dal tendone, con il pacco gara: dentro c'è il pettorale, il chip, una bella borraccia ed una maglietta tecnica entrambe a marchio The North Face. Ecco cosa significa avere la fortuna, o l'arguzia, o entrambe le doti, per conquistare l'attenzione di uno sponsor importante!
A questo punto, potrei anche provare a recuperare un po' di sonno, visto che sono qui e manca un'ora e mezza al via. Mi stendo in auto, ma di dormire non c'è verso: i miei occhi seguono tutto ciò che si muove al chiaro dei fari che illuminano la piazza; i concorrenti che si avvicinano al tendone alla spicciolata, le mani dei volontari che s'ingegnano a comporre l'intelaiatura di un gazebo. Chissà la gioia degli abitanti della frazione... Tocca loro la sveglia anticipata, che piaccia o no.
Una settantina di iscritti, se non ricordo male, con qualche nome illustre; ottima partenza per la prima edizione del Trail del Monte Soglio. 55Km e 3.100 m di dislivello: i numeri promettono bene. Veloce controllo del materiale obbligatorio, giacca, riserva d'acqua, e mi ritrovo in griglia, in paziente attesa del via. E' ancora buio pesto e dubito che la situazione cambierà molto nei prossimi dieci minuti... Beh, pazienza, spero di riuscire a non sbagliare subito strada. Lo zainetto oggi è minuscolo: solo la giacca impermeabile, il miniportafoglio, il cellulare, rigorosamente spento, la busta dei medicinali e l'immancabile rotolo di papier de cul. Ah sì, anche qualche barretta. Del resto, dovrei cavarmela entro la giornata: e, se così non fosse, significherebbe che sono guai!
Quattro parole con i concorrenti accanto a me; non mi sento per nulla tesa né agitata, sono tranquilla come un Buddha ed assonnata come un discotecaro che rincasa all'alba. Il conto alla rovescia per la partenza mi coglie di sorpresa, mentre scruto il cielo alla ricerca di un po' di chiarore e trovo solo una marea di stelle. Via: venti metri di corsa e subito passo, perché la strada sale già. Poco asfalto, poi sentiero e strada sterrata: nel giro di due minuti, scompaiono tutti, o quasi, ed io rimango sola nel nulla eterno. In mezzo al bosco, fatico a mettere a fuoco il sentiero e, di conseguenza, non riesco a procedere con passo sicuro; addio alla speranza di poter seguire il percorso altrui. Bosco fitto e nero: mi sorpassa ancora una persona, faccio strada; ne resta dietro un'altra, ma non mi supera... E' Roberto, che farà da scopa per il primo tratto di gara. Oh, benissimo, almeno avrò qualcuno con cui chiacchierare.
L'altro concorrente che resta più o meno insieme a me è Riccardo, il responsabile della sponsorizzazione, in qualità di rappresentante della celebre marca di materiale da montagna: è al suo battesimo nella corsa in montagna; ha il sogno di finire la corsa... Ma guarda, proprio come me! Inutile dire che attacchiamo subito bottone; tanto, la nostra andatura e la pendenza, per ora non proibitiva, ce lo permette. Anzi: il tratto iniziale mi sembra un'unica, interminabile discesa, in mezzo a betulle, cespugli di rovi, prati, sentieri che sembrano tracciati adesso, apposta. In qualche punto, ci informa Roberto, è proprio così; il sentiero è stato riaperto e sistemato apposta per il trail, dopo anni ed anni di inutilizzo. Più avanti, però.
Dove posso, dove la traccia tende alla discesa ma dolce, corro: badando a non esagerare ed a non rischiare una caduta stupida, lavorando di bastoncini. Riccardo mi segue: ha deciso che per oggi sarò il suo riferimento, in virtù della mia "esperienza"... Beh, insomma: un po' di esperienza sì, a questo punto credo di averla accumulata, ma davvero non mi sento in condizione di insegnare niente a nessuno! La lotta contro il tempo massimo non è esattamente la migliore strategia di gara possibile...
Gli infiniti ghirigori in mezzo al bosco mi fanno perdere del tutto quel poco di orientamento che ho, ma è bellissimo camminare fendendo il tappeto di foglie secche con le punte delle scarpe, ritrovarsi di tanto in tanto sul naso una foglia depositata dolcemente lì dall'autunno che avanza. Riccardo segue, corre se io corro, cammina se cammino: a dire il vero, sono un po' preoccupata, perché so bene che i tratti di corsa sono destinati a lasciare il segno sui miei muscoli, tutto sommato abbastanza allenati... Che succederà ai suoi? Vero è che Riccardo non è un novellino dello sport, tutt'altro: ma il sentiero non perdona...
Perdiamo Roberto al primo punto di rifornimento con acqua: non so se questo sia anche il primo cancello orario, ma in fondo non ha grande importanza. L'orologio, come sempre, è strumento che non mi appartiene; finché nessuno mi cattura al lazo per riportarmi indietro, significa che sono in orario e posso proseguire. Quindi ancora avanti: ormai la luce del sole comincia a far sentire il proprio calore; si annuncia una giornata da abbondanti sudate, per la mia gioia!
Riccardo ed io ci rituffiamo in mezzo al bosco, l'occhio sempre attento a seguire le tracce di vernice rosa sulle pietre, sui tronchi, dovunque sia utile indicare il percorso. Salite brevi, secche, rampe che spezzano le gambe, ed altrettanto improvvise discese, ancora al riparo del fitto della vegetazione: del percorso che ci attende, per ora, s'intuisce poco o nulla.
Riccardo ed io camminiamo di gran carriera, quando una voce ci richiama: "Ehi, io sono la scopa!". Un tornante sotto di noi, vediamo arrivare di corsa un signore che evidentemente ha qualche lustro più di me sul groppone... Ma ha gambe molto, molto più efficienti delle mie! "Ho aspettato al ristoro, pareva che dovessero esserci ancora due concorrenti dietro di voi, invece non era vero... Credevo che non vi avrei più raggiunti!". Cavoli, con quel passo lì, due lumache come noi le si acchiappa senza problemi. Scopriremo poi, chiacchierando, che il nostro custode si chiama Ettore, ha la bellezza di settant'anni – gliene avrei dati dieci di meno – e nella vita ha fatto più o meno di tutto: dalla corsa in montagna all'alpinismo, con una marea di salite illustri, ultima il Monte Bianco, e con la Punta Doufour già in canna per la prossima stagione. Come se non bastasse, ci trotta accanto senza fatica, eppure ha una gamba arricchita di svariati chiodi e placche... E l'altra che ha subito lo stesso trattamento qualche anno prima. Che personaggio! Ascoltare i suoi racconti mi fa perdere la nozione del luogo e del tempo. Poche cose mi attraggono più di un paesaggio ed un percorso affascinante: tra queste, una vita affascinante, come la sua. E narra d'aver cominciato a correre a trentotto anni... Guai se si fosse cimentato prima!
Attraversiamo piccole frazioni e vigneti dall'aspetto un po' patito; non riesco a trattenermi dal rubacchiare un grappolino d'uva... Ma, per tacitare la coscienza che protesta, scelgo il più piccolo e macilento che trovo. Di lì a poco, attingo per la prima volta della giornata alla mia riserva chimica. Già: la mezza maratona di venerdì sera, mi duole ammetterlo, ha lasciato il segno; i muscoli dei coscioni e dei polpacci sono tesi, danno fastidio; è quell'orrenda sensazione che, di lì a poco, si contraggano e si blocchino del tutto. Non so se questo possa accadere davvero, ma non ho alcuna voglia di far l'esperimento, non adesso: quindi, scavo convulsamente nel microzaino, ovvio senza fermarmi, e, dopo qualche peripezia, ne estraggo la bustina trasparente che contiene il mio corredo farmaceutico da corsa. Gli "aiutini", come li definisce qualche grillo parlante. Qualcuno che, a sentirmi dire che ricorro alla chimica per portare a termine le mie mattane, sia in gara che no, s'indigna, grida al doping ed esclama: "Eh ma così è facile!". Eh sì, caro il mio genio, così è proprio facile... Provaci tu, guarda, ti cedo il mio sacchettino magico; provaci tu, a prender pastiglie e poi mettere insieme altrettanti km, altrettanto dislivello, giorno dopo giorno. Poi, quando arrivi alla fine, ne riparliamo. Ma sì Gian, lascia perdere, il mondo è pieno di gente convinta di sapere cosa sia giusto e morale per gli altri; probabilmente non ha un concetto così chiaro per se stesso, ma questa è un'altra storia. Giù una capsula di Muscoril: meno di mezz'ora dopo, la vita mi sorride, soprattutto, le gambe si rilassano, anche se la salita di Belmonte mi costa un po' di fatica in più, perché il cuoricino si "addormenta" per qualche tempo. Io di medicina non capisco nulla, ma si tratta di un farmaco che rilassa i muscoli e, per quanto ne so io, anche il cuore è un muscolo. Almeno, così mi pare di ricordare dai pochi, disastrosi studi di biologia delle scuole medie e superiori.
"Credo che si debba andare lassù", dico a Riccardo indicando una chiesetta bianca contro il cielo, sopra le nostre teste, approfittando dello squarcio di panorama che si vede mentre passiamo su strada asfaltata. Poi ci rituffiamo nel bosco e su per una salita ardua, ripida, ove i cartelli di legno indicano la "Via pedonale al Santuario di Belmonte". Bosco, terra e placche di roccia; pietroni enormi, tondeggianti, che mi ricordano un po' le prese avvitate al muro nell'unica palestra di arrampicata che abbia mai frequentato, a Pollenzo: qui potrebbe essere posto da boulder! Riccardo è un po' in affanno, silenzioso, ma segue. Pur essendo tutt'altro che pingue, è di corporatura robusta, alto; su per queste pendenze, invece, farebbe comodo somigliare ad attaccapanni ambulanti, ma non è il nostro caso. Spuntiamo in vetta, da buoni ultimi, tra gli applausi dei volontari del punto di controllo; gentilissimi come sono, mettono entusiasmo ed una parola di incoraggiamento proprio per tutti!
Ripartiamo subito giù per la scalinata; poveretto, al mio collega non lascio nemmeno dieci secondi di tregua. D'altronde, per me è più che mai vero, nei trail, che chi si ferma è perduto: le gambe si inchiodano subito.
Una freccia disegnata su una pietra sembra indicare, al bivio, la direzione a sinistra: così pensiamo tutti, anche Ettore, la scopa. Solo che poi, cammina cammina, di segni colorati non de ne vede più; solo un tappeto di cocci di bottiglia, uno spettacolo barbaro, per decine di metri di sentiero, e ancora bosco, alberi che crescono con le radici conficcate tra due massi enormi, tanto da non capire come facciano a trarre il nutrimento e la stabilità. No, questa non può essere la strada giusta: probabilmente, la freccia è stata fatta su una pietra che poi la massa dei corridori ha mosso e spostato. Si torna indietro: Ettore di corsa, in avanscoperta; Riccardo ed io al passo, per conservare in noi ogni stilla di energia. Abbiamo da poco superato il km 20; ne mancano ancora 35; meglio non fare i furbi. Il nostro custode si cosparge il capo di cenere per l'errore; ma no, che importanza ha? Non saranno cinque minuti di ritardo a cambiare la vita ed il destino della gara...
Al bivio, imbocchiamo questa volta la direzione giusta. Discesa: la attacchiamo di buona lena, giù di corsa e... In un attimo, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovo con il didietro a terra. Un secondo per realizzare cosa sia successo, mi rialzo, sento un gran bruciore alla mano sinistra: con orrore mi accorgo che, sentendomi scivolare, devo avere istintivamente buttato le mani indietro a parare il volo; peccato che la sinistra sia finita proprio di peso, il peso del corpo in caduta, sullo spuntone di una pianta recisa alla radice. Non ci voglio pensare, tiro dritto, riparto... Ma un attimo dopo, la mano è coperta di sangue. Cavolo che bel buco. A questa vista, le gambe vacillano. Non è il dolore, ma quello che in piemontese si chiama "sgiai"... Insomma, a me il sangue fa impressione! Mi abbatto a sedere per terra, mentre i miei due fidi compagni prendono in mano la situazione: Ettore estrae dallo zaino il cerotto e la valigetta del pronto soccorso; Riccardo rivela doti eccellenti di infermiere; in un attimo, mi ritrovo la mano fasciata come un salame. Efficientissimi! Se non altro, ora non sanguina più; al problema di disinfettarmi e valutare la necessità dei punti, penserò alla fine della gara, cioè tra sette o otto ore, non importa.
Riprendo la marcia mangiando un po' di miele per superare il senso di brivido e vertigine che mi dà la vista del sangue; la mano fa male, brucia, e reggersi sul bastoncino da qui in poi sarà un bel divertimento. Via, di corsa, s'è già perso anche troppo tempo, per colpa della mia imbecillità... Ancora una volta usciamo dal bosco e ci troviamo in quello che sembra un fondovalle, anche se non ho un'idea precisa di dove ci troviamo. Ettore indica una costruzione lassù, in alto, leggermente a sinistra; vedo una macchia bianca, dev'essere quella, la costruzione in località Mares. Mamma mia quanto sembra lontana: probabilmente, lo è sul serio.
Si riprende a salire, alternando tratti molto ripidi su sentiero a percorso su strada sterrata. Finalmente, dopo venticinque km mal contati, le gambe sembrano voler entrare a regime: imbocco la salita di buon passo, anche se poi rischio un paio di volte di sbagliare strada. Per capire che c'è un sentiero, in alcuni punti, bisogna davvero lavorare di fantasia: una traccia impercettibile tra l'erba ed il fango. Nel momento in cui devio su uno dei miei percorsi immaginari, Riccardo passa avanti; correggo la traiettoria, seguo: è in quel momento, quando mi accorgo che trovo difficoltà a procedere ad un passo appena più lento di quello che terrei io, che scatta qualcosa. Il turbo... Anche se, nel mio caso, parlare di "turbo" fa un po' ridere, un po' tanto. Azzardo un complicato sorpasso e tento di allungare: non certo perché voglia lasciare Riccardo indietro, e ci mancherebbe, ma solo perché le gambe lo chiedono.
Il sentiero ripido, tagliati alcuni tornanti della strada sterrata, ci si reimmette. E' qui che il mio collega di sventure, con cui già un bel po' di km fa si è discusso degli stratagemmi per evitare o limitare i dolori muscolari, attinge pure lui alla mia riserva chimica: ecco, lo sapevo, è un novizio ed io l'ho già traviato... Procedo al mio ritmo; raggiungo il punto di controllo poco oltre: cavoli, ma qui ci sono presidi ovunque! Questo trail ha mobilitato un vero e proprio esercito di persone... Cappella Bioletto: le bottiglie di vino ed i pentoloni non sono per noi, che corriamo, per regolamento, in semi-autosufficienza. Ci butto un occhio con languore, ma capisco subito che non c'è trippa per gatti. In compenso c'è la fontana. Pieno all'unica borraccia che mi è rimasta: l'altra l'ho ceduta al collega rimasto a secco, ma non è un problema; per fortuna non ho mai gran sete. Chiedo un pezzetto di nastro adesivo per fissare la fasciatura sulla mano: fantastico, c'è anche quello! Un bel pezzo di nastro nero e via, abile ed arruolata.
Riparto di gran carriera mentre Ettore e Riccardo giungono alla fontanella: confesso che un po' mi sento colpevole e carogna a lasciare indietro il novizio che si è fidato di me... Ma devo approfittare del momento positivo, i muscoli scalpitano!
Strada sterrata, sole finalmente caldo, caldissimo, anche perché qui la vegetazione si fa meno fitta. Pietre e sabbia chiara, tornanti, pendenza severa. Procedo a testa bassa, passo regolare, scaricando tutto il peso possibile sui bastoncini; non mi sfuggono, però, le more: le più belle valgono bene due secondi di pausa per raccoglierle ed incamerarle. Con mia grande sorpresa, raggiungo un altro corridore, poi un altro ancora: allora, anche questa volta, non ho sbagliato, quando, in partenza, esortavo Riccardo a non preoccuparsi: "Vedrai che, sulla salita, qualcuno lo acchiappiamo...". Qualche esitazione in corrispondenza di un bivio: in effetti, forse un paio di tacche di vernice in più non sarebbero state sgradite. Procedo qualche metro: "E' giusto!", strillo ai due colleghi che seguono un po' dubbiosi: poi riparto. Ancora salita: la pendenza si fa un po' più dolce, il panorama si apre sull'intera vallata; intorno a me ora solo più rocce e prati. In effetti, tocca passare su un paio di cocuzzoli rocciosi; la costruzione in località San Bernardo di Mares, dove dovrei trovare il prossimo punto di ristoro, si vedeva un attimo fa, neppure troppo lontana, ma ora è sparita dietro le due piccole cime. Come sempre, non ho guardato l'altimetria con la dovuta attenzione, prima del via; però, se la salita più lunga nonché la vetta più alta è il Monte Soglio, direi che questa salita che sto percorrendo ora è appunto il Soglio. In effetti, adesso che ci penso, Ettore qualche ora fa ha detto che, dalla località Mares, il Soglio non dista più molto.
Qui non si sale più molto; su e giù, su e giù, cosa che le mie gambe, offese e rancorose per l'affronto della mezza maratona, non gradiscono affatto. Chissà dove s'è nascosta la costruzione che avevo visto poc'anzi? Non ho capito cosa fosse, se un rifugio o una chiesetta; più probabile la seconda ipotesi, a giudicare dal nome. Ancora un lungo traverso in leggera salita, attraverso il pendio: lassù in alto spunta la sagoma di una persona; mi sa che ci sono quasi. Non che abbia bisogno di un punto di ristoro, ma è pur sempre una tappa intermedia.
Quando supero lo scalino di pietre, spunto su un pianoro: c'è un sacco di gente qui! E c'è il banchetto delle vettovaglie, dove, con somma goduria, ottengo non uno ma due bicchieri di Coca Cola dai due gentilissimi fanciulli che presidiano il tavolino. Acchiappo anche una crostatina ed un po' di frutta secca, che sbocconcello poi lungo il sentiero. Ormai credo d'aver messo a fuoco il Monte Soglio: è quel panettone proprio davanti a me, spoglio e severo, incappucciato da minacciose nubi che salgono a gran velocità. Il sentiero, qui, procede quasi in piano e quasi in cresta; tira un vento dannato, gelido, che appiccica alla pelle la maglia bagnata. Ecco, lo sapevo: scommetto che lassù mi ritroverò immersa nella nebbia. Pazienza, non è che sia poi quel gran dramma, ma un raggio di sole sarebbe stato di conforto...
Approfitto del sentiero pianeggiante per armeggiare un po' con il mio bagaglio: indosso il gilet per riparare un po' il torace e soprattutto la gola; mi maledico per aver lasciato a casa la bandana, che mi avrebbe protetto un po' le orecchie; arraffo per la seconda volta la mia scorta chimica: speriamo che mezza bustina basti a far passare l'indolenzimento ai muscoli. Che piattola sono: quando sento che le gambe si induriscono, mi preoccupo, già mi vedo ferma su qualche sasso in preda ai dolori. Almeno, così, passa tutto e non ci penso più.
Un altro bivio dubbio: mi aiuta l'urlo di un escursionista, che ha già incontrato gli altri corridori e sa qual è la giusta direzione. Sempre dritto! Finché, dietro un costone della montagna, compare il Soglio in tutta la sua imponenza. Si intuiscono due sentieri che ne risalgono la cima; uno piega a destra e sale dolcemente, l'altro è una rampa perfettamente dritta di fronte a me. Inutile dire qual è l'itinerario corretto...
Comincio la lunga arrampicata: occhio e croce, da qui saranno trecento metri di dislivello, anche se la vetta s'è già nascosta; ci sono troppo sotto. Però, un centinaio di metri sopra la mia testa, spuntano alcune sagome, minuscole e nere: di certo sono altri sorveglianti. Salgo a passi brevissimi, misurati, frequenti; pensavo peggio, in realtà: non è così mostruosamente ripido come si annunciava, questo sentiero, che più che un sentiero sembra il percorso da cui l'acqua cola verso valle. Mirtilli ovunque: ai più grossi e succosi lancio una caccia spietata, gara o non gara. Non credo d'averne lasciato indietro nemmeno uno!
La pendenza sostenuta e regolare mi rincuora; in quattro e quattr'otto passo in mezzo al piccolo gruppo di edifici in pietra. "Ancora centosettanta metri di dislivello e c'è il ristoro con bevande calde, su in cima". Perfetto: non nego che un the caldo mi farebbe davvero piacere. Fa freddo quassù, tra vento e microscopiche goccioline d'acqua strappate alle nuvole basse. Tutto grigio intorno, le nubi, le rocce, persino il prato. Là davanti, ancora un corridore: procede lentamente, poi si ferma, riparte; quando lo raggiungo, lo incoraggio, per capire se è tutto ok. Pare di sì; il problema sono i crampi.
Ancora un po' di pazienza e di passi; supero il cocuzzolo roccioso, spunto al di là: ecco la vallata, il tavolo del punto di ristoro. Anche qui c'è un vero e proprio spiegamento di forze, tutti pronti ed in piena attività, anche per le ultime ruote del carro come me. The caldo, che sollievo; ho i brividi quassù. E frutta secca, zucchero, cioccolato. "Siamo al km 36". Perfetto,questa sì che è una bella notizia, anche perché io ero convinta di essere più o meno al trentesimo. Discesa: su sentiero stretto e sconnesso, verso quel che resta di un gruppo di baite, poi tutto a sinistra. Sullo sfondo, una città, non so quale, ma molto lontana da qui. Attraverso i pascoli a zig zag, giù per questa rotaia di terra: vorrei provare a correre, accenno qualche passo più veloce, ma il ricordo del volo di qualche ora fa è ancora vivo, la mano pulsa e fa male; sarebbe opportuno, se possibile, evitare il bis. Lavoro di bastoncini, questa volta non per scaricare peso ma per soccorrere il mio precario equilibrio. Sotto una roccia, seduti in paziente attesa, altri due controllori; altri ancora, tre, più avanti.
Il sentiero è ostico ancora per un lungo tratto: una tribolazione senza fine, per me che spesso devo fermarmi, studiare un momento il salto, appoggiare i bastoncini, muovermi con ogni cautela, neanche avessi scritto sulla schiena "Fragile – Maneggiare con cura". Mi sento un pachiderma. Di lì a poco, mi raggiunge e mi supera il corridore che ho sorpassato negli ultimi metri di salita al Soglio: va giù spedito, qualche centinaio di metri avanti a me. Procedo sotto gli occhi incuriositi delle mucche, implorando la fine dell'agonia, mentre giù a fondovalle si delineano più precise le sagome dei palazzi e delle strade in città. Quanti condominii... Non posso fare a meno di chiedermi se per caso abbiano bisogno di un amministratore!
Un colpo di tuono, lungo, cupo, mi riporta alla realtà: mi volto, guardo in su. La vetta del Soglio è stata inghiottita da una coltre di nubi dense, scure; non vorrei essere nei panni di chi arriva lassù adesso, né in quelli dei volontari che lassù ci devono proprio restare. Speriamo che il temporale non s'allarghi: beh, in ogni caso, se anche decidesse di farlo, ormai la Cima Coppi è alle spalle.
Salti, asperità, roccette finiscono giù in una radura: si passa su una bella strada sterrata, dove finalmente posso correre anch'io. Infatti corro, anche se la mia corsa si risolve in un incedere appena appena più veloce della camminata, un po' strascicato. Raggiungo il collega, di cui non conosco il nome: gli chiedo dei crampi, pare stia meglio, ma patisce un po' la distanza. Dai, che a questo punto si arriva alla fine, con le unghie e con i denti! Intanto, arriviamo ad un tornante, dove la padrona della casa attigua ha allestito un meraviglioso ristoro fai da te: acqua di fonte, un'enorme caffettiera, un sacchetto di prelibati torcetti ed un po' di zucchero. Come non rendere onore a tanta abbondanza? Il caffé, poi, è la mia vita... L'altro corridore decide di approfittare della sosta un po' più a lungo; io ringrazio e riparto subito. Ancora un bel tratto di corsa lungo la strada, poi un bivio, anche qui presidiato da due persone. Se avessi contato i volontari incontrati finora, credo che avrei già superato il centinaio! Su quaranta km ad occhio e croce messi nel sacco fin qui, non è male, affatto.
Passo accanto ad una fonte, mi sciacquo il viso; un signore intento a rivoltare l'erba tagliata nel prato mi chiede dove andrà a passare la gara: mi chiede di un mulino... Ma io casco dalle nuvole, non so nulla. Tutto quel che so è che, da qui, potrà mancare una quindicina di km. Ancora discesa, si torna in mezzo alla vegetazione. Incontro l'ennesimo presidio: uno degli assistenti mi chiede cos'abbia fatto al naso... Il naso? Perché, cos'ha il mio naso che non va? Porto le dita alla faccia: sanguina... Oh ma cavoli, possibile? Se continuo così, oggi finirò per aver bisogno di una trasfusione! Ringrazio Giancarlo – proprio così, è lui a notare l'omonimia – e tiro dritto, cercando di fermare il sangue e di ripulirmi alla bell'e meglio con un fazzoletto di carta e l'acqua della borraccia. Che strano: per me una cosa del genere è un caso più unico che raro... Da mettere insieme alla febbre alta della settimana appena passata, ai problemi de panza annessi e connessi? Avrò mica preso qualche brutta malattia? Eppure ultimamente ho imparato a guardare ma non toccare... E poi le analisi Fidas, tra l'altro recentissime, alla voce "malattie veneree" davano esiti negativissimi! Tiro dritto sorridendo... Occhio Gian, basta con le boiate, qui tocca fare attenzione, altrimenti voli. Il sentiero prende una pendenza a dire poco esagerata; in alcuni punti, in piedi non si può proprio restare: complice il fondo di terra morbida e friabilissima, l'unico modo per mantenere un minimo di equilibrio è poggiare la pianta del piede, di taglio, e lasciare che il corpo frani insieme al terriccio. Mentre mi destreggio malamente in simili evoluzioni, sento dal folto del bosco delle voci e qualche abbaio: qui l'assistenza è davvero capillare, c'è gente ovunque. Anche perché il sentiero, benché segnalato, non è sempre così intuibile.
