"Rallenta... Frena... Attenzione! Vai piano... Non frenare...". Se l'auto avesse in dotazione il seggiolino eiettabile, sono certa che il povero Giorgio ne avrebbe già fatto uso. Lo so, sono innumerevoli le circostanze in cui sopportarmi è impresa da martiri: una di queste è avermi accanto in macchina, sul sedile passeggero. Non posso farci nulla: se il volante non è ben saldo nelle mie mani, ho paura e, per quanto mi possa sforzare di far finta di nulla, non riesco ad evitare di pestare furiosa su un pedale del freno inesistente, né di buttare le mani avanti ad ogni frenata che vedo già concludersi rovinosamente contro il posteriore dell'auto che precede. Il mattino presto, poi, è il momento peggiore, perché, chissà per quale strano motivo, è la parte del giorno in cui sono più sensibile al mal d'auto. Eppure l'ho deciso io, di passare da Sestriere per raggiungere Oulx. Se penso all'atlante stradale, che è, ovvio, una rappresentazione in pianta, mi fa orrore l'idea di descrivere una lunghissima traiettoria semicircolare per spostarmi da un punto all'altro; preferisco istintivamente la linea più o meno retta, che si sa è la più breve. Anche se poi so benissimo, razionalmente, che quella linea retta diventa l'elettrocardiogramma di un cuore in fibrillazione, visto che bisogna scavalcare le montagne.
Così, il mio calvario ha inizio a Virle alle 5.45, quando mi presento puntualissima all'appuntamento con il mio compare di fatica, e si conclude su un ampio piazzale di Oulx, destinato a parcheggio, quasi un paio d'ore più tardi; complice il fatto che, intontita dalla nausea, non mi sono accorta che la nostra traiettoria avesse già superato Oulx e raggiunto Sauze, parecchie curve più in alto. Giorgio era convinto che la partenza fosse lì... Ed io non avevo coscienza di dove fossi e perché.
Siamo arrivati troppo presto: sono le sette e mezza, più o meno. Partenza della gara fissata per le nove. Ritiriamo il numero di gara, con tanto di maglietta tecnica nera. Il freddo è pungente: dieci gradi non ci sono... Mi accorgo solo oggi che, ahimé, è davvero iniziato l'autunno. I comignoli fumano; si sente profumo di legna. Il paese è ancora addormentato, immobile; a fatica, scoviamo un bar per riscaldarci un po' le ossa ed il pancino con una cioccolata calda. Pancino in sofferenza: smaltisce i postumi del travagliatissimo viaggio. E dire che Giorgio, almeno in mia presenza, è un pilota prudente e delicatissimo, non certo uno di quei novelli Schumacher che prendono le curve su due ruote. Ma io ormai convivo da sempre con il mal d'auto. Me l'ha offerta, sant'uomo, la guida: ma non mi sentirei mai di accettare. Sarei capace di tramutare la sua bella auto, lunga ed elegante, in una Smart, picchia di qua, sbatti di là.
Dal bar, ci trasferiamo poi in auto, ad osservare la piazza che si anima di corridori. La temperatura è glaciale, soprattutto per i miei pantaloncini cortissimi; complimenti Gian, proprio una scelta oculata ed intelligente... Sulle cime, tracce della prima spruzzata di neve. Il sole lambisce appena i prati lassù in alto; qui, a fondovalle, saremo in ombra ed al gelo ancora a lungo. Un trail da 45 km e poco più di 2.000 m di dislivello: in assoluto, è impegnativo... Il fatto è che noi, reduci dal trauma del Tor des Geants, camminiamo ancora, a distanza di una settimana, su una soffice passerella di nuvole; ci sentiamo più o meno onnipotenti... Non è disprezzo, supponenza, presunzione, ci mancherebbe altro, non sarei qui. Ma la sensazione spontanea, al confronto, è quella di avere davanti, oggi, una breve camminata: 45 km, distanza da otto, nove ore di marcia, più o meno. Ed a quota ragionevole, intorno ai duemila metri al massimo, più o meno. Faticherò eccome, questo è fuor di dubbio; però, quel che conta è l'atteggiamento: se parto sapendo di dover percorrere "solo" 45 km, parto tranquilla e rilassata.
Il popolo dei corridori, tra cui ho già individuato e salutato un buon numero di volti noti, sciama verso il parco, accanto al parcheggio. A malincuore, decido che è ora di abbandonare il calduccio dell'abitacolo: più o meno, è come se mi trasferissi nel frigorifero... Giorgio ed io andiamo a caccia dell'unico angolino di sole nei paraggi; scrutiamo intensamente la linea che spezza il sole dall'ombra, quasi a volerla spostare, con il nostro sguardo, più in là, verso l'area della partenza. Non c'è verso: il sole si prenderà tutto il tempo necessario. Mi guardo intorno allibita: molti colleghi zampettano in maniche corte, alcuni addirittura in canottiera. Io sono infagottata nella giacca Goretex e congelo...
Al richiamo degli organizzatori, ci spostiamo in massa nel prato del parco, dov'è stato sistemato l'arco gonfiabile. Un tuffo al cuore: dalle casse dell'impianto audio, scorrono nientemeno che le note della colonna sonora del Tor des Geants. Siamo in tre, oggi, reduci della bellissima faticaccia valdostana: oltre a Giorgio ed alla sottoscritta, c'è anche Franco Re, a cui toccherà l'ingrato compito di scopa. Ci tocca persino l'onore della menzione ufficiale: lo so, è proprio ingenuità la mia, ma non posso trattenermi dal fare la ruota del pavone... In fondo ce lo siamo sudato, il diritto di tirarcela un po'!
Gentile omaggio per le fanciulle: partiamo con dieci minuti di anticipo sui maschietti. Mannaggia, non è che io ne sia proprio felice. Dove lo trovo, adesso, un deretano panoramico da inseguire per trovare la forza di andare avanti? Mi toccherà farmi coraggio da sola, fin quando i colleghi maschi non mi avranno raggiunta e superata. Pazienza, in fondo non ci vorrà molto. Pronti, via: senza tanti fronzoli, ci ritroviamo a correre, prima in uscita dal parco, poi nelle vie lastricate di Oulx, sotto lo sguardo perplesso di qualche anziano uscito per fare la spesa, e del vigile costretto, suo malgrado, a far da balia ad una mandria di bambinoni troppo cresciuti. In fondo è questo, che siamo...
Faccio l'appello delle ossa, dei muscoletti, delle varie articolazioni. Sembra che tutti rispondano all'appello; in ogni caso, già dai primi passi, è evidente che la fatica della scorsa settimana lascia ancora il segno. Il cuoricino, con una partenza così a freddo, impazzisce. Mi ritrovo subito nella coda del gruppo: toh, che caso strano... Appena dietro le case del paese, imbocchiamo un sentiero che si presenta subito con una bella rampa. Correre, non se ne parla nemmeno: qualche collega prova, ma rinuncia dopo pochi passi. E' un falso allarme; poco oltre, la pendenza cala; il sentiero si tramuta in un lungo saliscendi, una traccia che lascia appena il posto per appoggiare il piede, tra erba, rovi ed alberi. Una traversata nel sottobosco che le mie compagne di corsa prendono con gran vitalità: bastano pochi minuti, perché io non le veda più. Ci provo, a correre, ma siamo alle solite; a me non è mai piaciuto correre su qualcosa che non sia asfalto. Posso ancora tollerare le strade sterrate, ma qui, con una superficie di appoggio così limitata ed irregolare, non mi sento sicura, ho timore di storcermi o di inciampare. In più, come sempre, mi ci vogliono almeno dieci km per entrare in temperatura, manco fossi una caldaia; correre adesso, appena all'inizio del percorso, mi costerebbe una fatica, fisica e mentale, che non ho proprio voglia di sopportare. Oggi per me è clima di vacanza; levito ancora a tre metri da terra, sospesa sui ricordi dell'avventura valdostana. Una ragazza mi supera chiedendomi scusa, quasi fosse una mancanza di rispetto nei miei confronti: a ben pensarci, potrebbe essere una manifestazione di stima come una presa per i fondelli... Ma io mi sento ben disposta ad interpretarla secondo la prima versione.
La pancia, purtroppo, oggi non sembra sentire ragioni; protesta in modo preoccupante. D'un tratto, sento alle mie spalle rumore di galoppo: eccoli... Arrivano di gran carriera i primi uomini. Mi faccio da parte: passa il primo proiettile; poi un secondo, un terzo, avanti tutti. Che seccatura, doversi far da parte ogni volta che ne arriva uno. Per fortuna, il sentiero va ben presto a confluire in una strada sterrata, molto ripida; così, il grosso dei corridori può passare oltre, senza problemi. Tanti mi chiamano per nome, mi salutano, mi fanno i complimenti; sarà sciocco da parte mia, ma ne sono davvero contentissima, e pazienza se in salita arranco un po'. Qualche vittima la mieto anch'io, ma so bene che sarà una soddisfazione passeggera: la prima discesa farà giustizia. Il tratto su strada ci fa guadagnare quota in breve, con alcuni tornanti molto ripidi e poi un tratto quasi rettilineo. La salita sfocia in un lungo tratto di falsopiano in mezzo ai prati: qui, come previsto, mi ritrovo, nel giro di pochi istanti, completamente sola. Schizzano tutti via come biglie impazzite. Ho la netta sensazione che questa non sia la gara più adatta a me... Ma ormai sono in ballo, tantovale ballare. Il panorama è stupendo; il sole non si fa più pregare, adesso, anche se l'aria è frizzante ed i manicotti non accennano ancora a scendere. Provo a correre anch'io, ma la pancia ci mette del suo per rendermi la vita impossibile. Sfido chiunque a prodursi in performance da velocisti, stringendo nel contempo le chiappe a tal punto che si potrebbero tagliare i tondini di ferro... Nell'interminabile tratto di falsopiano, qualcuno ancora mi sorpassa, di tanto in tanto; mi guardo attorno, alla ricerca di un posticino appartato, ma come si fa, con tutta 'sta gente intorno? Per giunta, un sacco di persone che mi conoscono e mi salutano per nome... Non sarebbe simpatico, ricambiare mostrando al mondo la parte migliore di me. Resisto, finché posso. Ma poi non posso più... Approfitto di una curva della strada sterrata e di un cespuglio di rovi che mi offre un po' di riservatezza; pazienza se mi tocca pagare il favore consentendo che il mio ingombrante posteriore si tramuti in un puntaspilli. Riparto, sperando in un futuro migliore; la discesa, giù nel prato e poi ancora attraverso il bosco, mi porta in vista di un abitato. C'è gente che incita, lungo il percorso; si sente la voce di un altoparlante. Ah già: mi sovviene in questo momento che la corsa prevede anche un percorso breve da 7 km, probabilmente vicino alla conclusione. Ma sarò poi sulla strada giusta? Mi sarò mica persa un bivio per il percorso lungo? "Ma... Per la 45 km, vado bene di qui?". Lo chiedo due volte; due volte mi sento rispondere di sì: speriamo... Infilo la porticina di un parco giochi. Sono tornata a Oulx, ma non me n'ero ancora resa conto. L'arrivo della corsa da 7 km prevede di seguire la traccia a destra; gli altri, invece, tirano dritto, lungo un acciottolato che poi diventa scalinata, risale la collina sulla destra e va a sbucare su una strada asfaltata.
La strada è in leggera, impercettibile salita; potrei correre... Ma ci rinuncio: meglio non fare troppo i galletti. Ho davanti 38 km, circa, ma sono tutt'altro che in buona forma. Anzi, direi che mi sento uno straccio. Calorosi saluti da parte di anziani tifosi a spasso per il paese; poi, quando la strada fa un lieve colle ed inverte la sua pendenza, accenno a corricchiare. Il tracciato di gara abbandona la strada principale, s'infila tra le case e prosegue poi su una strada sterrata che oltrepassa un ponticello e riprende a salire, in mezzo al bosco. Il tavolo del ristoro, luce dei miei occhi: cioccolato, dolci vari e Coca Cola a volontà. Saluto, ringrazio e proseguo lungo la strada sterrata, a passo di marcia, di più non si può. Con il fiato corto, raggiungo una frazione. Già da lontano, sento il suono metallico di un altoparlante: toh, che sia in onore della corsa? Macché... E' in corso la messa e, a quanto pare, il parroco ha avuto l'infelice idea di estendere la portata della sua voce anche al di fuori delle mura della chiesa. Ma dico io, se mai volessi prender messa, verrei dentro io, ti pare? Se invece me ne sto ben lontana dai tuoi confini, ci sarà una ragione... Scappo via inorridita, con l'unico guizzo di vivacità che le gambe mi concedono nella giornata, e non posso reprimere un moto di disgusto all'idea che, corrente l'anno 2010, ci sia ancora gente che si beve simili fandonie. Bah. Del resto, dicono che per sopravvivere sia necessario illudersi, e ciascuno s'illude a modo suo. La salita, concesso un breve tratto di respiro nell'abitato, riprende decisa. La pancia, idem, torna a ballar la tarantella. Sento alle spalle un ticchettio di bastoncini: inconfondibile, lo riconoscerei tra mille, dopo averlo udito per giorni e giorni, non dico ventiquattr'ore al giorno ma quasi. Lo riconosco prima del suono della voce che lo accompagna. Il buon Giorgio è in arrivo. Mannaggia, ed io che oggi speravo proprio di riuscire a staccarlo... Va bè, se non altro, ho una buona scusa, le intemperanze intestinali, per giustificare il fatto che sono stata raggiunta. In realtà, so benissimo che il sale sulla coda me l'avrebbe messo comunque, quel satanasso. E' impegnato, tanto per cambiare, in una fitta chiacchierata con due colleghi; uno di loro è il terzo reduce del Tor, Franco. Bene: se non altro, ora che si viaggia in compagnia della scopa, so che nessun altro più mi infliggerà l'umiliazione del sorpasso. Son già tutti avanti.
Marciamo in branco, di buon passo, finché la salita inaspettatamente diventa piano e poi discesa da corricchiare, non prima, per me, di una seconda sosta ai box. I fuggitivi, per fortuna, hanno poca voglia di fuggire; mi attendono nella breve discesa, che si conclude poi con un ripido sentierino e con il guado di un torrente. Incerta sulle mie scarpe dalle suole ormai consumate, passo da una roccia all'altra sperando di non sfracellarmi, là dove Giorgio saltella e danza senza difficoltà. Dall'altra parte del corso d'acqua, si comincia a fare sul serio, con un ripidissimo sentierino di terra, che risale la montagna tagliando i tornanti di una stradina sterrata, con uno splendido panorama sulle cime imbiancate dalla prima neve. Ci arrampichiamo con buona lena, tutto sommato; ora che la traccia sale regolare e decisa, mi sento meglio, sia nelle gambe che nel morale. Giorgio segue, senza problemi. Il fiato per chiacchierare non ci manca mai: se lo risparmiassimo per la corsa, nove volte su dieci saremmo da podio... Un breve tratto di strada bianca, da cui scorgiamo una chiesetta, un po' più in alto, ed un suggestivo scorcio sullo Chaberton velato di bianco. "Vedrai lo Chaberton, ma non sarai costretta a salirci in cima", mi aveva preannunciato uno degli organizzatori: beh, ma se anche avessi dovuto raggiungere quella vetta, non mi sarebbe affatto spiaciuto! O forse sì, adesso, perché la temperatura non è già delle più confortevoli qui, sotto i duemila metri; figuriamoci mille e fischia metri più in alto!
Rampa dopo rampa, sotto un limpidissimo sole tiepido, raggiungiamo in effetti la chiesetta ed arriviamo, poco oltre, in vista di una graziosa frazione, case in pietra e balconi in legno dall'aspetto talvolta non proprio solido. Ci raggiungono i due colleghi, di cui già da un po' sentivamo le voci alle spalle: breve sosta al ristoro, quattro parole, poi ancora in marcia, su strada bianca, a contarcela, come si suol dire. Mi spiace un po' che il gruppo debba adeguarsi alla mia andatura; purtroppo, per me non c'è alternativa... Più di così non ce n'è!
I compagni di viaggio si lanciano nella titanica impresa di dare un nome alle tante cime che ci circondano. Ho la netta impressione che le idee, in generale, siano un po' confuse... Ma non ha importanza; quel che conta è esserne convinti! La salita, allegra e chiassosa, ci porta ad attraversare un pianoro erboso; davanti a noi, un grumo di case, circondate da alberi vestiti dei colori caldi dell'autunno: giallo, rosso, sfumature del marrone... Sullo sfondo, le montagne: un'immagine da cartolina, così bella da sembrare quasi costruita ad arte, a beneficio dei corridori. Meraviglia. Uno dei due accompagnatori annuncia che ci saluterà proprio qui: "taglia" il percorso per tornare giù ad Oulx, in tempo per assistere all'arrivo del vincitore. Inevitabile la divagazione filosofica sul confronto tra i corridori di punta e quelli di coda, cioè noi. In fondo, commenta il collega, la felicità è assenza di desiderio; noi non assaporeremo mai il gusto del trionfo e siamo contenti così, con quel che abbiamo; ci basta concludere la corsa e nulla più. "Insomma, siamo delle mezzeseghe e siamo consapevoli e contenti di esserlo", chioso, per amore della sintesi. Mi si rimprovera di mancare di poesia...
Un gioiellino di paese ed un gioiellino di ristoro: il banchetto espone nientemeno che una rassegna di torte, una più appetitosa dell'altra, all'aspetto. Ne arraffo due fette: un esemplare tipo plumcake ed un altro, più elaborato, con cioccolato e pere, una ricetta tipica piemontese, mi spiega Giorgio. Peccato che poi, tra le case, la strada s'impenni e mi costringa a rischiare il soffocamento. E' una questione di priorità; non posso certo smettere di masticare... Incontro un gruppo di persone in abito elegante, che spariscono oltre il portone di una trattoria. Poi, le fettucce segnaletiche mi conducono su per un sentiero sterrato, segnato dai solchi lasciati dall'acqua e ripido quanto basta; Giorgio mi raggiunge di lì a poco, giusto per sottrarmi un preziosissimo boccone della torta con le pere: ecco, farebbe di tutto per danneggiarmi, questo filibuistiere. Quel boccone sarà l'energia mancante allo sprint finale per il podio!
La pendenza, ora decisamente aspra, non c'impedisce comunque di menar la lingua, con grave pregiudizio per l'ecosistema. Si ciarla di qualsiasi cosa, dai bastoncini ai pettegolezzi sui vicini di casa. La strada, in terra e sassi, risale ripida in mezzo al bosco; sembra quasi una pista da sci. Punto di controllo al bivio tra i due percorsi: chi volesse limitarsi a percorrere 28 km dovrebbe svoltare a destra. Noi rifiutiamo con sdegno: lungo, avanti tutta! Alle nostre spalle. Franco risale, raccogliendo fettucce. Il panorama ora è nascosto dalle frasche. Seguiamo, a quanto sembra, il percorso di un "chilometro verticale"; il tracciato è sempre più severo, tanto che i bastoncini ora fanno da uncino. Ad un bivio, imbocchiamo il sentierino sulla destra: e qui, davvero, bisognerebbe potersi tramutare in capre... Più che salire, ci si arrampica, o quasi. Giorgio consulta l'altimetro; siamo nei paraggi dei duemila metri; non dovrebbe mancare molto alla fine di questa ascesa. Sbuffiamo come locomotive a vapore. Il buon Franco ci rassicura: manca poco, tra un attimo spunterà una chiesetta, ci siamo quasi... "Quasi", l'ho già notato, in montagna è spesso un concetto discutibile; in ogni caso, di lì a poco, ci troviamo davvero davanti la sagoma della chiesetta e di due loschi figuri che ci attendono. "Sono la scopa", annuncia Franco; cantilena che si ripeterà ad ogni punto presidiato, d'ora in poi.
Il sentiero prosegue con un lungo saliscendi in cresta, vista su due vallate e cime a perdita d'occhio. Peccato non potersi guardare intorno; troppo alto, per me, il rischio di inciamparmi. La caviglia destra già lancia fitte di dolore: ormai è una costante. Mi sa che dovrò convivere con il bruciore, fin quando la stagione delle corse in montagna cederà il passo alla pausa invernale. Allora, correndo solo su asfalto, dove non c'è quasi pericolo di inopportune storte, darò all'articolazione un po' di requie. Per oggi, stringo i denti, anche perché la farmacia, purtroppo, è rimasta a casa, dimenticata sul tavolo della cucina. Corricchio ogni volta che posso: le gambe, ora che hanno superato una salita, sono più brillanti, sciolte.
Ennesimo punto di ristoro, presidiato da simpaticissimi volontari che ci offrono, come sempre, Coca Cola e dolciumi vari. Ci annunciano che ripasseremo da qui tra poco più di quattro km; tempo di fare un giro in tondo, salita blanda e successiva discesa, su e giù tra prati ed acquitrini, appena oltre quota duemila. Siamo più o meno a metà percorso, ma abbiamo già incamerato la gran parte del dislivello; in più, il morale è davvero arzillo. Nulla di più lontano da una gara, oggi, per noi: ci sentiamo quasi in vacanza...
Il secondo passaggio al banchetto del ristoro è d'obbligo; segue una lunga discesa nel bosco, dove i piedi fendono un morbidissimo tappeto di foglie secche cadute da poco. Si corre e si chiacchiera; Franco s'è ricongiunto a noi, salvandoci da un'inopportuna deviazione fuori sentiero. Dobbiamo scendere fino ad una località che si chiama Chateau; per raggiungerla, attraversiamo tra l'altro un bosco incredibilmente suggestivo, detto "delle Gran Pertiche". Credo siano larici, anche se non potrei giurarci, vista la mia crassa ignoranza in materia; in ogni caso, sono alberi altissimi e dritti come fusi, che lasciano a stento filtrare i raggi del sole e creano sul terreno un morbidissimo tappeto di aghi. I tronchi sono nudi fino a discreta altezza. Un luogo incantato, suggestivo, che lascia a bocca aperta.
A Chateau, un altro banchetto del ristoro: qui si complotta contro i nostri livelli di colesterolo... Primo pomeriggio, residui profumi di pranzo e famigliole a spasso lungo la strada sterrata. Deviamo ancora sulla sinistra: breve tratto di corsa nel prato, poi ancora discesa, sotto un paretone roccioso, chiusi in mezzo alla vegetazione selvatica, rovi, gaggie; il tratto forse meno significativo dell'intera corsa. Il telefono di Franco comincia a sqillare: è il boss della corsa, chiama per sapere dove siamo. Lontani, siamo ancora lontani! Cavoli, a quanto pare, il grosso dei partecipanti è già al traguardo, o quasi; a noi mancano ancora più di dieci km, e non ci pare nemmeno di essercela presa poi così comoda. Amen: aspetteranno.
Correndo e chiacchierando, raggiungiamo le case di Beaulard; passiamo oltre, perché dobbiamo ancora raggiungere il limitare di un campeggio. Da lì, invertiremo finalmente la rotta, per tornare verso Beaulard, affrontare l'ultima breve salita e conquistarci finalmente l'arrivo. Dal campeggio, infatti, cambiamo direzione, attraversiamo un parco lungo una strada sterrata che a tratti ci consente di corricchiare: attività a cui, in fondo, continuiamo a preferire l'amabile conversazione. Ancora il telefonino di Franco: son sempre i capoccia, che chiedono lumi sulla nostra posizione. Beh, non è che in dieci minuti noi si possa fare poi tanta strada... L'itinerario risale lentamente, prima verso le case di Beaulard, altro banchetto di pappatoria, e poi più deciso attraverso il prato, per ricongiungersi ad una strada sterrata, ciottolosa e ripida, che strappa e ci riporta su in un paio di tornanti. Ormai si parla di famiglia, di vita privata; incredibile, quanto pochi chilometri di corsa possano cementare la confidenza. Marcio più svelta che posso, ora che, a cinque o sei km dalla fine, sento profumo di traguardo; i due colleghi non mollano: anzi, sul tratto di ripido sentiero, quando ci troviamo a dover passare attraverso una mandria di mucche, è Giorgio che prende il comando, là dove io tentenno. "Falle spostare, pensaci tu, che di vacche te ne intendi!". Mi riferisco, è ovvio, al suo mestiere di veterinario; mai e poi mai oserei avanzare dubbi sulla specchiata rettitudine morale del mio compare. Omnia munda mundis! Le mucche, in ogni caso, si spostano, un po' seccate. La rampa prosegue ancora per un po'; Giorgio sbotta, langue, ma è quasi finita, davvero. Il sentiero sbuca tra le case di Chateau; troviamo ancora un tavolino, quasi messo lì per caso, con pochi resti del passaggio della mandria di bufali che ci ha preceduto; poco oltre, l'altro tavolo, quello davanti a cui siamo già sfilati qualche chilometro fa. Di là, a sinistra: strada bianca per qualche km. Incrociamo un conoscente di Franco, in mountain bike, che ci accompagna per il lungo tratto di saliscendi, un po' da correre un po' da camminare. Il telefono non dà tregua... Tra un po', va a finire che da Oulx mobilitano il Soccorso Alpino! Mi verrebbe da prendere quel maledetto aggeggio e scaraventarlo giù a fondovalle... "Siamo in trattoria", rispondiamo in coro, "siamo al secondo". Mancano il dolce ed il caffé, lasciateci in pace!