Vari smottamenti ed un paio di culate dopo, approdo ancora una volta ad una strada sterrata. Corricchio, attraverso un torrentello, mi fermo un attimo per dare una parvenza di umanità alla faccia; in corrispondenza di un bivio, incontro due corridori che vanno in senso inverso al mio: ma... Che succede? Uno dei volontari, a presidio del bivio, mi dice che devo proseguire a sinistra e che poi ripasserò qui, in questo stesso punto, arrivando da destra. Eppure io sento nitida la voce dell'altoparlante... Ma dove diavolo mi trovo? Che razza di giro mi tocca fare? Continuo a correre, ma in testa s'affollano mille pensieri angoscianti. Non è possibile: se l'arrivo è così vicino da sentirne le voci, significa che da qualche parte devo aver sbagliato strada; io sono sicura che, dopo il Soglio, il tragitto della gara prevede ancora una salita... Non capisco più nulla: solo più tardi, alla fine delle mie fatiche, mi renderò conto che in questo punto sono esattamente sopra la frazione Milani, ma che me ne sto allontanando per andare a percorrere ancora un anello, quello del Mulino Val. Ecco da dove spuntava il mulino a cui accennava il contadino...
La discesa è infinita. La strada muore in un sentiero che attraversa il più fitto del fitto del bosco, tra ortiche, rovi e rami che pendono ovunque, graffiano la faccia; è buio e si sente solo il fragore del torrente. Poi, d'improvviso, alcune case: una frazione, persone lungo la strada che salutano ed incoraggiano. Ancora sentiero, e strada sterrata, ancora corsa: mi stupisco di quanto a lungo io riesca a reggere quest'andatura. Ormai è un po' che trotto! E mi sento di averne ancora per macinare un bel po' di strada, anche se, in un attimo di distrazione, a momenti mi spiaccico per terra, a dispetto della facilità elementare della strada sterrata.
Bivio a destra, anche qui festa grande: un gruppo di anziani mi festeggia, mi incoraggia. "Dai che ci arrivi sicuro ai Milani!". Ci potete scommettere... Ormai, a questo punto, non mi ferma nemmeno una scarica di pallettoni da cinghiale! Tiro dritto con il sorriso che si allarga da un orecchio all'altro, quello che spunta quando sai che ormai ce l'hai fatta. Mangiucchio un pezzo di barretta: sopra la mia testa, sulla sinistra, sorge la torre di un mulino. E' proprio un mulino a vento, come quelli che appaiono sulle fotografie dell'Olanda! Che bello!
La salita riprende secca oltre il ponticello sul fiume; poco sentiero, solo per tagliare un paio di curve, e poi si sale su per la sterrata. Le ombre sono nette, lunghe; chissà che ora può essere? Non ne ho idea. Cammino e cammino: solo la fame, per ora, dà un po' di noia. Sempre il solito errore: ho cominciato a mangiare troppo tardi, mentre avrei già dovuto pensarci prima, pur non avendo fame. Adesso, il meglio che io possa fare è attaccarmi al miele, per far passare la fiacca in fretta.
Con passo lento ma poca fatica, mi ritrovo proprio sotto il mulino: c'è un balconcino, una persona affacciata. Oltre la curva, un altro banchetto del ristoro: anche qui, volontari carichi di entusiasmo ed allegria a dire poco contagiosi. Coca Cola ed una crostatina: e meno male che il regolamento parlava di semi-autosufficienza! Qui ci rimpinzano come oche da foie-gras!
Riparto con calma, per sbocconcellare la crostatina senza disperdere preziose briciole ovunque. Si sale ancora, sempre lungo la sterrata; intorno solo arbusti e cespugli. La terra bianca riverbera ancora la luce. Poi un lungo tratto pianeggiante e, sempre in lontananza, l'eco dell'altoparlante. Io ormai rinuncio a capire. Sembra vicinissimo... Ancora uno strappo in salita; raggiungo altri due concorrenti: un po' stupiti per la mia foga, mi dicono che mancano sei chilometri. Sei chilometri... Ma è niente! Ancora sentiero, ancora leggero saliscendi: corro dovunque possibile, tanto ormai non ho più bisogno di conservare le forze e le gambe. Devo solo provvedere ad evitare di sfasciarmi un'altra volta. Raggiungo una cappella in mezzo alla vegetazione ora folta e verdissima, sempre più man mano che si scende; di qui il sentiero è strettissimo, tortuoso, un vero attentato al mio precario equilibrio. Nella foga, in qualche punto mi appoggio malamente al bastoncino con la mano sinistra... Una fitta, un paio di santi abbattuti con mira perfetta, sempre avanti. Quel maledetto altoparlante mi dà alla testa, giuro che se lo acchiappo lo sbriciolo! Ora sono nel folto del bosco e non vedo più nulla oltre ai pochi metri di sentiero davanti a me. Curve, discesine e strappi, ancora bivi. Incontro un paio di viandanti che mi chiedono quanta gente ci sia ancora dietro: se non ho sbagliato il conto, direi sei persone.
D'improvviso mi ritrovo allo stesso crocevia che ho superato un po' di tempo fa, non saprei dire quanto: ritrovo infatti lo stesso volontario. Un chilometro ancora ed è fatta: parto al trotto, anche se la prima blanda risalita smorza bruscamente il mio entusiasmo. Chissà che ora è. Tardo pomeriggio, di certo. Di gran carriera, supero altri due autoctoni, prodighi anche loro di applausi e complimenti: un attimo dopo, mi ritrovo sull'asfalto; poche decine di metri e posso dire che, anche per oggi, mi sono guadagnata la pagnotta. Anzi, non la pagnotta bensì il salamotto. Infatti, la medaglia di partecipazione consiste in un piccolo tagliere di legno a cui è legato un salamino.
Ed anche questa è fatta: 11h 11', leggo sul tabellone orario del cronometraggio. Una sfilza di numeri 1, sarà forse un presagio? Tiro un sospiro di sollievo: ho ingiustamente dubitato del freno a mano della Opel, che non s'è mossa dal punto in cui l'ho lasciata. Mi cambio alla bell'e meglio, mi asciugo: oggi, poi, cedo alla tentazione della pasta. Saggia decisione, perché il piattone che mi si materializza davanti agli occhi è ghiotto ed abbondante. Sparisce in un attimo, vittima della furia delle ganasce: poco ci manca che non mi spazzoli anche il piatto di plastica...
Soddisfatta la voglia di una bella giornata, con un gioiellino di gara riuscita in modo eccellente benché si trattasse di una prima edizione; soddisfatto anche il bruto appetito, a suon di penne con un ottimo sugo, mi rimetto al volante e riparto, mentre ancora qualcuno arriva di corsa tra gli applausi della piccola ma festosa folla. Il salamino non lo mangerò io: tra un paio d'ore sarà da me, reduce da un giro in bici oltralpe, la ben nota idrovora genovese... Sono pronta a scommettere che gradirà!
giovedì 17 settembre 2009
11 settembre 2009: Mezza Maratona di Arenzano e passeggiata sui monti
E' un venerdì che sa un po' di sabato: verso le quattro del pomeriggio, la mia scrivania in ufficio è già deserta. Ho trasferito il mio voluminoso posteriore dalla sedia al sedile della Opel, in viaggio verso Arenzano. Il programma di oggi prevede, alle sei e mezza, la Mezza Maratona; a seguire, passeggiata sui monti con Matteo e nanna in tenda al Passo del Faiallo: ottime ragioni per frustare il catorcione bianco e raggiungere, il più in fretta possibile, il casello di Rensen.
Non si può dire che la mezza maratona sia il tipo di gara più adatto a me, ammesso che esista, un tipo di gara che sia adatto a me. Troppo breve, troppo veloce: il ricordo della Mezza di Portofino è ancora vivo; mamma mia che dolore... Però mi piace l'idea di una corsa il venerdì sera, e poi c'è il mare, il caldo, ora che, in quel della piana carmagnolese, al mattino ed alla sera si comincia a battere i denti, ed è una scusa come un'altra per andare a trovare il mio ciclista, corridore, negoziante preferito!
Abituata come sono a frequentare la Riviera dall'autunno alla primavera, non avevo tenuto conto del fatto che siamo ancora agli sgoccioli dell'estate: me ne accorgo, trauma, non appena porto le mie quattro ruote al cospetto del mare. Gente, tanta, troppa, mostruosamente troppa gente, sembra d'essere in un formicaio; gente lungo la passeggiata, gente che attraversa la strada buttandocisi in mezzo quando meno te l'aspetti, motorini che ti passano di fianco, sotto e sopra, insomma il caos assoluto. Ed è settembre... Cosa diavolo poteva esserci qui un mese fa? Procedo a passo d'uomo e con il terrore di toccare o di investire qualcuno, anche se, in cuor mio, tutto questo brulicare di turisti caciaroni lo vorrei veder sparire in un attimo, non m'importa come e dove. Occhio Gian, cerca anche di badare alla tua destinazione. Dovrei trovare un piazzale dove parcheggiare l'auto, tra non molto infatti; lo trovo, ma... Ha l'aria parecchio affollata, anzi; mi sa che non c'è più un buco libero. Mi ci avventuro comunque, dubbiosa; caso vuole che, davanti al cofano del potente mezzo, si materializzi un fascinoso podista dal volto noto, anzi notissimo: è Lorenzo! Già in assetto da gara e grugno combattivo... Come sempre disponibilissimo e pronto a dare una mano, anche qui: non solo mi guida verso uno spazio di parcheggio, del tutto abusivo, che sembra fatto apposta per me... Ma persino, mosso a pietà, si mette al volante e ci pensa lui! Eccezionale: in virtù della sua lunga convivenza con una Opel Corsa spirata dopo oltre 400mila km, mi piazza la vettura con una precisione millimetrica, manco l'avesse proprio costruita lì con tanto di tecnigrafo, bolla da muratore, filo a piombo! La perfezione assoluta, fatta parcheggio.
Sono circa le cinque e mezza; i raggi del sole ancora caldi, una brezza leggera che porta l'intenso profumo di mare. Respiro a pieni polmoni: dovrei conoscerlo ormai, questo profumo, eppure stasera è una piacevole sorpresa. Anche qui, nel parcheggio sul mare, nell'area della passeggiata dove son piazzati i gazebo dell'organizzazione, c'è folla: ma è una folla diversa, quella dei concorrenti, quattrocento persone circa. Smaltite le formalità dell'iscrizione – come al solito ho dimenticato a casa la tessera FIDAL, meno male che qui non sono troppo fiscali – ho il tempo di scambiare quattro chiacchiere con qualche conoscente; oltre a Lorenzo, ci sono Andrea ed altri della Ergus, la mia squadra podistica, c'è Gaetano... E poi, il bello di queste corse è che non manca mai il materiale su cui buttare l'occhio! Certe divise così aderenti e succinte, ma così aderenti e succinte, da lasciare davvero poco all'immaginazione... E l'ormone, che corre molto ma molto più veloce delle gambe, è già in fermento da un po', ha già corso tre o quattro maratone. Roba da procurarsi un crampo alle pupille, roba da girare con le manette ai polsi onde prevenire gesti inconsulti!
Finalmente, dopo breve ma travagliato trasferimento da Genova, arriva anche Matteo, come sempre immancabilmente in tenuta ciclistica, sfoggiando i pantaloncini con il fondello imbottito: no, questa volta proprio non ce la posso fare, a trattenermi. Glielo devo dire, che così è ridicolo! Segno sulla lista di Babbo Natale: paio di pantaloni da corsa...
Ci avviciniamo all'area della partenza, senza sapere, per la verità, dove si trovi esattamente la linea del via. A giudicare dalle espressioni dubbiose che leggo sui volti degli altri concorrenti, direi che non siamo gli unici ignoranti. D'un tratto, tra una chiacchiera e l'altra, la massa sembra muoversi verso una precisa direzione: per via dell'effetto pecoroni, ci muoviamo anche noi, benché la direzione della gara sia opposta a quella verso cui ci stiamo dirigendo. Dobbiamo correre fino a Varazze, eppure ci stiamo spostando verso Genova...
Matteo già freme: incredibile, come riesca a dare di matto anche per un'insulsa mezza maratona. Sgomita e scalpita per partire davanti: già ma... Davanti a cosa? Qui non s'è ancora capito quando, come, da dove ci toccherà schizzare via! La massa attraversa l'Aurelia sotto gli occhi luciferini degli automobilisti bloccati in coda: si vede lontano un miglio che, se potessero, ci renderebbero un tutt'uno con il manto stradale. Nemmeno gli organizzatori, ad onor del vero, sembrano avere il pieno controllo della situazione: c'è un tizio in piedi sul guard rail con un microfono in mano...
La massa continua a vagare a bordo strada. Capiamo solo con un po' di ritardo che dobbiamo portarci in mezzo all'Aurelia... E che chi ha tanto penato per conquistare un posto "davanti", piccolo particolare, non aveva ben chiaro quale fosse, stasera, il "davanti"!
Pochi istanti di attesa, tutto uno smanettare di dita sui quadranti, lucine che s'accendono, suoni, allarmi: sembra d'essere nel cuore di una partita al flipper! Poi lo sparo ci coglie tutti di sorpresa: via, partiti.
Troppo forte, subito. Devo trovare una schiena su cui incollare gli occhi: piacente, se possibile... Così sarà meno penoso sforzarmi di tenere l'andatura. Ho bisogno di una lepre, per evitare di lasciarmi trascinare da una stupida smania di rincorsa: tanto, io non "ci" ho il fisico; è perfettamente inutile che mi illuda di riuscire a mantenere un ritmo elevato per più di qualche km. 21 sono pochi, certo: se li corro alla mia solita andatura da carro funebre, sono certissima di riuscire ad arrivare alla fine; se solo provo a forzare un po' di più... Cominciano i dolori: subdoli, itineranti, prima la milza, poi il fegato, poi la costola, e vorrei sapere cosa cavolo può esserci, nei paraggi della costola, che s'arrabbia così per lo sforzo; poi le gambe che s'induriscono, poi i crampi, poi il fiato che manca. Corri Gian, corri e per ora non pensarci: goditi la passeggiata, il mare appena increspato, osserva i bagnanti in ritirata, che ormai è tardi, ora di tornare in cabina, in albergo, a casa. Sulla sabbia restano i cagnoni scodinzolanti, i padroni a passeggio meditativi, le orme di chi se n'è già andato, le ombre lunghe degli scogli.
Passiamo attraverso le gallerie della vecchia ferrovia, ora trasformate in percorso ciclistico e pedonale: suggestive, certo, ma a me danno un fastidioso senso di oppressione, di trappola. Meglio uscire, anche se poi l'aria questa sera è carica di umidità, densa, appiccicosa sulla pelle; si respira male, a fatica. O forse sono io che già non ce la faccio più.
Due o tre km oltre la partenza, ci tocca un tratto di spiaggia, dove correre per me è quasi impossibile. Ne va della mia dignità: non posso rischiare di piombare faccia nella sabbia... Qui mi affianca una ragazza con cui condividerò un bel po' di strada: Sara, minuta, molto bella, con un fisico da corsa, esile, di certo molto più adatto del mio a quel che stiamo facendo. Si chiacchiera persino un po', mentre io seguo la mia lepre, un podista brizzolato con un braccio ingessato. "Stoico", esclama un passante: davvero!
Tra bar e giochi per bambini, piastrelle e tratti in cemento, arriva il ristoro; mezzo bicchiere d'acqua, pochi metri al passo e via, si riparte. Ritrovo Sara quasi subito, ma perdo la mia lepre, che rallenta un po': eh no... Dai Gian, prova a mantenere l'andatura. Come sempre, del tutto a sensazione, perché io al polso non ho nemmeno l'orologio. D'ora in poi mi metto alle calcagna di una canotta gialla: mi sembra che possa andar bene.
A circa tre km dal giro di boa, ecco che arrivano i primi, già di ritorno, preceduti e scortati da volontari dell'organizzazione in bici. Passano due, passa un terzo con un certo distacco; il resto del gruppone arriva dopo un abisso. Scruto i volti di chi mi corre incontro, in attesa di vedere quelli amici: un urlo reciproco di incoraggiamento tra me e Lorenzo, un tocco di mano con Matteo che spunta di lì a poco; poi incontro Andrea... Ed altri che mi salutano, ma che non faccio in tempo a mettere a fuoco. Km 10, Km 11, Varazze, giro di boa e si torna indietro. Sono al limite: odio questa sensazione. Sono al limite, il petto che scoppia, le gambe che già s'induriscono. Ancora 10 km: un nulla, in altre circostanze, ma una faticaccia improba, a quest'andatura. Dai Gian, che da adesso in poi ogni passo ti avvicina alla meta. Incontro a mia volta chi è ancora sulla prima metà della strada: con mia sorpresa, tanta gente! Alla mia destra, il mare. La luce ormai è obliqua, giallo intenso, del sole che va giù; il vento s'è fatto all'improvviso più freddo. Mi pento amaramente d'aver indossato il top anziché la maglietta; ogni volta che si esce da una galleria, una lama d'aria congela la schiena e mette i brividi. La mia lepre ormai s'è accorta di me; gentilissimo, regola l'andatura perché io possa seguirlo senza defungere. Anche lui, come me, patisce questo genere di sforzi; anche lui è un corridore di trail e distanze più lunghe, anche lui è reduce dall'UTMB, solo che lui l'ha finito, io no.
Km 15. Ancora sei e le forze già latitano. Non pensarci, Gian. Pensa a qualcosa di bello. Pensa a dopo, quando sarai a spasso per sentiero e non t'importerà più nulla di quanto c'impieghi. Ma perché, adesso, qui, me ne importa qualcosa? Beh no, ma sì, insomma, sarebbe bello magari tirare fuori un tempo non proprio malvagio... Magari non farmi superare da qui all'arrivo! Le gambe sono dure. Piano, piano, non aumentare. Resta a questo ritmo, respira lungo, lunghissimo. Stai persino recuperando qualche posizione, cosa vuoi di più? Pensa a casa, all'ufficio, li hai messi tutti gli appuntamenti in calendario? E domenica c'è il Soglio, dai che quella sarà una splendida giornata!
La lepre è sempre lì. Il ristoro arriva, mancano 6 km: due passi, tempo di bere un bicchiere e mangiare uno spicchio d'arancia. Imbecille che non sono altro: credevo che ai ristori avrei trovato un po' di frutta secca, qualcosa da buttare giù e far entrare subito in circolo... Così non ho portato nulla, nemmeno una gelatina di frutta, nemmeno uno zuccherino. Aggiungiamo poi che ho saltato il pranzo... E adesso mi ritrovo con una fame abominevole! E' già un po' che la pancia manda nell'aere rumorosi appelli di caverna vuota. Devo sforzarmi di non pensarci, correre ancora, con quell'odiosa sensazione del sudore che cola a fiotti, del caldo asfissiante e ciononostante della pelle d'oca, dell'immagine davanti agli occhi che sfoca e diventa blu. Dai ristoranti sfugge ogni sorta di profumi di cena... Ci arriverò, alla fine, in questo stato? Corri Gian, che, se corri di più, finisce prima... La lepre si gira, mi chiede come va; ci sono, ma non riesco nemmeno a fingere di star bene. La spiaggia, manca davvero poco adesso: un paio di km, ma sono ancora lunghissimi. Le gambe sempre più dure, un accenno di crampo al polpaccio destro; cerco di buttare i piedi in modo appena diverso dal passo di sempre, di contrarre meno i muscoli, non posso fermarmi proprio qui... Manca pochissimo, la passeggiata, siamo già ad Arenzano; s'è formato un gruppetto, ci facciamo largo nella folla pigra della sera, tra voluminose madame in improbabili abiti di gala e guinzagli di cagnoni che si tendono come trappole per i nostri calcagni in sofferenza, ma quant'è lungo questo maledetto chilometro? I volontari, ancora cento metri, il secondo arco; stringo i denti, accelero l'andatura, la testa che scoppia, mi accorgo appena di Matteo e Lorenzo che mi incitano... Supero la linea dell'arrivo con l'aspetto distrutto di chi ha compiuto le sette fatiche, ma con il misero risultato di 1h 55' o giù di lì, non stiamo a guardare il minuto che tanto non importa. Disfatta: uno stato in cui di certo non mi riduco dopo cento km di marcia in montagna... Ma decisamente le corse veloci non fanno per me. C'è un'amica di Lorenzo all'arrivo, si chiama Silvia ed è una ciclista fortissima: solo che non riesco a renderle la degna attenzione che dovrei... Perché mi precipito alla balaustra della passeggiata e mi abbatto lì, seduta, in attesa che davanti ai miei occhi si dissolva il blu e torni l'immagine normale. Mi toccherà piombare a terra altre due volte, nella prossima ora, prima che un buon piatto di pasta mi rimetta in condizioni di intendere e di volere, sotto lo sguardo perplesso di Matteo che è abituato a pensare alla sottoscritta come ad un inarrestabile cingolato d'assalto. No no, tutt'altro, qui c'è tutto che gira...
Aspettiamo le premiazioni? Ma và, che premiazioni e premiazioni. Corsa finita, pasta ingollata: adesso si può finalmente fare sul serio... Matteo ed io salutiamo gli amici, saltiamo in auto, destinazione Agueta, una località sopra Arenzano. La Opel ci si arrampica con l'agilità di sempre: questa macchinina è un carro armato... Ci cambiamo, ci diamo un'asciugata alla bell'e meglio, in vista della nuova fatica che ci attende. Fatica per modo di dire, perché questa sarà gradevolissima. Anche se io ho ancora addosso quella sensazione di fiacca mostruosa che mi rallenta pensieri e movimenti.
Alla luce delle pile frontali, ci allontaniamo dal frastuono del vicino ristorante, incamminandoci lungo la strada, che ben presto diventa sterrata. Mi muovo, non per metafora, al rallentatore: ogni passo costa un tempo ed una fatica esagerati; è come se il comando impiegasse un'eternità a raggiungere i muscoli, una volta partito dal cervello. Non ho dolori particolari, ma sono vuota di ogni forza. Ma sono, come sempre, convinta che passerà: quindi mi rassegno a muovermi con la rapidità di un lombrico e, nel frattempo, chiacchiero. Abbiamo un bel po' di arretrato da raccontarci, Matteo ed io: non ci vediamo già da qualche giorno! E pure lui sembra un po' fiaccato dalla mezza maratona; del resto, lui ne ha ben donde, è andato forte, come sempre.
Piede, bastoncino, piede, bastoncino, passo trascinato nella ghiaia e nella sabbia; parole, risate, il fruscio improvviso di qualche animale che si allontana tra le foglie secche, forse lucertole, lepri, un volatile, non so. Non c'è un alito di vento; sotto di noi, le mille luci della costa, di Genova. Riempo d'aria i polmoni, ma la sensazione è che non entri nulla. Per mia fortuna, la salita qui è dolce dolce, con fondo regolare; altrimenti, inciamperei ad ogni piè sospinto. Mi tiene sveglia il racconto dei giorni in Corsica che Matteo ha da poco trascorso con la mamma: povera, santa donna, costretta da questo figlio degenere ad ogni sorta di privazioni e fatiche, tra vita di campeggio senz'acqua calda ed escursioni in luoghi impervi.
Una provvidenziale fontanella con un filo d'acqua ci permette di riempire, con tanta pazienza, le borracce: meno male, la mia era vuota, vuotissima. La lascio lì nella vasca, guardo il livello dell'acqua salire lentissimamente in trasparenza... Respiro.
La scorciatoia per evitare un tornante non mi va proprio giù: un po' per la pendenza, che fa crescere la fatica, un po' perché la testa è più ciucca del solito; inciampare è davvero facilissimo, vista la mia difficoltà nel coordinare i movimenti.
Torniamo sulla strada sterrata che ci porta al Passo della Gava, località ormai ben nota: ci sono passata per la prima volta l'autunno scorso, con il Gran Trail Rensen, e poi una notte della scorsa primavera, durante un'escursione notturna con il boss del Trail ed un gruppo di altri mattoidi. Ricordo bene che da lì siamo andati poi a finire in una fantastica panetteria di Voltri, giusto in tempo per l'orario di apertura...
Questa sera, niente di tutto ciò. Superiamo i due tornanti che ci portano al passo; l'ambiente qui si è aperto, non c'è più bosco, solo pendii erbosi e rocce. Buio pesto, qualche nuvola di troppo in cielo, ma, davanti a noi, sorge il cerchio di una enorme luna rossa: a metà, tagliato dalle nubi, sale su ed emana una luce un po' fioca, malaticcia, sulla città che adesso si vede in tutta la sua estensione. Le strade, l'aeroporto, sembra di poterli toccare allungando la mano!
Il sentiero si fa più accidentato; mi accorgo in un attimo che sto molto meglio di prima, ma devo comunque usare cautela per guardare dove appoggio i piedi. Rocce, scalini, salti, per un lungo traverso; poi, tornantini uno dopo l'altro, che ci fanno guadagnare quota in fretta. Matteo s'è già ripreso, anche lui; vola... E stenta a frenarsi e restare al mio passo.
Mi preoccupa un po' il suono di campanelle: sono convinta che si tratti di mucche; non appena ne sento il primo accenno, torno con la memoria alla disavventura di una notte della scorsa estate, la carica della mucca. Sale l'ansia, anche perché mi guardo intorno, con il fascio della frontale; sento lo scampanio nitido, ma non riesco a capire dove siano gli animali. Matteo prima sostiene di non sentire assolutamente nulla... Poi, quando non può più negare, minimizza: ma sì, saranno dall'altra parte della valle, saranno giù in fondo. Ma io salgo con i nervi a fior di pelle, preoccupatissima di trovarmele davanti all'improvviso, le cornute, nel vero senso della parola. Pare assurdo aver paura delle mucche: ma, dopo quella fatidica notte, io le temo, eccome se le temo... Tiro avanti, ma tra me e me mi maledico, perché va sempre a finire così; da una volta all'altra, resta il ricordo della bella esperienza, svanisce quello della paura. Ed io mi inganno e torno a zampettare di notte dove non dovrei.
D'improvviso, mi risveglia dai miei confusi pensieri un rumore sordo, un galoppo, un movimento convulso nell'erba, vicinissimo a me; un grugnito, qualcosa di grosso, ma grosso davvero, che s'avvicina di corsa. Quasi paralizzata dal terrore, tutto quel che riesco a fare è battere tra loro i bastoncini, facendo più rumore possibile; il galoppo s'inverte, sento lo spostamento d'aria, la bestia punta verso il basso, giù nel vallone. Poi più nulla, silenzio assoluto. Anche Matteo s'è fermato: lui non s'è reso conto di nulla, non ha colto la presenza. Un grosso cinghiale, senza dubbio. "Oh", esclama Matteo ad alta voce; dal fondo della boscaglia nera, gli risponde un grugnito. Altro urlo, altro grugnito dall'oltretomba. Ok, perfetto, è finita, adesso il bestio salta fuori di lì e ci fa a pezzi... Un'apparente calma nasconde in me una paura folle. Matteo vorrebbe proseguire, manca pochissimo al Passo del Faiallo, una manciata di passi: no, sono irremovibile, non se ne parla nemmeno. Lo so, lo so che il cinghiale non attacca l'uomo, lo so che il mio è un timore irrazionale, lo so, lo so... Ma io di tirare dritto non ne voglio proprio sapere. Basta, per stasera ne ho avuto abbastanza di emozioni, voglio tornare indietro. "E dove la mettiamo la tenda?", obietta Matteo. Che ne so. Alla Gava, per esempio, lì c'è anche una costruzione. O semplicemente si torna all'auto, non lo so, voglio solo andar via di qui. Lo so che è già tardi, è già mezzanotte passata, ma non c'è verso di farmi cambiare idea.
Inverto la rotta; mi spiace che Matteo si senta deluso ed arrabbiato, lo percepisco anche se non lo vedo in viso; però io ho paura. Ridiscendiamo i tornantini: io cammino voltandomi indietro ogni tanto, drizzando le orecchie, a carpire immediatamente qualsiasi movimento del bestio. Non lo sentiamo più: in compenso, torniamo a sentire più squillanti che mai le campanelle delle presunte mucche.
All'ultimo tornantino, notiamo un posticino che fa proprio per noi: un tratto di prato quasi in piano, proprio accanto al sentiero e con una splendida vista su Genova notturna. Le stelle ormai non si vedono più, inghiottite dalle nubi, ma ne faremo a meno. E se ci fermassimo qui?
Detto, fatto. Dal suo mostruoso zaino, Matteo estrae in un attimo la tenda; un picchetto qua, un bastoncino là, pochi minuti di lavoro e la struttura è bell'e pronta. Poi il materassino, perché il perfetto uomo del monte pensa proprio a tutto: è bucato, ma pazienza, non stiamo a guardare il pelo nell'uovo... Ci prepariamo in fretta per la notte: se non altro, la temperatura, a quest'ora ed a questa quota, è piacevolissima, proprio tiepida. Nanna e buio, per poche ore: la sveglia suonerà alle 6. Stanchezza, quiete, occhi che si chiudono, voglia di abbandonarsi e non pensare più a nulla...
Per me è una notte travagliata: i campanacci delle mucche che non smettono di ricordarmi la minaccia incombente; la pendenza del terreno che mi fa rotolare di continuo fuori dal materassino; le ossa dolenti in ogni posizione. Strano... Proprio io che di solito dormo con il sacco a pelo poggiato direttamente sul terreno! Mah, sarà che sto invecchiando; fatto sta che spesso mi ritrovo a fissare il buio. E poi ci si mette anche il vento, a scuotere la tenda e farmi temere chissà quale minacciosa presenza lì fuori. A nulla valgono le rassicurazioni di Matteo, che si dice sicuro che qualsiasi animale non attaccherebbe mai una tenda. Ma sarà poi davvero così?
Il telefonino, alle 6, trilla ad interrompere un sonno che finalmente, dopo tanta pena, sembrava fermo e pacifico. Tocca proprio sbaraccare e ripartire, perché Matteo il sabato lavora. Peccato, io starei qui a godermi il calduccio e la compagnia ancora almeno un paio d'ore... Ma non sono nemmeno così certa che il nostro accampamento qui sia lecito: meglio tagliare la corda, prima che, con le prime luci del giorno, arrivino gli escursionisti. Tra l'altro, oggi qui passeranno i partecipanti ad una manifestazione di escursionismo, la Mare e Monti!
Non dovrebbe far freddo fuori, ma, nel dubbio, mi vesto come un palombaro. Ieri sera era il disco infuocato della luna, stamattina quello ancora fioco, rosa, del sole: una luce debole che illumina appena le crestine di roccia disseminate sul pendio. Che meraviglia; stanotte non le potevamo vedere: spuntoni di roccia frastagliati, quasi fossero plasmati dal vento. Mi tornano in mente le immagini dell'asteroide ricostruito in quel capolavoro di film che è Armageddon... Ora sì che lo scampanìo ha un'origine: giù in fondo al pendio, proprio sopra di noi, ci sono tre o quattro pecore. Pecore, non mucche; ecco svelato l'arcano. Mi sono angosciata per nulla!
Rapida com'è comparsa, la tenda scompare nello zaino di Matteo. Sbocconcellando la nostra colazione, focaccia per me, panini per lui, ripartiamo verso valle, con la luce ancora fioca dell'alba. Cammina e cammina, un po' rintronati dal sonno, avremo percorso si e no cinquecento metri... Occhi bassi, vedo una chiazza rossa sul sentiero. Ma questo è sangue! La chiazza s'allunga, la seguo, alzo gli occhi: davanti a me, la carcassa orrendamente dilaniata di una pecora, con le costole spolpate in vista. Trattengo per qualche istante il respiro: ieri sera qui non c'era nulla, e poi il sangue è ancora visibilmente fresco, non rappreso... Significa che lo scempio s'è compiuto al massimo da qualche ora! E noi, a poca distanza da qui, non abbiamo sentito proprio nulla di nulla. Forse è per il fatto che qui il sentiero fa una piccola insenatura nella montagna, che forse attutisce i rumori. Opera di un lupo, o più d'uno, probabilmente: almeno, spero che sia così, perché, se non fossero lupi ma cani inselvatichiti, significherebbe che andare a spasso di notte, da queste parti, è davvero pericoloso. In ogni caso, non è che lo spettacolo che sto osservando mi tranquillizzi, affatto. Se davvero avessimo deciso di scendere fino alla Gava, qualche ora fa, probabilmente avremmo interrotto il banchetto.
Passiamo oltre: con un po' di opportunismo, visto che il delitto s'è compiuto da pochissimo, di quel che resta della vittima si potrebbe quasi fare un arrostino... Insomma, quel che abbiamo visto è raccapricciante, ma in fondo è la legge di natura; qui non ci sono avvoltoi, ma potremmo pensarci noi!
Tiro dritto col rimprovero indignato di Matteo: son sempre la solita approfittatrice... Ci riproponiamo di chiedere l'opinione di qualche esperto; io non l'avrei proprio mai detto, che su questi monti ci fosse il lupo. Senz'altro un danno grave per il pastore, ma una bella notizia per l'ecosistema.
Alla Gava ritroviamo la strada sterrata, tanto comoda e rilassante. Son già all'opera i volontari della Mare e Monti, indaffarati con tavoli e vettovaglie. Passiamo accanto ad uno dei punti di ristoro e Matteo tenta la strategia dello sguardo da misero orfanello affamato: tra lui ed il mio cagnone, non so chi sia il ruffiano migliore... Ma i solerti custodi delle cibarie non si lasciano intenerire: non siamo parte della corsa, per noi non c'è nulla!
Non ci resta che tirare dritto. Con mia gran soddisfazione, le gambe non hanno subito, almeno apparentemente, conseguenze dallo strapazzo della mezza maratona; sono sì un po' stanche, ma non mostrano dolori o contratture, per ora. Incrociamo le dita, perché domani mi attendono i 55 km e 3.100 m del Trail del Monte Soglio: mi piacerebbe cavarmela bene!
La strada verso l'auto è breve, anche troppo; la giornata è tiepida, ma s'annuncia nuvolosa. Non mi lascio sfuggire le more dai cespugli a bordo strada; vorrei raccogliere una pigna, ma non riesco a trovare la pigna perfetta. Pazienza, niente pigna per oggi: da qui si vede Savona e va bene così. Alla strada asfaltata, ritroviamo la Opel; una quindicina di manovre per fuggire dal parcheggio e siamo in carreggiata. Spiace sempre andar via, anche se domani sarà un'altra giornata di fuoco, e domani sera saremo ancora insieme, qualche altra ora rubata alle nostre vite belle e troppo indaffarate. Un saluto, il casello, l'autostrada, la solita sensazione del cambio di fuso orario, che io ho già provato un'infinità di volte pur non avendo mai viaggiato in aereo: la notte quasi insonne rende indispensabile un caffé, qualche minuto di pausa. Oggi si dormirà un po', forse: poi sveglia alle 2.30 ed ancora... Via!
Non si può dire che la mezza maratona sia il tipo di gara più adatto a me, ammesso che esista, un tipo di gara che sia adatto a me. Troppo breve, troppo veloce: il ricordo della Mezza di Portofino è ancora vivo; mamma mia che dolore... Però mi piace l'idea di una corsa il venerdì sera, e poi c'è il mare, il caldo, ora che, in quel della piana carmagnolese, al mattino ed alla sera si comincia a battere i denti, ed è una scusa come un'altra per andare a trovare il mio ciclista, corridore, negoziante preferito!
Abituata come sono a frequentare la Riviera dall'autunno alla primavera, non avevo tenuto conto del fatto che siamo ancora agli sgoccioli dell'estate: me ne accorgo, trauma, non appena porto le mie quattro ruote al cospetto del mare. Gente, tanta, troppa, mostruosamente troppa gente, sembra d'essere in un formicaio; gente lungo la passeggiata, gente che attraversa la strada buttandocisi in mezzo quando meno te l'aspetti, motorini che ti passano di fianco, sotto e sopra, insomma il caos assoluto. Ed è settembre... Cosa diavolo poteva esserci qui un mese fa? Procedo a passo d'uomo e con il terrore di toccare o di investire qualcuno, anche se, in cuor mio, tutto questo brulicare di turisti caciaroni lo vorrei veder sparire in un attimo, non m'importa come e dove. Occhio Gian, cerca anche di badare alla tua destinazione. Dovrei trovare un piazzale dove parcheggiare l'auto, tra non molto infatti; lo trovo, ma... Ha l'aria parecchio affollata, anzi; mi sa che non c'è più un buco libero. Mi ci avventuro comunque, dubbiosa; caso vuole che, davanti al cofano del potente mezzo, si materializzi un fascinoso podista dal volto noto, anzi notissimo: è Lorenzo! Già in assetto da gara e grugno combattivo... Come sempre disponibilissimo e pronto a dare una mano, anche qui: non solo mi guida verso uno spazio di parcheggio, del tutto abusivo, che sembra fatto apposta per me... Ma persino, mosso a pietà, si mette al volante e ci pensa lui! Eccezionale: in virtù della sua lunga convivenza con una Opel Corsa spirata dopo oltre 400mila km, mi piazza la vettura con una precisione millimetrica, manco l'avesse proprio costruita lì con tanto di tecnigrafo, bolla da muratore, filo a piombo! La perfezione assoluta, fatta parcheggio.
Sono circa le cinque e mezza; i raggi del sole ancora caldi, una brezza leggera che porta l'intenso profumo di mare. Respiro a pieni polmoni: dovrei conoscerlo ormai, questo profumo, eppure stasera è una piacevole sorpresa. Anche qui, nel parcheggio sul mare, nell'area della passeggiata dove son piazzati i gazebo dell'organizzazione, c'è folla: ma è una folla diversa, quella dei concorrenti, quattrocento persone circa. Smaltite le formalità dell'iscrizione – come al solito ho dimenticato a casa la tessera FIDAL, meno male che qui non sono troppo fiscali – ho il tempo di scambiare quattro chiacchiere con qualche conoscente; oltre a Lorenzo, ci sono Andrea ed altri della Ergus, la mia squadra podistica, c'è Gaetano... E poi, il bello di queste corse è che non manca mai il materiale su cui buttare l'occhio! Certe divise così aderenti e succinte, ma così aderenti e succinte, da lasciare davvero poco all'immaginazione... E l'ormone, che corre molto ma molto più veloce delle gambe, è già in fermento da un po', ha già corso tre o quattro maratone. Roba da procurarsi un crampo alle pupille, roba da girare con le manette ai polsi onde prevenire gesti inconsulti!
Finalmente, dopo breve ma travagliato trasferimento da Genova, arriva anche Matteo, come sempre immancabilmente in tenuta ciclistica, sfoggiando i pantaloncini con il fondello imbottito: no, questa volta proprio non ce la posso fare, a trattenermi. Glielo devo dire, che così è ridicolo! Segno sulla lista di Babbo Natale: paio di pantaloni da corsa...
Ci avviciniamo all'area della partenza, senza sapere, per la verità, dove si trovi esattamente la linea del via. A giudicare dalle espressioni dubbiose che leggo sui volti degli altri concorrenti, direi che non siamo gli unici ignoranti. D'un tratto, tra una chiacchiera e l'altra, la massa sembra muoversi verso una precisa direzione: per via dell'effetto pecoroni, ci muoviamo anche noi, benché la direzione della gara sia opposta a quella verso cui ci stiamo dirigendo. Dobbiamo correre fino a Varazze, eppure ci stiamo spostando verso Genova...
Matteo già freme: incredibile, come riesca a dare di matto anche per un'insulsa mezza maratona. Sgomita e scalpita per partire davanti: già ma... Davanti a cosa? Qui non s'è ancora capito quando, come, da dove ci toccherà schizzare via! La massa attraversa l'Aurelia sotto gli occhi luciferini degli automobilisti bloccati in coda: si vede lontano un miglio che, se potessero, ci renderebbero un tutt'uno con il manto stradale. Nemmeno gli organizzatori, ad onor del vero, sembrano avere il pieno controllo della situazione: c'è un tizio in piedi sul guard rail con un microfono in mano...
La massa continua a vagare a bordo strada. Capiamo solo con un po' di ritardo che dobbiamo portarci in mezzo all'Aurelia... E che chi ha tanto penato per conquistare un posto "davanti", piccolo particolare, non aveva ben chiaro quale fosse, stasera, il "davanti"!
Pochi istanti di attesa, tutto uno smanettare di dita sui quadranti, lucine che s'accendono, suoni, allarmi: sembra d'essere nel cuore di una partita al flipper! Poi lo sparo ci coglie tutti di sorpresa: via, partiti.
Troppo forte, subito. Devo trovare una schiena su cui incollare gli occhi: piacente, se possibile... Così sarà meno penoso sforzarmi di tenere l'andatura. Ho bisogno di una lepre, per evitare di lasciarmi trascinare da una stupida smania di rincorsa: tanto, io non "ci" ho il fisico; è perfettamente inutile che mi illuda di riuscire a mantenere un ritmo elevato per più di qualche km. 21 sono pochi, certo: se li corro alla mia solita andatura da carro funebre, sono certissima di riuscire ad arrivare alla fine; se solo provo a forzare un po' di più... Cominciano i dolori: subdoli, itineranti, prima la milza, poi il fegato, poi la costola, e vorrei sapere cosa cavolo può esserci, nei paraggi della costola, che s'arrabbia così per lo sforzo; poi le gambe che s'induriscono, poi i crampi, poi il fiato che manca. Corri Gian, corri e per ora non pensarci: goditi la passeggiata, il mare appena increspato, osserva i bagnanti in ritirata, che ormai è tardi, ora di tornare in cabina, in albergo, a casa. Sulla sabbia restano i cagnoni scodinzolanti, i padroni a passeggio meditativi, le orme di chi se n'è già andato, le ombre lunghe degli scogli.
Passiamo attraverso le gallerie della vecchia ferrovia, ora trasformate in percorso ciclistico e pedonale: suggestive, certo, ma a me danno un fastidioso senso di oppressione, di trappola. Meglio uscire, anche se poi l'aria questa sera è carica di umidità, densa, appiccicosa sulla pelle; si respira male, a fatica. O forse sono io che già non ce la faccio più.
Due o tre km oltre la partenza, ci tocca un tratto di spiaggia, dove correre per me è quasi impossibile. Ne va della mia dignità: non posso rischiare di piombare faccia nella sabbia... Qui mi affianca una ragazza con cui condividerò un bel po' di strada: Sara, minuta, molto bella, con un fisico da corsa, esile, di certo molto più adatto del mio a quel che stiamo facendo. Si chiacchiera persino un po', mentre io seguo la mia lepre, un podista brizzolato con un braccio ingessato. "Stoico", esclama un passante: davvero!
Tra bar e giochi per bambini, piastrelle e tratti in cemento, arriva il ristoro; mezzo bicchiere d'acqua, pochi metri al passo e via, si riparte. Ritrovo Sara quasi subito, ma perdo la mia lepre, che rallenta un po': eh no... Dai Gian, prova a mantenere l'andatura. Come sempre, del tutto a sensazione, perché io al polso non ho nemmeno l'orologio. D'ora in poi mi metto alle calcagna di una canotta gialla: mi sembra che possa andar bene.
A circa tre km dal giro di boa, ecco che arrivano i primi, già di ritorno, preceduti e scortati da volontari dell'organizzazione in bici. Passano due, passa un terzo con un certo distacco; il resto del gruppone arriva dopo un abisso. Scruto i volti di chi mi corre incontro, in attesa di vedere quelli amici: un urlo reciproco di incoraggiamento tra me e Lorenzo, un tocco di mano con Matteo che spunta di lì a poco; poi incontro Andrea... Ed altri che mi salutano, ma che non faccio in tempo a mettere a fuoco. Km 10, Km 11, Varazze, giro di boa e si torna indietro. Sono al limite: odio questa sensazione. Sono al limite, il petto che scoppia, le gambe che già s'induriscono. Ancora 10 km: un nulla, in altre circostanze, ma una faticaccia improba, a quest'andatura. Dai Gian, che da adesso in poi ogni passo ti avvicina alla meta. Incontro a mia volta chi è ancora sulla prima metà della strada: con mia sorpresa, tanta gente! Alla mia destra, il mare. La luce ormai è obliqua, giallo intenso, del sole che va giù; il vento s'è fatto all'improvviso più freddo. Mi pento amaramente d'aver indossato il top anziché la maglietta; ogni volta che si esce da una galleria, una lama d'aria congela la schiena e mette i brividi. La mia lepre ormai s'è accorta di me; gentilissimo, regola l'andatura perché io possa seguirlo senza defungere. Anche lui, come me, patisce questo genere di sforzi; anche lui è un corridore di trail e distanze più lunghe, anche lui è reduce dall'UTMB, solo che lui l'ha finito, io no.
Km 15. Ancora sei e le forze già latitano. Non pensarci, Gian. Pensa a qualcosa di bello. Pensa a dopo, quando sarai a spasso per sentiero e non t'importerà più nulla di quanto c'impieghi. Ma perché, adesso, qui, me ne importa qualcosa? Beh no, ma sì, insomma, sarebbe bello magari tirare fuori un tempo non proprio malvagio... Magari non farmi superare da qui all'arrivo! Le gambe sono dure. Piano, piano, non aumentare. Resta a questo ritmo, respira lungo, lunghissimo. Stai persino recuperando qualche posizione, cosa vuoi di più? Pensa a casa, all'ufficio, li hai messi tutti gli appuntamenti in calendario? E domenica c'è il Soglio, dai che quella sarà una splendida giornata!
La lepre è sempre lì. Il ristoro arriva, mancano 6 km: due passi, tempo di bere un bicchiere e mangiare uno spicchio d'arancia. Imbecille che non sono altro: credevo che ai ristori avrei trovato un po' di frutta secca, qualcosa da buttare giù e far entrare subito in circolo... Così non ho portato nulla, nemmeno una gelatina di frutta, nemmeno uno zuccherino. Aggiungiamo poi che ho saltato il pranzo... E adesso mi ritrovo con una fame abominevole! E' già un po' che la pancia manda nell'aere rumorosi appelli di caverna vuota. Devo sforzarmi di non pensarci, correre ancora, con quell'odiosa sensazione del sudore che cola a fiotti, del caldo asfissiante e ciononostante della pelle d'oca, dell'immagine davanti agli occhi che sfoca e diventa blu. Dai ristoranti sfugge ogni sorta di profumi di cena... Ci arriverò, alla fine, in questo stato? Corri Gian, che, se corri di più, finisce prima... La lepre si gira, mi chiede come va; ci sono, ma non riesco nemmeno a fingere di star bene. La spiaggia, manca davvero poco adesso: un paio di km, ma sono ancora lunghissimi. Le gambe sempre più dure, un accenno di crampo al polpaccio destro; cerco di buttare i piedi in modo appena diverso dal passo di sempre, di contrarre meno i muscoli, non posso fermarmi proprio qui... Manca pochissimo, la passeggiata, siamo già ad Arenzano; s'è formato un gruppetto, ci facciamo largo nella folla pigra della sera, tra voluminose madame in improbabili abiti di gala e guinzagli di cagnoni che si tendono come trappole per i nostri calcagni in sofferenza, ma quant'è lungo questo maledetto chilometro? I volontari, ancora cento metri, il secondo arco; stringo i denti, accelero l'andatura, la testa che scoppia, mi accorgo appena di Matteo e Lorenzo che mi incitano... Supero la linea dell'arrivo con l'aspetto distrutto di chi ha compiuto le sette fatiche, ma con il misero risultato di 1h 55' o giù di lì, non stiamo a guardare il minuto che tanto non importa. Disfatta: uno stato in cui di certo non mi riduco dopo cento km di marcia in montagna... Ma decisamente le corse veloci non fanno per me. C'è un'amica di Lorenzo all'arrivo, si chiama Silvia ed è una ciclista fortissima: solo che non riesco a renderle la degna attenzione che dovrei... Perché mi precipito alla balaustra della passeggiata e mi abbatto lì, seduta, in attesa che davanti ai miei occhi si dissolva il blu e torni l'immagine normale. Mi toccherà piombare a terra altre due volte, nella prossima ora, prima che un buon piatto di pasta mi rimetta in condizioni di intendere e di volere, sotto lo sguardo perplesso di Matteo che è abituato a pensare alla sottoscritta come ad un inarrestabile cingolato d'assalto. No no, tutt'altro, qui c'è tutto che gira...
Aspettiamo le premiazioni? Ma và, che premiazioni e premiazioni. Corsa finita, pasta ingollata: adesso si può finalmente fare sul serio... Matteo ed io salutiamo gli amici, saltiamo in auto, destinazione Agueta, una località sopra Arenzano. La Opel ci si arrampica con l'agilità di sempre: questa macchinina è un carro armato... Ci cambiamo, ci diamo un'asciugata alla bell'e meglio, in vista della nuova fatica che ci attende. Fatica per modo di dire, perché questa sarà gradevolissima. Anche se io ho ancora addosso quella sensazione di fiacca mostruosa che mi rallenta pensieri e movimenti.
Alla luce delle pile frontali, ci allontaniamo dal frastuono del vicino ristorante, incamminandoci lungo la strada, che ben presto diventa sterrata. Mi muovo, non per metafora, al rallentatore: ogni passo costa un tempo ed una fatica esagerati; è come se il comando impiegasse un'eternità a raggiungere i muscoli, una volta partito dal cervello. Non ho dolori particolari, ma sono vuota di ogni forza. Ma sono, come sempre, convinta che passerà: quindi mi rassegno a muovermi con la rapidità di un lombrico e, nel frattempo, chiacchiero. Abbiamo un bel po' di arretrato da raccontarci, Matteo ed io: non ci vediamo già da qualche giorno! E pure lui sembra un po' fiaccato dalla mezza maratona; del resto, lui ne ha ben donde, è andato forte, come sempre.