Il ciclista ci informa che una ragazza, una delle prime, è caduta malamente inciampando su sentiero e picchiando il viso: nulla di grave, per fortuna, ma il naso resterà gonfio per un po'... Mannaggia che jella! Scorrono i cartelli con l'indicazione dei km: idea non comune nelle corse in montagna, che io apprezzo moltissimo. Così mi faccio un'idea della residua durata del supplizio... La strada tende a scendere, con qualche breve risalita, l'ultima delle quali su un tratto di asfalto. Infine, una deviazione ed un ripidissimo sentiero a precipizio: manca un chilometro, più o meno... Rotoliamo giù nel bosco, fino a sbucare in un cantiere. Da quassù si vede già l'arrivo: e, da laggiù, i tifosi in trepida attesa si accorgono di noi. Urla di ammirazione e giubilo: "Ma dove caxxo eravate finiti? Vi davamo per dispersi", che simpaticoni i nostri fan! Rispondiamo agli schiamazzi con altrettanti schiamazzi: devo dire che un'accoglienza così festosa non mi era mai capitata... Una vera festa, neanche fossimo i vincitori! Nemmeno a farlo apposta, i tre reduci del Tor arrivano insieme. Per le ultime poche decine di metri, ci accompagna una piccola folla, Sergio & C., che immagino contenti quanto noi dell'arrivo: per loro è la fine di un'attesa da incubo! Sette ore e trentotto per Giorgio, sette e quarantotto per me che sono partita prima: in assoluto, non mi sembra un risultato così disdicevole... Non è colpa nostra, è il resto del mondo che è composto da extraterrestri!
Contenti e soddisfatti, anche questa volta; il Trail di Oulx è stato una piacevolissima sorpresa, semplice e ben organizzato, curato nei minimi dettagli. Siamo stati un po' le mascotte della corsa: a Giorgio, poi, tocca anche il premio di categoria, con tanto di bottiglia di vino. "Vai, vai a ritirarlo – lo rimbecco – guai a perdere l'occasione, per quell'unica volta che ti capita nella vita!". E' già tanto che la bottiglia non s'abbatta sulla mia capoccia... Rapida visita al tavolo delle vivande, poi si torna all'auto, con le ombre già lunghe che ci accompagnano, e via verso casa. Anche per oggi, ci siamo guadagnati la pagnotta. Il prossimo sabato , per me, sarà Morenic Trail!
giovedì 30 settembre 2010
12/19 settembre 2010 - Tor des Geants. Settima ed ultima tappa Ollomont - Courmayeur
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 1 - Sopra l’abitato di Rey si imbocca il sentiero che sale nel bosco e nei pressi dell’alpeggio di Prumayes (1621 m) sbuca nei pascoli. Si segue la strada sterrata, fino all’alpeggio di Champillon (2057 m), poi l’alpeggio di Pessinoille (2151 m). Il sentiero, saliti i ripidi pascoli, porta al Rifugio Letey-Champillon (2375 m). Punto acqua. Dal rifugio, il sentiero porta con vari tornanti fino al Col Champillon (2709 m). Il primo tratto della discesa dal colle è in forte pendenza fino all’alpeggio di Crou de Bleintse, da cui parte il sentiero in diagonale verso destra che porta all’alpeggio di Ponteilles Damon (2046 m). Disceso l’ultimo tratto tra i prati si raggiunge Ponteilles Desot (1807 m). Punto acqua.
I volontari del ristoro sono gentili e solerti al punto tale da mettermi quasi in imbarazzo. Mi chiedono cosa vorrei mangiare, mi portano i piatti: ma no, non è il caso, non siamo al ristorante; posso servirmi da sola... Un abbondante piatto di pasta, pane, formaggio, yogurt. La pasta arriva anche per Giorgio: ma il destinatario non c'è... Mi tocca andare a cercarlo fuori, intento a trafficare nella borsa, su una panca, davanti alle docce, con un'espressione tale che rinuncio a domandargli "Come va?". La tensione gli si legge in faccia. Trangugia anche lui il suo piatto di pasta, accenna a voler dormire, ma in realtà, secondo me, non sa nemmeno lui cosa vuol fare. Mi domando quale sia il demone che dà a quest'uomo il tormento, nella gara e nella vita. Mi fa rabbia vederlo così, perché diamine, stiamo vivendo un sogno; io mi sento la persona più fortunata sulla faccia della terra e non c'è proprio nessuno, ma nessuno al mondo per cui, in questo istante, potrei provare invidia. E lui no, non è contento, sempre incavolato con il mondo. Se almeno ci fosse un motivo, una causa scatenante, ma no, nulla, nessuna regolarità nei suoi baratri di tristezza. D'altro canto mi dispiace; gli sono affezionatissima, vorrei poterlo aiutare in qualche modo, e invece mi rendo conto che la mia presenza spesso peggiora la situazione. Del resto, non posso certo dire d'essere un fenomeno di delicatezza e sensibilità; le mie reazioni, di solito, passano dal "vaffan..." ben prima che dal chiedere se c'è qualcosa che non va. E poi, in fondo, questa volta il buon Giorgio non ha tutti i torti a ringhiare. Deve avere un dolore tremendo ai piedi, insopportabile alla grande maggioranza degli esseri umani normali. "Dai, fatti vedere dal medico, magari hanno anche solo un cerotto, un Compeed, qualcosa". Intanto, m'ingegno con la doccia: il guaio è che le cabine non hanno spazio per cambiarsi all'interno. E non c'è spogliatoio. Pazienza: che sarà mai un po' di sana promiscuità. La doccia ritempra le energie... E' adorabilmente calda.
Ripuliti e cambiati, entrambi ci sediamo ancora per qualche istante al tavolo del ristoro, in compagnia di Michele e Gabriele. C'è un gran viavai di atleti e familiari, chi arriva, chi parte, chi si lamenta e si guarda sconsolato i piedi, sfilando con estrema delicatezza ed orribili smorfie le calze ormai fuse con la carne. Ecco, questa per me è un'altra gran fortuna: non ho mai avuto problemi di vesciche né di unghie, proprio mai. Indosso ancora le La Sportiva che avevo alla partenza, ormai sulla via della distruzione: confido che reggeranno, me l'ha assicurato Matteo.
Si riparte, senza appello. Pare abbia smesso di piovere: ci avviamo, in compagnia dei due amici, che ci abbandonano di lì a poche centinaia di metri, quando la strada comincia a salire. Due colli, solo più due colli ed è fatta. Non ci voglio credere, non ancora; c'è un'altra notte in mezzo, è davvero lunga... Ma è difficile, ormai, reprimere oltre l'entusiasmo. Se non ci capitano incidenti, possiamo dire che ormai è fatta.
Seguiamo la strada sterrata, prima nel bosco, poi attraversando i pascoli. Ogni alpeggio reca l'indicazione della quota; controlliamo l'altimetro di Giorgio, che di solito ci azzecca, in un margine di dieci metri. Ci raggiunge un compagno di gara, accompagnato da un amico; vero, il regolamento a rigore lo vieterebbe, ma in fondo non vedo che male ci sia ad avere accanto una persona che, in questo caso, cammina vicino a te e ti tiene un po' di compagnia. Null'altro vedo fare a questo accompagnatore. Insomma, va bene sanzionare un aiuto illecito concreto, che so, un passaggio in auto, ammesso che qui sia possibile, ma il soccorso psicologico direi di lasciarlo perdere... Altrimenti, a noi avrebbero già dovuto sequestrare il cellulare!
La strada prosegue su per il pendio, nel prato. Ci godiamo un sole già indebolito dal tardo pomeriggio, e un po' anche dalle nuvole a strati, alte, sottili. Passiamo oltre l'Alpeggio Champillon; il rifugio è un po' più in alto, sembra piazzato su un promontorio d'erba. E' quello, senza dubbio, con le bandiere che sventolano. Lo raggiungiamo, piccola pausa per bere un bicchiere di the, poi ancora in marcia, su per i ripidi tornanti che tagliano il pendio in verticale. Ovviamente, il colle non è mai dove sembra... Superiamo una prima sella, ma si sale ancora, più dolcemente; si piega appena a destra, il vento già freddo e le ombre lunghe del tardo pomeriggio. Dopo l'alpeggio Champillon ed il Rifugio Champillon, non poteva mancare il Col de Champillon, poco più di 2.700 m di quota. Passare quassù è un brivido, e non per la temperatura. Manca solo più una salita... Ancora lontana. Per ora, ci attende un migliaio di metri di discesa, anche ostica all'inizio: attenzione, Gian, non puoi e non devi farti male adesso. Cautela. Il panorama, come sempre, è incantevole; siamo noi che non abbiamo più la lucidità per apprezzarlo. Conta solo più la meta, anche se nessuno nei due ne parla, silenzio e pudore. Povero Giorgio, quanto deve penare con quelle unghie. Ci giriamo e rigiriamo tra le mani il road book, come se avessimo timore di vederlo cambiare immagine da un attimo all'altro. Scendiamo giù, a Ponteille Desot; c'è un ristoro, poi dieci km quasi pianeggianti, fino a St Rhemy. Saranno piatti davvero? Viste le passate disavventure, ho seri dubbi. Meglio prepararsi psicologicamente ad affrontare almeno un paio di vie ferrate.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 2 - Dalle case di Pointier Desot, prendere verso destra la strada sterrata ed attraversare il ponte sul torrente. Dal terzo tornante parte il sentiero che in breve porta all’alpeggio di Plan Bois (1893 m). Alla sinistra delle case, parte un lungo sentiero pianeggiane nel bosco che,
seguendo un canale coperto dell’acquedotto, porta a Essanaz (1820 m). Da qui parte una strada sterrata che porta fino al paese di Saint Rhemy (1621 m). Punto di ristoro.
La discesa ci conduce, con un lungo tratto dolce in mezzo ai prati, in vista del fondovalle, dove l'ombra galoppa e guadagna terreno ogni battito d'occhi. E' sera, ormai. Dall'altra parte della valle, oltre il fiume, osserviamo una strada sterrata: non può essere che la nostra. Ce lo confermano i simpaticissimi volontari del ristoro. Alla faccia del punto acqua: troviamo un pane scuro, speziato, buonissimo, e tome di vario genere, persino una birra artigianale che Giorgio non rinuncia ad assaggiare. E poi c'incamminiamo, senza più ombre ormai, tra i recinti delle mucche, con il primo brivido che lambisce la pelle. Ed un'euforia addosso che sappiamo essere prematura, ma che non riusciamo più a controllare. Dieci km in piano, riposo e quiete per i garretti. Lungi da noi l'idea di correre, ne approfittiamo per chiamare casa, per rifiatare un po', per riallacciare quelle gran chiacchierate che già da un po' erano rimaste schiacciate dalla stanchezza e dall'ansia. Cala il buio sul fitto bosco e su quel poco che si vede a fondovalle; le prime lucine lungo la strada. Non solo si marcia in piano; si scende, addirittura. Ci culliamo nell'illusione di raggiungere St Rhemy e poter riposare: in fondo, più o meno ad ogni punto di ristoro ce n'è sempre stata la possibilità, finora. Chissà perché, però, alla vista delle tante luci del paese e della strada che sale al Colle del Gran San Bernardo, illuminata su in alto sulla montagna, mi sorge un sospetto. Sarà davvero possibile fermarsi a dormire un po', qui? Per carità, non credo che avrei grossi problemi a proseguire; non sarà peggio di quel che è stato finora; però, sia Giorgio che io ci siamo cullati fin qui nell'illusione di poter chiudere un po' gli occhi...
Molti passi più tardi, raggiungiamo le luci del paese ed incappiamo nel punto di ristoro. Un gazebo: marca male... Assistenti calorosi e tavola ricchissima, come al solito, ma di dormire non se ne parla, a meno di andare in albergo. Per me, il dubbio nemmeno si pone... Scruto il viso del mio compagno di viaggio: mi sa l'effetto inebriante della birra non è ancora finito; Giorgio incassa il colpo senza battere ciglio. Trangugia biscotti, ride, scherza e concorda con me sull'opportunità di ripartire, fino al prossimo punto di ristoro, l'alpeggio del Lac Merdeux, un nome, una garanzia. "Sei proprio sicuro?". Glielo domando almeno tre volte: non voglio poi sentirmi rinfacciare di averlo costretto a ripartire con la forza... Pare di sì. Bene, allora si va: salutiamo, mentre un altro concorrente, più distrutto di noi, si rifugia a sonnecchiare nell'auto del soccorso.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 3 - Dal paese si attraversa il ponte e, dopo circa 100 metri di strada sterrata, si imbocca il sentiero che porta all’abitato di Laval (1624 m). Si segue la strada asfaltata passando per gli abitati di Couchepache e Mottes e, dopo un tratto in discesa, si prende la strada sterrata che continua in piano fino all’alpeggio di Devies (1726 m). Si imbocca il sentiero che sale fino all’alpeggio di
Merdeux Desot (1950 m) e quindi Tsa de Merdeux (2273 m). Attraversati alcuni torrenti, si giunge al pianoro de Lac Merdeux (2540 m). Punto acqua.Dal pianoro il percorso sale e, con una lunga diagonale verso sinistra, si giunge al Col Malatrà (2925 m).
Attraversiamo le vie del paese, nella luce fioca e gialla dei lampioni; camminiamo a lungo tra le case di St Rhemy e poi delle frazioni, risalendo verso la montagna. Ci accompagnano gli sguardi curiosi dei gatti, i rumori metallici delle stoviglie in un ristorante, i profumi di cena. Un paio d'ore e siete al rifugio, ci hanno detto. Mah, ci credo poco, facciamo anche tre. Seguiamo le frecce che ci accompagnano tra tetti e viottoli. Incredibile come ogni tettoia, ogni androne sia un buon posto per dormire: ci sono colleghi assopiti nei posti più strani... Ancora avanti, per ora sempre sull'asfalto; davanti a noi, uno dei tornanti della salita via strada al Gran San Bernardo. Ci passeremo sotto? Giorgio è un po' stralunato; patisce, ora sì, il sonno. Brutta bestia, quella, ti piomba addosso all'improvviso e non puoi proprio farci nulla. Provo ad abbozzare un discorso, ma non c'è verso di risvegliare la sua attenzione. Quel che è peggio, pian piano ci lasciamo alle spalle il paese e le sue luci.
Passiamo sotto il ponte della strada del valico ed imbocchiamo un sentiero sulla destra, che sale su ripido con una serie di secchi tornanti. Giorgio passa avanti, lascio che sia lui a fare l'andatura. Le luci dell'abitato si fanno sempre più piccole, fino a scomparire dietro ad un costone, quando la valle piega, almeno nella nostra impressione, decisa verso destra. Ci attendono circa seicento metri di salita, fino al Rifugio. Un bellissimo cielo stellato saluta la nostra ultima marcia notturna; la temperatura, per ora, è gradevole, senza vento. Seguo l'incedere delle lucine davanti a noi, che disegnano la traccia del sentiero a mezza costa. Giorgio è sempre più stanco ed insofferente; meglio non cercare il dialogo. Mi spiace, vorrei potergli dare una mano, ora che io sto proprio bene, una volta tanto. Se potessi decidere, al Rifugio non mi fermerei. Tirerei diritto, fino a Courmayeur, o almeno ci proverei, a costo di dovermi poi imbozzolare lungo il sentiero, nel sacco a pelo. Ma ho la sensazione che non sarà possibile.
C'impantaniamo in un vero e proprio acquitrino, in cui faccio fatica a seguire la direzione. Le bandierine sono lontanissime l'una dall'altra; ovunque si poggi i piedi, si affonda. Guardare avanti non mi aiuta; non c'è più una traccia, ci sono tante ramificazioni di colate di fango. Il mio compare, con la decisione di chi non ne può più, ingrana la quarta e va su, sicuro, secondo un itinerario che esiste solo nella sua mente, ma che, a quanto pare, è quello giusto. La luce del rifugio è già sopra le nostre teste; scompare quando ci avviciniamo, si fa inseguire con un lungo traverso in mezzo ad un ripido pendio erboso e, finalmente, si rivela. Alpeggio Merdeux, di nome e di fatto, a giudicare dallo stato delle scarpe. Sull'ampio piazzale in terra battuta c'è il banchetto del ristoro. Giorgio chiede, brusco, di poter dormire; un omone ci accompagna all'ingresso dell'edificio, ma ammonisce: posto non ce n'è più. Ce ne accorgiamo non appena mettiamo piede nel locale: un corridoio, stretto e gelido, immette in una stanza con uno sbalzo termico enorme; tre metri per quattro, un carnaio: ci saranno venti persone qui dentro a dormire, chi per terra, chi sui tavoli, sulle panche, sulle sedie. Le nostre frontali illuminano una scena da inferno dantesco. Richiudiamo la porta, indugiamo un attimo nel corridoio. Giorgio è già partito per la tangente, furioso: "Qui non si può dormire, come faccio, basta, me ne vado!". Come, non si può? E tutta quella gente lì dentro, cosa starebbe facendo, secondo te? Una partita a Monopoli? Dai su, poche storie, ora siamo qui, ci troviamo un angolino, così risolvo mentre rientro nella stanza. Il compare insiste con la sua sfuriata, non ne vuole sapere. Lo detesto quando si lascia dominare dai nervi in questo modo. E che credevi di trovare, l'Hotel Hilton? "Io me ne torno giù". Ecco, perfetto, questa mi sembra un'idea geniale, da candidatura al Nobel direi. Te ne torni giù, fai a ritroso settecento metri di dislivello e sette, otto km, per andare in un posto dove comunque non ti daranno da dormire. "Vuoi darti una calmata?", ringhio. "Stai zitta", è la risposta. Benissimo, concludo. Fai un po' quello che ti pare. Anzi, l'espressione che mi esce dalle labbra in quell'istante è un tantino più colorita, inizia per vaffa- e finisce per -ulo. Fa' quel che ti pare, io sono stufa, non ti sopporto più. Addocchio una porzione di piastrelle, tra un cadavere ed il fornello spento, ma ancora caldo. Butto lo zaino a terra, a mo' di cuscino; mi sdraio, rabbrividisco al contrasto tra il pavimento gelido ed il "putagé" quasi rovente. Mi addormento.
Nell'incoscienza, percepisco i movimenti di chi va e chi viene; chi respira, chi russa, chi mugugna nel sonno. Mi sveglio, guardo l'ora, è passata da poco l'una; ho riposato un'ora. Bene: tappa in bagno e poi via, me ne vado. Chissà che fine ha fatto, quello là, chissà se è tornato giù davvero. Mi dispiace che ad un'avventura così bella tocchi un epilogo tanto amaro, ma non credo sia colpa mia; chi è causa del suo mal, in fondo, pianga se stesso. Il mio unico pensiero, adesso, è a Courmayeur, e non permetterò a nulla ed a nessuno di incrinare il mio sogno. Scavalco cautamente le varie membra inerti, sparse per il pavimento; passo nell'altra stanza, dove mi sembra ci sia il bagno. Quando rientro nel girone infernale, qualcuno inavvertitamente accende la luce: toh... Eccolo, "quello là". E' seduto sul divano, con l'aria sconcertata ed arruffata. Mi avvicino: "Che fai?", mi domanda. Come, che faccio... Riparto, mi pare ovvio. Ti avevo dato per disperso. Nella penombra, sussurrando, cerchiamo di intenderci: fermarsi ancora un po'? Boh, per me va bene, ma non troppo; basta che mi svegli. Trovo libera la sedia a dondolo e ne approfitto all'istante; mi ammucchio lì e mi riaddormento, incurante del fatto che chiunque entri nella stanza colpisca lo schienale con la porta d'ingresso.
Mi riscuote Giorgio, già bell'e pronto. E, si spera, di umore un po' meno cupo: altrimenti, giù a St Rhemy ce lo rispedisco io, a calci però! Ci concediamo un bicchiere di the caldo prima di ripartire: il freddo è penetrante. Sono sicura che andrà meglio, non appena saremo in marcia; infatti, di lì a pochi minuti, mi levo uno strato. Il sentiero corre a mezza costa nel prato, poi piega a sinistra ed oltrepassa un ponte. Da qui, s'inizia a guadagnare quota sul serio, con una sequenza di ripidi tornanti. Alcuni tratti di respiro ingannano sulla vera natura di questa salita. Il cielo e la montagna si distinguono solo per le luci, innumerevoli nel primo, sparute ed in lentissimo movimento nel secondo. Salita irregolare, lunga, ingannevole, e noi che siamo già oltre, col pensiero a Courmayeur, e tutto sommato saliamo leggeri, allegri, anche se è buio, anche se il nero sembra avere inghiottito tutto alle nostre spalle, senza più darci possibilità di tornare indietro. Il passo un po' più lento all'aumentare della quota; il fondo che, da terra ed erba, diventa sabbia e pietraia. La pendenza, già severa, d'un tratto diventa quasi insostenibile. Impressionante: saliamo a passettini minuscoli, con il piede che scivola indietro e nulla a cui aggrapparsi con le mani. A Giorgio sfugge una pietra, che rotola e rotola senza sosta; se ne sente il rumore lontanissimo. Brividi: non vediamo nulla, solo il pendio di sfasciumi che sparisce molti, troppi metri sotto di noi. Se dovessimo cadere... Procediamo a nervi tesi, con la massima attenzione; qui non c'è posto per sonno e distrazione. Raggiungiamo un passaggio attrezzato con scalini di metallo e corde; ancora corde, il passaggio che diventa poco più di una cengia. Meno male che è notte, meno male che sotto di me non vedo nulla. Il cuore impazzisce; beh, se non altro ho la conferma che è vivo... Da un'eternità non lo sentivo battere a questo ritmo forsennato.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 4 - Dal col Malatrà la discesa prosegue in mezza costa fino al vasto fondovalle percorso dal torrente. Costeggiando sulla destra il corso d’acqua si raggiunge dapprima l’alpeggio di Giouè Damon (2228 m) e, attraversato verso sinistra il ponticello in legno, le baite di Malatrà Damon (2208 m). Da qui in breve si giunge al Rifugio Bonatti (2025 m). Punto di ristoro. Dal rifugio si prosegue verso sinistra per la lunga balconata che si affaccia sulla Val Ferret conducendo prima all’alpeggio di Secheron (1924 m), poi a quello dell’Arminaz (2009 m).
Il colle Malatrà, poco più di una fessura, mi compare davanti all'improvviso. Giorgio è già al di là. Una vallata buia come quella che ci siamo appena lasciati alle spalle, un vento gelido che sferza la faccia. Quota 2.900, più o meno, per non farsi mancare nulla, neanche all'ultimo. Nemmeno il tempo di renderci conto che siamo in cima per l'ultima volta. Attacchiamo la discesa che, per fortuna, pare ben più malleabile della salita; inizia con una traccia sottile nella pietraia, ma con pendenza ragionevole, a tratti addirittura in piano. E' chiaro fin da subito che, per il povero Giorgio, l'ultima frazione della corsa sarà un calvario. Le unghie martoriate gli infliggono strazio ad ogni passo: lui non fiata, mai, ma non può nascondere il passo lento, troppo cauto, innaturale. Lo seguo, spesso in silenzio. Il freddo non si fa attendere. Manca poco all'alba, l'ora più gelida della giornata, e siamo camminando lenti; non c'è modo di riscaldarsi, così. Indosso tutto quel che ho, incasso la testa tra le spalle. L'impazienza mi tormenta: vorrei correre via, qui dove il terreno è persino facile, volare giù al Rifugio Bonatti, poi al Bertone, infine a Courmayeur, questo vorrebbe il demone. Ma poi c'è l'angioletto che ci mette del suo: Gian, che ti cambia, arrivare un'ora prima, un'ora dopo? Stefania, Skipper ed amici vari non saranno certo al traguardo prima delle 9, anzi, probabilmente dopo; non dimostreresti nulla, salvo l'ingratitudine verso chi ha condiviso con te l'intero viaggio. E' una sensazione strana, di inquietudine, come se, restando più a lungo qua in alto, mi esponessi al rischio più concreto che qualcosa rovini tutto, che non mi lasci arrivare.
Il sentiero scende in un pianoro molto esteso; camminiamo in piano per quelli che ci sembrano chilometri e chilometri, anche se ormai non possiamo più dare alcun credito alle nostre percezioni di tempo e di spazio. Il cielo si colora delle prime sfumature azzurre; la temperatura sembra scendere ancora. Complice la pendenza appena accennata, Giorgio sembra stare un po' meglio; ritrova la voglia di chiacchierare. Prato, ancora prato, l'altimetro che non ne vuol sapere di scendere; i primi, sparuti alberi, il fiume sulla sinistra, un alpeggio, le mucche. Sembra di essere su un altopiano. Ed è curioso: non c'è traccia di quell'euforia esplosiva che ho cullato per tanto tempo nella mia immaginazione. Camminiamo come se fossimo in gita, fianco a fianco, e forse nessuno dei due osa esprimere il vero sentimento di entrambi. Il fatto è che ci dispiace. E' vero, siamo stanchi, sporchi ed assonnati. Ma ci dispiace raggiungere la Val Ferret, ci dispiace scendere su Courmayeur e passare sotto l'arco d'arrivo. Perché in quel momento sarà tutto finito. Bisognerà tornare giù, sulla terra. Ed io, se potessi scegliere, non ci tornerei; continuerei così, ancora, adesso che le gambe si sono abituate, che il cuore mi porta su e giù senza lagnarsi, che la pelle è bruciacchiata dalla luce limpida di settembre. Già, ho le labbra ustionate, un vero orrore.