Piede, bastoncino, piede, bastoncino, passo trascinato nella ghiaia e nella sabbia; parole, risate, il fruscio improvviso di qualche animale che si allontana tra le foglie secche, forse lucertole, lepri, un volatile, non so. Non c'è un alito di vento; sotto di noi, le mille luci della costa, di Genova. Riempo d'aria i polmoni, ma la sensazione è che non entri nulla. Per mia fortuna, la salita qui è dolce dolce, con fondo regolare; altrimenti, inciamperei ad ogni piè sospinto. Mi tiene sveglia il racconto dei giorni in Corsica che Matteo ha da poco trascorso con la mamma: povera, santa donna, costretta da questo figlio degenere ad ogni sorta di privazioni e fatiche, tra vita di campeggio senz'acqua calda ed escursioni in luoghi impervi.
Una provvidenziale fontanella con un filo d'acqua ci permette di riempire, con tanta pazienza, le borracce: meno male, la mia era vuota, vuotissima. La lascio lì nella vasca, guardo il livello dell'acqua salire lentissimamente in trasparenza... Respiro.
La scorciatoia per evitare un tornante non mi va proprio giù: un po' per la pendenza, che fa crescere la fatica, un po' perché la testa è più ciucca del solito; inciampare è davvero facilissimo, vista la mia difficoltà nel coordinare i movimenti.
Torniamo sulla strada sterrata che ci porta al Passo della Gava, località ormai ben nota: ci sono passata per la prima volta l'autunno scorso, con il Gran Trail Rensen, e poi una notte della scorsa primavera, durante un'escursione notturna con il boss del Trail ed un gruppo di altri mattoidi. Ricordo bene che da lì siamo andati poi a finire in una fantastica panetteria di Voltri, giusto in tempo per l'orario di apertura...
Questa sera, niente di tutto ciò. Superiamo i due tornanti che ci portano al passo; l'ambiente qui si è aperto, non c'è più bosco, solo pendii erbosi e rocce. Buio pesto, qualche nuvola di troppo in cielo, ma, davanti a noi, sorge il cerchio di una enorme luna rossa: a metà, tagliato dalle nubi, sale su ed emana una luce un po' fioca, malaticcia, sulla città che adesso si vede in tutta la sua estensione. Le strade, l'aeroporto, sembra di poterli toccare allungando la mano!
Il sentiero si fa più accidentato; mi accorgo in un attimo che sto molto meglio di prima, ma devo comunque usare cautela per guardare dove appoggio i piedi. Rocce, scalini, salti, per un lungo traverso; poi, tornantini uno dopo l'altro, che ci fanno guadagnare quota in fretta. Matteo s'è già ripreso, anche lui; vola... E stenta a frenarsi e restare al mio passo.
Mi preoccupa un po' il suono di campanelle: sono convinta che si tratti di mucche; non appena ne sento il primo accenno, torno con la memoria alla disavventura di una notte della scorsa estate, la carica della mucca. Sale l'ansia, anche perché mi guardo intorno, con il fascio della frontale; sento lo scampanio nitido, ma non riesco a capire dove siano gli animali. Matteo prima sostiene di non sentire assolutamente nulla... Poi, quando non può più negare, minimizza: ma sì, saranno dall'altra parte della valle, saranno giù in fondo. Ma io salgo con i nervi a fior di pelle, preoccupatissima di trovarmele davanti all'improvviso, le cornute, nel vero senso della parola. Pare assurdo aver paura delle mucche: ma, dopo quella fatidica notte, io le temo, eccome se le temo... Tiro avanti, ma tra me e me mi maledico, perché va sempre a finire così; da una volta all'altra, resta il ricordo della bella esperienza, svanisce quello della paura. Ed io mi inganno e torno a zampettare di notte dove non dovrei.
D'improvviso, mi risveglia dai miei confusi pensieri un rumore sordo, un galoppo, un movimento convulso nell'erba, vicinissimo a me; un grugnito, qualcosa di grosso, ma grosso davvero, che s'avvicina di corsa. Quasi paralizzata dal terrore, tutto quel che riesco a fare è battere tra loro i bastoncini, facendo più rumore possibile; il galoppo s'inverte, sento lo spostamento d'aria, la bestia punta verso il basso, giù nel vallone. Poi più nulla, silenzio assoluto. Anche Matteo s'è fermato: lui non s'è reso conto di nulla, non ha colto la presenza. Un grosso cinghiale, senza dubbio. "Oh", esclama Matteo ad alta voce; dal fondo della boscaglia nera, gli risponde un grugnito. Altro urlo, altro grugnito dall'oltretomba. Ok, perfetto, è finita, adesso il bestio salta fuori di lì e ci fa a pezzi... Un'apparente calma nasconde in me una paura folle. Matteo vorrebbe proseguire, manca pochissimo al Passo del Faiallo, una manciata di passi: no, sono irremovibile, non se ne parla nemmeno. Lo so, lo so che il cinghiale non attacca l'uomo, lo so che il mio è un timore irrazionale, lo so, lo so... Ma io di tirare dritto non ne voglio proprio sapere. Basta, per stasera ne ho avuto abbastanza di emozioni, voglio tornare indietro. "E dove la mettiamo la tenda?", obietta Matteo. Che ne so. Alla Gava, per esempio, lì c'è anche una costruzione. O semplicemente si torna all'auto, non lo so, voglio solo andar via di qui. Lo so che è già tardi, è già mezzanotte passata, ma non c'è verso di farmi cambiare idea.
Inverto la rotta; mi spiace che Matteo si senta deluso ed arrabbiato, lo percepisco anche se non lo vedo in viso; però io ho paura. Ridiscendiamo i tornantini: io cammino voltandomi indietro ogni tanto, drizzando le orecchie, a carpire immediatamente qualsiasi movimento del bestio. Non lo sentiamo più: in compenso, torniamo a sentire più squillanti che mai le campanelle delle presunte mucche.
All'ultimo tornantino, notiamo un posticino che fa proprio per noi: un tratto di prato quasi in piano, proprio accanto al sentiero e con una splendida vista su Genova notturna. Le stelle ormai non si vedono più, inghiottite dalle nubi, ma ne faremo a meno. E se ci fermassimo qui?
Detto, fatto. Dal suo mostruoso zaino, Matteo estrae in un attimo la tenda; un picchetto qua, un bastoncino là, pochi minuti di lavoro e la struttura è bell'e pronta. Poi il materassino, perché il perfetto uomo del monte pensa proprio a tutto: è bucato, ma pazienza, non stiamo a guardare il pelo nell'uovo... Ci prepariamo in fretta per la notte: se non altro, la temperatura, a quest'ora ed a questa quota, è piacevolissima, proprio tiepida. Nanna e buio, per poche ore: la sveglia suonerà alle 6. Stanchezza, quiete, occhi che si chiudono, voglia di abbandonarsi e non pensare più a nulla...
Per me è una notte travagliata: i campanacci delle mucche che non smettono di ricordarmi la minaccia incombente; la pendenza del terreno che mi fa rotolare di continuo fuori dal materassino; le ossa dolenti in ogni posizione. Strano... Proprio io che di solito dormo con il sacco a pelo poggiato direttamente sul terreno! Mah, sarà che sto invecchiando; fatto sta che spesso mi ritrovo a fissare il buio. E poi ci si mette anche il vento, a scuotere la tenda e farmi temere chissà quale minacciosa presenza lì fuori. A nulla valgono le rassicurazioni di Matteo, che si dice sicuro che qualsiasi animale non attaccherebbe mai una tenda. Ma sarà poi davvero così?
Il telefonino, alle 6, trilla ad interrompere un sonno che finalmente, dopo tanta pena, sembrava fermo e pacifico. Tocca proprio sbaraccare e ripartire, perché Matteo il sabato lavora. Peccato, io starei qui a godermi il calduccio e la compagnia ancora almeno un paio d'ore... Ma non sono nemmeno così certa che il nostro accampamento qui sia lecito: meglio tagliare la corda, prima che, con le prime luci del giorno, arrivino gli escursionisti. Tra l'altro, oggi qui passeranno i partecipanti ad una manifestazione di escursionismo, la Mare e Monti!
Non dovrebbe far freddo fuori, ma, nel dubbio, mi vesto come un palombaro. Ieri sera era il disco infuocato della luna, stamattina quello ancora fioco, rosa, del sole: una luce debole che illumina appena le crestine di roccia disseminate sul pendio. Che meraviglia; stanotte non le potevamo vedere: spuntoni di roccia frastagliati, quasi fossero plasmati dal vento. Mi tornano in mente le immagini dell'asteroide ricostruito in quel capolavoro di film che è Armageddon... Ora sì che lo scampanìo ha un'origine: giù in fondo al pendio, proprio sopra di noi, ci sono tre o quattro pecore. Pecore, non mucche; ecco svelato l'arcano. Mi sono angosciata per nulla!
Rapida com'è comparsa, la tenda scompare nello zaino di Matteo. Sbocconcellando la nostra colazione, focaccia per me, panini per lui, ripartiamo verso valle, con la luce ancora fioca dell'alba. Cammina e cammina, un po' rintronati dal sonno, avremo percorso si e no cinquecento metri... Occhi bassi, vedo una chiazza rossa sul sentiero. Ma questo è sangue! La chiazza s'allunga, la seguo, alzo gli occhi: davanti a me, la carcassa orrendamente dilaniata di una pecora, con le costole spolpate in vista. Trattengo per qualche istante il respiro: ieri sera qui non c'era nulla, e poi il sangue è ancora visibilmente fresco, non rappreso... Significa che lo scempio s'è compiuto al massimo da qualche ora! E noi, a poca distanza da qui, non abbiamo sentito proprio nulla di nulla. Forse è per il fatto che qui il sentiero fa una piccola insenatura nella montagna, che forse attutisce i rumori. Opera di un lupo, o più d'uno, probabilmente: almeno, spero che sia così, perché, se non fossero lupi ma cani inselvatichiti, significherebbe che andare a spasso di notte, da queste parti, è davvero pericoloso. In ogni caso, non è che lo spettacolo che sto osservando mi tranquillizzi, affatto. Se davvero avessimo deciso di scendere fino alla Gava, qualche ora fa, probabilmente avremmo interrotto il banchetto.
Passiamo oltre: con un po' di opportunismo, visto che il delitto s'è compiuto da pochissimo, di quel che resta della vittima si potrebbe quasi fare un arrostino... Insomma, quel che abbiamo visto è raccapricciante, ma in fondo è la legge di natura; qui non ci sono avvoltoi, ma potremmo pensarci noi!
Tiro dritto col rimprovero indignato di Matteo: son sempre la solita approfittatrice... Ci riproponiamo di chiedere l'opinione di qualche esperto; io non l'avrei proprio mai detto, che su questi monti ci fosse il lupo. Senz'altro un danno grave per il pastore, ma una bella notizia per l'ecosistema.
Alla Gava ritroviamo la strada sterrata, tanto comoda e rilassante. Son già all'opera i volontari della Mare e Monti, indaffarati con tavoli e vettovaglie. Passiamo accanto ad uno dei punti di ristoro e Matteo tenta la strategia dello sguardo da misero orfanello affamato: tra lui ed il mio cagnone, non so chi sia il ruffiano migliore... Ma i solerti custodi delle cibarie non si lasciano intenerire: non siamo parte della corsa, per noi non c'è nulla!
Non ci resta che tirare dritto. Con mia gran soddisfazione, le gambe non hanno subito, almeno apparentemente, conseguenze dallo strapazzo della mezza maratona; sono sì un po' stanche, ma non mostrano dolori o contratture, per ora. Incrociamo le dita, perché domani mi attendono i 55 km e 3.100 m del Trail del Monte Soglio: mi piacerebbe cavarmela bene!
La strada verso l'auto è breve, anche troppo; la giornata è tiepida, ma s'annuncia nuvolosa. Non mi lascio sfuggire le more dai cespugli a bordo strada; vorrei raccogliere una pigna, ma non riesco a trovare la pigna perfetta. Pazienza, niente pigna per oggi: da qui si vede Savona e va bene così. Alla strada asfaltata, ritroviamo la Opel; una quindicina di manovre per fuggire dal parcheggio e siamo in carreggiata. Spiace sempre andar via, anche se domani sarà un'altra giornata di fuoco, e domani sera saremo ancora insieme, qualche altra ora rubata alle nostre vite belle e troppo indaffarate. Un saluto, il casello, l'autostrada, la solita sensazione del cambio di fuso orario, che io ho già provato un'infinità di volte pur non avendo mai viaggiato in aereo: la notte quasi insonne rende indispensabile un caffé, qualche minuto di pausa. Oggi si dormirà un po', forse: poi sveglia alle 2.30 ed ancora... Via!
martedì 8 settembre 2009
5-6 settembre 2009 - Dalla neve agli ulivi: due squilibrati in giro per monti
Forse non tutti trovano che sia normale partir da casa alle quattro e mezza per andare a camminare in montagna. Di certo non lo pensano i due Carabinieri che mi hanno appena fermata nel bel mezzo della statale per Racconigi. Me ne vado bel bella verso il Borgo San Giovanni; proprio a ridosso dell'incrocio dove devo svoltare a destra, raggiungo una Punto dell'Arma, che tira dritto. Meno di un minuto dopo, mentre percorro la via verso la strada statale, un'auto mi raggiunge alle spalle e mi lampeggia con gli abbaglianti: boh, sarà qualcuno che va di fretta, problemi suoi. All'incrocio, quell'auto tenta di affiancarmi a sinistra mentre sto per svoltare appunto a sinistra: cavoli, 'sta a vedere che questo è appena uscito dalla discoteca ed è fatto come un cavallo... Svolto e vado per la mia strada; quell'auto sempre dietro, ancora fari: un secondo dopo, si accendono sul tettuccio i lampeggianti blu. Attimo di panico, mi fermo e capisco al volo di aver violato un ordine dei Carabinieri... Ma, con i loro fanali puntati contro il mio specchietto, non sarei mai riuscita a capire che fossero loro!
Controllo di rito, patente e libretto, ma io sono terrorizzata come se stessi trasportando un cadavere affettato nel bagagliaio. Un posto di blocco "volante" non l'avevo proprio mai visto né vissuto. Per fortuna è tutto ok: riparto e pesto a tavoletta, perché Isacco mi aspetta alla stazione di Borgo San Dalmazzo per le 5.45 e, causa contrattempo, mi resta solo un'ora di tempo. Me la faccio bastare: è sabato mattina ed alle 5.40 sono lì. Non devo, non posso, non voglio rinunciare neanche ad un solo minuto dell'avventura che mi attende.
L'idea era nata da una gita pensata da Isacco tempo fa: "Ho combinato con alcuni amici un giro nelle Marittime per settembre", e ricordo che già a sentir quella frase avevo sperato, in cuor mio, di essere coinvolta. Il fanciullo avanza spesso dubbi circa la mia integrità mentale, ma l'opinione è reciproca; anch'io so che, se l'itinerario è farina del suo sacco, allora la fatica è garantita, ottima ed abbondante. "Se vuoi venire anche tu...", non aveva ancor finito di pronunciare la "u", che io avevo già rovesciato sul progetto tutto il mio entusiasmo.
Nell'ultimissima settimana prima della data fatidica, poi, i piani sono stati stravolti: vista la rinuncia degli altri possibili partecipanti alla spedizione, siamo rimasti in due... E la gita di un giorno è diventata gita di due giorni con notte a nanna, e poi gita di due giorni con notte a spasso. Insomma, è lievitata come la pasta per la pizza. Quando ho sentito la versione definitiva del progetto, c'è mancato poco che mi mettessi a ballare il tip tap dalla gioia: "Arrivo a Borgo quando vuoi, Isacco, dimmi un'ora, anche le tre di notte, e sono lì"...
La Opel resta al parcheggio della stazione di Borgo San Dalmazzo. Il potente mezzo del mio compagno d'avventura ci porta, ancora al buio, a San Giacomo di Entracque. Da lì, pedibus calcantibus, giungeremo domani, se tutto va bene, alla stazione di Ventimiglia, da dove il treno ci riporterà a chiudere l'anello. Le previsioni meteo di tre o quattro siti Internet annunciano due giorni di bello stabile, addirittura con assenza di precipitazioni; ho la compagnia di un personaggio che cammina sul serio e non si abbatte manco con una fucilata; niente vincoli di tempo e luogo se non l'ultimo treno di domani sera... Direi che ci sono tutti gli ingredienti per la mia felicità. Infatti, già nel breve tratto che percorriamo in auto, sprizzo contentezza da tutti i pori: anche se il discorso cade, è inevitabile, sull'Ultra Trail del Monte Bianco della scorsa settimana. Ne siamo usciti entrambi cornuti, mazziati e ritirati, anche se con la piccola soddisfazione di aver superato almeno il centesimo km: la differenza è che il buon Isacco se l'è legato al dito ed ancora ci rimugina, elabora il lutto, per dirla con le sue parole; io invece ho voltato pagina credo trenta secondi dopo la disfatta... Perché domani è un altro giorno, sempre!
Al parcheggio di San Giacomo, con gran disappunto della mia guida, è ancora buio. Poco male, il sentiero da qui al Rifugio Pagarì lo saprei trovare persino io... E' quasi un'autostrada! Mentre ci prepariamo al via, altre due auto rovesciano sul piazzale un gruppo di escursionisti mattinieri come noi. Isacco attacca bottone, s'informa sulla loro destinazione; quando poi sono loro a rivolgere la stessa domanda a noi, il mio compare glissa: "Il Pagarì...". Rido sotto i baffi: se avesse detto che siamo diretti a Ventimiglia, l'avrebbero imbavagliato e portato d'urgenza al Pronto Soccorso!
Ci avviamo con calma lungo il breve tratto di strada ancora asfaltata, per dare modo alle nostre spalle di abituarsi, loro malgrado, al peso non proprio piuma degli zaini. Il programma prevede due giorni ed una notte di viaggio e nessun centro abitato da attraversare: dobbiamo essere autonomi in tutto, anche per la pappatoria. Per il bene delle nostre tasche, è opportuno evitare di ricorrere ai rifugi. Quindi io mi son portata una decina di barrette varie, due etti di Parmigiano, due confezioni di frutta secca e due bei pezzettoni di focaccia; come vestiario, una maglietta ed una canotta di ricambio, una felpa, una giacca, guanti lunghi, pantaloni al ginocchio e berretto di pile. Però parto in maniche corte e pantaloni cortissimi. Isacco, conoscendolo, avrà messo nel sacco alimenti ed abbigliamento per una spedizione al K2; infatti ha sulla schiena uno zaino monumentale, una sorta di enorme carapace giallo.
Le prime luci dell'alba illuminano appena le cime, inondate di rosso, e svelano un cielo limpidissimo. Alla Casa di Caccia, dove tutto ancora tace, la strada diventa sterrata, supera una fontana e s'infila nel bosco. La salita ha già cacciato via i brividi di freddo della partenza; non è ancora tempo di svestirsi, però: tra poco, sbucheremo sul pianoro e forse incapperemo nel vento.
Già sapevo che sarebbe andata così, che fin dai primi passi avrei avuto difficoltà di deambulazione. Colpa di Isacco, che, con l'espressione del volto più contrita e seria di quella che riuscirebbe a produrre un attore consumato, riesce ad esprimere inimmaginabili boiate: hai voglia a cercar di contrastare la risata, a pensare agli eventi più tristi e raccapriccianti che ricordi... Niente da fare, io mi piego in due e perdo quel poco di stabilità che ancora mi resta quando mi barcameno tra sassi e buche e terra.
Il pianoro è una buona occasione per riscaldare le gambe prima degli innumerevoli tornanti della salita al Rifugio Pagarì. Cioè l'unica parte del viaggio a me nota. Siamo all'ombra e vi resteremo ancora per un po', finché non saremo noi stessi a risalire la valle ed andare incontro alla luce. Tra episodi dei trail vissuti e luminosi progetti per il futuro, attraversiamo il ponticello e finalmente cominciamo a prendere quota. Piano, come sempre, perché è lunga.
Isacco lo ripete più volte, come una formula rituale: la salita è concentrata tutta nella primissima parte del viaggio; il Passo Pagarì ed il colle successivo. Poi sarà soprattutto discesa. Sì, da una parte è ovvio che la discesa sarà prevalente, visto che siamo partiti da quota 1.200 ed abbiamo come destinazione il mare. Ma, chissà perché, alla previsione della mia pur fidatissima guida io non credo nemmeno un po'. Ormai il copione è noto: si parte con un itinerario in mente, ma, a meno di restare in zone perfettamente conosciute da tempo immemore, di solito si finisce da tutt'altra parte. E se il programma dice 10 km, saranno 20, e se dice 1.500 m di dislivello, saranno 3000, e se dice che bisogna andare da A a B, si andrà da A a C a D e magari a B manco ci si arriva. Quindi lo lascio parlare, ma non commento... Ammetto che, in questo caso, nell'errore io spero davvero. La mia passione è la salita; non mi va proprio giù l'idea di doverci rinunciare. Ha pur ragione Isacco a dire d'averne abbastanza, di dislivello, per quest'anno, ma...
L'ascesa al Pagarì, è lunga, impegnativa e divertentissima. La dedichiamo in buona parte a sviscerare la tesi per cui, secondo Isacco, io mi porterei appresso un culone spropositato e svariati chili di troppo: in effetti, non posso dargli torto, non sono mai stata un giunco. Però ai miei carichi sporgenti tengo molto, quindi non credo che seguirò il suo consiglio. E poi, con suo gran dispetto, lui sarà pure un peso piuma, ma già strilla per il male alle ginocchia... Le mie, abituate al lavoro duro, stanno benissimo! O quasi: risentono un po' dei km di corsa della settimana passata, ma solo perché ho ripreso a correre su asfalto con regolarità ed un po' troppa foga. Insomma: al rifugio, siamo già bell'e fermi in pausa antiinfiammatorio. Una pasticca per uno, in via preventiva, che non si sa mai.
Dall'altra parte della vallata, si intuiscono le serpentine di altri sentieri, di cui ovviamente Isacco conosce vita, morte, miracoli e destinazione. Lungo uno di quei sentieri, dovrebbero essere in marcia gli escursionisti che abbiamo incontrato al parcheggio appena prima di partire. Osservo quei tornanti e penso che vorrei essere anche lì... Ovunque ci sia una salita!
Pietraia o neve? Son le due alternative per raggiungere il Passo Pagarì, quota 2.800 e rotti, circa 200 metri più in alto di qua. La scelta cade sulla pietraia, perché la neve, ancora ben presente quassù, a quest'ora del mattino è ancora troppo dura. Ci avviamo quindi verso il percorso acrobatico, non prima di esserci raccolti in estatica contemplazione della Maledia. Dev'essere un posto molto speciale, almeno per Isacco, che ha ambizioni alpinistiche e la rimira con religioso rispetto. Approvo per atto di fede, ma a me pare una montagna come tutte le altre: bella, imponente, senza dubbio, arcigna e nuda, ma tale e quale alle altre vette che vedo qui intorno. Ovviamente mi limito a pensarlo: guai, se proferissi parola, credo che arriverei a superare il colle con traiettoria parabolica e propulsione a calcio nel didietro!
D'ora in poi, la salita diventa una traiettoria casuale tra una tacca segnaletica e l'altra. Col mio corpaccione pesante e la mia ben nota familiarità con i passaggi da equilibrista, è inevitabile che il ritmo rallenti tragicamente. S'arresta poi del tutto quando ci imbattiamo in una compagnia davvero insperata: un bellissimo stambecco, un giovane maschio, che ci osserva placido, sdraiato su una roccia piatta. Ci guarda, si gratta la schiena con le corna, torna a guardarci, per nulla spaventato, al punto che riusciamo ad immortalarlo più volte con le fotocamere. Davanti a noi, altri due esemplari, un cucciolo e, credo, la mamma, a giudicare dalle tenerissime effusioni che si scambiano i due animali. Il cucciolo poi è una meraviglia, ancora senza cornetti, col pelo tutto arruffato. Roba da restare qui tutto il giorno... Invece no, tocca andare avanti, incespicando tra le rocce. Mi lancio in improbabili vie d'arrampicata che sarebbero tranquillamente evitabili se solo guardassi un po' più in là del mio naso, mentre il mio collega magnifica il fascino della montagna selvaggia... "Altro che il Mont Joly!". Eh no, caro mio, guai a te se mi tocchi il Mont Joly! Quella sì, è la montagna per me; una salita fantastica, 1.500 m di dislivello in una botta sola, e nessuna difficoltà tecnica. Solo fatica, e tanta, perché la pendenza del sentiero che sale dal versante di Les Contamines è davvero forte. Qui, sulle pietraie, sui sentieri che devi proprio cercare con il lanternino, sugli itinerari cocì malagevoli, sono un pesce fuor d'acqua. Mi obietti che questa è l'avventura: ma io non cerco l'avventura, mi accontento della fatica... Al Mont Joly potrei salire anche da sola, qui no, mi perderei nel nulla eterno, mi ritroverebbero al disgelo.
Scopro qui che il mio marsupio portaborraccia, con dentro la borraccia grossa da un litro, è quanto di più scomodo si possa scegliere per una salita che richiede, per me, la marcia a quattro zampe. Così, quello che Isacco ha già definito il vessillo della mia virilità – effettivamente è piazzato proprio in posto strategico e, dato il peso, pende un po' in avanti – rischia ad ogni piè sospinto di rotolare via e scomparire in qualche fessura nella pietraia.
Raggiungo il colle con le mani spelacchiate, e meno male che indosso i guantini da ciclismo. Scolliniamo: a quanto pare, laggiù si vede il mare. Il mare... Uhm, non ne sono così convinta. Possibile? La linea dell'orizzonte è incerta, sfocata, ma distingue in effetti due tonalità di azzurro diverse. Questo posto è meraviglioso...