Giro e rigiro nella mia mente l'immagine della Val Ferret, per cercare di capire dove andrà ad innestarsi questo sentiero. Tra non molto, la mia curiosità sarà soddisfatta; la traccia piega decisa verso il basso, supera alcuni tornanti ed uno scalino, fino a raggiungere un gruppo di edifici ed un bivio. Non manca più molto: nella confusione del buio che ancora tarda a cedere il passo, raggiungiamo il bivio che precede di un centinaio di metri il Rifugio Bonatti. Approfittiamo di un attimo di tregua per fare colazione a caffé e biscotti; ci piacerebbe ordinare una cioccolata calda, ma il piglio dei gestori non è esattamente incoraggiante: mannaggia che simpatia... Beh, li si può anche capire; dopotutto, saranno svegli ed attivi da un numero spropositato di ore, loro come noi. Non si può certo pretendere che sfoggino un sorriso da vittoria al Superenalotto. Altri concorrenti sono ben avviati sulla via di una robusta colazione, con tanto di tovagliette sul tavolo e posate in mano. Noi preferiamo ripartire, pian piano.
Il cielo è già più chiaro, quando usciamo incontro al freddo. Per fortuna, di qua al Bivacco Bertone, la via è un po' a saliscendi ed offre la possibilità di scaldarsi un po'. Ci si aggrega un micio, anzi una micia, che ci segue, miagola, finge agguati e scappa nell'erba: bianca e nera, è molto bella. Le cime s'infilano il cappuccio rosso fuoco dell'alba; il Monte Bianco è qui davanti a noi: l'abbiamo salutato una settimana fa e, sono sicura, né io né Giorgio credevamo davvero di poter tornare a piedi a ringraziarlo. Un'alba meravigliosa sulla Val Ferret, anche se, verso valle, già si vedono le prime nubi, scure e minacciose, questa volta. Ma non ha più alcuna importanza, ormai, non per noi. La micia ci richiama disperata; mi spiace, ma proprio non possiamo fermarci, non oggi. Giorgio ha riconquistato allegria, trotta di buona lena. Chiacchieriamo, calpestiamo il fango intorno agli alpeggi, agognamo entrambi il tetto del bivacco che faccia capolino. Pini, arbusti, curva dopo curva, le luci del fondovalle che si spengono.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 5 - Dall’alpeggio Arminaz (2009 m) si attraversa il grande ponte sul torrente, si continua fino alle baite della Lèche (1929 m) e quindi fino al bivio posto appena sopra l’alpeggio di Leuchey. Da qui, entrando nel bosco di conifere, il sentiero sale leggermente per portarsi fino al Rifugio Bertone (1989 m). Punto acqua. Dal rifugio Bertone si scende verso la Val Sapin, il Villair superiore (1389 m) e finalmente si arriva nella piazza della chiesa di Courmayeur! (1224 m)
Ansia di arrivare, ma nessuna voglia di arrivare, non per me. Lo spettacolo del Monte Bianco che si veste di luce, prima rossa di fuoco, poi sempre più chiara, il ghiaccio e la neve che rispondono ai raggi del sole, è impareggiabile. Potrei restare qui per ore, se non avessi, sfortunatamente, un impegno giù a valle.
I comignoli, il fumo delle stufe; scendiamo giù tra le bellissime case in pietra della borgata. Al bivacco, troviamo ancora un bicchiere di the caldo, un po' di cioccolato, non perché ce ne sia bisogno, ormai, ma per abitudine, per golosità. Nella speranza che i raggi del sole ci raggiungano presto, ci leviamo di dosso un paio di strati. E poi giù: l'ultima picchiata. Un sentiero sassoso, sconnesso, dev'essere un supplizio per i piedi di Giorgio, che pure sembra ansioso di lasciarsi alle spalle anche quest'ultima difficoltà. I tetti di Courmayeur s'intravedono tra i pini, sempre più vicini. Cammino, corricchio persino, con un sorriso che s'allarga da un orecchio all'altro; in testa la celeberrima "The Final Countdown": confesso che impazzirei a sentirne le note all'arrivo... D'ora in poi, quando mi capiterà di ascoltare quella canzone, non avrò più bisogno di sognare; penserò che un'occasione degna di quella musica l'ho vissuta davvero. Ora ogni sasso, ogni centimetro quadrato di terra diventa brace, tanta è la voglia di schizzare via, di correre all'arrivo. Eppure...
A Villair, torniamo al passo, ora sul comodo asfalto. Mi guardo intorno come se volessi rubare ogni particolare e portarmelo via, inciderlo per sempre nella memoria. Abbiamo oltre 330 km alle spalle: 330 km, innumerevoli salite, immagini, gioia, furia omicida, voglia di finire e voglia di mollare, paesaggi, visi, un bagaglio di emozioni che nemmeno il più sofisticato dei computer potrebbe immagazzinare. Per Giorgio è l'anno speciale; dopo la Marathon des Sables, conquistata nel 2000 come regalo del cinquantesimo compleanno, oggi il Tor des Geants, traguardo strappato con i denti e con le unghie, soprattutto le unghie degli alluci, per festeggiare la sessantesima primavera. Non oso pensare come deciderà di celebrare il settantesimo...
Passato Villair, l'incrocio, le prime case di Courmayeur. Ancora tifo, la sorpresa di trovare Isacco sulla piazza della partenza, armato di macchina fotografica. E poi, ma sì, l'ultimo sforzo, la sfilata nella via centrale, l'applauso dei tantissimi ancora presenti. L'arco d'arrivo, l'abbraccio travolgente del mio amatissimo cagnone, le feste, le pacche, le strette di mano, la firma sul tabellone, le foto con Stefania, Flavio e Gustìn, forse la più bella sorpresa di questo momento. Più confusi e disorientati che mai, sarà il sonno, chissà. Qualcosa di buono, nella vita, finalmente l'ho combinato anch'io, ma è proprio come pensavo, non c'è felicità adesso. Nella stretta di mano al concorrente francese, nello sguardo d'intesa con il mio compagno di viaggio, così detestato eppure così prezioso ed indispensabile, non trovo gioia. Tutto è appena finito, ed è già nostalgia...
Dislivello positivo cumulato 22.912 m; km cumulati 332.
I volontari del ristoro sono gentili e solerti al punto tale da mettermi quasi in imbarazzo. Mi chiedono cosa vorrei mangiare, mi portano i piatti: ma no, non è il caso, non siamo al ristorante; posso servirmi da sola... Un abbondante piatto di pasta, pane, formaggio, yogurt. La pasta arriva anche per Giorgio: ma il destinatario non c'è... Mi tocca andare a cercarlo fuori, intento a trafficare nella borsa, su una panca, davanti alle docce, con un'espressione tale che rinuncio a domandargli "Come va?". La tensione gli si legge in faccia. Trangugia anche lui il suo piatto di pasta, accenna a voler dormire, ma in realtà, secondo me, non sa nemmeno lui cosa vuol fare. Mi domando quale sia il demone che dà a quest'uomo il tormento, nella gara e nella vita. Mi fa rabbia vederlo così, perché diamine, stiamo vivendo un sogno; io mi sento la persona più fortunata sulla faccia della terra e non c'è proprio nessuno, ma nessuno al mondo per cui, in questo istante, potrei provare invidia. E lui no, non è contento, sempre incavolato con il mondo. Se almeno ci fosse un motivo, una causa scatenante, ma no, nulla, nessuna regolarità nei suoi baratri di tristezza. D'altro canto mi dispiace; gli sono affezionatissima, vorrei poterlo aiutare in qualche modo, e invece mi rendo conto che la mia presenza spesso peggiora la situazione. Del resto, non posso certo dire d'essere un fenomeno di delicatezza e sensibilità; le mie reazioni, di solito, passano dal "vaffan..." ben prima che dal chiedere se c'è qualcosa che non va. E poi, in fondo, questa volta il buon Giorgio non ha tutti i torti a ringhiare. Deve avere un dolore tremendo ai piedi, insopportabile alla grande maggioranza degli esseri umani normali. "Dai, fatti vedere dal medico, magari hanno anche solo un cerotto, un Compeed, qualcosa". Intanto, m'ingegno con la doccia: il guaio è che le cabine non hanno spazio per cambiarsi all'interno. E non c'è spogliatoio. Pazienza: che sarà mai un po' di sana promiscuità. La doccia ritempra le energie... E' adorabilmente calda.
Ripuliti e cambiati, entrambi ci sediamo ancora per qualche istante al tavolo del ristoro, in compagnia di Michele e Gabriele. C'è un gran viavai di atleti e familiari, chi arriva, chi parte, chi si lamenta e si guarda sconsolato i piedi, sfilando con estrema delicatezza ed orribili smorfie le calze ormai fuse con la carne. Ecco, questa per me è un'altra gran fortuna: non ho mai avuto problemi di vesciche né di unghie, proprio mai. Indosso ancora le La Sportiva che avevo alla partenza, ormai sulla via della distruzione: confido che reggeranno, me l'ha assicurato Matteo.
Si riparte, senza appello. Pare abbia smesso di piovere: ci avviamo, in compagnia dei due amici, che ci abbandonano di lì a poche centinaia di metri, quando la strada comincia a salire. Due colli, solo più due colli ed è fatta. Non ci voglio credere, non ancora; c'è un'altra notte in mezzo, è davvero lunga... Ma è difficile, ormai, reprimere oltre l'entusiasmo. Se non ci capitano incidenti, possiamo dire che ormai è fatta.
Seguiamo la strada sterrata, prima nel bosco, poi attraversando i pascoli. Ogni alpeggio reca l'indicazione della quota; controlliamo l'altimetro di Giorgio, che di solito ci azzecca, in un margine di dieci metri. Ci raggiunge un compagno di gara, accompagnato da un amico; vero, il regolamento a rigore lo vieterebbe, ma in fondo non vedo che male ci sia ad avere accanto una persona che, in questo caso, cammina vicino a te e ti tiene un po' di compagnia. Null'altro vedo fare a questo accompagnatore. Insomma, va bene sanzionare un aiuto illecito concreto, che so, un passaggio in auto, ammesso che qui sia possibile, ma il soccorso psicologico direi di lasciarlo perdere... Altrimenti, a noi avrebbero già dovuto sequestrare il cellulare!
La strada prosegue su per il pendio, nel prato. Ci godiamo un sole già indebolito dal tardo pomeriggio, e un po' anche dalle nuvole a strati, alte, sottili. Passiamo oltre l'Alpeggio Champillon; il rifugio è un po' più in alto, sembra piazzato su un promontorio d'erba. E' quello, senza dubbio, con le bandiere che sventolano. Lo raggiungiamo, piccola pausa per bere un bicchiere di the, poi ancora in marcia, su per i ripidi tornanti che tagliano il pendio in verticale. Ovviamente, il colle non è mai dove sembra... Superiamo una prima sella, ma si sale ancora, più dolcemente; si piega appena a destra, il vento già freddo e le ombre lunghe del tardo pomeriggio. Dopo l'alpeggio Champillon ed il Rifugio Champillon, non poteva mancare il Col de Champillon, poco più di 2.700 m di quota. Passare quassù è un brivido, e non per la temperatura. Manca solo più una salita... Ancora lontana. Per ora, ci attende un migliaio di metri di discesa, anche ostica all'inizio: attenzione, Gian, non puoi e non devi farti male adesso. Cautela. Il panorama, come sempre, è incantevole; siamo noi che non abbiamo più la lucidità per apprezzarlo. Conta solo più la meta, anche se nessuno nei due ne parla, silenzio e pudore. Povero Giorgio, quanto deve penare con quelle unghie. Ci giriamo e rigiriamo tra le mani il road book, come se avessimo timore di vederlo cambiare immagine da un attimo all'altro. Scendiamo giù, a Ponteille Desot; c'è un ristoro, poi dieci km quasi pianeggianti, fino a St Rhemy. Saranno piatti davvero? Viste le passate disavventure, ho seri dubbi. Meglio prepararsi psicologicamente ad affrontare almeno un paio di vie ferrate.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 2 - Dalle case di Pointier Desot, prendere verso destra la strada sterrata ed attraversare il ponte sul torrente. Dal terzo tornante parte il sentiero che in breve porta all’alpeggio di Plan Bois (1893 m). Alla sinistra delle case, parte un lungo sentiero pianeggiane nel bosco che,
seguendo un canale coperto dell’acquedotto, porta a Essanaz (1820 m). Da qui parte una strada sterrata che porta fino al paese di Saint Rhemy (1621 m). Punto di ristoro.
La discesa ci conduce, con un lungo tratto dolce in mezzo ai prati, in vista del fondovalle, dove l'ombra galoppa e guadagna terreno ogni battito d'occhi. E' sera, ormai. Dall'altra parte della valle, oltre il fiume, osserviamo una strada sterrata: non può essere che la nostra. Ce lo confermano i simpaticissimi volontari del ristoro. Alla faccia del punto acqua: troviamo un pane scuro, speziato, buonissimo, e tome di vario genere, persino una birra artigianale che Giorgio non rinuncia ad assaggiare. E poi c'incamminiamo, senza più ombre ormai, tra i recinti delle mucche, con il primo brivido che lambisce la pelle. Ed un'euforia addosso che sappiamo essere prematura, ma che non riusciamo più a controllare. Dieci km in piano, riposo e quiete per i garretti. Lungi da noi l'idea di correre, ne approfittiamo per chiamare casa, per rifiatare un po', per riallacciare quelle gran chiacchierate che già da un po' erano rimaste schiacciate dalla stanchezza e dall'ansia. Cala il buio sul fitto bosco e su quel poco che si vede a fondovalle; le prime lucine lungo la strada. Non solo si marcia in piano; si scende, addirittura. Ci culliamo nell'illusione di raggiungere St Rhemy e poter riposare: in fondo, più o meno ad ogni punto di ristoro ce n'è sempre stata la possibilità, finora. Chissà perché, però, alla vista delle tante luci del paese e della strada che sale al Colle del Gran San Bernardo, illuminata su in alto sulla montagna, mi sorge un sospetto. Sarà davvero possibile fermarsi a dormire un po', qui? Per carità, non credo che avrei grossi problemi a proseguire; non sarà peggio di quel che è stato finora; però, sia Giorgio che io ci siamo cullati fin qui nell'illusione di poter chiudere un po' gli occhi...
Molti passi più tardi, raggiungiamo le luci del paese ed incappiamo nel punto di ristoro. Un gazebo: marca male... Assistenti calorosi e tavola ricchissima, come al solito, ma di dormire non se ne parla, a meno di andare in albergo. Per me, il dubbio nemmeno si pone... Scruto il viso del mio compagno di viaggio: mi sa l'effetto inebriante della birra non è ancora finito; Giorgio incassa il colpo senza battere ciglio. Trangugia biscotti, ride, scherza e concorda con me sull'opportunità di ripartire, fino al prossimo punto di ristoro, l'alpeggio del Lac Merdeux, un nome, una garanzia. "Sei proprio sicuro?". Glielo domando almeno tre volte: non voglio poi sentirmi rinfacciare di averlo costretto a ripartire con la forza... Pare di sì. Bene, allora si va: salutiamo, mentre un altro concorrente, più distrutto di noi, si rifugia a sonnecchiare nell'auto del soccorso.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 3 - Dal paese si attraversa il ponte e, dopo circa 100 metri di strada sterrata, si imbocca il sentiero che porta all’abitato di Laval (1624 m). Si segue la strada asfaltata passando per gli abitati di Couchepache e Mottes e, dopo un tratto in discesa, si prende la strada sterrata che continua in piano fino all’alpeggio di Devies (1726 m). Si imbocca il sentiero che sale fino all’alpeggio di
Merdeux Desot (1950 m) e quindi Tsa de Merdeux (2273 m). Attraversati alcuni torrenti, si giunge al pianoro de Lac Merdeux (2540 m). Punto acqua.Dal pianoro il percorso sale e, con una lunga diagonale verso sinistra, si giunge al Col Malatrà (2925 m).
Attraversiamo le vie del paese, nella luce fioca e gialla dei lampioni; camminiamo a lungo tra le case di St Rhemy e poi delle frazioni, risalendo verso la montagna. Ci accompagnano gli sguardi curiosi dei gatti, i rumori metallici delle stoviglie in un ristorante, i profumi di cena. Un paio d'ore e siete al rifugio, ci hanno detto. Mah, ci credo poco, facciamo anche tre. Seguiamo le frecce che ci accompagnano tra tetti e viottoli. Incredibile come ogni tettoia, ogni androne sia un buon posto per dormire: ci sono colleghi assopiti nei posti più strani... Ancora avanti, per ora sempre sull'asfalto; davanti a noi, uno dei tornanti della salita via strada al Gran San Bernardo. Ci passeremo sotto? Giorgio è un po' stralunato; patisce, ora sì, il sonno. Brutta bestia, quella, ti piomba addosso all'improvviso e non puoi proprio farci nulla. Provo ad abbozzare un discorso, ma non c'è verso di risvegliare la sua attenzione. Quel che è peggio, pian piano ci lasciamo alle spalle il paese e le sue luci.
Passiamo sotto il ponte della strada del valico ed imbocchiamo un sentiero sulla destra, che sale su ripido con una serie di secchi tornanti. Giorgio passa avanti, lascio che sia lui a fare l'andatura. Le luci dell'abitato si fanno sempre più piccole, fino a scomparire dietro ad un costone, quando la valle piega, almeno nella nostra impressione, decisa verso destra. Ci attendono circa seicento metri di salita, fino al Rifugio. Un bellissimo cielo stellato saluta la nostra ultima marcia notturna; la temperatura, per ora, è gradevole, senza vento. Seguo l'incedere delle lucine davanti a noi, che disegnano la traccia del sentiero a mezza costa. Giorgio è sempre più stanco ed insofferente; meglio non cercare il dialogo. Mi spiace, vorrei potergli dare una mano, ora che io sto proprio bene, una volta tanto. Se potessi decidere, al Rifugio non mi fermerei. Tirerei diritto, fino a Courmayeur, o almeno ci proverei, a costo di dovermi poi imbozzolare lungo il sentiero, nel sacco a pelo. Ma ho la sensazione che non sarà possibile.
C'impantaniamo in un vero e proprio acquitrino, in cui faccio fatica a seguire la direzione. Le bandierine sono lontanissime l'una dall'altra; ovunque si poggi i piedi, si affonda. Guardare avanti non mi aiuta; non c'è più una traccia, ci sono tante ramificazioni di colate di fango. Il mio compare, con la decisione di chi non ne può più, ingrana la quarta e va su, sicuro, secondo un itinerario che esiste solo nella sua mente, ma che, a quanto pare, è quello giusto. La luce del rifugio è già sopra le nostre teste; scompare quando ci avviciniamo, si fa inseguire con un lungo traverso in mezzo ad un ripido pendio erboso e, finalmente, si rivela. Alpeggio Merdeux, di nome e di fatto, a giudicare dallo stato delle scarpe. Sull'ampio piazzale in terra battuta c'è il banchetto del ristoro. Giorgio chiede, brusco, di poter dormire; un omone ci accompagna all'ingresso dell'edificio, ma ammonisce: posto non ce n'è più. Ce ne accorgiamo non appena mettiamo piede nel locale: un corridoio, stretto e gelido, immette in una stanza con uno sbalzo termico enorme; tre metri per quattro, un carnaio: ci saranno venti persone qui dentro a dormire, chi per terra, chi sui tavoli, sulle panche, sulle sedie. Le nostre frontali illuminano una scena da inferno dantesco. Richiudiamo la porta, indugiamo un attimo nel corridoio. Giorgio è già partito per la tangente, furioso: "Qui non si può dormire, come faccio, basta, me ne vado!". Come, non si può? E tutta quella gente lì dentro, cosa starebbe facendo, secondo te? Una partita a Monopoli? Dai su, poche storie, ora siamo qui, ci troviamo un angolino, così risolvo mentre rientro nella stanza. Il compare insiste con la sua sfuriata, non ne vuole sapere. Lo detesto quando si lascia dominare dai nervi in questo modo. E che credevi di trovare, l'Hotel Hilton? "Io me ne torno giù". Ecco, perfetto, questa mi sembra un'idea geniale, da candidatura al Nobel direi. Te ne torni giù, fai a ritroso settecento metri di dislivello e sette, otto km, per andare in un posto dove comunque non ti daranno da dormire. "Vuoi darti una calmata?", ringhio. "Stai zitta", è la risposta. Benissimo, concludo. Fai un po' quello che ti pare. Anzi, l'espressione che mi esce dalle labbra in quell'istante è un tantino più colorita, inizia per vaffa- e finisce per -ulo. Fa' quel che ti pare, io sono stufa, non ti sopporto più. Addocchio una porzione di piastrelle, tra un cadavere ed il fornello spento, ma ancora caldo. Butto lo zaino a terra, a mo' di cuscino; mi sdraio, rabbrividisco al contrasto tra il pavimento gelido ed il "putagé" quasi rovente. Mi addormento.
Nell'incoscienza, percepisco i movimenti di chi va e chi viene; chi respira, chi russa, chi mugugna nel sonno. Mi sveglio, guardo l'ora, è passata da poco l'una; ho riposato un'ora. Bene: tappa in bagno e poi via, me ne vado. Chissà che fine ha fatto, quello là, chissà se è tornato giù davvero. Mi dispiace che ad un'avventura così bella tocchi un epilogo tanto amaro, ma non credo sia colpa mia; chi è causa del suo mal, in fondo, pianga se stesso. Il mio unico pensiero, adesso, è a Courmayeur, e non permetterò a nulla ed a nessuno di incrinare il mio sogno. Scavalco cautamente le varie membra inerti, sparse per il pavimento; passo nell'altra stanza, dove mi sembra ci sia il bagno. Quando rientro nel girone infernale, qualcuno inavvertitamente accende la luce: toh... Eccolo, "quello là". E' seduto sul divano, con l'aria sconcertata ed arruffata. Mi avvicino: "Che fai?", mi domanda. Come, che faccio... Riparto, mi pare ovvio. Ti avevo dato per disperso. Nella penombra, sussurrando, cerchiamo di intenderci: fermarsi ancora un po'? Boh, per me va bene, ma non troppo; basta che mi svegli. Trovo libera la sedia a dondolo e ne approfitto all'istante; mi ammucchio lì e mi riaddormento, incurante del fatto che chiunque entri nella stanza colpisca lo schienale con la porta d'ingresso.
Mi riscuote Giorgio, già bell'e pronto. E, si spera, di umore un po' meno cupo: altrimenti, giù a St Rhemy ce lo rispedisco io, a calci però! Ci concediamo un bicchiere di the caldo prima di ripartire: il freddo è penetrante. Sono sicura che andrà meglio, non appena saremo in marcia; infatti, di lì a pochi minuti, mi levo uno strato. Il sentiero corre a mezza costa nel prato, poi piega a sinistra ed oltrepassa un ponte. Da qui, s'inizia a guadagnare quota sul serio, con una sequenza di ripidi tornanti. Alcuni tratti di respiro ingannano sulla vera natura di questa salita. Il cielo e la montagna si distinguono solo per le luci, innumerevoli nel primo, sparute ed in lentissimo movimento nel secondo. Salita irregolare, lunga, ingannevole, e noi che siamo già oltre, col pensiero a Courmayeur, e tutto sommato saliamo leggeri, allegri, anche se è buio, anche se il nero sembra avere inghiottito tutto alle nostre spalle, senza più darci possibilità di tornare indietro. Il passo un po' più lento all'aumentare della quota; il fondo che, da terra ed erba, diventa sabbia e pietraia. La pendenza, già severa, d'un tratto diventa quasi insostenibile. Impressionante: saliamo a passettini minuscoli, con il piede che scivola indietro e nulla a cui aggrapparsi con le mani. A Giorgio sfugge una pietra, che rotola e rotola senza sosta; se ne sente il rumore lontanissimo. Brividi: non vediamo nulla, solo il pendio di sfasciumi che sparisce molti, troppi metri sotto di noi. Se dovessimo cadere... Procediamo a nervi tesi, con la massima attenzione; qui non c'è posto per sonno e distrazione. Raggiungiamo un passaggio attrezzato con scalini di metallo e corde; ancora corde, il passaggio che diventa poco più di una cengia. Meno male che è notte, meno male che sotto di me non vedo nulla. Il cuore impazzisce; beh, se non altro ho la conferma che è vivo... Da un'eternità non lo sentivo battere a questo ritmo forsennato.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 4 - Dal col Malatrà la discesa prosegue in mezza costa fino al vasto fondovalle percorso dal torrente. Costeggiando sulla destra il corso d’acqua si raggiunge dapprima l’alpeggio di Giouè Damon (2228 m) e, attraversato verso sinistra il ponticello in legno, le baite di Malatrà Damon (2208 m). Da qui in breve si giunge al Rifugio Bonatti (2025 m). Punto di ristoro. Dal rifugio si prosegue verso sinistra per la lunga balconata che si affaccia sulla Val Ferret conducendo prima all’alpeggio di Secheron (1924 m), poi a quello dell’Arminaz (2009 m).