La discesa ci porta verso il Rifugio Nizza, quota 2230, che già si vede sotto di noi. Isacco zampetta via agile, io faccio quel che posso; meno male che la discesa è breve. Ancora stambecchi a farci compagnia, e il sole, sempre più caldo, anche se siamo in alto e l'aria fredda sulla pelle si fa sentire; breve pausa ai piedi della bella scalinata in pietra che conduce al Rifugio, per riempire la borraccia e consultare la carta. Nelle mappe non metto naso; mi fido ciecamente del mio capobranco e mi limito ad obbedire agli ordini e camminare. Incredibile, quanto io diventi arrendevole, quando mi conviene! Oggi sì, che mi conviene.
Riprendiamo, tra uno sghignazzo e l'altro, la salita. Io lo sapevo, che mi sarei divertita un sacco. La fatica quasi non si sente, anche se il sentiero riprende a salire deciso. Alzo lo sguardo per intuire quale, tra le tante selle qui intorno, potrebbe essere il nostro colle, Baisse du Basto. Chissà. Torno con gli occhi bassi, a guardare i miei passi ed il sentiero, ad ascoltare il ticchettio dei bastoncini sulla pietra, arrancando dietro al mio compagno di viaggio che sale ben più sciolto ed agile di me. La traccia si inerpica poi sulla roccia; trovare gli ometti segnavia e le tacche di vernice diventa quasi una caccia al tesoro. Presa dall'entusiasmo, esagero persino un po'; questa pendenza è irresistibile, porta su in un attimo. Un primo scalino lassù, contro il cielo azzurro, fa pensare che quella sia la nostra meta; invece no, non è altro che un salto, oltre il quale si torna ad aggrapparsi alla pietra, con le mani e con i piedi. Un escursionista appena normale si farebbe bastare due arti... A me ne servono quattro ma, all'occasione, faccio appello anche alle ginocchia, al didietro, insomma a quel che c'è, tutto fa brodo. Purtroppo qui il mio culone si ritorce contro di me, e il fetente non perde occasione per farmelo notare; pazienza, antipatico, tu non apprezzi, ma qualcun altro sì!
Alle nostre spalle, ancora la Maledìa; solo che prima, dal Pagarì, aveva l'aspetto di un enorme badile; da qui, tutto quel che si vede è una lama sottile. Ecco, uno dei lati del carattere di Isacco che apprezzo davvero molto è la passione. Adora la montagna, in particolare la montagna di casa sua; si vede lontano un miglio che ne è orgoglioso ed innamorato, quando racconta le sue escursioni, le gite di scialpinismo, quando parla delle mete che vorrebbe raggiungere. Le raggiungerà, io non ho dubbi. E' una passione in forma diversa dalla mia, perché io detesto freddo e neve, ma non ha importanza; è forte e spero tanto che duri. Un po' lo prendo in giro, quando lo esorto a non lasciarsi abbindolare da una fanciulla tutta negozi d'abbigliamento e vacanze a Rimini... Ma mica troppo! Isacco, abbi cura del tuo talento...
Verso la fine della salita, diventa chiaro che i colli sono due; uno di fronte a noi, un altro leggermente sulla destra. Entrambi segnalati da ometti. Isacco punta deciso verso destra: da dietro una roccia spunta un paio di corna imponenti, enormi, e, poco dopo, ne spunta anche il proprietario, uno stambecco maestoso, che ci rivolge poco educatamente il posteriore. Allargando lo sguardo alla pietraia, ce ne sono altri, due, tre, molti di più: una manna per le macchine fotografiche. Ci concediamo qui una breve pausa; la mia guida scruta le carte, io mi appiattisco su una pietra a mò di lucertola, a godermi il sole, in modalità merendero. Ma per poco. Sotto un cielo sempre blu, ci avviamo lungo una traccia di sentiero incerta, fumosa; da un ometto all'altro, il guaio è che di ometti ce n'è troppi, ed in posizioni del tutto incoerenti l'una con l'altra. In più, dovremmo vedere alla nostra destra, sempre secondo il capospedizione, una vetta di cui invece non c'è traccia. Giù ed ancora giù, con passo incerto e traiettoria fantasiosa,fino a raggiungere un laghetto. Pieno alle borracce e via: si punta diretti verso quel che, alla nostra destra, ha tutta l'aria di un colle. Già. Peccato che non ci sia alcun sentiero per arrivare lassù, nemmeno la più scarsa delle tracce. Solo una distesa di pietre, che va via via aumentando la pendenza. Che fare? Propongo un attacco diretto; puntiamo a vista verso il colle, poi provvederemo ad aggirare eventuali ostacoli. Lo so già da sola, che è una boiata, ma non mi viene in mente niente di meglio... Qualche decina di improperi, scivoloni, lividi ed accidenti dopo, obbedisco all'alt del mio Vate, che, dubbioso, si ferma, si mette comodo su una pietra in posizione meditativa ed allarga la carta. L'urlo che ne segue è tale da provocare il distacco di un intero costone della montagna di fronte a noi: esattamente quella che ci aspettavamo di trovare, sì, ma dalla parte opposta... Presto svelato l'arcano: al termine della salita, avremmo dovuto superare il colle che avevamo in faccia, non quello a destra. Ci troviamo ora nella valle parallela a quella in cui dovremmo essere.
Concluso il riepilogo dei santi del calendario, mentre io trattengo a stento le risate, il buon Isacco si cosparge il capo di cenere, si flagella, s'arrabbia. Scruta la carta e si ritrae sconsolato. Ora abbiamo due alternative: scartando l'ipotesi di risalire dalla stessa parte per cui siamo scesi, possiamo riportarci sull'itinerario originario o con il passaggio a due colli a quota 2.500 m, oppure tentando l'avventura lungo un sentierino che sulla mappa è appena appena accennato, e che sarà quindi ben difficile da scovare e da seguire. Isacco sembra propendere per la seconda ipotesi, perché, mi fa notare, sono le tre del pomeriggio e dobbiamo ancora scendere fino a quota 1.700; da lì, risalire ai due colli a 2.500, in rapida sequenza, potrebbe voler dire che ci ritroveremo in alta quota al calar della sera. E l'idea non lo conforta affatto. Io sono di parere contrario; a giudicare da quel poco che capisco dalla carta, il sentiero che collega i due colli sembra molto evidente; lanciandoci sull'altra traccia appena accennata, secondo me, rischiamo di trovarci in difficoltà, perdere l'itinerario, rallentare a dismisura e farci comunque raggiungere dal buio, per di più in una situazione di difficoltà. Visto che il meteo, a parte qualche nuvolone di passaggio che s'affaccia alle cime, sembra stabile, sarebbe il caso di seguire la traccia più sicura. Alla peggio, oltre il primo dei due colli, c'è il Rifugio delle Meraviglie; se proprio dovessimo trovarci in difficoltà, avremmo un punto d'appoggio.
Mi spiace davvero che il mio capobranco se la prenda tanto. Io non vedo proprio nulla di male in questa inattesa deviazione. Anzi, non posso che esserne lieta: a questo punto, è chiaro che la previsione circa il dislivello contenuto va a farsi friggere, con mia somma gioia. E poi, in fondo, che problema c'è? Non abbiamo orari, e nemmeno, a dirla tutta, una meta precisa. Siamo in un posto meraviglioso, al calduccio dei raggi del sole, che paiono proprio volerci far compagnia a lungo. Va bene, abbiamo sbagliato strada... Ma non mi pare affatto una tragedia, anzi! E poi, chi è che voleva l'avventura?
Riprendiamo l'interminabile discesa verso fondovalle, dove si vede quel che sembra un paese. Pont de Gravieres, quota 1.700; ci arriviamo dopo lunga marcia che, per fortuna, concede tratti quasi in piano in cui riesco a rifocillarmi un po'. Nonostante il mezzo chilo di tortelli ricotta e spinaci di ieri sera a cena, per la verità amorevolmente condiviso con il mio bestione peloso, avverto già da un po' i morsi della fame: attacco il Parmigiano, già rammollito e sudaticcio per il caldo. E poi c'è qualcuno che ha il coraggio di sostenere la superiorità del cibo "genuino"... Questa roba è una schifezza! Se non altro, le barrette si conservano immutabili nei secoli dei secoli. Bah. Con la bocca impastata, raggiungo Isacco al bivio; da qui parte un sentiero che si vede anche sulla carta, da cui poi dovrebbe staccarsi l'altro sentiero, quello precario, quello che il mio boss ha deciso di seguire.
Ci avviamo in salita con passo deciso: per la verità, Isacco mette il turbo e in quattro salti mi molla lì, scomparendo nella vegetazione. Questo tracciato è aspro, ripido, tutto scalini di roccia; sale a tornantini ravvicinati, in mezzo ad una vegetazione per lo più di cespugli, lamponi, bacche non meglio identificate, ed ovviamente le immancabili ortiche. Ben mi guardo dal tentativo di reggere il ritmo del mio compagno di viaggio, che dev'essere davvero sostenuto. Infatti, una coppia di attempati escursionisti che scende verso di me mi chiede se per caso ci stiamo allenando per qualche corsa in montagna: per l'occasione, assumo l'espressione più fresca e sorridente che mi riesce, sorrido tutta soddisfatta, confermo con l'aria di chi la sa lunga: tempo che i due siano fuori portata d'orecchio e riprendo ad arrancare e sbuffare come una locomotiva a vapore. Cosa non si fa per salvare le apparenze.
Incontro un bel po' di persone che scendono: la luce del sole è già più gialla, obliqua, meno calda; man mano che il sentiero prende quota, si avverte sulla pelle la brezza della sera. Mi lascio tentare dai lamponi, ne afferro due al volo, li metto in bocca senza guardare: c'è anche qualcosa di filamentoso, lo sputacchio... Con mio sommo orrore, è un ragno! Bleah, per poco non mangio un ragno. Io che ne ho il terrore... Quasi mi sorprendo alla tranquillità con cui supero il tragico momento. L'unica preoccupazione, adesso, è quella di non perdere troppo terreno rispetto ad Isacco.
La traccia passa sotto la condotta forzata che costeggia già da un po'; poi, con pendenza più dolce, risale verso la testa della valle. Non è più ora di viaggiare a pancia scoperta; indosso la maglietta, senza fermarmi. Una bella foto ad una pietra che pare una ciambella, con un buco in mezzo; uno sguardo al colle alla mia destra, da cui provengono le voci: no, la direzione non è quella. Un centinaio di metri avanti a me spunta Isacco, bontà sua, che mi ha attesa al bivio, ma schizza via non appena è sicuro che io l'abbia visto. Ancora un lungo traverso su sentiero e pietre dal colore viola ed altri frammenti, bianchi e scintillanti, che il mio compare liquiderà come "comunissimo quarzo": sarà anche comunissimo, ma è bello...
Al colle, sono quasi stupita d'aver messo alle spalle ottocento metri di dislivello. Le gambe non se ne accorgono, per ora, ottimo segno; in compenso, la pancia, desolatamente vuota, chiede aiuto e conforto. Butto giù una barretta mentre ci avviamo in discesa nella Valle delle Meraviglie: di nome e di fatto, è uno spettacolo mozzafiato di colori e laghetti, con le ombre lunghe del tardo pomeriggio; in realtà, non sono nemmeno le sei quando passiamo accanto alle chiassose greggi, che intrecciano fitti discorsi di belati d'ogni tonalità, ed arriviamo al Rifugio, ma ormai bisogna rassegnarsi all'idea che le giornate sono, ahimè, brevi.
Senza sosta, seguiamo il sentiero che sale verso destra, dapprima dolce, verso la prima piccola diga. I raggi del sole scintillano sulla superficie dell'acqua, quasi accecano; le ombre risalgono i pendii. Isacco si è fermato un attimo, è rimasto un po' indietro. Cammino spedita, com'è ormai il mio passo, ma senza fretta; nessun pensiero, nessuna preoccupazione, non esiste altro che questo momento, questo luogo splendido, quest'aria che accarezza il viso. Pace, ecco. Se dovessi definire cos'è la pace perfetta, eccola, è questa. Una salita, ma senza fatica; un cielo amico che promette stelle; pietre, pini, un passaggio stretto tra le rocce, silenzio. Nessun orologio, nessun orario da rispettare, nessuna meta precisa per questa sera. La compagnia di una persona che trasmette fiducia e mi fa ridere di cuore, con un carattere gioviale, generoso di splendidi sorrisi. E' incredibile... Se mi chiedessero cos'è la beatitudine, ora sì che saprei rispondere. Vorrei che questa sensazione non svanisse. Non svanirà, almeno non questa sera; Isacco continua a far conti su conti, per capire a che ora potremo arrivare all'una o all'altra meta intermedia. Un'altra diga, un altro salto di roccia, un pianoro, le indicazioni sui pannelli gialli: Pas du Diable. Pochi minuti e ci siamo.
Lo spettacolo che si rivela appena oltre il colle ha un che di magico. Alle nostre spalle, l'ambiente alpino, i pini, i laghetti, il rifugio. Davanti a noi, cime più dolci, arrotondate; una pietraia, poi solo pascoli, digradanti verso il mare, che è ancora lontano ma già si percepisce.
Mi avvio in discesa, per sentire, due tornanti più sotto, l'urlo di dolore di Isacco, che s'accorge che, in questa valle, sarà ben difficile trovare acqua. E' vero, mi sa che ha ragione, ma non mi pare questa gran tragedia... Ne troveremo più avanti; non credo proprio che noi si rischi la morte per disidratazione! Macché, il tapino non sente ragioni; una delle sue ossessioni è proprio l'acqua... Mi sorpassa di gran carriera, caracolla giù per la pietraia; io rido e seguo con calma, malferma sui sassi, finché raggiungo i più dolci pendii erbosi. Leggerissima risalita ad un colletto dal quale spuntano gli ultimi, intensi raggi del sole: dobbiamo aggirare una cima oltre la quale si vede la nostra prossima tappa ideale, l'Authion. Luogo noto perché lo si raggiunge dal Col de Turini, una delle mie mete ciclistiche preferite.
Il sole, che già ci aveva abbandonato al di qua del colletto, torna a farci compagnia ancora un po', subito dopo, finché il sentiero, con un lungo traverso, se ne allontana attraversando un pendio già in ombra da un po'. Lontano, all'orizzonte, le montagne nelle sfumature dell'azzurro, sempre più chiare man mano che lo sguardo si allontana: sembra davvero un paesaggio da cartolina, eppure è così, è la realtà di una sera dolcissima a cui oggi farò compagnia.
L'Authion sembra vicinissimo ormai. Una sella, Baisse de Saint Veran, poco più di 1.800 m di quota; da qui, con due tornanti, il sentiero riprende quota, passa accanto ad una struttura di pietre ed arcate in metallo e punta dritto verso la cima. Lo seguiamo, appena in tempo per goderci lo spettacolo di uno spicchietto di luna che spunta oltre il profilo delle montagne e sale su, fino a diventare, in pochi istanti, un maestoso tondo rosso. Dalla parte opposta, il cielo è un incendio di sfumature rosa, fuoco, nere, di ombre che si mangiano le montagne. Procediamo, ormai tranquilli e fiduciosi. Ma a cinquecento metri dalla cima... L'amara sorpresa. Il sentiero è invaso da un gregge di pecore; un cagnone, loro custode, non sembra affatto dell'idea di lasciarci passare. Accorre fendendo il gregge, si piazza perentorio a qualche metro da noi, ringhia, abbaia. La povera bestia porta evidenti le tracce di una ferita alla parte sinistra del muso, non curata, infetta: mi si stringe il cuore a vederla in quelle condizioni. Muovo qualche passo avanti, porgo la mano al cagnone, che, più spaventato che aggressivo, si ritira di colpo, arretrando le orecchie; mi avvicino ancora, quello abbaia e ringhia ma resta a distanza. Io proverei a passare... Ma Isacco, poco dietro, è paralizzato dal terrore; mi prega di tornare indietro, di lasciar perdere. Provo ad incoraggiarlo, a dirgli di restarmi accanto, ma non c'è verso. Vuole tornare indietro, salire in cresta e passare dal prato: cosa che mi preoccupa non poco, perché il pendio è molto ripido, e le pecore sono anche più in su. Se fosse giorno... Ma è quasi buio e a me pare un'idea da suicidio. Arretriamo pian piano, mentre il cagnone ci segue e ci abbaia; non appena muoviamo un passo verso il pendio, ecco un altro abbaio, molto più deciso e potente del primo: un altro cagnone, di identica stazza, si lancia verso di noi. Potrebbero essere, a giudicare dal pelo e dalla mole, due pastori maremmani. La seconda bestia mi preoccupa un po' di più. Lascio che Isacco si allontani pian piano, tenendo d'occhio i due cani; io arretro un passo alla volta, fermandomi immediatamente ogni volta che li vedo avvicinarsi troppo. Allontanarsi di qui, a quanto pare, non sarà facile. Resto immobile, mentre loro, altrettanto immobili, mi abbaiano da qualche metro di distanza. Poso lo zaino, ne estraggo la focaccia; ne stacco una buona porzione, la spezzo in due, la lancio verso i due animali: il primo, quello ferito, quasi si spaventa; ne approfitto per mettere qualche metro tra me e loro. Quando ormai sono lontana a sufficienza, è chiaro che non rappresento più una minaccia; i due guardiani del gregge non mi degnano nemmeno più d'uno sguardo.
Torniamo sui nostri passi. Isacco si fionda giù come un proiettile: ma non mi sognerei mai di prenderlo in giro per la sua paura; so bene cos'è il terrore, anche se per me non è terrore dei cani, ma ad esempio dei luoghi esposti, dei ponti, dei pendii troppo ripidi. Forse avrò troppa fiducia in me stessa, ma ho la ferma convinzione che il cane non attacchi senza motivo: infatti, anche questa volta, come già mi è accaduto in innumerevoli faccia a faccia con quattrozampe nervosetti, sono rimasta ferma e non ho provocato alcuna reazione violenta, al di fuori dell'abbaio. Certo, un po' di stizza ce l'ho; possibile che il gregge, con ettari di pascoli a disposizione, dovesse restare proprio sul sentiero? Possibile che i pastori possano avere il diritto di bloccare un passaggio? Poi però, a ben pensarci, mi rendo conto che l'anomalia non è il gregge... Siamo noi che passeggiamo per monti a quest'ora di sera. Anzi, notte, ormai, tant'è che, per tornare alla costruzione accanto a cui siamo passati poc'anzi, devo già accendere la luce frontale.
Che fare? Beh, innanzitutto un momento di requie. Ci ripariamo accanto al muro, perché qui sul colletto tira un vento gelido; su di noi si alza la luna, tonda, pienissima, luminosa, che quasi rischiara la vallata a giorno. Indossiamo giacche e pantaloni lunghi, mangiamo un boccone. E' evidente che ormai i nostri programmi saranno stravolti. L'Authion è inaccessibile: chissà, magari in capo ad un'ora o due il gregge potrebbe anche spostarsi, ma non possiamo permetterci di perdere tutto questo tempo, non ora che più o meno siamo ancora svegli ed in grado di macinare chilometri. Da scartare anche l'idea di raggiungere la base dell'Authion per un altro sentiero: questa è zona ricchissima di pecore; rischiamo di aggirare un ostacolo e finire in pieno contro un altro ostacolo dello stesso genere. Non resta che imboccare un sentiero che raggiunge presto il bosco e va a confluire in una strada asfaltata, che conduce a Fontan.
Mentre Isacco si tranquillizza e si cura le vesciche ai piedi, io mi accuccio a guardar le stelle. Un cielo sconfinato, centinaia di puntini scintillanti; siamo a quota 1.800, ma qui, al riparo del muro, il freddo non si sente ancora. Sarebbe davvero stupendo sdraiarsi qui, al riparo del telo termico, col naso all'insù, aspettando che arrivi il sonno. Ma non si può, è troppo presto, sono solo le otto e mezza. Adesso l'unica cosa che conta è scendere, puntare dritto a Fontan, arrivare almeno lì prima di fermarsi a dormire.
Malvolentieri, ci rimettiamo in marcia, cartina alla mano. Al colletto, imbocchiamo una prima traccia di sentiero: ne percorriamo qualche decina di metri, ma Isacco non è convinto. Scruta la mappa, ordina il dietrofront. Un altro sentiero, che parte un po' più a sinistra nella vallata, è quello buono, con tanto di segnaletica, tacche gialle. In effetti, per un po' va tutto bene; Isacco fa strada, curando di non lasciarmi mai troppo distante; io lo seguo fedelmente, perché di notte, nonostante la luce frontale, i miei occhi servono a ben poco. Su di noi, per fortuna, la luce della luna, che illumina il pendio e fa le ombre.
Purtroppo il sentiero, dapprima chiaro, nei pressi di un grosso alpeggio si perde nel nulla. Tacche un po' ovunque, ma non si riesce a passare, né a seguire un filo logico. Solo un prato che precipita giù in un canalone centrale. Ci avviciniamo timorosi alla casa, che sembra deserta, anche se non da molto: una carriola ed alcuni attrezzi sparsi testimoniano un recentissimo passaggio dei pastori.
Isacco è più attento di un segugio: carta alla mano, insegue la traccia. "Dalla casa il sentiero passa oltre il secondo impluvio...". E che razza di roba è un impluvio? Ah un fiume... Seguo il mio capobranco, che in questo momento diventa anche la mia ancora di salvezza. Rincorre le tacche, una dopo l'altra; sbaglia, torna indietro, riprova. Io provo a fare altrettanto, ma un paio di volte mi areno sul pendio come una balena spiaggiata... E' terribile, il terreno è scivoloso; non riesco a puntare né i piedi né le mani, ad ogni mossa scivolo giù, sotto di me un imbuto nero. Eccolo, il mio terrore. Con le mani tremanti, vano ogni tentativo di rimettermi i piedi, sotto lo sguardo perplesso e sconsolato di Isacco, che non sghignazza solo perché teme la mia feroce vendetta, mi siedo: aggiungo agli arti l'appoggio del mio sconfinato didietro. Mossa azzeccatissima: di lì a poco, strisciando sul didietro, guadagno il sentiero.
Da lì in poi, scendiamo con il conforto di una traccia sicura e più definita; un momento di sconforto l'abbiamo solo quando ci tocca attraversare quel che resta di una valanga, tronchi e rami e detriti che hanno ovviamente sepolto qualsiasi passaggio. Ma anche qui Isacco non si perde d'animo: ritrova, poco oltre, la nostra linea di marcia. E, da qui in poi, il sentiero s'allarga, di pari passo con il mio cuore, fino a tuffarsi nel bosco. Ci fermiamo un istante a riempire le borracce ad un corso d'acqua: è vero che non fa caldo, ma il terrore ha prosciugato la gola ad entrambi. Osservo i giochi di luce della luna tra le fronde, immagini spettrali, inquietanti: ma mai quanto la ricerca del sentiero in mezzo ad un prato ripido e buio...
Sbuchiamo poi su una strada sterrata, ampia, comodissima: da qui a Fontan, basta difficoltà, basta dubbi e rischi. C'è solo più da camminare. Un po' più di mezz'ora di strada sterrata, in cui il sonno approfitta subito, a tradimento, del terreno lasciato libero dall'adrenalina della discesa. Cavi del telefono e fronde che si compongono in immagini inesistenti, ombre che sembrano animali in fuga. Lo scoiattolino sui tralicci, però, c'è davvero!
La marcia è finalmente tranquilla. Il povero Isacco, però, lamenta dolore alle piante dei piedi, che decuplica non appena raggiungiamo l'asfalto: da qui in poi sarà tutto un lamento. Isacco è allergico all'asfalto, non c'è nulla da fare. Tra sonno e fastidio, anche lui è ben messo: tra tutti e due, ricalchiamo bene l'immagine della canzone di De Andrè, "...una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino", anche se non abbiamo toccato goccia. Ben 8 km di asfalto ci separano da Fontan: sarà dura, perché la pianura, per di più così agevole, è nemica giurata della veglia. Il sonno ci aggredisce senza sosta: eppure, Isacco giustamente insiste per arrivare fino a Fontan, che, tra l'altro, è a quota abbastanza bassa, 300 metri, e potrebbe assicurare una temperatura notturna quasi confortevole.
Camminiamo, ma sarebbe più corretto dire che ci trasciniamo, tra le case sparse ed i giardini recintati e le pareti di roccia; abbiamo il conforto di qualche finestrella illuminata, cani che abbaiano da lontano, qualche auto nei cortili, a testimonianza della presenza umana. Combatto il sonno come posso; a volte attacco discorso: il guaio è che siamo entrambi talmente suonati che non ci capiamo l'un l'altro. Le nostre non sono parole, sono suoni trascinati senza forma. Abbiamo entrambi le allucinazioni, già da un po'; Isacco vede un gorilla, e spero per lui che non sia quello cantato da De Andrè; io mi fermo in mezzo alla strada a guardare in alto, mi par di vedere, su una sporgenza della roccia, un'enorme statua bianca tipo quella del Cristo in Brasile: ohibò, proprio io che sono un'incallita miscredente!