Il colle Malatrà, poco più di una fessura, mi compare davanti all'improvviso. Giorgio è già al di là. Una vallata buia come quella che ci siamo appena lasciati alle spalle, un vento gelido che sferza la faccia. Quota 2.900, più o meno, per non farsi mancare nulla, neanche all'ultimo. Nemmeno il tempo di renderci conto che siamo in cima per l'ultima volta. Attacchiamo la discesa che, per fortuna, pare ben più malleabile della salita; inizia con una traccia sottile nella pietraia, ma con pendenza ragionevole, a tratti addirittura in piano. E' chiaro fin da subito che, per il povero Giorgio, l'ultima frazione della corsa sarà un calvario. Le unghie martoriate gli infliggono strazio ad ogni passo: lui non fiata, mai, ma non può nascondere il passo lento, troppo cauto, innaturale. Lo seguo, spesso in silenzio. Il freddo non si fa attendere. Manca poco all'alba, l'ora più gelida della giornata, e siamo camminando lenti; non c'è modo di riscaldarsi, così. Indosso tutto quel che ho, incasso la testa tra le spalle. L'impazienza mi tormenta: vorrei correre via, qui dove il terreno è persino facile, volare giù al Rifugio Bonatti, poi al Bertone, infine a Courmayeur, questo vorrebbe il demone. Ma poi c'è l'angioletto che ci mette del suo: Gian, che ti cambia, arrivare un'ora prima, un'ora dopo? Stefania, Skipper ed amici vari non saranno certo al traguardo prima delle 9, anzi, probabilmente dopo; non dimostreresti nulla, salvo l'ingratitudine verso chi ha condiviso con te l'intero viaggio. E' una sensazione strana, di inquietudine, come se, restando più a lungo qua in alto, mi esponessi al rischio più concreto che qualcosa rovini tutto, che non mi lasci arrivare.
Il sentiero scende in un pianoro molto esteso; camminiamo in piano per quelli che ci sembrano chilometri e chilometri, anche se ormai non possiamo più dare alcun credito alle nostre percezioni di tempo e di spazio. Il cielo si colora delle prime sfumature azzurre; la temperatura sembra scendere ancora. Complice la pendenza appena accennata, Giorgio sembra stare un po' meglio; ritrova la voglia di chiacchierare. Prato, ancora prato, l'altimetro che non ne vuol sapere di scendere; i primi, sparuti alberi, il fiume sulla sinistra, un alpeggio, le mucche. Sembra di essere su un altopiano. Ed è curioso: non c'è traccia di quell'euforia esplosiva che ho cullato per tanto tempo nella mia immaginazione. Camminiamo come se fossimo in gita, fianco a fianco, e forse nessuno dei due osa esprimere il vero sentimento di entrambi. Il fatto è che ci dispiace. E' vero, siamo stanchi, sporchi ed assonnati. Ma ci dispiace raggiungere la Val Ferret, ci dispiace scendere su Courmayeur e passare sotto l'arco d'arrivo. Perché in quel momento sarà tutto finito. Bisognerà tornare giù, sulla terra. Ed io, se potessi scegliere, non ci tornerei; continuerei così, ancora, adesso che le gambe si sono abituate, che il cuore mi porta su e giù senza lagnarsi, che la pelle è bruciacchiata dalla luce limpida di settembre. Già, ho le labbra ustionate, un vero orrore.
Giro e rigiro nella mia mente l'immagine della Val Ferret, per cercare di capire dove andrà ad innestarsi questo sentiero. Tra non molto, la mia curiosità sarà soddisfatta; la traccia piega decisa verso il basso, supera alcuni tornanti ed uno scalino, fino a raggiungere un gruppo di edifici ed un bivio. Non manca più molto: nella confusione del buio che ancora tarda a cedere il passo, raggiungiamo il bivio che precede di un centinaio di metri il Rifugio Bonatti. Approfittiamo di un attimo di tregua per fare colazione a caffé e biscotti; ci piacerebbe ordinare una cioccolata calda, ma il piglio dei gestori non è esattamente incoraggiante: mannaggia che simpatia... Beh, li si può anche capire; dopotutto, saranno svegli ed attivi da un numero spropositato di ore, loro come noi. Non si può certo pretendere che sfoggino un sorriso da vittoria al Superenalotto. Altri concorrenti sono ben avviati sulla via di una robusta colazione, con tanto di tovagliette sul tavolo e posate in mano. Noi preferiamo ripartire, pian piano.
Il cielo è già più chiaro, quando usciamo incontro al freddo. Per fortuna, di qua al Bivacco Bertone, la via è un po' a saliscendi ed offre la possibilità di scaldarsi un po'. Ci si aggrega un micio, anzi una micia, che ci segue, miagola, finge agguati e scappa nell'erba: bianca e nera, è molto bella. Le cime s'infilano il cappuccio rosso fuoco dell'alba; il Monte Bianco è qui davanti a noi: l'abbiamo salutato una settimana fa e, sono sicura, né io né Giorgio credevamo davvero di poter tornare a piedi a ringraziarlo. Un'alba meravigliosa sulla Val Ferret, anche se, verso valle, già si vedono le prime nubi, scure e minacciose, questa volta. Ma non ha più alcuna importanza, ormai, non per noi. La micia ci richiama disperata; mi spiace, ma proprio non possiamo fermarci, non oggi. Giorgio ha riconquistato allegria, trotta di buona lena. Chiacchieriamo, calpestiamo il fango intorno agli alpeggi, agognamo entrambi il tetto del bivacco che faccia capolino. Pini, arbusti, curva dopo curva, le luci del fondovalle che si spengono.
ROAD BOOK, Settore 7, Tavola 5 - Dall’alpeggio Arminaz (2009 m) si attraversa il grande ponte sul torrente, si continua fino alle baite della Lèche (1929 m) e quindi fino al bivio posto appena sopra l’alpeggio di Leuchey. Da qui, entrando nel bosco di conifere, il sentiero sale leggermente per portarsi fino al Rifugio Bertone (1989 m). Punto acqua. Dal rifugio Bertone si scende verso la Val Sapin, il Villair superiore (1389 m) e finalmente si arriva nella piazza della chiesa di Courmayeur! (1224 m)
Ansia di arrivare, ma nessuna voglia di arrivare, non per me. Lo spettacolo del Monte Bianco che si veste di luce, prima rossa di fuoco, poi sempre più chiara, il ghiaccio e la neve che rispondono ai raggi del sole, è impareggiabile. Potrei restare qui per ore, se non avessi, sfortunatamente, un impegno giù a valle.
I comignoli, il fumo delle stufe; scendiamo giù tra le bellissime case in pietra della borgata. Al bivacco, troviamo ancora un bicchiere di the caldo, un po' di cioccolato, non perché ce ne sia bisogno, ormai, ma per abitudine, per golosità. Nella speranza che i raggi del sole ci raggiungano presto, ci leviamo di dosso un paio di strati. E poi giù: l'ultima picchiata. Un sentiero sassoso, sconnesso, dev'essere un supplizio per i piedi di Giorgio, che pure sembra ansioso di lasciarsi alle spalle anche quest'ultima difficoltà. I tetti di Courmayeur s'intravedono tra i pini, sempre più vicini. Cammino, corricchio persino, con un sorriso che s'allarga da un orecchio all'altro; in testa la celeberrima "The Final Countdown": confesso che impazzirei a sentirne le note all'arrivo... D'ora in poi, quando mi capiterà di ascoltare quella canzone, non avrò più bisogno di sognare; penserò che un'occasione degna di quella musica l'ho vissuta davvero. Ora ogni sasso, ogni centimetro quadrato di terra diventa brace, tanta è la voglia di schizzare via, di correre all'arrivo. Eppure...
A Villair, torniamo al passo, ora sul comodo asfalto. Mi guardo intorno come se volessi rubare ogni particolare e portarmelo via, inciderlo per sempre nella memoria. Abbiamo oltre 330 km alle spalle: 330 km, innumerevoli salite, immagini, gioia, furia omicida, voglia di finire e voglia di mollare, paesaggi, visi, un bagaglio di emozioni che nemmeno il più sofisticato dei computer potrebbe immagazzinare. Per Giorgio è l'anno speciale; dopo la Marathon des Sables, conquistata nel 2000 come regalo del cinquantesimo compleanno, oggi il Tor des Geants, traguardo strappato con i denti e con le unghie, soprattutto le unghie degli alluci, per festeggiare la sessantesima primavera. Non oso pensare come deciderà di celebrare il settantesimo...
Passato Villair, l'incrocio, le prime case di Courmayeur. Ancora tifo, la sorpresa di trovare Isacco sulla piazza della partenza, armato di macchina fotografica. E poi, ma sì, l'ultimo sforzo, la sfilata nella via centrale, l'applauso dei tantissimi ancora presenti. L'arco d'arrivo, l'abbraccio travolgente del mio amatissimo cagnone, le feste, le pacche, le strette di mano, la firma sul tabellone, le foto con Stefania, Flavio e Gustìn, forse la più bella sorpresa di questo momento. Più confusi e disorientati che mai, sarà il sonno, chissà. Qualcosa di buono, nella vita, finalmente l'ho combinato anch'io, ma è proprio come pensavo, non c'è felicità adesso. Nella stretta di mano al concorrente francese, nello sguardo d'intesa con il mio compagno di viaggio, così detestato eppure così prezioso ed indispensabile, non trovo gioia. Tutto è appena finito, ed è già nostalgia...
Dislivello positivo cumulato 22.912 m; km cumulati 332.
12/19 settembre 2010 - Tor des Geants. Sesta tappa Valtournenche - Ollomont
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 1 - All’uscita dalla base vita, attraversare la strada regionale e imboccare il sentiero verso il ponte sul torrente Marmore. Seguire la strada fino a Valmartin (1510 m) dove parte il sentiero che porta alla centrale idroelettrica. Si raggiunge l’alpeggio di Falegnon (1914 m) e si prosegue a mezza costa nel vallone fino a giungere allo sbarramento artificiale di Cignana. Si sale fino alla
diga e al rifugio di Barmasse (2175 m). Punto acqua. Si prosegue sulla strada sterrata e si imbocca il sentiero che porta all’alpeggio di Cortinaz Damon (2097 m). Si continua in leggera discesa fino al sentiero sulla destra che sale all’alpeggio di Ersaz Dessous (2135 m) e al colle della Fenetre d’Ersaz (2293 m).
La pappatoria è ancor più gustosa quando, oltre all'appetito, c'è anche il buon umore. Lo stesso non si può dire di Giorgio, che ha il viso più che mai tirato. Il dolore ai piedi deve tormentarlo davvero, anche se lui non è certo il tipo che si lamenta, anzi. Se gli stessero segando via un dito con un coltello per il pane, si limiterebbe a prenderne atto, senza battere ciglio... Però, c'è da dire che un po' se li cerca, i guai. Siamo qui, alla base vita, abbiamo a disposizione il medico ed un tot di infermieri; abbiamo deciso di prenderci un po' di pausa; perché diamine non ti fai dare un'occhiata? Già, è vero, ci saranno ben cinque minuti di attesa, è questo che manda in crisi il poverello. Scuoto la testa, sconsolata: meglio che vada a farmi una doccia. Salgo al piano superiore; controllo almeno due volte le targhette sulle porte: "Docce donne", con tanto di disegnino. E' la mia. Scavo un po' nel mio borsone, in cui ormai il caos ha raggiunto proporzioni inenarrabili; cavo quel che mi serve per cambiarmi e m'infilo in una delle docce, sotto il getto dell'acqua adorabilmente calda. Sento dei passi nello spogliatoio, sarà una collega. Mi godo ancora il tepore qualche istante, poi esco, così come mamma mi ha fatta ed il Tor mi ha ridotta: mi trovo davanti un gran bel pezzo di marcantonio con spalle da armadio a tre ante e tutta la macelleria in bella esposizione... Abbozza un sorriso: "Sorry". Ed io, in uno sforzo sovrumano per deviare le pupille dall'obiettivo su cui stavano inesorabilmente per posarsi: "No problem!". Mi rivesto, apro con cautela la borsa della roba sporca, che a quest'ora immagino essere radioattiva, ci butto dentro quel che devo, ricompongo il bagaglio e torno giù. Giorgio è ancora lì che gira come una trottola. Ci ritiriamo entrambi nel locale delle brande, per un'oretta di nanna: un auditorium trasformato per l'occasione in dormitorium, buio, silenzioso, con tanto di coperte. Io dormo, come al solito, a comando; in un attimo, perdo conoscenza.
Anche stavolta, è Giorgio che provvede a svegliarmi. A furia di insistere, a quanto pare, l'ho convinto a consultare il medico; ha già fatto tutto, mentre io ronfavo. Bene: non ci resta che trangugiare un altro paio di lattine di Red Bull e ripartire. Io qui non resisto più, ho troppa voglia di andare... Due tappe, lunghe, dure finché si vuole, ma due, solo due. Saluto, schizzo fuori, nel piazzale, sotto un sole ora un po' velato. Speriamo che il meteo resista ancora un po'... Giorgio mi raggiunge; seguiamo le fettucce verso la strada centrale, giù per un sentierino che taglia il pendio e ci scodella su un'altra strada asfaltata, accanto ad un fiume. Oltrepassiamo il ponte e prendiamo a risalire una rampa ripida, sempre asfaltata; i raggi del sole pomeridiano, qui dove non soffia un alito di vento, ci fanno apprezzare il loro intenso calore. Valmartin: da qui si stacca il sentiero che dobbiamo imboccare, ora, per tornare in alto: la tappa che ci attende si snoda quasi per intero oltre i duemila metri di quota. Si preannuncia una notte lunga, opprimente e fredda. Ma non è il momento di preoccuparsene, ora. Ci avviamo lungo una bella salita, in parte nel bosco, che risale l'aspro pendio, fino al rumore cupo, continuo della centrale idroelettrica; la superiamo con un tratto di sentiero molto ripido, che ci porta all'imbocco di una vallata più ampia, luminosa. Alla testa del vallone, una diga. Ci avviciniamo di buona lena, fendendo una vegetazione bassa ma rigogliosa. Il muraglione della diga, anziché essere curvo come le dighe che ricordo di aver visto sinora, è dritto, perpendicolare alla direzione della spinta dell'acqua. Proprio sotto il muraglione, c'è la casetta del custode, evidentemente abitata. Inquietanti crepe percorrono la struttura in cemento dell'invaso: speriamo che tenga almeno fino al nostro passaggio... Sfiliamo lì sotto e ci portiamo sull'altro versante della valle, dove, con un paio di tornanti, raggiungiamo il Rifugio di Barmasse. Ci accoglie, anche qui, un gruppo di volontari al ristoro. Queste sono, è evidente, persone che in montagna ci vivono, dalla precisione con cui ci descrivono il percorso, e poi dai loro stessi visi. L'uomo che ci porge il the ha un volto affascinante, la pelle bruciata dal sole, gli occhi di un profondo azzurro chiaro, belli come quelli della signora non più giovanissima che siede sulla panca. Con quegli occhi di ghiaccio, chissà che bella doveva essere da giovane. Lo è ancora adesso. Chiediamo notizie del meteo; ci dicono che potrebbe piovere forse nella notte, ma si tratterà di piogge sparse. L'importante è che non si spargano su di noi... Il Cervino, ormai, non si vede più, forse perché nascosto dalle altre pareti o dalle nubi. Ma abbiamo intorno a noi una corona di cime una più bella dell'altra.
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 2 - Dalla Fenetre d’Ersaz si scende leggermente sulla destra per il sentiero in mezza costa che porta all’alpeggio di Vareton (2266 m). Si prosegue sul sentiero fino
all’alpeggio di Grand Raye (2352 m). Punto di ristoro. Da qui si sale verso il pianoro dove si trova il Lac du Tsan (2453 m) e si segue il sentiero che porta al colle Fenetre du Tsan (2738 m). Dal colle il sentiero scende ripido e poco prima di alcuni ruderi inizia una lunga diagonale in mezza costa verso destra, fino a raggiungere il pianoro dove sorge il bivacco Reboulaz (2585 m), nei pressi del magnifico lago di Luseney. Punto Acqua.
Ripartiamo in leggera discesa, verso un bell'alpeggio con una stalla enorme ed avveniristica. Margari e cani fanno capolino sulla soglia. Sentiero, strada sterrata, ancora sentiero, si risale una splendida valle ricca d'erba, di fiori e ruscelletti. Alle nostre spalle, il Monte Rosa; ce lo ritroviamo di fronte quando svoltiamo quei pochi tornanti che interrompono la monotonia della direzione di marcia. Con l'animo leggero, chiacchieriamo senza sosta; saliamo con calma, senza mai esagerare, senza lasciare che l'entusiasmo ci prenda la mano, altrimenti è finita. Superiamo un bell'alpeggio abitato: piccola delusione, speravamo che gli schiamazzi fossero per noi, magari accompagnati da un bicchiere d'acqua... Invece no. Proseguiamo lungo una leggera salita, verso la testa della valle; mi guardo intorno e mi vien da perdermi, tanto è bello quassù, nella luce del tardo pomeriggio. Col de la Fenetre d'Ersaz, poco meno di 2.300 m. La vista spazia su un'ampia vallata di pascoli, costellata di alpeggi e segnata da numerose strade sterrate che li collegano. La luce del sole ci accompagnerà ancora per poco, anche se, oltre una breve discesa, riprendiamo ad inseguirla verso l'alto. Le ombre sono sempre più lunghe, le case sono punti scuri che presto di confonderanno con l'erba. Risaliamo una strada sterrata, mentre i primi brividi fanno capolino sulla pelle, fino a raggiungere un bell'alpeggio. Grand Raye, quota 2.500, circa. Qui, volontari e margari insieme si prodigano per offrirci tutto il possibile, davanti ad una ricchissima tavola imbandita. Noto sulla porticina di legno la locandina che pubblicizza l'evento "Alpeggi aperti", con le visite guidate a queste belle strutture; il margaro, a cui faccio i complimenti per l'alpeggio, mi apre la porta della stalla: incredibile, di fuori solo pietra e lose, dentro invece c'è una struttura avveniristica, enorme, posto per ben centoventi mucche. Che adesso, però, sono già tornate più giù, a valle. Per il calendario, non è ancora autunno, ma per madre natura lo è già.
Mentre sgranocchiamo, sentiamo avvicinarsi il motore di un elicottero. Non facciamo in tempo a voltarci, che già lo vediamo risalire rapidissimo la valle: sta arrivando proprio qui... E' l'elicottero del soccorso, assegnato alla corsa; passa sopra l'alpeggio, descrive un semicerchio, si ferma in sospensione sul prato lì accanto, poi scende. Lo ammiro a bocca aperta, incurante del freddo della sera che, qui ferma così, comincia ad insinuarsi sulla pelle. Il tempo di caricare un atleta e via, torna a sollevarsi, un'ampia curva e riparte, velocissimo. Questi piloti sono veri fenomeni... Ed all'occorrenza eroi. Il ragazzo soccorso, ci spiegano, ha probabilmente un tendine rotto; aveva una caviglia gonfia in modo abnorme e non avrebbe più potuto camminare oltre, in gara. Piangeva: e ci posso credere, lo posso capire... Veder crollare il sogno di chissà quanti chilometri di allenamento e fatica, e di chissà quanti attimi di oblio, alla sera, appena prima di addormentarsi, ora che mancano settanta chilometri all'arrivo, dev'essere tremendo.
Salutiamo e riprendiamo il cammino, nella luce della sera. Possiamo intuire il colle, lassù in alto, leggermente a sinistra: perlomeno, quella è la direzione, a giudicare dalle formichine colorate che ancora s'intravedono. Un breve tratto di sentiero pianeggiante, poi si risale il pendio con ripidi tornanti. Conquistiamo dislivello in poco spazio e finiamo su un pianoro: qui le bandierine sono scomparse... Seguiamo titubanti una traccia di sentiero, disseminata, come il prato tutt'intorno, dai residui delle mucche. E' Giorgio a scoprire l'arcano: nota, qua e là, asticelle bianche masticate e straziate, frammenti di bandierine strappate. I bovini si sono mangiati la segnaletica! Mannaggia, speriamo che tocchi loro almeno un robusto mal di pancia... Per fortuna, i segnali dell'Alta Via n. 1 sono chiari e ben definiti; in più, a quanto pare, il palato della mucca non gradisce il materiale della parte rifrangente della bandierina, che rimane a terra, più o meno nei paraggi del posto dov'era stata fissata.
Ormai al buio, procediamo alla luce delle frontali ed incrociamo gli occhi tondi, rifrangenti, delle mandrie al pascolo: curioso che siano ancora qui, a duemilacinquecento metri ed oltre, nella notte, a settembre! Per fortuna, questa notte non si annuncia particolarmente fredda, anzi.
Con i nostri lumini, facciamo strada anche a chi ci segue. Raggiungiamo il colle sotto un cielo meravigliosamente stellato e ci affacciamo su un mare che sembra d'olio, impenetrabile e nerissimo. Fenetre du Tsan, quasi 2.800 m di quota. Il primo tratto della discesa è impressionante ed anche pericoloso; ripidissimo, su sabbia e pietraia, offre ben poca sicurezza all'appoggio del piede. Poi, la pendenza si attenua; procediamo lungo un sentierino stretto, ma più agevole. Il buio è denso, pesante. Per fortuna, ben presto scorgiamo davanti a noi una luce che, una volta tanto, pare vicinissima e lo è davvero. E' il bivacco Reboulaz: c'infiliamo nel minuscolo ambiente caldo, già popolato di concorrenti e di volontari, per un bicchiere di the caldo ed un istante di quiete. Un edificio minuscolo eppure fornito di tutto, dalla stufa al fornello al locale per la notte. Ma l'intenzione è proseguire ancora fino al prossimo rifugio; è notte, vero, ma in realtà non è tardi come sembra. Il guaio è che, a settembre, le ore senza luce sono davvero tante.
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 3 - Dal bivacco Reboulaz il sentiero attraversa il torrente ed inizia a salire e dopo un ripido pendio di pietraia e sfasciumi, raggiunge il Col Terray (2775 m), dal qual si scende a tornanti un pendio piuttosto ripido. Si prosegue per un lungo tratto in mezza costa, con alcuni saliscendi, fino a salire su una costiera rocciosa erbosa. Dopo aver percorso in discesa un breve ripido pendio, il tracciato piega sulla destra passando sotto le bastionate rocciose e superando alcuni canali, sino a giungere su un pianoro erboso. Si attraversa verso sinistra il torrente, si supera un piccolo promontorio fino a giungere al Rifugio Cuney (2652 m), nei pressi del Santurario Notre Dame des Neiges. Punto di ristoro.
Abbandoniamo il bivacco, tra i calorosi saluti dei volontari. Ci buttiamo incontro ad un mare nero che è sotto di noi, sopra, tutt'intorno: per un attimo, mi assale la paura. No, dove stiamo andando, perché? C'è caldo, c'è luce qui, perché dobbiamo andare incontro alle tenebre? Non voglio... Dai Gian, coraggio. Non sei da sola, c'è Giorgio, e forse ci sono altri come noi, sparsi chissà dove. Camminiamo, camminiamo, e più camminiamo, più ci sembra di precipitare giù al fondo di un incubo. Un interminabile tratto a saliscendi, a tagliare il fianco di una montagna che non vediamo; ma, alla nostra sinistra, il prato scivola giù, ripidissimo, ed il fragore di un torrente ci assilla senza sosta. La traccia di sentiero scende ripida, stretta, a volte poco più di un gradino tra la parete ed il vuoto, sembra farci precipitare giù nel fondo di un nerissimo canalone, con il fragore dell'acqua sempre più assordante, come se dovesse da un attimo all'altro trascinarci via. Poi torniamo a salire, strappi ripidi, secchi; poi ancora procediamo a mezza costa. Poche luci sospese nel mare nero, immobili, chissà a quale distanza da qui; altre lucine, piccole, che disegnano una traiettoria alle nostre spalle e davanti a noi. Siamo sfiniti nel corpo e nel morale. Possibile che il Rifugio, dall'ultimo bivacco, disti davvero solo quattro km e mezzo? Eppure ci sembra di aver marciato per ore ed ore. E non c'è traccia della nostra meta. Scrutiamo quello che ci sembra l'orizzonte, pesti di sonno, alla ricerca della nostra meta, ma niente. Un alone chiaro illumina le cime alla nostra destra, su, in alto: forse è lì che dobbiamo salire, azzarda Giorgio. No, secondo me non è possibile; lì è troppo alto, e quel chiarore è troppo intenso per essere una luce artificiale. Infatti, tanti e tanti passi oltre, scorgiamo la luna, sfumata tra le nubi. Una luce fredda, bianca, che tuttavia ci rincuora un po'. Oltrepassiamo un costone, un altro ancora. Un incubo. Le bandierine segnavia, qui, sono state disposte con il contagocce: è vero, il sentiero è unico, non si può proprio sbagliare, a patto di non volersi lanciare in esplorazione sulle pendenze estreme; però, avere conferma dei propri passi è fondamentale, quando già tutto è così difficile. Dubbi, paura, freddo, inquietudine che serpeggia. Arriveremo mai da qualche parte? Nemmeno le lucine degli altri concorrenti servono di conforto: si sa che l'"effetto pecora" potrebbe aver indotto in errore tutti quanti insieme... Non parlo più, ho la bocca impastata, le mani contratte allo spasimo sui bastoncini. Anche Giorgio è nervoso, ogni tanto sbotta, poi tace a lungo. Rassegnazione...