I piedi del mio compare urlano vendetta, chiedono tregua ogni tanto; i chilometri sui cippi a bordo strada scorrono con una lentezza esasperante. In un giardino non recintato, due sdraio ci osservano: fortissimo è l'impulso di andarcisi a sdraiare. In realtà, poi, io sto bene, non ho alcun dolore né alcuna particolare stanchezza; il guaio è il sonno, ma è anche comprensibile, vista la sveglia della notte scorsa alle tre. Ed anche il freddo, che mi è già entrato nelle ossa, benché Isacco sostenga che fa caldo, che si suda. Probabilmente, nella mia vita precedente, ero un rettile...
A partire dall'ultimo km, buttiamo l'occhio ai prati lungo la strada: adesso sì, è ora di cercare una cuccia per la notte. Questo no, ci sono i rovi, quell'altro no, è sotto il lampione. Oltrepassiamo il ponte alla nostra destra: da lì parte un sentiero che, in meno di un km, raggiunge il centro dell'abitato di Fontan. Lo imbocchiamo: qui c'è finalmente un posto che fa per noi. Gambe sul sentiero, schiena appoggiata al lievissimo pendio. Mangiamo un boccone, indossiamo tutto quel che abbiamo; estraggo il mio pluricollaudato telo termico. Un attimo dopo, ci siamo sotto entrambi: rannicchiati, al buio e con il sottofondo dell'acqua del torrente Roya, alle due di notte crolliamo addormentati.
Sfido però chiunque a dormire un profondo sonno ristoratore, su un materasso di sassi aguzzi e con il tremore del freddo che ti scuote di continuo. Mi risveglio più volte in preda ai brividi; cerco di controllare le scosse del freddo per non svegliare Isacco, ma non c'è verso. Il più possibile appiccicati per sfruttare l'effetto stalla: ma non travisino, i malpensanti, o benpensanti, a seconda dei punti di vista... Non c'è nulla di morboso in tutto ciò, purtroppo! In questi momenti, credo di emanare la stessa carica erotica dello spazzolone del water, e mi sa che, dopo diciannove ore di marcia, anche l'olezzo è il medesimo. E poi, l'unico istinto che domina adesso è quello di sopravvivenza. Non ibernare è la parola d'ordine: ben venga quindi quello scaldino ambulante che è il mio compagno di sventure. Mi dirà poi lui d'aver tratto lo stesso vantaggio dal mio abbondante posteriore: pare che una simile superficie radiante sia ottima come calorifero... Sì, ma così non va per niente bene; per me è uno spreco di energia intollerabile!
Mi sveglio più volte in preda ai tremori e con i morsi della fame; ho le gambe ed i piedi gelati. Il telo termico spesso si solleva, lasciando penetrare una lama d'aria gelida che mi taglia la faccia. Quando tornerà il sole? Per fortuna, il sonno è tale da sprofondarmi nell'oblio, ogni volta. Finché, dopo un tempo indefinito, metto un occhio oltre la coperta: la luce!
Una gomitata al buon Isacco che sta ronfando della grossa. Mi risponde un grugnito suino, un rantolo; alla fine ce la fa anche lui: estrae la testa dal nascondiglio, strizza gli occhi e, con voce da caverna dell'oltretomba, sbotta: "Ma dove caxxo sono?". E, dopo un istante di pausa: "Ma che caxxo ci faccio qui?".
Ci vuole coraggio per rimettersi in piedi. Il trauma di allontanare il telo termico, i muscoli irrigiditi, dolori ovunque, lamenti strazianti. Ci alziamo e ci ricomponiamo con la speranza di trovare un bar aperto a Fontan, buttare giù qualcosa di caldo: macché, nulla di nulla. Approfittiamo di una panchina per prepararci al viaggio: io mi levo un paio di strati, mentre Isacco si dedica alla cura dei piedi. Osservando le operazioni, almeno finché non diventano troppo raccapriccianti, mi rendo conto di avere, tra le tante fortune, anche quella dei piedi indistruttibili. Oltre ad un ottimo fornitore di scarpe da montagna.
Frugale colazione, altra pastiglia di antiinfiammatorio preventiva: Fastum per me, Aulin o simili per Isacco. Non c'è che dire, siamo due drogati: ma non si può mica permettere che dolorini e doloretti si frappongano tra noi e la nostra avventura!
Proprio davanti alla stazione di Fontan, si stacca il nostro sentiero. Ancora una brevissima pausa per svestirsi e poi via: la salita si mostra subito per quel che è, decisa, ripida, malagevole in mezzo alle fronde, alle sterpaglie, ai rovi. A quanto pare, però, le gambe non se ne preoccupano: mi portano su in fretta, a buon ritmo, proprio come se fossi appena partita; in effetti è vero, ma dopo i settantacinque km di ieri. Un po' mi lusinga sentir dire da Isacco che ho un buon recupero: in effetti è una delle mie poche qualità positive in fatto di sport, unita forse ad una discreta resistenza ed alla fortuna, finché dura, di non sapere cosa sia l'infortunio. Non mi è mai successo, in effetti, di farmi male al punto da dover rinunciare ad una corsa o, in generale, ad un appuntamento sportivo a cui tenessi.
Peccato solo che questo sentiero sia in pessime condizioni, invaso dalle sterpaglie e sporco, almeno nella prima parte. Ci porta su in fretta rispetto al fondovalle, ci apre una bella vista sulle montagne tonde. Ma il mio incedere, sempre ad occhi bassi, mi fa notare soprattutto che la condizione delle mie scarpe è deplorevole. Già acciaccate lo scorso fine settimana, sembrano proprio voler rendere lo spirito.
Rsggiungiamo un bivio: altolà, s'impone consultazione della mappa. Il sentiero sale ancora, ma, con mio gran disappunto, noi dobbiamo piegare a destra e scendere diretti a Saorge. Pessima notizia, perché questa discesa è a dire poco odiosa: molto ripida, lunghi tratti su sfaciumi, pietrisco o terra che non permettono di fermare il piede. Tocca scendere molto piano, con sforzo eccessivo da parte dei muscoli dei cosciotti e rischiando di continuo di finire a terra: non sarebbe grave, per carità, ma io non riesco proprio a buttarmi giù scivolando sui piedi tipo sci messi di lato. Detesto sentire che il movimento non dipende da me.
D'improvviso, la vista si apre sul campanile di Saorge, ancora parecchio più in basso, ancora in ombra. Isacco schizza giù, io mi muovo con circospezione, trattenendo il fiato ogni volta che il piede scivola da sé, con il terrore di finire lunga e distesa: scomposta e grossolana come sono, se cascassi mi farei male di certo, ed oggi è vietato.
Raggiungo finalmente le case di Saorge, bellissime, in pietra, come la scalinata in centro paese. Trovo il collega nei pressi di una splendida fontana: in effetti, è ora di darsi una sciacquata e levarsi gli abiti da montagna, perché qui tra breve la temperatura sarà rovente. Che piacere, una solenne lavata alla faccia, alle braccia, la testa sotto il getto del rubinetto. Lavarsi e mangiar qualcosa sono le priorità: a Fontan, faceva ancora troppo freddo per avere il coraggio di toccare l'acqua; inoltre, era troppo presto per trovare un bar aperto, così niente café au lait. Secondo Isacco, oggi farà un gran caldo: che dire, non chiedo di meglio!
Un'anziana signora viene alla fontana, ci chiede da dove siamo partiti; risponde Isacco, "Eh da lontano... Dall'Italia!". La madama ci squadra un po' perplessa, scuote la testa, se ne va. E noi pure, ci rimettiamo in marcia passando sotto un imponente campanile ed andiamo ad imboccare un sentiero lungo il fiume. Ad un ponticello, senza pensare, seguiamo quello che semra il sentiero principale, a sinistra: ci ritroviamo così a camminare sui ciottoloni tondi del greto della Roya, quasi completamente secco in questo punto, salvo un rivoletto che scorre sulla sinistra. Ahi... Mi sa che c'è qualcosa che non quadra. Rapido consulto della carta: al ponticello, avemmo dovuto girare a destra. Torniamo per l'ennesima volta sui nostri passi, mentre Isacco esclama sconsolato: "A questo punto, dobbiamo per forza andare verso Breil". In effetti, Ventimiglia è ancora troppo lontana: si potrebbe pensare di raggiungerla comunque, solo se non avessimo limiti di orario. Il guaio è che l'ultimo treno parte alle otto e mezza e non ci aspetterà. Ci diamo Breil come destinazione intermedia e riprendiamo a salire. Un'altra ascesa del tipo della precedente, ripida e regolare, ma in un ambiente più curato, cespugli e bosco che solo in brevi punti invadono il sentiero, qualche ramo spezzato e pendente sulle nostre teste. Parto di gran carriera, ora che il sole si leva e riscalda l'aria e la pelle, anche se restiamo nascosti dalla vegetazione. Isacco invece, con mia sorpresa, resta un po' indietro. Pochi metri, nulla di che, ma non è da lui. Resta indietro e tace; pessimo segno.
Un susseguirsi di rampe severe, poi il bivio con una strada sterrata: e mò? Destra o sinistra? Attendo il compare: destra, la sentenza. Ma sembra che non vada troppo bene... Isacco lamenta dolore al ginocchio; minaccia di tornare giù a Saorge e chiedere un passaggio fino a Breil. Sembra sofferente e molto deciso: ci rimango malissimo; già vedo la giornata sprecata così, il giro abortito, scorciato, tristemente. Poi, sempre tra me e me, mi do dell'egoista: questo poveretto è qui anche e soprattutto perché gli ho frantumato gli ammennicoli per farmi portare in giro... Ed io, in paga, lo voglio far marciare con il male! Non oso pensare a quante pastiglie di antiinfiammatori abbia già trangugiato, lui che su queste pratiche va ancor più disinvolto di me.
Quota 654, altro bivio a pochi metri dal primo. Lascio che Isacco vada avanti: so bene che, per la mente, il fatto di essere capofila è già un ottimo lenitivo del dolore. Infatti, pur tra lamenti e strepiti e versi irripetibili, la locomotiva si rimette in moto. Al Col Agu, quota 1000 o poco più, arriviamo in fretta: da qui, ahimé, lunghissima interminabile discesa. Prima sentiero accidentato, ripido, stretto, quello che gli addetti ai lavori delle corse in montagna chiamano pomposamente "single track" – che poi significa che ci si passa uno per volta – poi un pertugio in mezzo alla vegetazione, che ci fa persino dubitare d'essere sulla retta via; eppure, i cartelli sono frequenti e per Breil sur Roya ci mandano proprio di qui. Attraversiamo più e più volte lo stesso torrentello, con ponti di legno dall'aspetto ben poco solido: due tronchi di legno paralleli, con tavolette trasversali, compongono quello che ha l'aspetto più affidabile. Va bè che non sarebbe un gran salto...
Il bubbolio continuo del mio compare si trasforma in un urlo lancinante quando il sentiero, passato tra alcune case ormai alla fine della discesa, va a sbucare su una strada asfaltata. Cotanta disperazione è dovuta sia al fondo stradale, che diventa subito una tortura per le piante dei piedi di questo rottame ambulante, sia al fatto che, da qui alla stazione di Breil, ci toccheranno tre o quattro km di strada statale. Mah... Io non vedo il dramma: sia perché d'abitudine mi alleno a correre su strada e figuriamoci se mi spavento di camminarci; sia perché la superficie regolare dell'asfalto è un'ottima occasione per rilassare un po' i muscoli. Ma Isacco non trova pace: "Avremmo dovuto restare sul sentiero più alto, sarebbe stato panoramico, qui è uno schifo, io ho male, fa troppo caldo...". So di essere irriverente, ma non riesco a trattenere le risate: è così melodrammatico che non può essere vero!
Si cammina sotto il solleone che ci incolla al terreno, caldissimi raggi del primo pomeriggio in queste zone che, parlando in termini di distanze automobilistiche, sono a due passi dal mare. Ciascuno un po' intontito, perso nelle proprie meditazioni trascendentali. Io che penso che mi dispiace, mi dispiace davvero troncare il cammino qui, così presto, e non ho voglia di andare a casa, perché sì, certo le gambe cominciano a sentire il peso dei km, ma potrebbero andare ancora ed ancora. Così, quando, ormai invista della stazione, Isacco propone di consultare la carta e valutare la distanza dalla stazione di Airole, qualche fermata più avanti verso Ventimiglia, mi trattengo a stento dal travolgerlo di gioia. Accucciati sul bordo di un'aiuola, con il conforto di due lattine di Coca ed un Magnum presi al bar della stazione, studiamo le carte e gli orari ferroviari. Dunque, l'ultimo treno ad Airole ferma alle 18. Ora è circa l'una del pomeriggio; potremmo essere là in tre ore circa. In alternativa, ci si potrebbe lanciare su per qualche salita qui attorno; a me andrebbe benissimo lo stesso, ma non ad Isacco, che ha bisogno di un filo conduttore, una parvenza di senso logico in un itinerario, per trovare la motivazione e partire. Allora aggiudicato, si va ad Airole.
Quasi non ci credo, quando ci rimettiamo in cammino. La mia guida parte di gran carriera e con destinazione sicura: passiamo in una delle vie interne del paese, sbuchiamo ad una fontana e poi, neanche ci fossimo dati appuntamento, ecco il sentiero, con tanto di cartelli: Fanghetto, Airole. Sentiero che si avvia in piano, lungo la Roya, dalla parte opposta rispetto alla strada statale. Isacco esclama "Se è tutto così, ci arriviamo in due ore!". Ed io ghigno sotto i baffi: possibile che tu non abbia ancora imparato nulla? Infatti, di lì a poco, comincia la salita dolce; di fronte a noi, poi, si para un'alta parete rocciosa che, ad occhio e croce, potremo superare solo salendoci in testa. Non c'è ombra di sentiero a mezza costa, sarebbe impossibile ed illogico. Così cominciamo a salire, tornante su tornante, su un sentiero ampio e ripido, a scalini, che ci fa fare un bel salto a picco, prima di sbucare, con la solita colonna sonora delle lamentazioni della mia guida per il caldo, su una strada sterrata, in mezzo ad alcune case. "Sei peggio delle piagnone", lo prendo in giro; si vede lontano un miglio, da come cammina, che ne ha ancora.
Il primo abitato che incontriamo è un piccolo paese,servito da strada asfaltata, senza neanche una fontanella. Anzi, è tappezzato di minacciosi cartelli che avvisano della scarsa qualità dell'acqua. Pazienza, un po' di scorta c'è ancora; torniamo a scendere fra gli ulivi, dopo chilometri e chilometri di saliscendi. L'ambiente è davvero arido, sabbia bianca ed ulivi e persino cactus; se penso agli stambecchi di ieri... Qui vedrei bene solo le lucertole. Per fortuna, non abbiamo ancora perso la voglia di scherzare; quand'anche io tento di intavolare un discorso con un minimo di profondità, e lo precedo con un annuncio, Isacco mi prende in giro: "Sì, rifletto sul pensiero di Heidegger, cosi come influenzato da...". Da chi? Boh, l'ho già dimenticato; fatto sta che, gelata da cotanto sfoggio di cultura superiore – io ricordo a malapena che quel nome m'è passato sotto gli occhi in occasione dei miei precari e svogliati studi per la Maturità – m'interrompo e torno nell'ambito del genere di conversazione che più mi si addice: le boiate.
Poco prima di Fanghetto, altro piccolo paese abbarbicato sul pendio, raggiungiamo una famiglia evidentemente reduce da un'escursione lungo il fiume: indossano spesse tute impermeabili, scarponi goffi ed enormi, eppure camminano lungo il sentiero con passo ben più sciolto di noi. Sono tre ragazzine, la più grande avrà tredici anni, e, più avanti, i genitori, credo, in compagnia di un bambino più piccolo, di cinque o sei anni. Sfido chiunque ad immortalare una scena così in Italia, ad opera di genitori italiani!
Ancora una sosta all'unica fontana "priva di controllo sanitario"; sai che paura... Abbiamo sete! Ci buttiamo la testa, le mani, la faccia. Siamo in "Via del Campo", recita il cartello: Immediatamente mi salta in mente la celebre canzone, anche qui di De Andrè, ma nella voce di Matteo che ogni tanto costringo a cantare per me, con tanto di chitarra, perché è bravissimo... Non mi stancherei mai di ascoltarlo!
Ora l'ultimo sforzo, il tratto da qui ad Airole. Non abbiamo idea di quanto manchi ancora; ci avviamo fiduciosi verso il centro del paese, che si raggiunge, ovviamente, con una bella rampa in asfalto: il lamento della mia guida si fa sempre più acuto, roba da stringere il cuore. Un gruppo di turisti gli chiede se "è dura"; in risposta, un rantolo... Oh insomma, cammina! Lo so benissimo, che è tutta scena... Un'accozzaglia di case e vicoletti da disegno del palazzo impossibile, tutto un accavallarsi di porte e balconcini e gradini; c'è da dire che questo è il luogo ideale per una persona che viva sulla carrozzina, o che magari si rompa anche solo una gamba! Eh bè, del resto qui non si potrebbe proprio far nulla. Non ce n'è spazio e modo; è un paese antico.
Ancora su e giù su sentiero; c'è qualche breve tratto di risalita, ma ormai il peggio dovrebbe essere passato. Tant'è che Isacco chiama a casa ed ordina la cena. Già, la cena: a casa mia il frigo sarà desolatamente vuoto... Nei paraggi delle prime case di una frazione, il mio compare punta il naso per aria alla ricerca di un colle per raggiungere l'abitato di Airole evitando il giro della strada asfaltata: sì, ci sarebbe... Ma il dislivello, anche solo ad occhio, lo convince ad arrendersi all'asfalto. Una volta tanto, sono contenta anch'io: non vorrei rischiare di perdere l'ultimo treno.
Un po' di asfalto, sotto i raggi di un sole già meno rabbioso, alle cinque passate di un pomeriggio di settembre. Un sollievo, certo, siamo stanchi entrambi... Ma io non riesco ad essere felice; so che qui finisce l'avventura, comincia la malinconia. Nel paese dei gatti, spuntano ovunque frotte di mici di ogni colore e pelo, per la gioia di Isacco che li adora; giro turistico in centro, volti di anziani e sapore di antico, un piccolo bar da cui ci arrivano commenti di calcio, sguardi curiosi degli avventori. Infine la stazione, poco più di una pensilina del pullman, senza nemmeno un macchinario per l'emissione dei biglietti. Non c'è che dire: essenziale. Ci accasciamo sulla panca, non prima però che io aggiunga una rapida spedizione al bar per raccattare due lattine di Coca e due gelati: giusto per verificare la reazione delle gambe alla corsa sugli scalini. Dopo quasi 110 km e 5.200 m di salita, ma mille in più in discesa, eccellente, direi. E poi, forse impietosito o reso più buono dalla consapevolezza che la fatica s'è conclusa, Isacco mi scruta mentre allungo un po' i muscoli delle gambe e conclude che "in fondo, non hai nemmeno tanta panza...". Beh, lo prenderò come un complimento! Comunque non si chiama panza, si chiama riserva lipidica per l'ultradistanza.
In treno non vorrei dormire; la chiacchiera di Isacco è un modo per prolungare idealmente questa splendida avventura. Purtroppo, i momenti più belli vivono poco, "come le rose", per dirla con il cantautore che ci ha accompagnati nelle citazioni del viaggio. E, come se non bastasse, più intense sono le avventure, più forte è la malinconia del giorno dopo, quando tutto è finito e si torna alla vita normale. Isacco poi è uno dei miei compagni di fatica preferiti, uno di quelli che non patisce nulla e non molla mai, anche se si lagna più di un ottuagenario con l'artrosi, basta non farci caso. Se però penso che, a breve, sarà in partenza per rendere il giusto tributo al suo finissimo cranio in giro per il mondo con un dottorato, non posso nemmeno dire "sarà per la prossima volta"... Anche se una mezza promessa l'ho forse già strappata!
Controllo di rito, patente e libretto, ma io sono terrorizzata come se stessi trasportando un cadavere affettato nel bagagliaio. Un posto di blocco "volante" non l'avevo proprio mai visto né vissuto. Per fortuna è tutto ok: riparto e pesto a tavoletta, perché Isacco mi aspetta alla stazione di Borgo San Dalmazzo per le 5.45 e, causa contrattempo, mi resta solo un'ora di tempo. Me la faccio bastare: è sabato mattina ed alle 5.40 sono lì. Non devo, non posso, non voglio rinunciare neanche ad un solo minuto dell'avventura che mi attende.
L'idea era nata da una gita pensata da Isacco tempo fa: "Ho combinato con alcuni amici un giro nelle Marittime per settembre", e ricordo che già a sentir quella frase avevo sperato, in cuor mio, di essere coinvolta. Il fanciullo avanza spesso dubbi circa la mia integrità mentale, ma l'opinione è reciproca; anch'io so che, se l'itinerario è farina del suo sacco, allora la fatica è garantita, ottima ed abbondante. "Se vuoi venire anche tu...", non aveva ancor finito di pronunciare la "u", che io avevo già rovesciato sul progetto tutto il mio entusiasmo.
Nell'ultimissima settimana prima della data fatidica, poi, i piani sono stati stravolti: vista la rinuncia degli altri possibili partecipanti alla spedizione, siamo rimasti in due... E la gita di un giorno è diventata gita di due giorni con notte a nanna, e poi gita di due giorni con notte a spasso. Insomma, è lievitata come la pasta per la pizza. Quando ho sentito la versione definitiva del progetto, c'è mancato poco che mi mettessi a ballare il tip tap dalla gioia: "Arrivo a Borgo quando vuoi, Isacco, dimmi un'ora, anche le tre di notte, e sono lì"...
La Opel resta al parcheggio della stazione di Borgo San Dalmazzo. Il potente mezzo del mio compagno d'avventura ci porta, ancora al buio, a San Giacomo di Entracque. Da lì, pedibus calcantibus, giungeremo domani, se tutto va bene, alla stazione di Ventimiglia, da dove il treno ci riporterà a chiudere l'anello. Le previsioni meteo di tre o quattro siti Internet annunciano due giorni di bello stabile, addirittura con assenza di precipitazioni; ho la compagnia di un personaggio che cammina sul serio e non si abbatte manco con una fucilata; niente vincoli di tempo e luogo se non l'ultimo treno di domani sera... Direi che ci sono tutti gli ingredienti per la mia felicità. Infatti, già nel breve tratto che percorriamo in auto, sprizzo contentezza da tutti i pori: anche se il discorso cade, è inevitabile, sull'Ultra Trail del Monte Bianco della scorsa settimana. Ne siamo usciti entrambi cornuti, mazziati e ritirati, anche se con la piccola soddisfazione di aver superato almeno il centesimo km: la differenza è che il buon Isacco se l'è legato al dito ed ancora ci rimugina, elabora il lutto, per dirla con le sue parole; io invece ho voltato pagina credo trenta secondi dopo la disfatta... Perché domani è un altro giorno, sempre!
Al parcheggio di San Giacomo, con gran disappunto della mia guida, è ancora buio. Poco male, il sentiero da qui al Rifugio Pagarì lo saprei trovare persino io... E' quasi un'autostrada! Mentre ci prepariamo al via, altre due auto rovesciano sul piazzale un gruppo di escursionisti mattinieri come noi. Isacco attacca bottone, s'informa sulla loro destinazione; quando poi sono loro a rivolgere la stessa domanda a noi, il mio compare glissa: "Il Pagarì...". Rido sotto i baffi: se avesse detto che siamo diretti a Ventimiglia, l'avrebbero imbavagliato e portato d'urgenza al Pronto Soccorso!
Ci avviamo con calma lungo il breve tratto di strada ancora asfaltata, per dare modo alle nostre spalle di abituarsi, loro malgrado, al peso non proprio piuma degli zaini. Il programma prevede due giorni ed una notte di viaggio e nessun centro abitato da attraversare: dobbiamo essere autonomi in tutto, anche per la pappatoria. Per il bene delle nostre tasche, è opportuno evitare di ricorrere ai rifugi. Quindi io mi son portata una decina di barrette varie, due etti di Parmigiano, due confezioni di frutta secca e due bei pezzettoni di focaccia; come vestiario, una maglietta ed una canotta di ricambio, una felpa, una giacca, guanti lunghi, pantaloni al ginocchio e berretto di pile. Però parto in maniche corte e pantaloni cortissimi. Isacco, conoscendolo, avrà messo nel sacco alimenti ed abbigliamento per una spedizione al K2; infatti ha sulla schiena uno zaino monumentale, una sorta di enorme carapace giallo.
Le prime luci dell'alba illuminano appena le cime, inondate di rosso, e svelano un cielo limpidissimo. Alla Casa di Caccia, dove tutto ancora tace, la strada diventa sterrata, supera una fontana e s'infila nel bosco. La salita ha già cacciato via i brividi di freddo della partenza; non è ancora tempo di svestirsi, però: tra poco, sbucheremo sul pianoro e forse incapperemo nel vento.
Già sapevo che sarebbe andata così, che fin dai primi passi avrei avuto difficoltà di deambulazione. Colpa di Isacco, che, con l'espressione del volto più contrita e seria di quella che riuscirebbe a produrre un attore consumato, riesce ad esprimere inimmaginabili boiate: hai voglia a cercar di contrastare la risata, a pensare agli eventi più tristi e raccapriccianti che ricordi... Niente da fare, io mi piego in due e perdo quel poco di stabilità che ancora mi resta quando mi barcameno tra sassi e buche e terra.
Il pianoro è una buona occasione per riscaldare le gambe prima degli innumerevoli tornanti della salita al Rifugio Pagarì. Cioè l'unica parte del viaggio a me nota. Siamo all'ombra e vi resteremo ancora per un po', finché non saremo noi stessi a risalire la valle ed andare incontro alla luce. Tra episodi dei trail vissuti e luminosi progetti per il futuro, attraversiamo il ponticello e finalmente cominciamo a prendere quota. Piano, come sempre, perché è lunga.