La luce, questa volta in posizione credibile, dona nuova linfa alle nostre vene. Il rifugio... Finalmente. E pazienza se c'è ancora un po' da camminare, prima di arrivarci. La forza nelle gambe è già tornata; lo zaino sembra molto più leggero, adesso. Risaliamo il sentiero, il prato; ci avviciniamo al bell'edificio in pietra, accanto ad una chiesa che sembra quasi irreale, finta, quassù. La porta cigola e ci cede il passaggio in un locale stretto, già sovraffollato. Ci sono i volontari, alle prese con il computer per il rilevamento elettronico dei passaggi: pare che il collegamento ad Internet dia qualche grattacapo... A me pare già incredibile che, quassù, ad oltre 2.600 m di quota, un collegamento sia possibile, quando tanti paesi in pianura sono ancora all'età della pietra, tecnologicamente parlando. Cinque o sei compagni di sventura sono appollaiati sulle sedie, qualcuno accasciato con la testa sul tavolo. Mangiamo il solito boccone di tutto, dal formaggio al cioccolato. Siamo già d'accordo di fermarci un po' a riposare. Una porta c'introduce in un primo locale dormitorio, già pieno; lo attraversiamo e c'infiliamo nel secondo locale, dove troviamo quattro letti a castello avvicinati in modo da formare due enormi piazze, una inferiore ed una superiore. Sulle piazze, buttati alla rinfusa, corpi addormentati. Un odore acre, stantio ci ammorba le narici: certo noi non siamo profumati, ma qui davvero si soffoca... Il puzzo infesta tutto, dall'aria alle coperte, quelle stesse sotto cui c'infiliamo per dormire. Altro che sacco lenzuolo, ci buttiamo anche noi su quegli stessi giacigli, non esattamente olezzanti di mughetto né di pino silvestre; non è il momento di fare gli schizzinosi. Del resto, chi ha riposato qui, come noi, ha già percorso almeno 256 km. Quindi, dev'essere sano per forza... Altrimenti non sarebbe sopravvissuto.
Il sonno è turbato dai continui andirivieni, dai tonfi di chi cammina al buio e picchia gli stinchi contro spigoli e porte, ormai insensibile a qualsiasi dolore. Ma soprattutto dal freddo, un brivido gelido che ci ghermisce le ossa, nonostante l'effetto stalla. Sono sdraiata schiena contro schiena con uno sconosciuto, che russa come se stesse abbattendo un bosco di sequoie, beato lui. Anche Giorgio è sveglio. Tentiamo di riposare ancora un po', avvicinandoci e raccogliendoci bene sotto la coperta per conservare il calore, ma serve a poco, se gli indumenti a contatto con la pelle sono umidi. Alla fine, ci alziamo per disperazione. Ancora un veloce passaggio al tavolo imbandito, una tappa al bagno del rifugio, quasi pulito; una bella lavata ai denti e via, ancora fuori, nella notte, nel freddo pungente. Addio Rifugio Cuney. Ci attende un'altra lunghissima marcia, sempre a mezza costa, su e giù, sempre oltre quota 2.500, con il mal di testa ed il sonno a tenerci assidua compagnia. Ci viene spontaneo riflettere, con un sorriso, sullo stato in cui ci siamo ridotti: bestiale, direi, è il termine giusto. Sudati, sporchi, dediti alle più varie forme, diciamo così, di espressione corporale, senza più traccia di alcun pudore. Istintivi, ecco: e con un linguaggio da fare arrossire di vergogna il più rude degli scaricatori di porto... A me vien da ridere: pazienza per me stessa, io sono già abbastanza "patelavàche", per usare un'efficacissima espressione piemontese, anche nella vita di ogni giorno; ma il mio compare, degno discendente di famiglia nobile, ha una considerazione quasi religiosa del galateo. Ma non qui, non più. Se solo avessi un registratore, l'accenderei quando il poveretto, con le unghie degli alluci già martoriate, incappa nella sventura di un calcione ad un sasso...
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 4 - Dal rifugio Cuney si sale fino al Col Chaleby (2653 m). Il sentiero poi scende il pendio fino ad una conca e riprende poi a salire decisamente e con un percorso a mezza costa, raggiunge il bivacco Rosaire-Clermont (2700 m). Punto acqua. Si continua a salire fino al Col de Vessonaz (2793 m). La discesa ha un primo tratto ripido, dopo il quale si raggiunge l’alpeggio Arp Damon
(2206 m). Si prosegue fino ad una valletta rocciosa e si raggiunge l’alpeggio Arp Vieille (1944 m). Il sentiero entra nel bosco e scende fino ad una radura. Si raggiunge il ponte della Betenda sul torrente Buthier e si raggiunge Closé (1456 m). Punto di ristoro.
La nostra lunga marcia sotto le stelle, dopo la leggera risalita al Col Chaleby, ci concede un'altra pausa, questa volta più breve, al Bivacco Rosaire – Clermont. Una minuscola casetta in pietra, con dentro una minuscola anticamera ed un minuscolo locale occupato quasi per intero dal tavolo. Due volontari, ancora attivi ed entusiasti, ci coccolano con caffé caldo e biscotti, senza lesinarci i complimenti. Ma io ho fretta di ripartire, ora che so che l'interminabile tratto in saliscendi, almeno sulla carta, è alle spalle, e che finalmente si riprende a salire. Con il sentiero, riprende quota anche il mio entusiasmo. Il sentiero taglia ripido il prato; la luce del rifugio, alle nostre spalle, ci accompagna per un po', fino a sfumare nella notte. Il Col de Vessonaz è appena sotto i 2.800 m di quota; ci attende ora una lunga discesa, che ci regalerà però finalmente i primi raggi di sole. Il primo tratto di discesa è ripido e gelido; le stelle spariscono una ad una. Il cielo prende un po' di chiarore; il sonno si fa sentire, pesante, a tradimento, proprio in questi momenti. Scendiamo a tratti su impegnative pietraie; tocchiamo due alpeggi, a quota 2.000 circa e poco più in basso; c'infiliamo nel bosco, con i muscoli che strillano per il freddo e la pendenza a cui non erano più abituati. Il rumore del fiume, a fondovalle, c'illude a lungo, prima di concederci il sollievo di raggiungere il ponte che attraversa l'impetuosa corrente. Solo qui, a 1.400 m di quota circa, troviamo il coraggio di levarci gli abiti per la notte, approfittando di una panca di legno su cui appoggiarci. Un altro giorno: e poi ci sarà un'altra notte... L'ultima. Forse. Veloce consulto del road book, poi si riparte: una leggera salita, oltre il ponte, ci conduce all'abitato di Closé. Un punto di ristoro allestito in un garage: il menu è sempre lo stesso, più una torta tipo pandispagna, graditissima. Il solito rifornimento: ormai, il corpaccione vorrebbe benzina ininterrottamente; qualsiasi cosa che buttiamo giù viene bruciato, distrutto all'istante. La fame è una compagna fedele, almeno per me. E anche per Giorgio: lui fa il duro, l'asceta, ma sotto sotto le mascelle le mette in moto proprio come me...
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 5 - Attraversato l’abitato, si sale fino all’alpeggio di Eclevey (1573 m). Si attraversa il torrente e, entrati nel bosco, si inizia a salire fino all’alpeggio di Suchéaz e Brison l’Arp (2195 m). Punto acqua. Con una diagonale in mezza costa, si risale il ripido pendio che conduce al Col Brison (248 m). Da qui un primo tratto di discesa molto ripido a tornanti, fino ad un’area pianeggiante, dove inizia una lunga diagonale in mezza costa che, dopo l’attraversamento di alcuni canali, porta all’alpeggio di Berrio Damon (1932 m). Punto acqua. Con una strada sterrata si scende fino l’abitato di Ollomont (1385 m). Si prosegue verso la frazione di Rey fino alla palestra. Sesta base vita.
Chissà perché, sono convinta che, da qui alla cima, ci siano millecinquecento metri di dislivello. In realtà sono "solo" mille... Che gioia scoprirlo! Trottiamo di buon umore, perché solo più quei mille metri ci separano dalla base vita di Ollomont. Risaliamo un sentiero nel bosco, più ripido di quel che si prospettava; tornanti che si fanno strada tra i tronchi, raggi di sole che s'insinuano a fatica tra i tronchi di pini. Camminiamo di buona lena: come sempre o quasi, son davanti io, a misurare il passo in salita, più lento di quel che vorrei.
Un collega ci precede a poca distanza, un marcantonio d'uomo biondissimo, probabilmente tedesco o qualcosa del genere. Avanza a fatica, però: si vede, che il passo è pesante. Ad onor del vero, non è il passo il primo particolare che mi salta agli occhi: è il pantalone scuro attillatissimo, o meglio, l'armonia del contenuto... Esprimo le mie illuminate considerazioni filosofiche al buon Giorgio, che dal canto suo si domanda quali siano i caratteri che un deretano maschile deve presentare per apparire interessante agli occhi di una fanciulla. Boh, non saprei, è una questione di proporzioni; voi maschietti vi fissate sui particolari; noi del gentil sesso, almeno, parlo per me, apprezziamo piuttosto l'insieme. Questo qui davanti, c'è da dire, è un gran bell'insieme...
L'armadio all'improvviso cede il passo, s'accascia a sedere su un tronco tagliato. Un po' perché è un gran bell'uomo, un po' per solidarietà di atleta, gli passo accanto e lo esorto, nel mio solito inglese un po' maccheronico: "Is it OK? Do you need anything?". "No thanks, I'm tired...". "Then come with us, we're going very slowly". Detto, fatto: in un attimo, il biondo si rialza, novello Lazzaro in scarpe da trail, e si piazza in mezzo, tra me e Giorgio. Non so perché, ma un pensiero in quell'istante mi folgora la mente: ho come la sensazione che andrà a finir male... Lungi dall'essere davvero senza fiato, il simpatico tedesco, che poi in realtà è un austriaco, ha una gran voglia di chiacchierare. Attacchiamo un fitto dialogo in cui ci raccontiamo i nostri trascorsi sportivi; in particolare, il biondo è rimasto evidentemente folgorato dall'esperienza della Petite Trotte e me ne narra vita, morte e miracoli, benché talvolta io faccia fatica a captare e tradurre i particolari. Il mio inglese non è certo eccellente, ma il suo spesso è proprio becero... Ogni tanto, cerco di coinvolgere il buon Giorgio, ma non posso certo far miracoli, con il mio neurone già spremuto fino all'ultima goccia delle sue possibilità. Passare da un idioma all'altro, badare alla strada e connettere i pensieri...
Di lì a poco, accade quel che temevo. Il mio compare si spazientisce, passa avanti e, con andatura degna del Varenne dei tempi migliori, se ne va. Eccolo qua, il marmocchio capriccioso: ha subito l'affronto di essere scalzato, per un momento, dal centro dell'attenzione... E adesso fa i capricci. Vai, vai, fringuello. Lo seguo con gli occhi, senza cambiare la mia andatura; cala un silenzio pesante tra me e l'armadio teutonico che, immagino, si sarà reso a sua volta conto dell'assurdità del gesto. Ma guarda tu che figure mi tocca fare. Se gli metto le mani addosso, lo sinistro, questo è poco ma sicuro...
Usciamo dal bosco e ci avviamo verso un alpeggio, con punto acqua presidiato da due fanciulli simpaticissimi. Giorgio è lì, ma riparte subito; io mi attardo a bere un po' di Coca e riparto a ruota, con una bella scorta di risate. Lì per lì, l'intenzione è quella di correre a riacchiappare il fuggiasco: ci provo, ma il maledetto ha davvero messo le ali. Calma Gian, meglio non fare fesserie. Se il furbacchione ha deciso di giocarsi la gara e spaccarsi le gambe per un capriccio, sono problemi suoi, ma tu non devi andargli dietro; l'unica cosa che conta, adesso, è Courmayeur. Devi arrivare fin laggiù, punto e basta. Calma, passo lento e misurato. Ma è una promessa: se Giorgio si azzarda anche solo a susurrare di essere stanco, o di aver male da qualche parte, o volersi fermare, da qui alla fine, giuro che lo lascio lì, lo abbandono come non farei mai con un cane in autostrada, e non lo sopprimo solo perché dicono sia vietato. Avrei già dovuto farlo quando si lamentava per la quota, la stanchezza, il sonno: se davvero fosse provato, non filerebbe su come un 4x4...
Le pale dell'elicottero spazzano via i miei pensieri cupi. L'agile velivolo raggiunge prima il punto di ristoro, giù sotto, poi risale e si affianca al sentiero, proprio dove stiamo camminando; a turno, un operatore scatta fotografie, tenendo le gambe penzoloni fuori dalla cabina. Tremo per lui... Il rumore dei motori è assordante. Dietro di me, a poca distanza, sale il biondo, che evidentemente s'è ripreso. Il sentiero è ripido e culmina con una serie di tornantini secchi, uno sull'altro, brevissimi e nervosi, fino alla vetta del colle. Col Brison. Giorgio è lì: l'ho già visto da un po', si sporgeva dalla vetta; proprio perché sapevo che l'avrei irritato ancor di più, non ho aumentato nemmeno di un infinitesimo la mia andatura. Scollino fingendo noncuranza; la voce piomba con la severità del tono del Cristo di Brescello, nei celeberrimi film di Don Camillo: "Giancarla...". Alè, ci siamo. Mo' ti aggiusto io... "Sì, mi dica", replico in tono canzonatorio, mentre inizio la discesa. "Quando avevo un'assistente in studio, con i clienti non parlavo in piemontese ma in italiano, perché anche lei potesse capire". Ah, ci sono, sarebbe questo il motivo della fuga; ho commesso l'imperdonabile peccato di complottare con il nemico in lingua ostrogota... Per di più, un nemico che, secondo la fantasiosa tesi del mio compare, ci aveva già superati più volte, quindi non meritava alcun aiuto. Certo, come no: secondo te, avrei dovuto finirlo lì, sul posto, magari conficcandogli un bastoncino nella schiena. Quando è troppo, è troppo, le staffe le perdo anch'io: "Questa è l'ultima volta che tollero una scena del genere – strillo – altrimenti ognuno per sé e Dio per tutti". E ci manca ancora che io, dopo duecentoottanta e rotti km, mi metta anche a fare il traduttore simultaneo, magari italo – anglo – piemontese per gradire... Non sono mica Mandrake! "Possibile che tu sia sempre convinto che, qualunque cosa si faccia, sia uno sgarbo pianificato e diretto proprio verso di te? Guarda che non ci sei mica solo tu al mondo!", continuo. "E poi, questa è una gara, non una guerra; a me fa piacere quando qualcun altro mi dà una mano e mi aiuta a superare una crisi... Se posso essere d'aiuto io ad un collega, mi pare ovvio che ci provo!". E infine, per chiudere in bellezza: "Questi comportamenti non li accetterei da un ragazzino... Figurati da uno della tua età!". Insomma, forse ho esagerato, in termini e tono, e sì che so bene quale peso abbiano, per Giorgio, le parole: ma ottengo, se non altro, l'effetto di tacitare il mio burrascoso compare. E di tacitare anche me stessa. La discesa, dopo un primo tratto delicato, che, complice la sfuriata, mi costa qualche storta di troppo, si addolcisce, attraversando a mezza costa un prato, mentre la valle s'allarga. Mi chiudo in un triste ed ostinato silenzio, un misto di incredulità e delusione, ed anche un po' di rimorso; Giorgio ci prova, più giù, a riallacciare un discorso, ma a me non escono altro che monosillabi. E' vero, per carattere non sono in grado di tenere il muso, ma mi irrita il pensiero che un episodio così assurdo e cattivo debba già essere liquidato facendo finta di nulla. Ne avrei ancora, io, di cose da dire...
Un alpeggio, uno splendido tenerissimo cucciolo di cane, qualcosa di simile ad un pastore tedesco, che gioca sulla schiena di un cagnone bianco, inerte, placido: basta questo a spazzare via tutte le nubi dal mio orizzonte. Mi precipito sul batuffolo di pelo, timidissimo ma con tanta voglia di giocare; è così bello che me lo metterei nello zaino e me lo porterei via... Un bicchiere di Coca, quattro parole con i margari. Uno di loro, forse albanese a giudicare dalla pronuncia del suo italiano stentato, mi invita a tornare, che troverò ancora il cane. Salutiamo, riprendiamo la discesa, su una strada sterrata. E' bellissimo vedere, in montagna, tra i pastori, due cani così ben tenuti, pasciuti, puliti e nemmeno legati. Una scena purtroppo rara, quasi unica.
Trottiamo verso il fondovalle: di lì a poco, troviamo ad accoglierci ben due amici; Michele, che già ci aveva raccattati prima di Donnas, e Gabriele. Così, l'ultimo chilometro prima dell'abitato di Ollomont scorre via in compagnia. Michele, poi, è un pozzo di storie da raccontare, con le sue esperienze alpinistiche persino sugli Ottomila. D'improvviso, comincia a piovere: non m'ero nemmeno accorta che il cielo fosse velato... Le prime case dell'abitato, poi via lungo la strada centrale. La struttura a noi destinata è in frazione Rey: troviamo ad attenderci una folla di corridori, familiari, semplici tifosi, insieme ai volontari. Pappa e, se possibile, doccia.
Dislivello positivo cumulato 19.927 m; km cumulati 283.
diga e al rifugio di Barmasse (2175 m). Punto acqua. Si prosegue sulla strada sterrata e si imbocca il sentiero che porta all’alpeggio di Cortinaz Damon (2097 m). Si continua in leggera discesa fino al sentiero sulla destra che sale all’alpeggio di Ersaz Dessous (2135 m) e al colle della Fenetre d’Ersaz (2293 m).
La pappatoria è ancor più gustosa quando, oltre all'appetito, c'è anche il buon umore. Lo stesso non si può dire di Giorgio, che ha il viso più che mai tirato. Il dolore ai piedi deve tormentarlo davvero, anche se lui non è certo il tipo che si lamenta, anzi. Se gli stessero segando via un dito con un coltello per il pane, si limiterebbe a prenderne atto, senza battere ciglio... Però, c'è da dire che un po' se li cerca, i guai. Siamo qui, alla base vita, abbiamo a disposizione il medico ed un tot di infermieri; abbiamo deciso di prenderci un po' di pausa; perché diamine non ti fai dare un'occhiata? Già, è vero, ci saranno ben cinque minuti di attesa, è questo che manda in crisi il poverello. Scuoto la testa, sconsolata: meglio che vada a farmi una doccia. Salgo al piano superiore; controllo almeno due volte le targhette sulle porte: "Docce donne", con tanto di disegnino. E' la mia. Scavo un po' nel mio borsone, in cui ormai il caos ha raggiunto proporzioni inenarrabili; cavo quel che mi serve per cambiarmi e m'infilo in una delle docce, sotto il getto dell'acqua adorabilmente calda. Sento dei passi nello spogliatoio, sarà una collega. Mi godo ancora il tepore qualche istante, poi esco, così come mamma mi ha fatta ed il Tor mi ha ridotta: mi trovo davanti un gran bel pezzo di marcantonio con spalle da armadio a tre ante e tutta la macelleria in bella esposizione... Abbozza un sorriso: "Sorry". Ed io, in uno sforzo sovrumano per deviare le pupille dall'obiettivo su cui stavano inesorabilmente per posarsi: "No problem!". Mi rivesto, apro con cautela la borsa della roba sporca, che a quest'ora immagino essere radioattiva, ci butto dentro quel che devo, ricompongo il bagaglio e torno giù. Giorgio è ancora lì che gira come una trottola. Ci ritiriamo entrambi nel locale delle brande, per un'oretta di nanna: un auditorium trasformato per l'occasione in dormitorium, buio, silenzioso, con tanto di coperte. Io dormo, come al solito, a comando; in un attimo, perdo conoscenza.
Anche stavolta, è Giorgio che provvede a svegliarmi. A furia di insistere, a quanto pare, l'ho convinto a consultare il medico; ha già fatto tutto, mentre io ronfavo. Bene: non ci resta che trangugiare un altro paio di lattine di Red Bull e ripartire. Io qui non resisto più, ho troppa voglia di andare... Due tappe, lunghe, dure finché si vuole, ma due, solo due. Saluto, schizzo fuori, nel piazzale, sotto un sole ora un po' velato. Speriamo che il meteo resista ancora un po'... Giorgio mi raggiunge; seguiamo le fettucce verso la strada centrale, giù per un sentierino che taglia il pendio e ci scodella su un'altra strada asfaltata, accanto ad un fiume. Oltrepassiamo il ponte e prendiamo a risalire una rampa ripida, sempre asfaltata; i raggi del sole pomeridiano, qui dove non soffia un alito di vento, ci fanno apprezzare il loro intenso calore. Valmartin: da qui si stacca il sentiero che dobbiamo imboccare, ora, per tornare in alto: la tappa che ci attende si snoda quasi per intero oltre i duemila metri di quota. Si preannuncia una notte lunga, opprimente e fredda. Ma non è il momento di preoccuparsene, ora. Ci avviamo lungo una bella salita, in parte nel bosco, che risale l'aspro pendio, fino al rumore cupo, continuo della centrale idroelettrica; la superiamo con un tratto di sentiero molto ripido, che ci porta all'imbocco di una vallata più ampia, luminosa. Alla testa del vallone, una diga. Ci avviciniamo di buona lena, fendendo una vegetazione bassa ma rigogliosa. Il muraglione della diga, anziché essere curvo come le dighe che ricordo di aver visto sinora, è dritto, perpendicolare alla direzione della spinta dell'acqua. Proprio sotto il muraglione, c'è la casetta del custode, evidentemente abitata. Inquietanti crepe percorrono la struttura in cemento dell'invaso: speriamo che tenga almeno fino al nostro passaggio... Sfiliamo lì sotto e ci portiamo sull'altro versante della valle, dove, con un paio di tornanti, raggiungiamo il Rifugio di Barmasse. Ci accoglie, anche qui, un gruppo di volontari al ristoro. Queste sono, è evidente, persone che in montagna ci vivono, dalla precisione con cui ci descrivono il percorso, e poi dai loro stessi visi. L'uomo che ci porge il the ha un volto affascinante, la pelle bruciata dal sole, gli occhi di un profondo azzurro chiaro, belli come quelli della signora non più giovanissima che siede sulla panca. Con quegli occhi di ghiaccio, chissà che bella doveva essere da giovane. Lo è ancora adesso. Chiediamo notizie del meteo; ci dicono che potrebbe piovere forse nella notte, ma si tratterà di piogge sparse. L'importante è che non si spargano su di noi... Il Cervino, ormai, non si vede più, forse perché nascosto dalle altre pareti o dalle nubi. Ma abbiamo intorno a noi una corona di cime una più bella dell'altra.
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 2 - Dalla Fenetre d’Ersaz si scende leggermente sulla destra per il sentiero in mezza costa che porta all’alpeggio di Vareton (2266 m). Si prosegue sul sentiero fino
all’alpeggio di Grand Raye (2352 m). Punto di ristoro. Da qui si sale verso il pianoro dove si trova il Lac du Tsan (2453 m) e si segue il sentiero che porta al colle Fenetre du Tsan (2738 m). Dal colle il sentiero scende ripido e poco prima di alcuni ruderi inizia una lunga diagonale in mezza costa verso destra, fino a raggiungere il pianoro dove sorge il bivacco Reboulaz (2585 m), nei pressi del magnifico lago di Luseney. Punto Acqua.
Ripartiamo in leggera discesa, verso un bell'alpeggio con una stalla enorme ed avveniristica. Margari e cani fanno capolino sulla soglia. Sentiero, strada sterrata, ancora sentiero, si risale una splendida valle ricca d'erba, di fiori e ruscelletti. Alle nostre spalle, il Monte Rosa; ce lo ritroviamo di fronte quando svoltiamo quei pochi tornanti che interrompono la monotonia della direzione di marcia. Con l'animo leggero, chiacchieriamo senza sosta; saliamo con calma, senza mai esagerare, senza lasciare che l'entusiasmo ci prenda la mano, altrimenti è finita. Superiamo un bell'alpeggio abitato: piccola delusione, speravamo che gli schiamazzi fossero per noi, magari accompagnati da un bicchiere d'acqua... Invece no. Proseguiamo lungo una leggera salita, verso la testa della valle; mi guardo intorno e mi vien da perdermi, tanto è bello quassù, nella luce del tardo pomeriggio. Col de la Fenetre d'Ersaz, poco meno di 2.300 m. La vista spazia su un'ampia vallata di pascoli, costellata di alpeggi e segnata da numerose strade sterrate che li collegano. La luce del sole ci accompagnerà ancora per poco, anche se, oltre una breve discesa, riprendiamo ad inseguirla verso l'alto. Le ombre sono sempre più lunghe, le case sono punti scuri che presto di confonderanno con l'erba. Risaliamo una strada sterrata, mentre i primi brividi fanno capolino sulla pelle, fino a raggiungere un bell'alpeggio. Grand Raye, quota 2.500, circa. Qui, volontari e margari insieme si prodigano per offrirci tutto il possibile, davanti ad una ricchissima tavola imbandita. Noto sulla porticina di legno la locandina che pubblicizza l'evento "Alpeggi aperti", con le visite guidate a queste belle strutture; il margaro, a cui faccio i complimenti per l'alpeggio, mi apre la porta della stalla: incredibile, di fuori solo pietra e lose, dentro invece c'è una struttura avveniristica, enorme, posto per ben centoventi mucche. Che adesso, però, sono già tornate più giù, a valle. Per il calendario, non è ancora autunno, ma per madre natura lo è già.
Mentre sgranocchiamo, sentiamo avvicinarsi il motore di un elicottero. Non facciamo in tempo a voltarci, che già lo vediamo risalire rapidissimo la valle: sta arrivando proprio qui... E' l'elicottero del soccorso, assegnato alla corsa; passa sopra l'alpeggio, descrive un semicerchio, si ferma in sospensione sul prato lì accanto, poi scende. Lo ammiro a bocca aperta, incurante del freddo della sera che, qui ferma così, comincia ad insinuarsi sulla pelle. Il tempo di caricare un atleta e via, torna a sollevarsi, un'ampia curva e riparte, velocissimo. Questi piloti sono veri fenomeni... Ed all'occorrenza eroi. Il ragazzo soccorso, ci spiegano, ha probabilmente un tendine rotto; aveva una caviglia gonfia in modo abnorme e non avrebbe più potuto camminare oltre, in gara. Piangeva: e ci posso credere, lo posso capire... Veder crollare il sogno di chissà quanti chilometri di allenamento e fatica, e di chissà quanti attimi di oblio, alla sera, appena prima di addormentarsi, ora che mancano settanta chilometri all'arrivo, dev'essere tremendo.
Salutiamo e riprendiamo il cammino, nella luce della sera. Possiamo intuire il colle, lassù in alto, leggermente a sinistra: perlomeno, quella è la direzione, a giudicare dalle formichine colorate che ancora s'intravedono. Un breve tratto di sentiero pianeggiante, poi si risale il pendio con ripidi tornanti. Conquistiamo dislivello in poco spazio e finiamo su un pianoro: qui le bandierine sono scomparse... Seguiamo titubanti una traccia di sentiero, disseminata, come il prato tutt'intorno, dai residui delle mucche. E' Giorgio a scoprire l'arcano: nota, qua e là, asticelle bianche masticate e straziate, frammenti di bandierine strappate. I bovini si sono mangiati la segnaletica! Mannaggia, speriamo che tocchi loro almeno un robusto mal di pancia... Per fortuna, i segnali dell'Alta Via n. 1 sono chiari e ben definiti; in più, a quanto pare, il palato della mucca non gradisce il materiale della parte rifrangente della bandierina, che rimane a terra, più o meno nei paraggi del posto dov'era stata fissata.
Ormai al buio, procediamo alla luce delle frontali ed incrociamo gli occhi tondi, rifrangenti, delle mandrie al pascolo: curioso che siano ancora qui, a duemilacinquecento metri ed oltre, nella notte, a settembre! Per fortuna, questa notte non si annuncia particolarmente fredda, anzi.
Con i nostri lumini, facciamo strada anche a chi ci segue. Raggiungiamo il colle sotto un cielo meravigliosamente stellato e ci affacciamo su un mare che sembra d'olio, impenetrabile e nerissimo. Fenetre du Tsan, quasi 2.800 m di quota. Il primo tratto della discesa è impressionante ed anche pericoloso; ripidissimo, su sabbia e pietraia, offre ben poca sicurezza all'appoggio del piede. Poi, la pendenza si attenua; procediamo lungo un sentierino stretto, ma più agevole. Il buio è denso, pesante. Per fortuna, ben presto scorgiamo davanti a noi una luce che, una volta tanto, pare vicinissima e lo è davvero. E' il bivacco Reboulaz: c'infiliamo nel minuscolo ambiente caldo, già popolato di concorrenti e di volontari, per un bicchiere di the caldo ed un istante di quiete. Un edificio minuscolo eppure fornito di tutto, dalla stufa al fornello al locale per la notte. Ma l'intenzione è proseguire ancora fino al prossimo rifugio; è notte, vero, ma in realtà non è tardi come sembra. Il guaio è che, a settembre, le ore senza luce sono davvero tante.
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 3 - Dal bivacco Reboulaz il sentiero attraversa il torrente ed inizia a salire e dopo un ripido pendio di pietraia e sfasciumi, raggiunge il Col Terray (2775 m), dal qual si scende a tornanti un pendio piuttosto ripido. Si prosegue per un lungo tratto in mezza costa, con alcuni saliscendi, fino a salire su una costiera rocciosa erbosa. Dopo aver percorso in discesa un breve ripido pendio, il tracciato piega sulla destra passando sotto le bastionate rocciose e superando alcuni canali, sino a giungere su un pianoro erboso. Si attraversa verso sinistra il torrente, si supera un piccolo promontorio fino a giungere al Rifugio Cuney (2652 m), nei pressi del Santurario Notre Dame des Neiges. Punto di ristoro.
Abbandoniamo il bivacco, tra i calorosi saluti dei volontari. Ci buttiamo incontro ad un mare nero che è sotto di noi, sopra, tutt'intorno: per un attimo, mi assale la paura. No, dove stiamo andando, perché? C'è caldo, c'è luce qui, perché dobbiamo andare incontro alle tenebre? Non voglio... Dai Gian, coraggio. Non sei da sola, c'è Giorgio, e forse ci sono altri come noi, sparsi chissà dove. Camminiamo, camminiamo, e più camminiamo, più ci sembra di precipitare giù al fondo di un incubo. Un interminabile tratto a saliscendi, a tagliare il fianco di una montagna che non vediamo; ma, alla nostra sinistra, il prato scivola giù, ripidissimo, ed il fragore di un torrente ci assilla senza sosta. La traccia di sentiero scende ripida, stretta, a volte poco più di un gradino tra la parete ed il vuoto, sembra farci precipitare giù nel fondo di un nerissimo canalone, con il fragore dell'acqua sempre più assordante, come se dovesse da un attimo all'altro trascinarci via. Poi torniamo a salire, strappi ripidi, secchi; poi ancora procediamo a mezza costa. Poche luci sospese nel mare nero, immobili, chissà a quale distanza da qui; altre lucine, piccole, che disegnano una traiettoria alle nostre spalle e davanti a noi. Siamo sfiniti nel corpo e nel morale. Possibile che il Rifugio, dall'ultimo bivacco, disti davvero solo quattro km e mezzo? Eppure ci sembra di aver marciato per ore ed ore. E non c'è traccia della nostra meta. Scrutiamo quello che ci sembra l'orizzonte, pesti di sonno, alla ricerca della nostra meta, ma niente. Un alone chiaro illumina le cime alla nostra destra, su, in alto: forse è lì che dobbiamo salire, azzarda Giorgio. No, secondo me non è possibile; lì è troppo alto, e quel chiarore è troppo intenso per essere una luce artificiale. Infatti, tanti e tanti passi oltre, scorgiamo la luna, sfumata tra le nubi. Una luce fredda, bianca, che tuttavia ci rincuora un po'. Oltrepassiamo un costone, un altro ancora. Un incubo. Le bandierine segnavia, qui, sono state disposte con il contagocce: è vero, il sentiero è unico, non si può proprio sbagliare, a patto di non volersi lanciare in esplorazione sulle pendenze estreme; però, avere conferma dei propri passi è fondamentale, quando già tutto è così difficile. Dubbi, paura, freddo, inquietudine che serpeggia. Arriveremo mai da qualche parte? Nemmeno le lucine degli altri concorrenti servono di conforto: si sa che l'"effetto pecora" potrebbe aver indotto in errore tutti quanti insieme... Non parlo più, ho la bocca impastata, le mani contratte allo spasimo sui bastoncini. Anche Giorgio è nervoso, ogni tanto sbotta, poi tace a lungo. Rassegnazione...
La luce, questa volta in posizione credibile, dona nuova linfa alle nostre vene. Il rifugio... Finalmente. E pazienza se c'è ancora un po' da camminare, prima di arrivarci. La forza nelle gambe è già tornata; lo zaino sembra molto più leggero, adesso. Risaliamo il sentiero, il prato; ci avviciniamo al bell'edificio in pietra, accanto ad una chiesa che sembra quasi irreale, finta, quassù. La porta cigola e ci cede il passaggio in un locale stretto, già sovraffollato. Ci sono i volontari, alle prese con il computer per il rilevamento elettronico dei passaggi: pare che il collegamento ad Internet dia qualche grattacapo... A me pare già incredibile che, quassù, ad oltre 2.600 m di quota, un collegamento sia possibile, quando tanti paesi in pianura sono ancora all'età della pietra, tecnologicamente parlando. Cinque o sei compagni di sventura sono appollaiati sulle sedie, qualcuno accasciato con la testa sul tavolo. Mangiamo il solito boccone di tutto, dal formaggio al cioccolato. Siamo già d'accordo di fermarci un po' a riposare. Una porta c'introduce in un primo locale dormitorio, già pieno; lo attraversiamo e c'infiliamo nel secondo locale, dove troviamo quattro letti a castello avvicinati in modo da formare due enormi piazze, una inferiore ed una superiore. Sulle piazze, buttati alla rinfusa, corpi addormentati. Un odore acre, stantio ci ammorba le narici: certo noi non siamo profumati, ma qui davvero si soffoca... Il puzzo infesta tutto, dall'aria alle coperte, quelle stesse sotto cui c'infiliamo per dormire. Altro che sacco lenzuolo, ci buttiamo anche noi su quegli stessi giacigli, non esattamente olezzanti di mughetto né di pino silvestre; non è il momento di fare gli schizzinosi. Del resto, chi ha riposato qui, come noi, ha già percorso almeno 256 km. Quindi, dev'essere sano per forza... Altrimenti non sarebbe sopravvissuto.
Il sonno è turbato dai continui andirivieni, dai tonfi di chi cammina al buio e picchia gli stinchi contro spigoli e porte, ormai insensibile a qualsiasi dolore. Ma soprattutto dal freddo, un brivido gelido che ci ghermisce le ossa, nonostante l'effetto stalla. Sono sdraiata schiena contro schiena con uno sconosciuto, che russa come se stesse abbattendo un bosco di sequoie, beato lui. Anche Giorgio è sveglio. Tentiamo di riposare ancora un po', avvicinandoci e raccogliendoci bene sotto la coperta per conservare il calore, ma serve a poco, se gli indumenti a contatto con la pelle sono umidi. Alla fine, ci alziamo per disperazione. Ancora un veloce passaggio al tavolo imbandito, una tappa al bagno del rifugio, quasi pulito; una bella lavata ai denti e via, ancora fuori, nella notte, nel freddo pungente. Addio Rifugio Cuney. Ci attende un'altra lunghissima marcia, sempre a mezza costa, su e giù, sempre oltre quota 2.500, con il mal di testa ed il sonno a tenerci assidua compagnia. Ci viene spontaneo riflettere, con un sorriso, sullo stato in cui ci siamo ridotti: bestiale, direi, è il termine giusto. Sudati, sporchi, dediti alle più varie forme, diciamo così, di espressione corporale, senza più traccia di alcun pudore. Istintivi, ecco: e con un linguaggio da fare arrossire di vergogna il più rude degli scaricatori di porto... A me vien da ridere: pazienza per me stessa, io sono già abbastanza "patelavàche", per usare un'efficacissima espressione piemontese, anche nella vita di ogni giorno; ma il mio compare, degno discendente di famiglia nobile, ha una considerazione quasi religiosa del galateo. Ma non qui, non più. Se solo avessi un registratore, l'accenderei quando il poveretto, con le unghie degli alluci già martoriate, incappa nella sventura di un calcione ad un sasso...
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 4 - Dal rifugio Cuney si sale fino al Col Chaleby (2653 m). Il sentiero poi scende il pendio fino ad una conca e riprende poi a salire decisamente e con un percorso a mezza costa, raggiunge il bivacco Rosaire-Clermont (2700 m). Punto acqua. Si continua a salire fino al Col de Vessonaz (2793 m). La discesa ha un primo tratto ripido, dopo il quale si raggiunge l’alpeggio Arp Damon
(2206 m). Si prosegue fino ad una valletta rocciosa e si raggiunge l’alpeggio Arp Vieille (1944 m). Il sentiero entra nel bosco e scende fino ad una radura. Si raggiunge il ponte della Betenda sul torrente Buthier e si raggiunge Closé (1456 m). Punto di ristoro.
La nostra lunga marcia sotto le stelle, dopo la leggera risalita al Col Chaleby, ci concede un'altra pausa, questa volta più breve, al Bivacco Rosaire – Clermont. Una minuscola casetta in pietra, con dentro una minuscola anticamera ed un minuscolo locale occupato quasi per intero dal tavolo. Due volontari, ancora attivi ed entusiasti, ci coccolano con caffé caldo e biscotti, senza lesinarci i complimenti. Ma io ho fretta di ripartire, ora che so che l'interminabile tratto in saliscendi, almeno sulla carta, è alle spalle, e che finalmente si riprende a salire. Con il sentiero, riprende quota anche il mio entusiasmo. Il sentiero taglia ripido il prato; la luce del rifugio, alle nostre spalle, ci accompagna per un po', fino a sfumare nella notte. Il Col de Vessonaz è appena sotto i 2.800 m di quota; ci attende ora una lunga discesa, che ci regalerà però finalmente i primi raggi di sole. Il primo tratto di discesa è ripido e gelido; le stelle spariscono una ad una. Il cielo prende un po' di chiarore; il sonno si fa sentire, pesante, a tradimento, proprio in questi momenti. Scendiamo a tratti su impegnative pietraie; tocchiamo due alpeggi, a quota 2.000 circa e poco più in basso; c'infiliamo nel bosco, con i muscoli che strillano per il freddo e la pendenza a cui non erano più abituati. Il rumore del fiume, a fondovalle, c'illude a lungo, prima di concederci il sollievo di raggiungere il ponte che attraversa l'impetuosa corrente. Solo qui, a 1.400 m di quota circa, troviamo il coraggio di levarci gli abiti per la notte, approfittando di una panca di legno su cui appoggiarci. Un altro giorno: e poi ci sarà un'altra notte... L'ultima. Forse. Veloce consulto del road book, poi si riparte: una leggera salita, oltre il ponte, ci conduce all'abitato di Closé. Un punto di ristoro allestito in un garage: il menu è sempre lo stesso, più una torta tipo pandispagna, graditissima. Il solito rifornimento: ormai, il corpaccione vorrebbe benzina ininterrottamente; qualsiasi cosa che buttiamo giù viene bruciato, distrutto all'istante. La fame è una compagna fedele, almeno per me. E anche per Giorgio: lui fa il duro, l'asceta, ma sotto sotto le mascelle le mette in moto proprio come me...
ROAD BOOK, Settore 6, Tavola 5 - Attraversato l’abitato, si sale fino all’alpeggio di Eclevey (1573 m). Si attraversa il torrente e, entrati nel bosco, si inizia a salire fino all’alpeggio di Suchéaz e Brison l’Arp (2195 m). Punto acqua. Con una diagonale in mezza costa, si risale il ripido pendio che conduce al Col Brison (248 m). Da qui un primo tratto di discesa molto ripido a tornanti, fino ad un’area pianeggiante, dove inizia una lunga diagonale in mezza costa che, dopo l’attraversamento di alcuni canali, porta all’alpeggio di Berrio Damon (1932 m). Punto acqua. Con una strada sterrata si scende fino l’abitato di Ollomont (1385 m). Si prosegue verso la frazione di Rey fino alla palestra. Sesta base vita.
Chissà perché, sono convinta che, da qui alla cima, ci siano millecinquecento metri di dislivello. In realtà sono "solo" mille... Che gioia scoprirlo! Trottiamo di buon umore, perché solo più quei mille metri ci separano dalla base vita di Ollomont. Risaliamo un sentiero nel bosco, più ripido di quel che si prospettava; tornanti che si fanno strada tra i tronchi, raggi di sole che s'insinuano a fatica tra i tronchi di pini. Camminiamo di buona lena: come sempre o quasi, son davanti io, a misurare il passo in salita, più lento di quel che vorrei.
Un collega ci precede a poca distanza, un marcantonio d'uomo biondissimo, probabilmente tedesco o qualcosa del genere. Avanza a fatica, però: si vede, che il passo è pesante. Ad onor del vero, non è il passo il primo particolare che mi salta agli occhi: è il pantalone scuro attillatissimo, o meglio, l'armonia del contenuto... Esprimo le mie illuminate considerazioni filosofiche al buon Giorgio, che dal canto suo si domanda quali siano i caratteri che un deretano maschile deve presentare per apparire interessante agli occhi di una fanciulla. Boh, non saprei, è una questione di proporzioni; voi maschietti vi fissate sui particolari; noi del gentil sesso, almeno, parlo per me, apprezziamo piuttosto l'insieme. Questo qui davanti, c'è da dire, è un gran bell'insieme...
L'armadio all'improvviso cede il passo, s'accascia a sedere su un tronco tagliato. Un po' perché è un gran bell'uomo, un po' per solidarietà di atleta, gli passo accanto e lo esorto, nel mio solito inglese un po' maccheronico: "Is it OK? Do you need anything?". "No thanks, I'm tired...". "Then come with us, we're going very slowly". Detto, fatto: in un attimo, il biondo si rialza, novello Lazzaro in scarpe da trail, e si piazza in mezzo, tra me e Giorgio. Non so perché, ma un pensiero in quell'istante mi folgora la mente: ho come la sensazione che andrà a finir male... Lungi dall'essere davvero senza fiato, il simpatico tedesco, che poi in realtà è un austriaco, ha una gran voglia di chiacchierare. Attacchiamo un fitto dialogo in cui ci raccontiamo i nostri trascorsi sportivi; in particolare, il biondo è rimasto evidentemente folgorato dall'esperienza della Petite Trotte e me ne narra vita, morte e miracoli, benché talvolta io faccia fatica a captare e tradurre i particolari. Il mio inglese non è certo eccellente, ma il suo spesso è proprio becero... Ogni tanto, cerco di coinvolgere il buon Giorgio, ma non posso certo far miracoli, con il mio neurone già spremuto fino all'ultima goccia delle sue possibilità. Passare da un idioma all'altro, badare alla strada e connettere i pensieri...
Di lì a poco, accade quel che temevo. Il mio compare si spazientisce, passa avanti e, con andatura degna del Varenne dei tempi migliori, se ne va. Eccolo qua, il marmocchio capriccioso: ha subito l'affronto di essere scalzato, per un momento, dal centro dell'attenzione... E adesso fa i capricci. Vai, vai, fringuello. Lo seguo con gli occhi, senza cambiare la mia andatura; cala un silenzio pesante tra me e l'armadio teutonico che, immagino, si sarà reso a sua volta conto dell'assurdità del gesto. Ma guarda tu che figure mi tocca fare. Se gli metto le mani addosso, lo sinistro, questo è poco ma sicuro...
Usciamo dal bosco e ci avviamo verso un alpeggio, con punto acqua presidiato da due fanciulli simpaticissimi. Giorgio è lì, ma riparte subito; io mi attardo a bere un po' di Coca e riparto a ruota, con una bella scorta di risate. Lì per lì, l'intenzione è quella di correre a riacchiappare il fuggiasco: ci provo, ma il maledetto ha davvero messo le ali. Calma Gian, meglio non fare fesserie. Se il furbacchione ha deciso di giocarsi la gara e spaccarsi le gambe per un capriccio, sono problemi suoi, ma tu non devi andargli dietro; l'unica cosa che conta, adesso, è Courmayeur. Devi arrivare fin laggiù, punto e basta. Calma, passo lento e misurato. Ma è una promessa: se Giorgio si azzarda anche solo a susurrare di essere stanco, o di aver male da qualche parte, o volersi fermare, da qui alla fine, giuro che lo lascio lì, lo abbandono come non farei mai con un cane in autostrada, e non lo sopprimo solo perché dicono sia vietato. Avrei già dovuto farlo quando si lamentava per la quota, la stanchezza, il sonno: se davvero fosse provato, non filerebbe su come un 4x4...
Le pale dell'elicottero spazzano via i miei pensieri cupi. L'agile velivolo raggiunge prima il punto di ristoro, giù sotto, poi risale e si affianca al sentiero, proprio dove stiamo camminando; a turno, un operatore scatta fotografie, tenendo le gambe penzoloni fuori dalla cabina. Tremo per lui... Il rumore dei motori è assordante. Dietro di me, a poca distanza, sale il biondo, che evidentemente s'è ripreso. Il sentiero è ripido e culmina con una serie di tornantini secchi, uno sull'altro, brevissimi e nervosi, fino alla vetta del colle. Col Brison. Giorgio è lì: l'ho già visto da un po', si sporgeva dalla vetta; proprio perché sapevo che l'avrei irritato ancor di più, non ho aumentato nemmeno di un infinitesimo la mia andatura. Scollino fingendo noncuranza; la voce piomba con la severità del tono del Cristo di Brescello, nei celeberrimi film di Don Camillo: "Giancarla...". Alè, ci siamo. Mo' ti aggiusto io... "Sì, mi dica", replico in tono canzonatorio, mentre inizio la discesa. "Quando avevo un'assistente in studio, con i clienti non parlavo in piemontese ma in italiano, perché anche lei potesse capire". Ah, ci sono, sarebbe questo il motivo della fuga; ho commesso l'imperdonabile peccato di complottare con il nemico in lingua ostrogota... Per di più, un nemico che, secondo la fantasiosa tesi del mio compare, ci aveva già superati più volte, quindi non meritava alcun aiuto. Certo, come no: secondo te, avrei dovuto finirlo lì, sul posto, magari conficcandogli un bastoncino nella schiena. Quando è troppo, è troppo, le staffe le perdo anch'io: "Questa è l'ultima volta che tollero una scena del genere – strillo – altrimenti ognuno per sé e Dio per tutti". E ci manca ancora che io, dopo duecentoottanta e rotti km, mi metta anche a fare il traduttore simultaneo, magari italo – anglo – piemontese per gradire... Non sono mica Mandrake! "Possibile che tu sia sempre convinto che, qualunque cosa si faccia, sia uno sgarbo pianificato e diretto proprio verso di te? Guarda che non ci sei mica solo tu al mondo!", continuo. "E poi, questa è una gara, non una guerra; a me fa piacere quando qualcun altro mi dà una mano e mi aiuta a superare una crisi... Se posso essere d'aiuto io ad un collega, mi pare ovvio che ci provo!". E infine, per chiudere in bellezza: "Questi comportamenti non li accetterei da un ragazzino... Figurati da uno della tua età!". Insomma, forse ho esagerato, in termini e tono, e sì che so bene quale peso abbiano, per Giorgio, le parole: ma ottengo, se non altro, l'effetto di tacitare il mio burrascoso compare. E di tacitare anche me stessa. La discesa, dopo un primo tratto delicato, che, complice la sfuriata, mi costa qualche storta di troppo, si addolcisce, attraversando a mezza costa un prato, mentre la valle s'allarga. Mi chiudo in un triste ed ostinato silenzio, un misto di incredulità e delusione, ed anche un po' di rimorso; Giorgio ci prova, più giù, a riallacciare un discorso, ma a me non escono altro che monosillabi. E' vero, per carattere non sono in grado di tenere il muso, ma mi irrita il pensiero che un episodio così assurdo e cattivo debba già essere liquidato facendo finta di nulla. Ne avrei ancora, io, di cose da dire...
Un alpeggio, uno splendido tenerissimo cucciolo di cane, qualcosa di simile ad un pastore tedesco, che gioca sulla schiena di un cagnone bianco, inerte, placido: basta questo a spazzare via tutte le nubi dal mio orizzonte. Mi precipito sul batuffolo di pelo, timidissimo ma con tanta voglia di giocare; è così bello che me lo metterei nello zaino e me lo porterei via... Un bicchiere di Coca, quattro parole con i margari. Uno di loro, forse albanese a giudicare dalla pronuncia del suo italiano stentato, mi invita a tornare, che troverò ancora il cane. Salutiamo, riprendiamo la discesa, su una strada sterrata. E' bellissimo vedere, in montagna, tra i pastori, due cani così ben tenuti, pasciuti, puliti e nemmeno legati. Una scena purtroppo rara, quasi unica.