Isacco lo ripete più volte, come una formula rituale: la salita è concentrata tutta nella primissima parte del viaggio; il Passo Pagarì ed il colle successivo. Poi sarà soprattutto discesa. Sì, da una parte è ovvio che la discesa sarà prevalente, visto che siamo partiti da quota 1.200 ed abbiamo come destinazione il mare. Ma, chissà perché, alla previsione della mia pur fidatissima guida io non credo nemmeno un po'. Ormai il copione è noto: si parte con un itinerario in mente, ma, a meno di restare in zone perfettamente conosciute da tempo immemore, di solito si finisce da tutt'altra parte. E se il programma dice 10 km, saranno 20, e se dice 1.500 m di dislivello, saranno 3000, e se dice che bisogna andare da A a B, si andrà da A a C a D e magari a B manco ci si arriva. Quindi lo lascio parlare, ma non commento... Ammetto che, in questo caso, nell'errore io spero davvero. La mia passione è la salita; non mi va proprio giù l'idea di doverci rinunciare. Ha pur ragione Isacco a dire d'averne abbastanza, di dislivello, per quest'anno, ma...
L'ascesa al Pagarì, è lunga, impegnativa e divertentissima. La dedichiamo in buona parte a sviscerare la tesi per cui, secondo Isacco, io mi porterei appresso un culone spropositato e svariati chili di troppo: in effetti, non posso dargli torto, non sono mai stata un giunco. Però ai miei carichi sporgenti tengo molto, quindi non credo che seguirò il suo consiglio. E poi, con suo gran dispetto, lui sarà pure un peso piuma, ma già strilla per il male alle ginocchia... Le mie, abituate al lavoro duro, stanno benissimo! O quasi: risentono un po' dei km di corsa della settimana passata, ma solo perché ho ripreso a correre su asfalto con regolarità ed un po' troppa foga. Insomma: al rifugio, siamo già bell'e fermi in pausa antiinfiammatorio. Una pasticca per uno, in via preventiva, che non si sa mai.
Dall'altra parte della vallata, si intuiscono le serpentine di altri sentieri, di cui ovviamente Isacco conosce vita, morte, miracoli e destinazione. Lungo uno di quei sentieri, dovrebbero essere in marcia gli escursionisti che abbiamo incontrato al parcheggio appena prima di partire. Osservo quei tornanti e penso che vorrei essere anche lì... Ovunque ci sia una salita!
Pietraia o neve? Son le due alternative per raggiungere il Passo Pagarì, quota 2.800 e rotti, circa 200 metri più in alto di qua. La scelta cade sulla pietraia, perché la neve, ancora ben presente quassù, a quest'ora del mattino è ancora troppo dura. Ci avviamo quindi verso il percorso acrobatico, non prima di esserci raccolti in estatica contemplazione della Maledia. Dev'essere un posto molto speciale, almeno per Isacco, che ha ambizioni alpinistiche e la rimira con religioso rispetto. Approvo per atto di fede, ma a me pare una montagna come tutte le altre: bella, imponente, senza dubbio, arcigna e nuda, ma tale e quale alle altre vette che vedo qui intorno. Ovviamente mi limito a pensarlo: guai, se proferissi parola, credo che arriverei a superare il colle con traiettoria parabolica e propulsione a calcio nel didietro!
D'ora in poi, la salita diventa una traiettoria casuale tra una tacca segnaletica e l'altra. Col mio corpaccione pesante e la mia ben nota familiarità con i passaggi da equilibrista, è inevitabile che il ritmo rallenti tragicamente. S'arresta poi del tutto quando ci imbattiamo in una compagnia davvero insperata: un bellissimo stambecco, un giovane maschio, che ci osserva placido, sdraiato su una roccia piatta. Ci guarda, si gratta la schiena con le corna, torna a guardarci, per nulla spaventato, al punto che riusciamo ad immortalarlo più volte con le fotocamere. Davanti a noi, altri due esemplari, un cucciolo e, credo, la mamma, a giudicare dalle tenerissime effusioni che si scambiano i due animali. Il cucciolo poi è una meraviglia, ancora senza cornetti, col pelo tutto arruffato. Roba da restare qui tutto il giorno... Invece no, tocca andare avanti, incespicando tra le rocce. Mi lancio in improbabili vie d'arrampicata che sarebbero tranquillamente evitabili se solo guardassi un po' più in là del mio naso, mentre il mio collega magnifica il fascino della montagna selvaggia... "Altro che il Mont Joly!". Eh no, caro mio, guai a te se mi tocchi il Mont Joly! Quella sì, è la montagna per me; una salita fantastica, 1.500 m di dislivello in una botta sola, e nessuna difficoltà tecnica. Solo fatica, e tanta, perché la pendenza del sentiero che sale dal versante di Les Contamines è davvero forte. Qui, sulle pietraie, sui sentieri che devi proprio cercare con il lanternino, sugli itinerari cocì malagevoli, sono un pesce fuor d'acqua. Mi obietti che questa è l'avventura: ma io non cerco l'avventura, mi accontento della fatica... Al Mont Joly potrei salire anche da sola, qui no, mi perderei nel nulla eterno, mi ritroverebbero al disgelo.
Scopro qui che il mio marsupio portaborraccia, con dentro la borraccia grossa da un litro, è quanto di più scomodo si possa scegliere per una salita che richiede, per me, la marcia a quattro zampe. Così, quello che Isacco ha già definito il vessillo della mia virilità – effettivamente è piazzato proprio in posto strategico e, dato il peso, pende un po' in avanti – rischia ad ogni piè sospinto di rotolare via e scomparire in qualche fessura nella pietraia.
Raggiungo il colle con le mani spelacchiate, e meno male che indosso i guantini da ciclismo. Scolliniamo: a quanto pare, laggiù si vede il mare. Il mare... Uhm, non ne sono così convinta. Possibile? La linea dell'orizzonte è incerta, sfocata, ma distingue in effetti due tonalità di azzurro diverse. Questo posto è meraviglioso...
La discesa ci porta verso il Rifugio Nizza, quota 2230, che già si vede sotto di noi. Isacco zampetta via agile, io faccio quel che posso; meno male che la discesa è breve. Ancora stambecchi a farci compagnia, e il sole, sempre più caldo, anche se siamo in alto e l'aria fredda sulla pelle si fa sentire; breve pausa ai piedi della bella scalinata in pietra che conduce al Rifugio, per riempire la borraccia e consultare la carta. Nelle mappe non metto naso; mi fido ciecamente del mio capobranco e mi limito ad obbedire agli ordini e camminare. Incredibile, quanto io diventi arrendevole, quando mi conviene! Oggi sì, che mi conviene.
Riprendiamo, tra uno sghignazzo e l'altro, la salita. Io lo sapevo, che mi sarei divertita un sacco. La fatica quasi non si sente, anche se il sentiero riprende a salire deciso. Alzo lo sguardo per intuire quale, tra le tante selle qui intorno, potrebbe essere il nostro colle, Baisse du Basto. Chissà. Torno con gli occhi bassi, a guardare i miei passi ed il sentiero, ad ascoltare il ticchettio dei bastoncini sulla pietra, arrancando dietro al mio compagno di viaggio che sale ben più sciolto ed agile di me. La traccia si inerpica poi sulla roccia; trovare gli ometti segnavia e le tacche di vernice diventa quasi una caccia al tesoro. Presa dall'entusiasmo, esagero persino un po'; questa pendenza è irresistibile, porta su in un attimo. Un primo scalino lassù, contro il cielo azzurro, fa pensare che quella sia la nostra meta; invece no, non è altro che un salto, oltre il quale si torna ad aggrapparsi alla pietra, con le mani e con i piedi. Un escursionista appena normale si farebbe bastare due arti... A me ne servono quattro ma, all'occasione, faccio appello anche alle ginocchia, al didietro, insomma a quel che c'è, tutto fa brodo. Purtroppo qui il mio culone si ritorce contro di me, e il fetente non perde occasione per farmelo notare; pazienza, antipatico, tu non apprezzi, ma qualcun altro sì!
Alle nostre spalle, ancora la Maledìa; solo che prima, dal Pagarì, aveva l'aspetto di un enorme badile; da qui, tutto quel che si vede è una lama sottile. Ecco, uno dei lati del carattere di Isacco che apprezzo davvero molto è la passione. Adora la montagna, in particolare la montagna di casa sua; si vede lontano un miglio che ne è orgoglioso ed innamorato, quando racconta le sue escursioni, le gite di scialpinismo, quando parla delle mete che vorrebbe raggiungere. Le raggiungerà, io non ho dubbi. E' una passione in forma diversa dalla mia, perché io detesto freddo e neve, ma non ha importanza; è forte e spero tanto che duri. Un po' lo prendo in giro, quando lo esorto a non lasciarsi abbindolare da una fanciulla tutta negozi d'abbigliamento e vacanze a Rimini... Ma mica troppo! Isacco, abbi cura del tuo talento...
Verso la fine della salita, diventa chiaro che i colli sono due; uno di fronte a noi, un altro leggermente sulla destra. Entrambi segnalati da ometti. Isacco punta deciso verso destra: da dietro una roccia spunta un paio di corna imponenti, enormi, e, poco dopo, ne spunta anche il proprietario, uno stambecco maestoso, che ci rivolge poco educatamente il posteriore. Allargando lo sguardo alla pietraia, ce ne sono altri, due, tre, molti di più: una manna per le macchine fotografiche. Ci concediamo qui una breve pausa; la mia guida scruta le carte, io mi appiattisco su una pietra a mò di lucertola, a godermi il sole, in modalità merendero. Ma per poco. Sotto un cielo sempre blu, ci avviamo lungo una traccia di sentiero incerta, fumosa; da un ometto all'altro, il guaio è che di ometti ce n'è troppi, ed in posizioni del tutto incoerenti l'una con l'altra. In più, dovremmo vedere alla nostra destra, sempre secondo il capospedizione, una vetta di cui invece non c'è traccia. Giù ed ancora giù, con passo incerto e traiettoria fantasiosa,fino a raggiungere un laghetto. Pieno alle borracce e via: si punta diretti verso quel che, alla nostra destra, ha tutta l'aria di un colle. Già. Peccato che non ci sia alcun sentiero per arrivare lassù, nemmeno la più scarsa delle tracce. Solo una distesa di pietre, che va via via aumentando la pendenza. Che fare? Propongo un attacco diretto; puntiamo a vista verso il colle, poi provvederemo ad aggirare eventuali ostacoli. Lo so già da sola, che è una boiata, ma non mi viene in mente niente di meglio... Qualche decina di improperi, scivoloni, lividi ed accidenti dopo, obbedisco all'alt del mio Vate, che, dubbioso, si ferma, si mette comodo su una pietra in posizione meditativa ed allarga la carta. L'urlo che ne segue è tale da provocare il distacco di un intero costone della montagna di fronte a noi: esattamente quella che ci aspettavamo di trovare, sì, ma dalla parte opposta... Presto svelato l'arcano: al termine della salita, avremmo dovuto superare il colle che avevamo in faccia, non quello a destra. Ci troviamo ora nella valle parallela a quella in cui dovremmo essere.
Concluso il riepilogo dei santi del calendario, mentre io trattengo a stento le risate, il buon Isacco si cosparge il capo di cenere, si flagella, s'arrabbia. Scruta la carta e si ritrae sconsolato. Ora abbiamo due alternative: scartando l'ipotesi di risalire dalla stessa parte per cui siamo scesi, possiamo riportarci sull'itinerario originario o con il passaggio a due colli a quota 2.500 m, oppure tentando l'avventura lungo un sentierino che sulla mappa è appena appena accennato, e che sarà quindi ben difficile da scovare e da seguire. Isacco sembra propendere per la seconda ipotesi, perché, mi fa notare, sono le tre del pomeriggio e dobbiamo ancora scendere fino a quota 1.700; da lì, risalire ai due colli a 2.500, in rapida sequenza, potrebbe voler dire che ci ritroveremo in alta quota al calar della sera. E l'idea non lo conforta affatto. Io sono di parere contrario; a giudicare da quel poco che capisco dalla carta, il sentiero che collega i due colli sembra molto evidente; lanciandoci sull'altra traccia appena accennata, secondo me, rischiamo di trovarci in difficoltà, perdere l'itinerario, rallentare a dismisura e farci comunque raggiungere dal buio, per di più in una situazione di difficoltà. Visto che il meteo, a parte qualche nuvolone di passaggio che s'affaccia alle cime, sembra stabile, sarebbe il caso di seguire la traccia più sicura. Alla peggio, oltre il primo dei due colli, c'è il Rifugio delle Meraviglie; se proprio dovessimo trovarci in difficoltà, avremmo un punto d'appoggio.
Mi spiace davvero che il mio capobranco se la prenda tanto. Io non vedo proprio nulla di male in questa inattesa deviazione. Anzi, non posso che esserne lieta: a questo punto, è chiaro che la previsione circa il dislivello contenuto va a farsi friggere, con mia somma gioia. E poi, in fondo, che problema c'è? Non abbiamo orari, e nemmeno, a dirla tutta, una meta precisa. Siamo in un posto meraviglioso, al calduccio dei raggi del sole, che paiono proprio volerci far compagnia a lungo. Va bene, abbiamo sbagliato strada... Ma non mi pare affatto una tragedia, anzi! E poi, chi è che voleva l'avventura?
Riprendiamo l'interminabile discesa verso fondovalle, dove si vede quel che sembra un paese. Pont de Gravieres, quota 1.700; ci arriviamo dopo lunga marcia che, per fortuna, concede tratti quasi in piano in cui riesco a rifocillarmi un po'. Nonostante il mezzo chilo di tortelli ricotta e spinaci di ieri sera a cena, per la verità amorevolmente condiviso con il mio bestione peloso, avverto già da un po' i morsi della fame: attacco il Parmigiano, già rammollito e sudaticcio per il caldo. E poi c'è qualcuno che ha il coraggio di sostenere la superiorità del cibo "genuino"... Questa roba è una schifezza! Se non altro, le barrette si conservano immutabili nei secoli dei secoli. Bah. Con la bocca impastata, raggiungo Isacco al bivio; da qui parte un sentiero che si vede anche sulla carta, da cui poi dovrebbe staccarsi l'altro sentiero, quello precario, quello che il mio boss ha deciso di seguire.
Ci avviamo in salita con passo deciso: per la verità, Isacco mette il turbo e in quattro salti mi molla lì, scomparendo nella vegetazione. Questo tracciato è aspro, ripido, tutto scalini di roccia; sale a tornantini ravvicinati, in mezzo ad una vegetazione per lo più di cespugli, lamponi, bacche non meglio identificate, ed ovviamente le immancabili ortiche. Ben mi guardo dal tentativo di reggere il ritmo del mio compagno di viaggio, che dev'essere davvero sostenuto. Infatti, una coppia di attempati escursionisti che scende verso di me mi chiede se per caso ci stiamo allenando per qualche corsa in montagna: per l'occasione, assumo l'espressione più fresca e sorridente che mi riesce, sorrido tutta soddisfatta, confermo con l'aria di chi la sa lunga: tempo che i due siano fuori portata d'orecchio e riprendo ad arrancare e sbuffare come una locomotiva a vapore. Cosa non si fa per salvare le apparenze.
Incontro un bel po' di persone che scendono: la luce del sole è già più gialla, obliqua, meno calda; man mano che il sentiero prende quota, si avverte sulla pelle la brezza della sera. Mi lascio tentare dai lamponi, ne afferro due al volo, li metto in bocca senza guardare: c'è anche qualcosa di filamentoso, lo sputacchio... Con mio sommo orrore, è un ragno! Bleah, per poco non mangio un ragno. Io che ne ho il terrore... Quasi mi sorprendo alla tranquillità con cui supero il tragico momento. L'unica preoccupazione, adesso, è quella di non perdere troppo terreno rispetto ad Isacco.
La traccia passa sotto la condotta forzata che costeggia già da un po'; poi, con pendenza più dolce, risale verso la testa della valle. Non è più ora di viaggiare a pancia scoperta; indosso la maglietta, senza fermarmi. Una bella foto ad una pietra che pare una ciambella, con un buco in mezzo; uno sguardo al colle alla mia destra, da cui provengono le voci: no, la direzione non è quella. Un centinaio di metri avanti a me spunta Isacco, bontà sua, che mi ha attesa al bivio, ma schizza via non appena è sicuro che io l'abbia visto. Ancora un lungo traverso su sentiero e pietre dal colore viola ed altri frammenti, bianchi e scintillanti, che il mio compare liquiderà come "comunissimo quarzo": sarà anche comunissimo, ma è bello...
Al colle, sono quasi stupita d'aver messo alle spalle ottocento metri di dislivello. Le gambe non se ne accorgono, per ora, ottimo segno; in compenso, la pancia, desolatamente vuota, chiede aiuto e conforto. Butto giù una barretta mentre ci avviamo in discesa nella Valle delle Meraviglie: di nome e di fatto, è uno spettacolo mozzafiato di colori e laghetti, con le ombre lunghe del tardo pomeriggio; in realtà, non sono nemmeno le sei quando passiamo accanto alle chiassose greggi, che intrecciano fitti discorsi di belati d'ogni tonalità, ed arriviamo al Rifugio, ma ormai bisogna rassegnarsi all'idea che le giornate sono, ahimè, brevi.
Senza sosta, seguiamo il sentiero che sale verso destra, dapprima dolce, verso la prima piccola diga. I raggi del sole scintillano sulla superficie dell'acqua, quasi accecano; le ombre risalgono i pendii. Isacco si è fermato un attimo, è rimasto un po' indietro. Cammino spedita, com'è ormai il mio passo, ma senza fretta; nessun pensiero, nessuna preoccupazione, non esiste altro che questo momento, questo luogo splendido, quest'aria che accarezza il viso. Pace, ecco. Se dovessi definire cos'è la pace perfetta, eccola, è questa. Una salita, ma senza fatica; un cielo amico che promette stelle; pietre, pini, un passaggio stretto tra le rocce, silenzio. Nessun orologio, nessun orario da rispettare, nessuna meta precisa per questa sera. La compagnia di una persona che trasmette fiducia e mi fa ridere di cuore, con un carattere gioviale, generoso di splendidi sorrisi. E' incredibile... Se mi chiedessero cos'è la beatitudine, ora sì che saprei rispondere. Vorrei che questa sensazione non svanisse. Non svanirà, almeno non questa sera; Isacco continua a far conti su conti, per capire a che ora potremo arrivare all'una o all'altra meta intermedia. Un'altra diga, un altro salto di roccia, un pianoro, le indicazioni sui pannelli gialli: Pas du Diable. Pochi minuti e ci siamo.
Lo spettacolo che si rivela appena oltre il colle ha un che di magico. Alle nostre spalle, l'ambiente alpino, i pini, i laghetti, il rifugio. Davanti a noi, cime più dolci, arrotondate; una pietraia, poi solo pascoli, digradanti verso il mare, che è ancora lontano ma già si percepisce.
Mi avvio in discesa, per sentire, due tornanti più sotto, l'urlo di dolore di Isacco, che s'accorge che, in questa valle, sarà ben difficile trovare acqua. E' vero, mi sa che ha ragione, ma non mi pare questa gran tragedia... Ne troveremo più avanti; non credo proprio che noi si rischi la morte per disidratazione! Macché, il tapino non sente ragioni; una delle sue ossessioni è proprio l'acqua... Mi sorpassa di gran carriera, caracolla giù per la pietraia; io rido e seguo con calma, malferma sui sassi, finché raggiungo i più dolci pendii erbosi. Leggerissima risalita ad un colletto dal quale spuntano gli ultimi, intensi raggi del sole: dobbiamo aggirare una cima oltre la quale si vede la nostra prossima tappa ideale, l'Authion. Luogo noto perché lo si raggiunge dal Col de Turini, una delle mie mete ciclistiche preferite.
Il sole, che già ci aveva abbandonato al di qua del colletto, torna a farci compagnia ancora un po', subito dopo, finché il sentiero, con un lungo traverso, se ne allontana attraversando un pendio già in ombra da un po'. Lontano, all'orizzonte, le montagne nelle sfumature dell'azzurro, sempre più chiare man mano che lo sguardo si allontana: sembra davvero un paesaggio da cartolina, eppure è così, è la realtà di una sera dolcissima a cui oggi farò compagnia.
L'Authion sembra vicinissimo ormai. Una sella, Baisse de Saint Veran, poco più di 1.800 m di quota; da qui, con due tornanti, il sentiero riprende quota, passa accanto ad una struttura di pietre ed arcate in metallo e punta dritto verso la cima. Lo seguiamo, appena in tempo per goderci lo spettacolo di uno spicchietto di luna che spunta oltre il profilo delle montagne e sale su, fino a diventare, in pochi istanti, un maestoso tondo rosso. Dalla parte opposta, il cielo è un incendio di sfumature rosa, fuoco, nere, di ombre che si mangiano le montagne. Procediamo, ormai tranquilli e fiduciosi. Ma a cinquecento metri dalla cima... L'amara sorpresa. Il sentiero è invaso da un gregge di pecore; un cagnone, loro custode, non sembra affatto dell'idea di lasciarci passare. Accorre fendendo il gregge, si piazza perentorio a qualche metro da noi, ringhia, abbaia. La povera bestia porta evidenti le tracce di una ferita alla parte sinistra del muso, non curata, infetta: mi si stringe il cuore a vederla in quelle condizioni. Muovo qualche passo avanti, porgo la mano al cagnone, che, più spaventato che aggressivo, si ritira di colpo, arretrando le orecchie; mi avvicino ancora, quello abbaia e ringhia ma resta a distanza. Io proverei a passare... Ma Isacco, poco dietro, è paralizzato dal terrore; mi prega di tornare indietro, di lasciar perdere. Provo ad incoraggiarlo, a dirgli di restarmi accanto, ma non c'è verso. Vuole tornare indietro, salire in cresta e passare dal prato: cosa che mi preoccupa non poco, perché il pendio è molto ripido, e le pecore sono anche più in su. Se fosse giorno... Ma è quasi buio e a me pare un'idea da suicidio. Arretriamo pian piano, mentre il cagnone ci segue e ci abbaia; non appena muoviamo un passo verso il pendio, ecco un altro abbaio, molto più deciso e potente del primo: un altro cagnone, di identica stazza, si lancia verso di noi. Potrebbero essere, a giudicare dal pelo e dalla mole, due pastori maremmani. La seconda bestia mi preoccupa un po' di più. Lascio che Isacco si allontani pian piano, tenendo d'occhio i due cani; io arretro un passo alla volta, fermandomi immediatamente ogni volta che li vedo avvicinarsi troppo. Allontanarsi di qui, a quanto pare, non sarà facile. Resto immobile, mentre loro, altrettanto immobili, mi abbaiano da qualche metro di distanza. Poso lo zaino, ne estraggo la focaccia; ne stacco una buona porzione, la spezzo in due, la lancio verso i due animali: il primo, quello ferito, quasi si spaventa; ne approfitto per mettere qualche metro tra me e loro. Quando ormai sono lontana a sufficienza, è chiaro che non rappresento più una minaccia; i due guardiani del gregge non mi degnano nemmeno più d'uno sguardo.
Torniamo sui nostri passi. Isacco si fionda giù come un proiettile: ma non mi sognerei mai di prenderlo in giro per la sua paura; so bene cos'è il terrore, anche se per me non è terrore dei cani, ma ad esempio dei luoghi esposti, dei ponti, dei pendii troppo ripidi. Forse avrò troppa fiducia in me stessa, ma ho la ferma convinzione che il cane non attacchi senza motivo: infatti, anche questa volta, come già mi è accaduto in innumerevoli faccia a faccia con quattrozampe nervosetti, sono rimasta ferma e non ho provocato alcuna reazione violenta, al di fuori dell'abbaio. Certo, un po' di stizza ce l'ho; possibile che il gregge, con ettari di pascoli a disposizione, dovesse restare proprio sul sentiero? Possibile che i pastori possano avere il diritto di bloccare un passaggio? Poi però, a ben pensarci, mi rendo conto che l'anomalia non è il gregge... Siamo noi che passeggiamo per monti a quest'ora di sera. Anzi, notte, ormai, tant'è che, per tornare alla costruzione accanto a cui siamo passati poc'anzi, devo già accendere la luce frontale.
Che fare? Beh, innanzitutto un momento di requie. Ci ripariamo accanto al muro, perché qui sul colletto tira un vento gelido; su di noi si alza la luna, tonda, pienissima, luminosa, che quasi rischiara la vallata a giorno. Indossiamo giacche e pantaloni lunghi, mangiamo un boccone. E' evidente che ormai i nostri programmi saranno stravolti. L'Authion è inaccessibile: chissà, magari in capo ad un'ora o due il gregge potrebbe anche spostarsi, ma non possiamo permetterci di perdere tutto questo tempo, non ora che più o meno siamo ancora svegli ed in grado di macinare chilometri. Da scartare anche l'idea di raggiungere la base dell'Authion per un altro sentiero: questa è zona ricchissima di pecore; rischiamo di aggirare un ostacolo e finire in pieno contro un altro ostacolo dello stesso genere. Non resta che imboccare un sentiero che raggiunge presto il bosco e va a confluire in una strada asfaltata, che conduce a Fontan.