Trottiamo verso il fondovalle: di lì a poco, troviamo ad accoglierci ben due amici; Michele, che già ci aveva raccattati prima di Donnas, e Gabriele. Così, l'ultimo chilometro prima dell'abitato di Ollomont scorre via in compagnia. Michele, poi, è un pozzo di storie da raccontare, con le sue esperienze alpinistiche persino sugli Ottomila. D'improvviso, comincia a piovere: non m'ero nemmeno accorta che il cielo fosse velato... Le prime case dell'abitato, poi via lungo la strada centrale. La struttura a noi destinata è in frazione Rey: troviamo ad attenderci una folla di corridori, familiari, semplici tifosi, insieme ai volontari. Pappa e, se possibile, doccia.
Dislivello positivo cumulato 19.927 m; km cumulati 283.
mercoledì 29 settembre 2010
12/19 settembre 2010 - Tor des Geants. Quinta tappa Gressoney - Valtournenche
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 1 - Dalla base vita si torna indietro per circa 500 m. fino al ponte che attraversa il torrente Lys per imboccare il sentiero 4 che, passando sotto al Castello Savoia, raggiunge il centro abitato. Si prosegue dritti sul sentiero 15 che in breve porta a Chemonal. Il sentiero gira a destra e con un sottopassaggio supera la strada, la costeggia sul lato destro per circa 200 m. e con un altro sottopassaggio si riporta dall’altra parte, verso il rifugio Alpenzu (1780 m). Punto di ristoro.
Giorgio mi sveglia un'ora dopo, più o meno. Chi lo capisce è bravo, quest'uomo: son tre giorni che mi trapana gli attributi, metaforicamente parlando, perché gli ho impedito di dormire la prima notte di gara. E poi, quando potrebbe dormire, lui no, Caron dimonio con occhi di bragia, tormenta se stesso ed anche il suo prossimo. Io un'oretta l'avrei ronfata ancora volentieri... Guai, silenzio, altrimenti va a finire che costui mi rinfaccia tutti i miei peccati dalla mia nascita, anzi dal mio concepimento, ad oggi. In fondo, va bene così, un'altra ora risparmiata rispetto ai cancelli orari. Mi trascino fino al locale delle docce: sono talmente confusa che anche la semplice ricerca degli abiti nel borsone diventa un'impresa titanica. Cosa mi serve, una maglia, un paio di pantaloni, calze, guanti? Boh... E' tutto sparso sulla panca; guardo, riguardo e non capisco. Boh, speriamo che l'acqua calda porti consiglio. Mi godo il tepore, forse qualche minuto di troppo; meglio che mi muova, onde non tirare troppo la corda, visto che qualcuno di mia conoscenza, là fuori, già rosica a sufficienza...
Torno alla branda, a raccogliere le ultime cose, a spalmare sui piedi un po' di crema. Il mal di testa mi tiene fedele compagnia. Un altro viaggio; questa volta, però, mi manca l'entusiasmo. Mi sento vittima di una sorta di condanna biblica... Coraggio, Gian. Vedrai che, quando sarai in marcia, ti sentirai meglio. Sarà... Per il momento, sono triste e preoccupata.
Raccatto lo zaino ed il borsone da riconsegnare all'uscita; s'ha da fare. Il barometro dell'umore di Giorgio sembra tornato sul bello stabile: speriamo che duri... Quand'è in fase di bioritmo positivo, è una compagnia davvero piacevolissima, un fiume di parole capace di farmi passare venti km di marcia senza che io me ne accorga. Però, è la prova vivente di quel che si dice degli uomini, che abbiano tutti un lato femminile più o meno spiccato: infatti, è più permaloso di una primadonna ed ha una memoria elefantiaca per tutto ciò che ritiene una mancanza di rispetto. E' un ragioniere con i fiocchi, prende nota di tutto e poi ti rinfaccia anche un'infinitesima boiata a distanza di un sacco di tempo, quando tu, povero essere umano dotato di memoria normale, quella boiata l'avevi già relegata, in quanto tale, nella più profonda oscurità della memoria. In ogni caso, la Battaglia di Gressoney può essere archiviata negli annali e consegnata alla storia.
I primi quattro, cinque km ci concedono un po' di respiro; sono piatti, o quasi, su strada sterrata facile; consentono di menare più la lingua delle gambe. Il buio è appena sceso: questa volta, la notte ci toccherà proprio tutta, senza sconti. Il cielo, a dispetto delle previsioni meteo che da un paio di giorni minacciano un po' di pioggia, è limpido e stellato; il fiume borbotta placido accanto a noi. L'ultima telefonata di Giorgio al fratello chiude i nostri contatti con il mondo; ci resta la nostra solitudine, ed un passo da scollinare oltre i 2.700 m. Attraversiamo una strada asfaltata e ne imbocchiamo una sterrata sulla sinistra, che non tarda a farci capire di che pasta è fatta: ripidissime rampe e tornanti in sequenza. Terapia d'urto per i garretti, costretti ad un brusco risveglio. La pendenza e la terra friabile, asciutta, fanno spesso perdere l'appiglio del piede, che addirittura scivola indietro. Cala il silenzio, chissà perché... Chi ascoltasse, in questo momento, il nostro respiro, o meglio, il nostro rantolo, potrebbe pensare all'audio di un film a luci rosse; invece no, siamo solo due temerari, o imbecilli che dir si voglia, alle prese con qualcosa che è più grande di noi.
Lì dove, di rado, la boscaglia cede qualche centimetro di spazio, possiamo vedere le luci del fondovalle, già molto, molto lontane. Non occorre molto tempo, su una strada da capre come questa, per accumulare dislivello. Rampa, tornante, rampa, tornante; ho un bel guardare per aria, tanto non vedo un tubo, non capisco dov'è che si andrà a finire.
L'ultimo strappo ci scodella in mezzo ad un prato; come un miraggio, spunta un gruppo di case in legno e pietra: tutte buie, tranne una, più illuminata di una discoteca. E' il punto di ristoro, Rifugio Alpenzu: gustiamo un ottimo bicchiere di the caldo e quattro parole con i volontari, gentilissimi come sempre. Giorgio s'informa sulla possibilità di fermarsi a riposare, da qui in poi: ci sarà il Rifugio Vieux Crest, oltre il colle. Anche qui, per inciso, all'Alpenzu, qualcuno si è fermato a nanna: il mio compare quasi quasi sarebbe tentato... Ma stronco sul nascere qualsiasi pensiero sonnacchioso. Adesso si cammina, punto.
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 2 - Seguendo il sentiero, che compie una lunga diagonale attraverso i prati, ci si porta verso Ondermontè (2007m). Attraverso il rado bosco di conifere, si raggiunge l’alpeggio Loaoche (2363 m), quindi si prosegue per i ripidi pendii fino al Colle Pinter (2776 m). Dal colle Pinter il sentiero scende per un valloncello detritico e poi percorre un ripiano erboso fino ad una formazione rocciosa oltre la quale, dopo numerosi tornanti, raggiunge i pascoli che portano a Cuneaz (2062m).
Ripartiamo su per un sentierino che taglia il prato e raggiunge un alpeggio; ci illumina la via un potentissimo faro piazzato dai volontari del punto di ristoro. La luce illumina la nebbia che ha fatto la sua comparsa così, da un attimo all'altro, sopra le nostre teste. Ondermonté, trecento metri di dislivello in poca strada; una minuscola borgata fantasma, tutto immobile, tutto buio. Ma tutto, anche qui, curato nei minimi particolari, ristrutturato con rispetto.
La nostra marcia procede, prima nel bosco, poi in mezzo a prati e pietre nudi, esposti al vento. Le parole si diradano; cala un silenzio pesante. Ci perdiamo dietro a pensieri che partono dalla realtà e pian piano sfumano nel sogno e, da lì, nell'incubo. Le ombre create dalla luce della frontale diventano sagome in movimento, che mi fanno trasalire di continuo. Giorgio è di umore cupo quanto me, se non peggio; stavolta il sonno ha scelto lui come vittima preferita. Qualche goccia ci sferza la faccia: guardo su, una macchia nera oscura le stelle; ci mancherebbe solo la pioggia... Ma non è vera pioggia, sono solo nuvole leggere, di passaggio, nebbia e goccioline trasportate dal vento. Raffiche gelide che s'insinuano nelle pieghe della montagna ed ululano i loro lamenti: fatico a credere che tutto questo sia reale. Eppure sono proprio qui, adesso. Aver paura non serve a nulla, se non a peggiorare la situazione. Continuiamo a camminare: il mio compagno d'avventura casca dal sonno, ma qui è proprio impossibile fermarsi all'addiaccio. Fa troppo freddo, ci congeleremmo; una polmonite non ce la leverebbe nessuno. Rivolgo ossessivamente lo sguardo agli enormi massi che accompagnano il sentiero, alla ricerca di una faccia un po' più riparata; in realtà, ciò che servirebbe adesso è una baita: quattro muri ed un tetto, ovviamente disabitata, almeno in questo momento, e non troppo lercia all'interno. La vedo un'infinità di volte, la baita: ma solo al primo sguardo... Al secondo, è una delle tante rocce. E il silenzio di Giorgio mi preoccupa sempre più. La notte è terribile anche per questo, ti rinchiude sotto una campana scura, ti costringe a restare gomito a gomito con i tuoi tormenti; non c'è possibilità di distrazione
All'improvviso, compare. Guardo e riguardo: stavolta è vero, è proprio una baita. "Vuoi che proviamo a controllare se è aperta?", chiedo, e, senza aspettare risposta, sono già davanti alla porta d'ingresso. E' chiusa con un cordino. Slaccio il nodo, spingo la piccola porta di legno, illumino l'interno: è vuoto, pulito, con assi di legno sul pavimento. Aggiudicato: ci si ferma qui a riposare un po'. A dire il vero, io non ho sonno, in questo momento, ma il mio compagno di viaggio è davvero provato. Ci saranno i topi? Boh, chissà, in ogni caso, a questa quota, è difficile che si tratti di pantegane da fogna. Al massimo, saranno topolini. "No – taglia corto Giorgio – non ci sono topi perché non c'è niente da mangiare". Ineccepibile.
Indossiamo tutto quel che abbiamo e ci scegliamo un'asse per uno. Io ho la malaugurata idea di mettermi a dormire a pancia in giù, con la fronte appoggiata alle mani e le mani sull'asse. Piombo nel sonno, anche se fino ad un attimo prima ero ben sveglia, per una sorta di meccanismo di autodifesa del corpo, che, vista la situazione grama, fa il pieno di tutto, cibo, bevande, sonno, ogni volta che può. E mi risveglio con i brividi in tutto il corpo e le mani gelate ed insensibili. Cavoli, non ho più le mani... Poi, pian piano, la circolazione ritorna nelle falangi. Mi metto a sedere, tremo; che idiozia, non essermi infilata subito nel sacco a pelo. E dire che lo sto scarrozzando nello zaino da giorni! Anche Giorgio mi copia e si tumula nella mummia. Il vento lancia ululati impressionanti, che sembra vogliano sgretolare i muri e strappar via le lose dal tetto; ho il terrore di quel che troveremo quando usciremo di qui. Perché ci toccherà uscire, prima o poi...
Svegli, raccogliamo in fretta e furia i sacchi a pelo; ogni istante di immobilità peggiora la sensazione di freddo. Usciamo e richiudiamo la porta con cura, così come l'abbiamo trovata. Forse le raffiche si sono un po' quietate, o forse il rumore era amplificato, là dentro, dalle strutture della baita. Splendono le stelle. Il sentiero in mezzo all'erba si fa subito più ripido; qualche lucina ci precede, altre ci seguono.
Non impiego molto tempo a rendermi conto che qualcosa non va. Ancora, improvvisa e forte, quella sensazione che mi ha tormentata ieri, nella discesa su Gressoney. Confusione, alienazione. Mi manca il fiato; ogni passo diventa più pesante del precedente, la vista ancor più incerta. Vorrei parlare, spiegarmi, ma non riesco; vorrei buttare aria nei polmoni e non entra nulla. E' come se la forza stesse scorrendo via, come l'acqua da un secchio bucato. E i battiti del cuore, lenti, sempre più lenti. Mi sforzo di far finta di nulla, continuo a camminare, ma rallento, rallento ancora, un passo dopo l'altro, li devo meditare uno per uno, devo costringermi ad andare avanti. Mi gira la testa; anche Giorgio si accorge che qualcosa non quadra. Non posso fermarmi qui, fa troppo freddo; bisogna salire ancora, scollinare, e poi di là c'è il rifugio, anche se chissà quant'è lontano dal colle; di là si scende, magari si perde un po' di quota, magari starò meglio. Un passo, un altro passo, il sentiero è ripido, devo fermarmi di tanto in tanto, appoggiarmi ai bastoncini per restare su e respirare. Mi gira la testa; chiedo a Giorgio di tenermi un attimo le gambe sollevate, mentre mi sdraio a terra: lì per lì, sembra vada meglio... Ma, quando riparto, è peggio di prima. No, non è possibile, non ce la faccio, crollo, stavolta è brutta davvero...
Le gambe non tengono più; crollo in ginocchio sul sentiero, le mani ancora saldamente avvinghiate ai bastoncini; appoggio la testa al sentiero e resto così, per un tempo che mi sembra interminabile, senza forze e senza fiato. Mi sorpassa qualcuno, ne sento le voci, ma lontane Passano oltre. Ed è un bene, perché forse è proprio quello, il terrore irrazionale di restare qui abbandonata, che mi fa reagire. Se non riparto, sono spacciata: a volte, la suggestione fa effetti esagerati, ma in fondo è un bene che sia così. In piedi, piano piano, si riparte. Una fatica disperata: ma non mi ero accorta che il colle fosse così vicino... Le lucine si allontanano di poco, sopra la mia testa, per poi sparire. Quindi, Gian, ti manca poco, stringi i denti e vai. Giorgio, paziente e attento, mi segue fin su; poi, passa in testa e mi segna la strada in discesa. La palina segnaletica del colle è già meglio di una dose di ossigeno: ora si tratta di scendere e di credere fermamente che la discesa si porterà via, almeno in parte, i miei guai.
Mi concentro, con difficoltà, sui piedi di Giorgio; la prima parte della discesa è ripida, sabbiosa, scivolosa. Devo prestare davvero molta attenzione, e non è affatto facile, nello stato in cui sono. Corrugo la fronte come se questo servisse a trattenere il pensiero, che, lasciato a se stesso, fugge come aria da un palloncino. Ecco: se lo scopo di quest'uomo era farmi pentire di averlo tanto maltrattato ieri, e di averlo sottoposto alle più orrende sevizie almeno nel pensiero, beh, quello scopo è stato raggiunto. Adesso, se non ci fosse lui, sarei nei guai. Tornantini, pietraia che frana sotto le suole, una direzione da seguire quando io ne vedo tre o quattro, una notte nerissima senza luna, e nessuna idea di dove si andrà a finire, e quando. Va un po' meglio, forse, ora che il Col Pinter è lassù, alle spalle. Il sentiero diventa presto più dolce, a tratti quasi pianeggiante. Camminiamo, camminiamo, camminiamo: sembra che non ci sia mai fine... Una, due luci nella valle, ma chissà dove sono in realtà, forse sull'altro versante; noi vediamo solo quel cerchio della nostra frontale e basta, per il resto potremmo essere chiusi in una bolla che vaga nel nulla. Qualsiasi riferimento, nella notte, scompare: distanze, ore, tutto è alterato, dilatato. Abbiamo un unico pensiero, il rifugio, ma chissà quando mai ci arriveremo. E' solo quella la speranza che mi trascina avanti. Ci accompagna il rombo di acqua che scende impetuosa, ma chissà dove nella vallata. Tutto quel che riesco a scorgere è il pendio accanto ai miei piedi, che sfuma nel buio.
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 3 - Da Cuneaz in breve tempo si scende alla località Crest, dove sorge il rifugio Vieux Crest (1952 m). Punto di ristoro. Dal rifugio Crest si percorre inizialmente un tratto di sentiero (13B), quindi la strada sterrata che porta ai casolari di Soussun (1958 m). Lo si attraversa e con percorso pianeggiante si raggiunge la località Charcherioz (1986 m). Si prosegue ancora per un breve tratto sulla strada sterrata, si risale poi ai rifugi Ferraro e Guide Frachey (2086 m). Il sentiero (9) scende verso il fondovalle toccando l’alpeggio Raccard e velocemente raggiunge il caratteristico abitato di Saint Jacques (1697 m). Punto di ristoro.
Una luce gialla, un lampione: che sia la volta buona? Ci avviciniamo, pieni di speranza, ma anche timorosi di una delusione. Siamo stanchi e demotivati. E' un lampione, sì, ma non è per noi: sembra incredibile che quassù, in mezzo al nulla, esista un gruppo di case, per giunta abitate ed illuminate... Ci raggiunge un altro concorrente, un po' stravolto come noi; tutti insieme consultiamo il road book, sia pure con una buona dose di scetticismo. Siamo a Cuneaz, quota 2.000 circa. Ancora in marcia, sempre più o meno in piano. Mi sento un po' meglio; la debolezza ha lasciato il posto all'ansia, al nervoso, sentimenti comunque negativi, ma che, se non altro, infondono un po' di vitalità. Oltre una curva, compare a fondovalle una distesa di luci: ma... Possibile? E tutto ciò da dove spunta? Champoluc, indica il cartello segnaletico di un sentiero. Ma noi tiriamo dritto, tra le case di una borgata che sembra anch'essa piovuta qui all'improvviso, proprio adesso. Crest, finalmente: la nostra meta. Troviamo il rifugio: fa sorridere la segnalazione del percorso con le bandierine, anche su per le scale... Ci ricoveriamo in un accogliente locale in legno, una vera e propria cucina, con tanto di stufa e tavola imbandita per il ristoro. Non ci facciamo pregare: si mangia in abbondanza. Il menu è sempre lo stesso, ma l'appetito è tale che nessuno si lamenta. Chiediamo di poter dormire: per fortuna, la risposta è sì... Un ragazzo ci accompagna al piano inferiore, dove troviamo una stanzetta piccola, accogliente, con i letti a castello: via le scarpe e siamo a nanna, con tanto di copertona ruvida e pesante. Siamo tutt'altro che lindi e profumati: ma tant'è... Il sonno è più forte di qualsiasi altra sensazione sgradevole.
Giorgio mi sveglia con tutta la delicatezza possibile, neanche stesse maneggiando un vaso di cristallo. No, ditemi che non è vero... Ditemi che posso restare ancora qui, nel mio bozzolo caldo. Ho commesso l'errore di non levare la giacca, prima di inumarmi sotto la coperta; così, adesso, sono sudaticcia e congelerò. Amen, Gian, hai già visto di peggio. Tappa in bagno, altra tappa su, in cucina, per mettere ancora qualcosa sotto i denti e bere un po' di caffé. Non esiste più "il pasto": bisogna mangiare, sempre, comunque, qualsiasi cosa. Anche i volontari sembrano stanchi: per loro, sopportare ore di veglia stando qui, quasi immobili, e con l'incombenza di controllare scrupolosamente arrivi e partenze, peggio di un capostazione, dev'essere difficile almeno quanto lo è per noi camminare.
Ora non dovrebbe più mancare molto all'alba. Ci avviamo. Strada sterrata, sentiero, ancora strada. I margari caricano bidoni metallici di latte sui fuoristrada. Non impiego molto a rendermi conto che il sonno, purtroppo, non ha giovato granché alla mia situazione. Ci attende un lungo tratto quasi pianeggiante, per nulla impegnativo, per fortuna; spero che la luce del sole, quella forte, diretta del pieno giorno, mi risvegli un po' dal mio torpore. Continuo ad essere confusa, a viaggiare in coppia, la me stessa che cammina e l'altra me stessa che osserva. Questo Tor des Geants mi costerà una fortuna sul lettino dello psicanalista, se continua così! Abbiamo superato di parecchio i 200 km di marcia: "solo" più 120, verrebbe da dire. Il guaio è che siamo già molto lontani dalla partenza, ma ancora troppo lontani dall'arrivo, per poter cullare una piccola speranza. Ogni volta che si nomina Courmayeur, l'inciso è d'obbligo: "Se ci arriviamo". Certo, la fantasia ogni tanto vola all'ultima discesa dal Bivacco Bertone, alla strada asfaltata che raggiunge il centro cittadino, ci vede correre come due pazzi, pronti a travolgere chiunque o qualunque cosa ci si pari davanti... Ma è ancora prematuro. In 120 km a piedi, con tanta, tanta salita, può succedere di tutto. Dobbiamo essere pronti a reggere il colpo, se qualcosa dovesse andare storto. E gli acciacchi non ci mancano; Giorgio lamenta il male alle unghie degli alluci, io alla caviglia sinistra già svirgolata di suo; entrambi abbiamo già attinto alla riserva farmaceutica negli zaini. In compenso, quella sensazione di gambe rigide e stanche è sopita: le salite, ormai, non ci fanno più paura; è come se il corpo si fosse proprio abituato alla fatica. O forse ha rinunciato a protestare, tanto è inutile.
Procediamo a lungo a mezza costa, sempre intorno ai 2000 m di quota. Sausson, Charcherioz, poi due rifugi, Ferraro e Guide Frachey. Il sole continua ad accompagnare il nostro lungo viaggio: le previsioni di peggioramento sembrano slittare, giorno dopo giorno. Quasi non oso credere alla fortuna che, fino ad oggi, ha voluto assisterci. Il cielo azzurro e le splendide cime sono di grande conforto. Oggi dovremmo arrivare in vista del Cervino: non vedo l'ora... Non mi leverò mai più dagli occhi lo stupore di quel giorno dello scorso luglio, quando viaggiavo in auto verso Valtournenche, un po' rintronata per le curve, e, alzando la testa, me lo sono visto improvvisamente davanti, maestoso, aguzzo e bianco. Quel gioiellino di corsa che è stato il Cervino X Trail ha avuto, tra gli altri, il pregio di lasciarmi ammirare questa montagna in tutta la sua imponenza, benché quella domenica fossi tutt'altro che in forma...
Una breve discesa ci conduce al paese di Saint Jacques. Arrivo al ristoro sempre più allucinata, anche se mi sforzo di fingere bene: ormai mi sono abituata a convivere con il mio doppio; dopotutto, non esiste, quindi non ha peso e non grava sullo zaino. Quasi quasi, mi tiene compagnia, anche se non si spreca a darmi qualche spinta. Si scherza e si chiacchiera con i volontari, come sempre; ci dicono che siamo grandi... E, dalla luce dei loro occhi, sembra che lo credano davvero. Siamo grandi? Chissà... Così recitava quella scritta sul lenzuolo, un sacco di chilometri fa: "I Giganti siete voi". Mah. I campioni sono altri. Noi abbiamo dalla nostra una fortunata combinazione di salute, resistenza e passione. Vero, in certi momenti ho pensato di dover mollare. Ma non ho mai pensato, nemmeno per un istante, di voler mollare. E poi, in fondo, se proprio dovesi arrivare a non poterne più, mi basterà ripensare all'allucinante, surreale assemblea di condominio che ho avuto la ventura di presidiare lo scorso venerdì sera: qualsiasi patimento fisico che la montagna mi voglia infliggere, al confronto, sembrerà gioia cristallina!
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 4 - Da Saint Jacques si passa il ponte sul torrente Evançon e si imbocca il sentiero 4 che sale fino a Croues (1871 m) fino all’alpeggio di Nannaz Desot (2040 m). Si prosegue fino al rifugio Grand Tournalin (2535 m). Punto di ristoro. Da qui si scende sulla strada per imboccare sulla destra il sentiero 4A. Con una diagonale in mezza costa il sentiero sale fino al colle di Nannaz (2772 m). Da qui si scende nella conca per risalire fino al Col des Fontaines (2695 m). Il sentiero riprende la discesa, fino alla località di Cheneil (2097 m). Si scende nel bosco, passando l’alpeggio di Promindoz (1845 m) ed infine l’abitato di Cretaz (1515 m). Quinta base vita.
Ripartiamo. Un ponte, una palina che ci indica il Rifugio Grand Tournalin. Va un po' meglio, adesso. La salita è dolce, un alternarsi di boschi di abeti ed ampi pascoli, di sentiero, strada sterrata, ancora sentiero, a tratti lungo il fiume. Là dove il bosco lascia intravedere il cielo, ci godiamo l'azzurro ancora intonso, dopo tanti giorni. Spuntiamo nei paraggi di un alpeggio: Nannaz Desot, circa 2000 m di quota, splendido. Il rifugio appare più avanti, in cima ad un pendio di pascoli; nei paraggi c'è una strada sterrata accessibile in auto, almeno credo con i fuoristrada. Ci avviciniamo al grosso edificio scuro, imponente. Le pause sono ormai religione, per noi: bere qualcosa di caldo, mangiare, riposare le gambe un attimo, anche se il più delle volte io non mi siedo nemmeno.