Mentre Isacco si tranquillizza e si cura le vesciche ai piedi, io mi accuccio a guardar le stelle. Un cielo sconfinato, centinaia di puntini scintillanti; siamo a quota 1.800, ma qui, al riparo del muro, il freddo non si sente ancora. Sarebbe davvero stupendo sdraiarsi qui, al riparo del telo termico, col naso all'insù, aspettando che arrivi il sonno. Ma non si può, è troppo presto, sono solo le otto e mezza. Adesso l'unica cosa che conta è scendere, puntare dritto a Fontan, arrivare almeno lì prima di fermarsi a dormire.
Malvolentieri, ci rimettiamo in marcia, cartina alla mano. Al colletto, imbocchiamo una prima traccia di sentiero: ne percorriamo qualche decina di metri, ma Isacco non è convinto. Scruta la mappa, ordina il dietrofront. Un altro sentiero, che parte un po' più a sinistra nella vallata, è quello buono, con tanto di segnaletica, tacche gialle. In effetti, per un po' va tutto bene; Isacco fa strada, curando di non lasciarmi mai troppo distante; io lo seguo fedelmente, perché di notte, nonostante la luce frontale, i miei occhi servono a ben poco. Su di noi, per fortuna, la luce della luna, che illumina il pendio e fa le ombre.
Purtroppo il sentiero, dapprima chiaro, nei pressi di un grosso alpeggio si perde nel nulla. Tacche un po' ovunque, ma non si riesce a passare, né a seguire un filo logico. Solo un prato che precipita giù in un canalone centrale. Ci avviciniamo timorosi alla casa, che sembra deserta, anche se non da molto: una carriola ed alcuni attrezzi sparsi testimoniano un recentissimo passaggio dei pastori.
Isacco è più attento di un segugio: carta alla mano, insegue la traccia. "Dalla casa il sentiero passa oltre il secondo impluvio...". E che razza di roba è un impluvio? Ah un fiume... Seguo il mio capobranco, che in questo momento diventa anche la mia ancora di salvezza. Rincorre le tacche, una dopo l'altra; sbaglia, torna indietro, riprova. Io provo a fare altrettanto, ma un paio di volte mi areno sul pendio come una balena spiaggiata... E' terribile, il terreno è scivoloso; non riesco a puntare né i piedi né le mani, ad ogni mossa scivolo giù, sotto di me un imbuto nero. Eccolo, il mio terrore. Con le mani tremanti, vano ogni tentativo di rimettermi i piedi, sotto lo sguardo perplesso e sconsolato di Isacco, che non sghignazza solo perché teme la mia feroce vendetta, mi siedo: aggiungo agli arti l'appoggio del mio sconfinato didietro. Mossa azzeccatissima: di lì a poco, strisciando sul didietro, guadagno il sentiero.
Da lì in poi, scendiamo con il conforto di una traccia sicura e più definita; un momento di sconforto l'abbiamo solo quando ci tocca attraversare quel che resta di una valanga, tronchi e rami e detriti che hanno ovviamente sepolto qualsiasi passaggio. Ma anche qui Isacco non si perde d'animo: ritrova, poco oltre, la nostra linea di marcia. E, da qui in poi, il sentiero s'allarga, di pari passo con il mio cuore, fino a tuffarsi nel bosco. Ci fermiamo un istante a riempire le borracce ad un corso d'acqua: è vero che non fa caldo, ma il terrore ha prosciugato la gola ad entrambi. Osservo i giochi di luce della luna tra le fronde, immagini spettrali, inquietanti: ma mai quanto la ricerca del sentiero in mezzo ad un prato ripido e buio...
Sbuchiamo poi su una strada sterrata, ampia, comodissima: da qui a Fontan, basta difficoltà, basta dubbi e rischi. C'è solo più da camminare. Un po' più di mezz'ora di strada sterrata, in cui il sonno approfitta subito, a tradimento, del terreno lasciato libero dall'adrenalina della discesa. Cavi del telefono e fronde che si compongono in immagini inesistenti, ombre che sembrano animali in fuga. Lo scoiattolino sui tralicci, però, c'è davvero!
La marcia è finalmente tranquilla. Il povero Isacco, però, lamenta dolore alle piante dei piedi, che decuplica non appena raggiungiamo l'asfalto: da qui in poi sarà tutto un lamento. Isacco è allergico all'asfalto, non c'è nulla da fare. Tra sonno e fastidio, anche lui è ben messo: tra tutti e due, ricalchiamo bene l'immagine della canzone di De Andrè, "...una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino", anche se non abbiamo toccato goccia. Ben 8 km di asfalto ci separano da Fontan: sarà dura, perché la pianura, per di più così agevole, è nemica giurata della veglia. Il sonno ci aggredisce senza sosta: eppure, Isacco giustamente insiste per arrivare fino a Fontan, che, tra l'altro, è a quota abbastanza bassa, 300 metri, e potrebbe assicurare una temperatura notturna quasi confortevole.
Camminiamo, ma sarebbe più corretto dire che ci trasciniamo, tra le case sparse ed i giardini recintati e le pareti di roccia; abbiamo il conforto di qualche finestrella illuminata, cani che abbaiano da lontano, qualche auto nei cortili, a testimonianza della presenza umana. Combatto il sonno come posso; a volte attacco discorso: il guaio è che siamo entrambi talmente suonati che non ci capiamo l'un l'altro. Le nostre non sono parole, sono suoni trascinati senza forma. Abbiamo entrambi le allucinazioni, già da un po'; Isacco vede un gorilla, e spero per lui che non sia quello cantato da De Andrè; io mi fermo in mezzo alla strada a guardare in alto, mi par di vedere, su una sporgenza della roccia, un'enorme statua bianca tipo quella del Cristo in Brasile: ohibò, proprio io che sono un'incallita miscredente!
I piedi del mio compare urlano vendetta, chiedono tregua ogni tanto; i chilometri sui cippi a bordo strada scorrono con una lentezza esasperante. In un giardino non recintato, due sdraio ci osservano: fortissimo è l'impulso di andarcisi a sdraiare. In realtà, poi, io sto bene, non ho alcun dolore né alcuna particolare stanchezza; il guaio è il sonno, ma è anche comprensibile, vista la sveglia della notte scorsa alle tre. Ed anche il freddo, che mi è già entrato nelle ossa, benché Isacco sostenga che fa caldo, che si suda. Probabilmente, nella mia vita precedente, ero un rettile...
A partire dall'ultimo km, buttiamo l'occhio ai prati lungo la strada: adesso sì, è ora di cercare una cuccia per la notte. Questo no, ci sono i rovi, quell'altro no, è sotto il lampione. Oltrepassiamo il ponte alla nostra destra: da lì parte un sentiero che, in meno di un km, raggiunge il centro dell'abitato di Fontan. Lo imbocchiamo: qui c'è finalmente un posto che fa per noi. Gambe sul sentiero, schiena appoggiata al lievissimo pendio. Mangiamo un boccone, indossiamo tutto quel che abbiamo; estraggo il mio pluricollaudato telo termico. Un attimo dopo, ci siamo sotto entrambi: rannicchiati, al buio e con il sottofondo dell'acqua del torrente Roya, alle due di notte crolliamo addormentati.
Sfido però chiunque a dormire un profondo sonno ristoratore, su un materasso di sassi aguzzi e con il tremore del freddo che ti scuote di continuo. Mi risveglio più volte in preda ai brividi; cerco di controllare le scosse del freddo per non svegliare Isacco, ma non c'è verso. Il più possibile appiccicati per sfruttare l'effetto stalla: ma non travisino, i malpensanti, o benpensanti, a seconda dei punti di vista... Non c'è nulla di morboso in tutto ciò, purtroppo! In questi momenti, credo di emanare la stessa carica erotica dello spazzolone del water, e mi sa che, dopo diciannove ore di marcia, anche l'olezzo è il medesimo. E poi, l'unico istinto che domina adesso è quello di sopravvivenza. Non ibernare è la parola d'ordine: ben venga quindi quello scaldino ambulante che è il mio compagno di sventure. Mi dirà poi lui d'aver tratto lo stesso vantaggio dal mio abbondante posteriore: pare che una simile superficie radiante sia ottima come calorifero... Sì, ma così non va per niente bene; per me è uno spreco di energia intollerabile!
Mi sveglio più volte in preda ai tremori e con i morsi della fame; ho le gambe ed i piedi gelati. Il telo termico spesso si solleva, lasciando penetrare una lama d'aria gelida che mi taglia la faccia. Quando tornerà il sole? Per fortuna, il sonno è tale da sprofondarmi nell'oblio, ogni volta. Finché, dopo un tempo indefinito, metto un occhio oltre la coperta: la luce!
Una gomitata al buon Isacco che sta ronfando della grossa. Mi risponde un grugnito suino, un rantolo; alla fine ce la fa anche lui: estrae la testa dal nascondiglio, strizza gli occhi e, con voce da caverna dell'oltretomba, sbotta: "Ma dove caxxo sono?". E, dopo un istante di pausa: "Ma che caxxo ci faccio qui?".
Ci vuole coraggio per rimettersi in piedi. Il trauma di allontanare il telo termico, i muscoli irrigiditi, dolori ovunque, lamenti strazianti. Ci alziamo e ci ricomponiamo con la speranza di trovare un bar aperto a Fontan, buttare giù qualcosa di caldo: macché, nulla di nulla. Approfittiamo di una panchina per prepararci al viaggio: io mi levo un paio di strati, mentre Isacco si dedica alla cura dei piedi. Osservando le operazioni, almeno finché non diventano troppo raccapriccianti, mi rendo conto di avere, tra le tante fortune, anche quella dei piedi indistruttibili. Oltre ad un ottimo fornitore di scarpe da montagna.
Frugale colazione, altra pastiglia di antiinfiammatorio preventiva: Fastum per me, Aulin o simili per Isacco. Non c'è che dire, siamo due drogati: ma non si può mica permettere che dolorini e doloretti si frappongano tra noi e la nostra avventura!
Proprio davanti alla stazione di Fontan, si stacca il nostro sentiero. Ancora una brevissima pausa per svestirsi e poi via: la salita si mostra subito per quel che è, decisa, ripida, malagevole in mezzo alle fronde, alle sterpaglie, ai rovi. A quanto pare, però, le gambe non se ne preoccupano: mi portano su in fretta, a buon ritmo, proprio come se fossi appena partita; in effetti è vero, ma dopo i settantacinque km di ieri. Un po' mi lusinga sentir dire da Isacco che ho un buon recupero: in effetti è una delle mie poche qualità positive in fatto di sport, unita forse ad una discreta resistenza ed alla fortuna, finché dura, di non sapere cosa sia l'infortunio. Non mi è mai successo, in effetti, di farmi male al punto da dover rinunciare ad una corsa o, in generale, ad un appuntamento sportivo a cui tenessi.
Peccato solo che questo sentiero sia in pessime condizioni, invaso dalle sterpaglie e sporco, almeno nella prima parte. Ci porta su in fretta rispetto al fondovalle, ci apre una bella vista sulle montagne tonde. Ma il mio incedere, sempre ad occhi bassi, mi fa notare soprattutto che la condizione delle mie scarpe è deplorevole. Già acciaccate lo scorso fine settimana, sembrano proprio voler rendere lo spirito.
Rsggiungiamo un bivio: altolà, s'impone consultazione della mappa. Il sentiero sale ancora, ma, con mio gran disappunto, noi dobbiamo piegare a destra e scendere diretti a Saorge. Pessima notizia, perché questa discesa è a dire poco odiosa: molto ripida, lunghi tratti su sfaciumi, pietrisco o terra che non permettono di fermare il piede. Tocca scendere molto piano, con sforzo eccessivo da parte dei muscoli dei cosciotti e rischiando di continuo di finire a terra: non sarebbe grave, per carità, ma io non riesco proprio a buttarmi giù scivolando sui piedi tipo sci messi di lato. Detesto sentire che il movimento non dipende da me.
D'improvviso, la vista si apre sul campanile di Saorge, ancora parecchio più in basso, ancora in ombra. Isacco schizza giù, io mi muovo con circospezione, trattenendo il fiato ogni volta che il piede scivola da sé, con il terrore di finire lunga e distesa: scomposta e grossolana come sono, se cascassi mi farei male di certo, ed oggi è vietato.
Raggiungo finalmente le case di Saorge, bellissime, in pietra, come la scalinata in centro paese. Trovo il collega nei pressi di una splendida fontana: in effetti, è ora di darsi una sciacquata e levarsi gli abiti da montagna, perché qui tra breve la temperatura sarà rovente. Che piacere, una solenne lavata alla faccia, alle braccia, la testa sotto il getto del rubinetto. Lavarsi e mangiar qualcosa sono le priorità: a Fontan, faceva ancora troppo freddo per avere il coraggio di toccare l'acqua; inoltre, era troppo presto per trovare un bar aperto, così niente café au lait. Secondo Isacco, oggi farà un gran caldo: che dire, non chiedo di meglio!
Un'anziana signora viene alla fontana, ci chiede da dove siamo partiti; risponde Isacco, "Eh da lontano... Dall'Italia!". La madama ci squadra un po' perplessa, scuote la testa, se ne va. E noi pure, ci rimettiamo in marcia passando sotto un imponente campanile ed andiamo ad imboccare un sentiero lungo il fiume. Ad un ponticello, senza pensare, seguiamo quello che semra il sentiero principale, a sinistra: ci ritroviamo così a camminare sui ciottoloni tondi del greto della Roya, quasi completamente secco in questo punto, salvo un rivoletto che scorre sulla sinistra. Ahi... Mi sa che c'è qualcosa che non quadra. Rapido consulto della carta: al ponticello, avemmo dovuto girare a destra. Torniamo per l'ennesima volta sui nostri passi, mentre Isacco esclama sconsolato: "A questo punto, dobbiamo per forza andare verso Breil". In effetti, Ventimiglia è ancora troppo lontana: si potrebbe pensare di raggiungerla comunque, solo se non avessimo limiti di orario. Il guaio è che l'ultimo treno parte alle otto e mezza e non ci aspetterà. Ci diamo Breil come destinazione intermedia e riprendiamo a salire. Un'altra ascesa del tipo della precedente, ripida e regolare, ma in un ambiente più curato, cespugli e bosco che solo in brevi punti invadono il sentiero, qualche ramo spezzato e pendente sulle nostre teste. Parto di gran carriera, ora che il sole si leva e riscalda l'aria e la pelle, anche se restiamo nascosti dalla vegetazione. Isacco invece, con mia sorpresa, resta un po' indietro. Pochi metri, nulla di che, ma non è da lui. Resta indietro e tace; pessimo segno.
Un susseguirsi di rampe severe, poi il bivio con una strada sterrata: e mò? Destra o sinistra? Attendo il compare: destra, la sentenza. Ma sembra che non vada troppo bene... Isacco lamenta dolore al ginocchio; minaccia di tornare giù a Saorge e chiedere un passaggio fino a Breil. Sembra sofferente e molto deciso: ci rimango malissimo; già vedo la giornata sprecata così, il giro abortito, scorciato, tristemente. Poi, sempre tra me e me, mi do dell'egoista: questo poveretto è qui anche e soprattutto perché gli ho frantumato gli ammennicoli per farmi portare in giro... Ed io, in paga, lo voglio far marciare con il male! Non oso pensare a quante pastiglie di antiinfiammatori abbia già trangugiato, lui che su queste pratiche va ancor più disinvolto di me.
Quota 654, altro bivio a pochi metri dal primo. Lascio che Isacco vada avanti: so bene che, per la mente, il fatto di essere capofila è già un ottimo lenitivo del dolore. Infatti, pur tra lamenti e strepiti e versi irripetibili, la locomotiva si rimette in moto. Al Col Agu, quota 1000 o poco più, arriviamo in fretta: da qui, ahimé, lunghissima interminabile discesa. Prima sentiero accidentato, ripido, stretto, quello che gli addetti ai lavori delle corse in montagna chiamano pomposamente "single track" – che poi significa che ci si passa uno per volta – poi un pertugio in mezzo alla vegetazione, che ci fa persino dubitare d'essere sulla retta via; eppure, i cartelli sono frequenti e per Breil sur Roya ci mandano proprio di qui. Attraversiamo più e più volte lo stesso torrentello, con ponti di legno dall'aspetto ben poco solido: due tronchi di legno paralleli, con tavolette trasversali, compongono quello che ha l'aspetto più affidabile. Va bè che non sarebbe un gran salto...
Il bubbolio continuo del mio compare si trasforma in un urlo lancinante quando il sentiero, passato tra alcune case ormai alla fine della discesa, va a sbucare su una strada asfaltata. Cotanta disperazione è dovuta sia al fondo stradale, che diventa subito una tortura per le piante dei piedi di questo rottame ambulante, sia al fatto che, da qui alla stazione di Breil, ci toccheranno tre o quattro km di strada statale. Mah... Io non vedo il dramma: sia perché d'abitudine mi alleno a correre su strada e figuriamoci se mi spavento di camminarci; sia perché la superficie regolare dell'asfalto è un'ottima occasione per rilassare un po' i muscoli. Ma Isacco non trova pace: "Avremmo dovuto restare sul sentiero più alto, sarebbe stato panoramico, qui è uno schifo, io ho male, fa troppo caldo...". So di essere irriverente, ma non riesco a trattenere le risate: è così melodrammatico che non può essere vero!
Si cammina sotto il solleone che ci incolla al terreno, caldissimi raggi del primo pomeriggio in queste zone che, parlando in termini di distanze automobilistiche, sono a due passi dal mare. Ciascuno un po' intontito, perso nelle proprie meditazioni trascendentali. Io che penso che mi dispiace, mi dispiace davvero troncare il cammino qui, così presto, e non ho voglia di andare a casa, perché sì, certo le gambe cominciano a sentire il peso dei km, ma potrebbero andare ancora ed ancora. Così, quando, ormai invista della stazione, Isacco propone di consultare la carta e valutare la distanza dalla stazione di Airole, qualche fermata più avanti verso Ventimiglia, mi trattengo a stento dal travolgerlo di gioia. Accucciati sul bordo di un'aiuola, con il conforto di due lattine di Coca ed un Magnum presi al bar della stazione, studiamo le carte e gli orari ferroviari. Dunque, l'ultimo treno ad Airole ferma alle 18. Ora è circa l'una del pomeriggio; potremmo essere là in tre ore circa. In alternativa, ci si potrebbe lanciare su per qualche salita qui attorno; a me andrebbe benissimo lo stesso, ma non ad Isacco, che ha bisogno di un filo conduttore, una parvenza di senso logico in un itinerario, per trovare la motivazione e partire. Allora aggiudicato, si va ad Airole.
Quasi non ci credo, quando ci rimettiamo in cammino. La mia guida parte di gran carriera e con destinazione sicura: passiamo in una delle vie interne del paese, sbuchiamo ad una fontana e poi, neanche ci fossimo dati appuntamento, ecco il sentiero, con tanto di cartelli: Fanghetto, Airole. Sentiero che si avvia in piano, lungo la Roya, dalla parte opposta rispetto alla strada statale. Isacco esclama "Se è tutto così, ci arriviamo in due ore!". Ed io ghigno sotto i baffi: possibile che tu non abbia ancora imparato nulla? Infatti, di lì a poco, comincia la salita dolce; di fronte a noi, poi, si para un'alta parete rocciosa che, ad occhio e croce, potremo superare solo salendoci in testa. Non c'è ombra di sentiero a mezza costa, sarebbe impossibile ed illogico. Così cominciamo a salire, tornante su tornante, su un sentiero ampio e ripido, a scalini, che ci fa fare un bel salto a picco, prima di sbucare, con la solita colonna sonora delle lamentazioni della mia guida per il caldo, su una strada sterrata, in mezzo ad alcune case. "Sei peggio delle piagnone", lo prendo in giro; si vede lontano un miglio, da come cammina, che ne ha ancora.
Il primo abitato che incontriamo è un piccolo paese,servito da strada asfaltata, senza neanche una fontanella. Anzi, è tappezzato di minacciosi cartelli che avvisano della scarsa qualità dell'acqua. Pazienza, un po' di scorta c'è ancora; torniamo a scendere fra gli ulivi, dopo chilometri e chilometri di saliscendi. L'ambiente è davvero arido, sabbia bianca ed ulivi e persino cactus; se penso agli stambecchi di ieri... Qui vedrei bene solo le lucertole. Per fortuna, non abbiamo ancora perso la voglia di scherzare; quand'anche io tento di intavolare un discorso con un minimo di profondità, e lo precedo con un annuncio, Isacco mi prende in giro: "Sì, rifletto sul pensiero di Heidegger, cosi come influenzato da...". Da chi? Boh, l'ho già dimenticato; fatto sta che, gelata da cotanto sfoggio di cultura superiore – io ricordo a malapena che quel nome m'è passato sotto gli occhi in occasione dei miei precari e svogliati studi per la Maturità – m'interrompo e torno nell'ambito del genere di conversazione che più mi si addice: le boiate.
Poco prima di Fanghetto, altro piccolo paese abbarbicato sul pendio, raggiungiamo una famiglia evidentemente reduce da un'escursione lungo il fiume: indossano spesse tute impermeabili, scarponi goffi ed enormi, eppure camminano lungo il sentiero con passo ben più sciolto di noi. Sono tre ragazzine, la più grande avrà tredici anni, e, più avanti, i genitori, credo, in compagnia di un bambino più piccolo, di cinque o sei anni. Sfido chiunque ad immortalare una scena così in Italia, ad opera di genitori italiani!
Ancora una sosta all'unica fontana "priva di controllo sanitario"; sai che paura... Abbiamo sete! Ci buttiamo la testa, le mani, la faccia. Siamo in "Via del Campo", recita il cartello: Immediatamente mi salta in mente la celebre canzone, anche qui di De Andrè, ma nella voce di Matteo che ogni tanto costringo a cantare per me, con tanto di chitarra, perché è bravissimo... Non mi stancherei mai di ascoltarlo!
Ora l'ultimo sforzo, il tratto da qui ad Airole. Non abbiamo idea di quanto manchi ancora; ci avviamo fiduciosi verso il centro del paese, che si raggiunge, ovviamente, con una bella rampa in asfalto: il lamento della mia guida si fa sempre più acuto, roba da stringere il cuore. Un gruppo di turisti gli chiede se "è dura"; in risposta, un rantolo... Oh insomma, cammina! Lo so benissimo, che è tutta scena... Un'accozzaglia di case e vicoletti da disegno del palazzo impossibile, tutto un accavallarsi di porte e balconcini e gradini; c'è da dire che questo è il luogo ideale per una persona che viva sulla carrozzina, o che magari si rompa anche solo una gamba! Eh bè, del resto qui non si potrebbe proprio far nulla. Non ce n'è spazio e modo; è un paese antico.
Ancora su e giù su sentiero; c'è qualche breve tratto di risalita, ma ormai il peggio dovrebbe essere passato. Tant'è che Isacco chiama a casa ed ordina la cena. Già, la cena: a casa mia il frigo sarà desolatamente vuoto... Nei paraggi delle prime case di una frazione, il mio compare punta il naso per aria alla ricerca di un colle per raggiungere l'abitato di Airole evitando il giro della strada asfaltata: sì, ci sarebbe... Ma il dislivello, anche solo ad occhio, lo convince ad arrendersi all'asfalto. Una volta tanto, sono contenta anch'io: non vorrei rischiare di perdere l'ultimo treno.
Un po' di asfalto, sotto i raggi di un sole già meno rabbioso, alle cinque passate di un pomeriggio di settembre. Un sollievo, certo, siamo stanchi entrambi... Ma io non riesco ad essere felice; so che qui finisce l'avventura, comincia la malinconia. Nel paese dei gatti, spuntano ovunque frotte di mici di ogni colore e pelo, per la gioia di Isacco che li adora; giro turistico in centro, volti di anziani e sapore di antico, un piccolo bar da cui ci arrivano commenti di calcio, sguardi curiosi degli avventori. Infine la stazione, poco più di una pensilina del pullman, senza nemmeno un macchinario per l'emissione dei biglietti. Non c'è che dire: essenziale. Ci accasciamo sulla panca, non prima però che io aggiunga una rapida spedizione al bar per raccattare due lattine di Coca e due gelati: giusto per verificare la reazione delle gambe alla corsa sugli scalini. Dopo quasi 110 km e 5.200 m di salita, ma mille in più in discesa, eccellente, direi. E poi, forse impietosito o reso più buono dalla consapevolezza che la fatica s'è conclusa, Isacco mi scruta mentre allungo un po' i muscoli delle gambe e conclude che "in fondo, non hai nemmeno tanta panza...". Beh, lo prenderò come un complimento! Comunque non si chiama panza, si chiama riserva lipidica per l'ultradistanza.
In treno non vorrei dormire; la chiacchiera di Isacco è un modo per prolungare idealmente questa splendida avventura. Purtroppo, i momenti più belli vivono poco, "come le rose", per dirla con il cantautore che ci ha accompagnati nelle citazioni del viaggio. E, come se non bastasse, più intense sono le avventure, più forte è la malinconia del giorno dopo, quando tutto è finito e si torna alla vita normale. Isacco poi è uno dei miei compagni di fatica preferiti, uno di quelli che non patisce nulla e non molla mai, anche se si lagna più di un ottuagenario con l'artrosi, basta non farci caso. Se però penso che, a breve, sarà in partenza per rendere il giusto tributo al suo finissimo cranio in giro per il mondo con un dottorato, non posso nemmeno dire "sarà per la prossima volta"... Anche se una mezza promessa l'ho forse già strappata!
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