Ci chiudiamo alle spalle l'ennesima porta: un volontario ci indica il sentiero da imboccare, su, per risalire la verdissima corona di cime che abbiamo di fronte. Diligenti, ci mettiamo in marcia, pian piano, perché qui la pendenza non scherza. Trecento metri, poco più, al colle: si risale lentamente, silenziosi ma segretamente euforici, perché oltre il colle troveremo ad attenderci il Cervino.
Il vento che soffia in faccia, freddo, è il segno dell'approssimarsi del colle, quel che ti dice che, per questa volta, hai quasi finito di soffrire. I fili d'erba ondeggiano e tu sai che è fatta: il cielo, la palina, il colle. Nannaz, 2.770 m ed un'intera splendida valle che si schiude sotto di noi. Scruto l'orizzonte con avidità: una selva di cime, una più bella dell'altra... Ma lui non si vede ancora. E dire che dovrebbe essere vicinissimo... Ciuffi di nuvole bianche si sfilacciano, come impigliati alle vette. Ci attende una discesa facile, dolce, verso destra, ed una breve risalita verso il colle di cui vediamo già da lontano la palina. Sappiamo che lì, per oggi, la nostra lotta contro la forza di gravità avrà fine. Per oggi... Non è corretto parlare di "oggi" e "domani". I nostri giorni non seguono più l'andamento del sole: si regolano sul susseguirsi delle basi vita. "Oggi" finirà a Valtournenche, quando metteremo piede al punto di ristoro; "domani" inizierà, sempre a Valtournenche, quando ne usciremo.
Con l'animo leggero, timidamente in festa, ci avviciniamo all'ultima asperità, il Col des Fontaines. Mi chino a leggere la targhetta metallica: quando mi rialzo, sbatto gli occhi contro la splendida parete. Eccolo, il Cervino. Immenso, davanti a me, celato in parte da una capricciosa nuvola che gli fa da stola. Mi vien voglia di urlare dalla gioia... Anche Giorgio partecipa di questa folle euforia. Ci buttiamo baldanzosi giù in discesa, ben sapendo che, tra noi e le minuscole macchie scure che si vedono a fondovalle, le abitazioni, ci sono milletrecento metri di salto, un dislivello che metterà a durissima prova le nostre povere articolazioni. Pazienza se qualche nuvola di troppo comincia a fare capolino sulle spalle delle montagne. Sentiamo il bisogno di comunicare la nostra gioia al mondo "di fuori": oggi Matteo può sentire un tono di voce ben diverso da quello d'oltretomba che ho sfoggiato negli ultimi contatti. Ebbene sì, comincio a credere che ce la possiamo fare...
La lunga discesa va a ricongiungersi con la parte finale del percorso del Cervino X Trail, nell'abitato di Cheneil, graziosa borgata di casette con cascate di fiori variopinti alle finestre. Mi domando se tutto questo esista davvero, o se sia una scenografia montata apposta per noi... Ma quei gerani, li compreranno nuovi tutte le settimane? Un gruppo di indigeni ci saluta dai balconi: dev'essere ora di pranzo, a giudicare dai profumi. Il Cervino è sparito dietro le nubi. Proseguiamo la discesa, perdendoci per un attimo dietro a bandierine gialle che nulla hanno a che fare con il nostro percorso; poi, dopo una sequenza interminabile di tornanti nel bosco, che straziano ancor più le povere unghie dei piedi del mio compare, raggiungiamo i primi muri di Cretaz, frazione di Valtournenche. Tifo sfegatato da parte di un gruppetto di bimbe in un parco giochi: si sa, il fascino di Giorgio ammalia in particolare le fanciulle... La piazza, il parcheggio, il centro sportivo. Quinta base vita: l'euforia ha scacciato ogni malessere. Si mangia!
Dislivello positivo cumulato 16.523 m; km cumulati 236.
Giorgio mi sveglia un'ora dopo, più o meno. Chi lo capisce è bravo, quest'uomo: son tre giorni che mi trapana gli attributi, metaforicamente parlando, perché gli ho impedito di dormire la prima notte di gara. E poi, quando potrebbe dormire, lui no, Caron dimonio con occhi di bragia, tormenta se stesso ed anche il suo prossimo. Io un'oretta l'avrei ronfata ancora volentieri... Guai, silenzio, altrimenti va a finire che costui mi rinfaccia tutti i miei peccati dalla mia nascita, anzi dal mio concepimento, ad oggi. In fondo, va bene così, un'altra ora risparmiata rispetto ai cancelli orari. Mi trascino fino al locale delle docce: sono talmente confusa che anche la semplice ricerca degli abiti nel borsone diventa un'impresa titanica. Cosa mi serve, una maglia, un paio di pantaloni, calze, guanti? Boh... E' tutto sparso sulla panca; guardo, riguardo e non capisco. Boh, speriamo che l'acqua calda porti consiglio. Mi godo il tepore, forse qualche minuto di troppo; meglio che mi muova, onde non tirare troppo la corda, visto che qualcuno di mia conoscenza, là fuori, già rosica a sufficienza...
Torno alla branda, a raccogliere le ultime cose, a spalmare sui piedi un po' di crema. Il mal di testa mi tiene fedele compagnia. Un altro viaggio; questa volta, però, mi manca l'entusiasmo. Mi sento vittima di una sorta di condanna biblica... Coraggio, Gian. Vedrai che, quando sarai in marcia, ti sentirai meglio. Sarà... Per il momento, sono triste e preoccupata.
Raccatto lo zaino ed il borsone da riconsegnare all'uscita; s'ha da fare. Il barometro dell'umore di Giorgio sembra tornato sul bello stabile: speriamo che duri... Quand'è in fase di bioritmo positivo, è una compagnia davvero piacevolissima, un fiume di parole capace di farmi passare venti km di marcia senza che io me ne accorga. Però, è la prova vivente di quel che si dice degli uomini, che abbiano tutti un lato femminile più o meno spiccato: infatti, è più permaloso di una primadonna ed ha una memoria elefantiaca per tutto ciò che ritiene una mancanza di rispetto. E' un ragioniere con i fiocchi, prende nota di tutto e poi ti rinfaccia anche un'infinitesima boiata a distanza di un sacco di tempo, quando tu, povero essere umano dotato di memoria normale, quella boiata l'avevi già relegata, in quanto tale, nella più profonda oscurità della memoria. In ogni caso, la Battaglia di Gressoney può essere archiviata negli annali e consegnata alla storia.
I primi quattro, cinque km ci concedono un po' di respiro; sono piatti, o quasi, su strada sterrata facile; consentono di menare più la lingua delle gambe. Il buio è appena sceso: questa volta, la notte ci toccherà proprio tutta, senza sconti. Il cielo, a dispetto delle previsioni meteo che da un paio di giorni minacciano un po' di pioggia, è limpido e stellato; il fiume borbotta placido accanto a noi. L'ultima telefonata di Giorgio al fratello chiude i nostri contatti con il mondo; ci resta la nostra solitudine, ed un passo da scollinare oltre i 2.700 m. Attraversiamo una strada asfaltata e ne imbocchiamo una sterrata sulla sinistra, che non tarda a farci capire di che pasta è fatta: ripidissime rampe e tornanti in sequenza. Terapia d'urto per i garretti, costretti ad un brusco risveglio. La pendenza e la terra friabile, asciutta, fanno spesso perdere l'appiglio del piede, che addirittura scivola indietro. Cala il silenzio, chissà perché... Chi ascoltasse, in questo momento, il nostro respiro, o meglio, il nostro rantolo, potrebbe pensare all'audio di un film a luci rosse; invece no, siamo solo due temerari, o imbecilli che dir si voglia, alle prese con qualcosa che è più grande di noi.
Lì dove, di rado, la boscaglia cede qualche centimetro di spazio, possiamo vedere le luci del fondovalle, già molto, molto lontane. Non occorre molto tempo, su una strada da capre come questa, per accumulare dislivello. Rampa, tornante, rampa, tornante; ho un bel guardare per aria, tanto non vedo un tubo, non capisco dov'è che si andrà a finire.
L'ultimo strappo ci scodella in mezzo ad un prato; come un miraggio, spunta un gruppo di case in legno e pietra: tutte buie, tranne una, più illuminata di una discoteca. E' il punto di ristoro, Rifugio Alpenzu: gustiamo un ottimo bicchiere di the caldo e quattro parole con i volontari, gentilissimi come sempre. Giorgio s'informa sulla possibilità di fermarsi a riposare, da qui in poi: ci sarà il Rifugio Vieux Crest, oltre il colle. Anche qui, per inciso, all'Alpenzu, qualcuno si è fermato a nanna: il mio compare quasi quasi sarebbe tentato... Ma stronco sul nascere qualsiasi pensiero sonnacchioso. Adesso si cammina, punto.
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 2 - Seguendo il sentiero, che compie una lunga diagonale attraverso i prati, ci si porta verso Ondermontè (2007m). Attraverso il rado bosco di conifere, si raggiunge l’alpeggio Loaoche (2363 m), quindi si prosegue per i ripidi pendii fino al Colle Pinter (2776 m). Dal colle Pinter il sentiero scende per un valloncello detritico e poi percorre un ripiano erboso fino ad una formazione rocciosa oltre la quale, dopo numerosi tornanti, raggiunge i pascoli che portano a Cuneaz (2062m).
Ripartiamo su per un sentierino che taglia il prato e raggiunge un alpeggio; ci illumina la via un potentissimo faro piazzato dai volontari del punto di ristoro. La luce illumina la nebbia che ha fatto la sua comparsa così, da un attimo all'altro, sopra le nostre teste. Ondermonté, trecento metri di dislivello in poca strada; una minuscola borgata fantasma, tutto immobile, tutto buio. Ma tutto, anche qui, curato nei minimi particolari, ristrutturato con rispetto.
La nostra marcia procede, prima nel bosco, poi in mezzo a prati e pietre nudi, esposti al vento. Le parole si diradano; cala un silenzio pesante. Ci perdiamo dietro a pensieri che partono dalla realtà e pian piano sfumano nel sogno e, da lì, nell'incubo. Le ombre create dalla luce della frontale diventano sagome in movimento, che mi fanno trasalire di continuo. Giorgio è di umore cupo quanto me, se non peggio; stavolta il sonno ha scelto lui come vittima preferita. Qualche goccia ci sferza la faccia: guardo su, una macchia nera oscura le stelle; ci mancherebbe solo la pioggia... Ma non è vera pioggia, sono solo nuvole leggere, di passaggio, nebbia e goccioline trasportate dal vento. Raffiche gelide che s'insinuano nelle pieghe della montagna ed ululano i loro lamenti: fatico a credere che tutto questo sia reale. Eppure sono proprio qui, adesso. Aver paura non serve a nulla, se non a peggiorare la situazione. Continuiamo a camminare: il mio compagno d'avventura casca dal sonno, ma qui è proprio impossibile fermarsi all'addiaccio. Fa troppo freddo, ci congeleremmo; una polmonite non ce la leverebbe nessuno. Rivolgo ossessivamente lo sguardo agli enormi massi che accompagnano il sentiero, alla ricerca di una faccia un po' più riparata; in realtà, ciò che servirebbe adesso è una baita: quattro muri ed un tetto, ovviamente disabitata, almeno in questo momento, e non troppo lercia all'interno. La vedo un'infinità di volte, la baita: ma solo al primo sguardo... Al secondo, è una delle tante rocce. E il silenzio di Giorgio mi preoccupa sempre più. La notte è terribile anche per questo, ti rinchiude sotto una campana scura, ti costringe a restare gomito a gomito con i tuoi tormenti; non c'è possibilità di distrazione
All'improvviso, compare. Guardo e riguardo: stavolta è vero, è proprio una baita. "Vuoi che proviamo a controllare se è aperta?", chiedo, e, senza aspettare risposta, sono già davanti alla porta d'ingresso. E' chiusa con un cordino. Slaccio il nodo, spingo la piccola porta di legno, illumino l'interno: è vuoto, pulito, con assi di legno sul pavimento. Aggiudicato: ci si ferma qui a riposare un po'. A dire il vero, io non ho sonno, in questo momento, ma il mio compagno di viaggio è davvero provato. Ci saranno i topi? Boh, chissà, in ogni caso, a questa quota, è difficile che si tratti di pantegane da fogna. Al massimo, saranno topolini. "No – taglia corto Giorgio – non ci sono topi perché non c'è niente da mangiare". Ineccepibile.
Indossiamo tutto quel che abbiamo e ci scegliamo un'asse per uno. Io ho la malaugurata idea di mettermi a dormire a pancia in giù, con la fronte appoggiata alle mani e le mani sull'asse. Piombo nel sonno, anche se fino ad un attimo prima ero ben sveglia, per una sorta di meccanismo di autodifesa del corpo, che, vista la situazione grama, fa il pieno di tutto, cibo, bevande, sonno, ogni volta che può. E mi risveglio con i brividi in tutto il corpo e le mani gelate ed insensibili. Cavoli, non ho più le mani... Poi, pian piano, la circolazione ritorna nelle falangi. Mi metto a sedere, tremo; che idiozia, non essermi infilata subito nel sacco a pelo. E dire che lo sto scarrozzando nello zaino da giorni! Anche Giorgio mi copia e si tumula nella mummia. Il vento lancia ululati impressionanti, che sembra vogliano sgretolare i muri e strappar via le lose dal tetto; ho il terrore di quel che troveremo quando usciremo di qui. Perché ci toccherà uscire, prima o poi...
Svegli, raccogliamo in fretta e furia i sacchi a pelo; ogni istante di immobilità peggiora la sensazione di freddo. Usciamo e richiudiamo la porta con cura, così come l'abbiamo trovata. Forse le raffiche si sono un po' quietate, o forse il rumore era amplificato, là dentro, dalle strutture della baita. Splendono le stelle. Il sentiero in mezzo all'erba si fa subito più ripido; qualche lucina ci precede, altre ci seguono.
Non impiego molto tempo a rendermi conto che qualcosa non va. Ancora, improvvisa e forte, quella sensazione che mi ha tormentata ieri, nella discesa su Gressoney. Confusione, alienazione. Mi manca il fiato; ogni passo diventa più pesante del precedente, la vista ancor più incerta. Vorrei parlare, spiegarmi, ma non riesco; vorrei buttare aria nei polmoni e non entra nulla. E' come se la forza stesse scorrendo via, come l'acqua da un secchio bucato. E i battiti del cuore, lenti, sempre più lenti. Mi sforzo di far finta di nulla, continuo a camminare, ma rallento, rallento ancora, un passo dopo l'altro, li devo meditare uno per uno, devo costringermi ad andare avanti. Mi gira la testa; anche Giorgio si accorge che qualcosa non quadra. Non posso fermarmi qui, fa troppo freddo; bisogna salire ancora, scollinare, e poi di là c'è il rifugio, anche se chissà quant'è lontano dal colle; di là si scende, magari si perde un po' di quota, magari starò meglio. Un passo, un altro passo, il sentiero è ripido, devo fermarmi di tanto in tanto, appoggiarmi ai bastoncini per restare su e respirare. Mi gira la testa; chiedo a Giorgio di tenermi un attimo le gambe sollevate, mentre mi sdraio a terra: lì per lì, sembra vada meglio... Ma, quando riparto, è peggio di prima. No, non è possibile, non ce la faccio, crollo, stavolta è brutta davvero...
Le gambe non tengono più; crollo in ginocchio sul sentiero, le mani ancora saldamente avvinghiate ai bastoncini; appoggio la testa al sentiero e resto così, per un tempo che mi sembra interminabile, senza forze e senza fiato. Mi sorpassa qualcuno, ne sento le voci, ma lontane Passano oltre. Ed è un bene, perché forse è proprio quello, il terrore irrazionale di restare qui abbandonata, che mi fa reagire. Se non riparto, sono spacciata: a volte, la suggestione fa effetti esagerati, ma in fondo è un bene che sia così. In piedi, piano piano, si riparte. Una fatica disperata: ma non mi ero accorta che il colle fosse così vicino... Le lucine si allontanano di poco, sopra la mia testa, per poi sparire. Quindi, Gian, ti manca poco, stringi i denti e vai. Giorgio, paziente e attento, mi segue fin su; poi, passa in testa e mi segna la strada in discesa. La palina segnaletica del colle è già meglio di una dose di ossigeno: ora si tratta di scendere e di credere fermamente che la discesa si porterà via, almeno in parte, i miei guai.
Mi concentro, con difficoltà, sui piedi di Giorgio; la prima parte della discesa è ripida, sabbiosa, scivolosa. Devo prestare davvero molta attenzione, e non è affatto facile, nello stato in cui sono. Corrugo la fronte come se questo servisse a trattenere il pensiero, che, lasciato a se stesso, fugge come aria da un palloncino. Ecco: se lo scopo di quest'uomo era farmi pentire di averlo tanto maltrattato ieri, e di averlo sottoposto alle più orrende sevizie almeno nel pensiero, beh, quello scopo è stato raggiunto. Adesso, se non ci fosse lui, sarei nei guai. Tornantini, pietraia che frana sotto le suole, una direzione da seguire quando io ne vedo tre o quattro, una notte nerissima senza luna, e nessuna idea di dove si andrà a finire, e quando. Va un po' meglio, forse, ora che il Col Pinter è lassù, alle spalle. Il sentiero diventa presto più dolce, a tratti quasi pianeggiante. Camminiamo, camminiamo, camminiamo: sembra che non ci sia mai fine... Una, due luci nella valle, ma chissà dove sono in realtà, forse sull'altro versante; noi vediamo solo quel cerchio della nostra frontale e basta, per il resto potremmo essere chiusi in una bolla che vaga nel nulla. Qualsiasi riferimento, nella notte, scompare: distanze, ore, tutto è alterato, dilatato. Abbiamo un unico pensiero, il rifugio, ma chissà quando mai ci arriveremo. E' solo quella la speranza che mi trascina avanti. Ci accompagna il rombo di acqua che scende impetuosa, ma chissà dove nella vallata. Tutto quel che riesco a scorgere è il pendio accanto ai miei piedi, che sfuma nel buio.
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 3 - Da Cuneaz in breve tempo si scende alla località Crest, dove sorge il rifugio Vieux Crest (1952 m). Punto di ristoro. Dal rifugio Crest si percorre inizialmente un tratto di sentiero (13B), quindi la strada sterrata che porta ai casolari di Soussun (1958 m). Lo si attraversa e con percorso pianeggiante si raggiunge la località Charcherioz (1986 m). Si prosegue ancora per un breve tratto sulla strada sterrata, si risale poi ai rifugi Ferraro e Guide Frachey (2086 m). Il sentiero (9) scende verso il fondovalle toccando l’alpeggio Raccard e velocemente raggiunge il caratteristico abitato di Saint Jacques (1697 m). Punto di ristoro.
Una luce gialla, un lampione: che sia la volta buona? Ci avviciniamo, pieni di speranza, ma anche timorosi di una delusione. Siamo stanchi e demotivati. E' un lampione, sì, ma non è per noi: sembra incredibile che quassù, in mezzo al nulla, esista un gruppo di case, per giunta abitate ed illuminate... Ci raggiunge un altro concorrente, un po' stravolto come noi; tutti insieme consultiamo il road book, sia pure con una buona dose di scetticismo. Siamo a Cuneaz, quota 2.000 circa. Ancora in marcia, sempre più o meno in piano. Mi sento un po' meglio; la debolezza ha lasciato il posto all'ansia, al nervoso, sentimenti comunque negativi, ma che, se non altro, infondono un po' di vitalità. Oltre una curva, compare a fondovalle una distesa di luci: ma... Possibile? E tutto ciò da dove spunta? Champoluc, indica il cartello segnaletico di un sentiero. Ma noi tiriamo dritto, tra le case di una borgata che sembra anch'essa piovuta qui all'improvviso, proprio adesso. Crest, finalmente: la nostra meta. Troviamo il rifugio: fa sorridere la segnalazione del percorso con le bandierine, anche su per le scale... Ci ricoveriamo in un accogliente locale in legno, una vera e propria cucina, con tanto di stufa e tavola imbandita per il ristoro. Non ci facciamo pregare: si mangia in abbondanza. Il menu è sempre lo stesso, ma l'appetito è tale che nessuno si lamenta. Chiediamo di poter dormire: per fortuna, la risposta è sì... Un ragazzo ci accompagna al piano inferiore, dove troviamo una stanzetta piccola, accogliente, con i letti a castello: via le scarpe e siamo a nanna, con tanto di copertona ruvida e pesante. Siamo tutt'altro che lindi e profumati: ma tant'è... Il sonno è più forte di qualsiasi altra sensazione sgradevole.
Giorgio mi sveglia con tutta la delicatezza possibile, neanche stesse maneggiando un vaso di cristallo. No, ditemi che non è vero... Ditemi che posso restare ancora qui, nel mio bozzolo caldo. Ho commesso l'errore di non levare la giacca, prima di inumarmi sotto la coperta; così, adesso, sono sudaticcia e congelerò. Amen, Gian, hai già visto di peggio. Tappa in bagno, altra tappa su, in cucina, per mettere ancora qualcosa sotto i denti e bere un po' di caffé. Non esiste più "il pasto": bisogna mangiare, sempre, comunque, qualsiasi cosa. Anche i volontari sembrano stanchi: per loro, sopportare ore di veglia stando qui, quasi immobili, e con l'incombenza di controllare scrupolosamente arrivi e partenze, peggio di un capostazione, dev'essere difficile almeno quanto lo è per noi camminare.
Ora non dovrebbe più mancare molto all'alba. Ci avviamo. Strada sterrata, sentiero, ancora strada. I margari caricano bidoni metallici di latte sui fuoristrada. Non impiego molto a rendermi conto che il sonno, purtroppo, non ha giovato granché alla mia situazione. Ci attende un lungo tratto quasi pianeggiante, per nulla impegnativo, per fortuna; spero che la luce del sole, quella forte, diretta del pieno giorno, mi risvegli un po' dal mio torpore. Continuo ad essere confusa, a viaggiare in coppia, la me stessa che cammina e l'altra me stessa che osserva. Questo Tor des Geants mi costerà una fortuna sul lettino dello psicanalista, se continua così! Abbiamo superato di parecchio i 200 km di marcia: "solo" più 120, verrebbe da dire. Il guaio è che siamo già molto lontani dalla partenza, ma ancora troppo lontani dall'arrivo, per poter cullare una piccola speranza. Ogni volta che si nomina Courmayeur, l'inciso è d'obbligo: "Se ci arriviamo". Certo, la fantasia ogni tanto vola all'ultima discesa dal Bivacco Bertone, alla strada asfaltata che raggiunge il centro cittadino, ci vede correre come due pazzi, pronti a travolgere chiunque o qualunque cosa ci si pari davanti... Ma è ancora prematuro. In 120 km a piedi, con tanta, tanta salita, può succedere di tutto. Dobbiamo essere pronti a reggere il colpo, se qualcosa dovesse andare storto. E gli acciacchi non ci mancano; Giorgio lamenta il male alle unghie degli alluci, io alla caviglia sinistra già svirgolata di suo; entrambi abbiamo già attinto alla riserva farmaceutica negli zaini. In compenso, quella sensazione di gambe rigide e stanche è sopita: le salite, ormai, non ci fanno più paura; è come se il corpo si fosse proprio abituato alla fatica. O forse ha rinunciato a protestare, tanto è inutile.
Procediamo a lungo a mezza costa, sempre intorno ai 2000 m di quota. Sausson, Charcherioz, poi due rifugi, Ferraro e Guide Frachey. Il sole continua ad accompagnare il nostro lungo viaggio: le previsioni di peggioramento sembrano slittare, giorno dopo giorno. Quasi non oso credere alla fortuna che, fino ad oggi, ha voluto assisterci. Il cielo azzurro e le splendide cime sono di grande conforto. Oggi dovremmo arrivare in vista del Cervino: non vedo l'ora... Non mi leverò mai più dagli occhi lo stupore di quel giorno dello scorso luglio, quando viaggiavo in auto verso Valtournenche, un po' rintronata per le curve, e, alzando la testa, me lo sono visto improvvisamente davanti, maestoso, aguzzo e bianco. Quel gioiellino di corsa che è stato il Cervino X Trail ha avuto, tra gli altri, il pregio di lasciarmi ammirare questa montagna in tutta la sua imponenza, benché quella domenica fossi tutt'altro che in forma...
Una breve discesa ci conduce al paese di Saint Jacques. Arrivo al ristoro sempre più allucinata, anche se mi sforzo di fingere bene: ormai mi sono abituata a convivere con il mio doppio; dopotutto, non esiste, quindi non ha peso e non grava sullo zaino. Quasi quasi, mi tiene compagnia, anche se non si spreca a darmi qualche spinta. Si scherza e si chiacchiera con i volontari, come sempre; ci dicono che siamo grandi... E, dalla luce dei loro occhi, sembra che lo credano davvero. Siamo grandi? Chissà... Così recitava quella scritta sul lenzuolo, un sacco di chilometri fa: "I Giganti siete voi". Mah. I campioni sono altri. Noi abbiamo dalla nostra una fortunata combinazione di salute, resistenza e passione. Vero, in certi momenti ho pensato di dover mollare. Ma non ho mai pensato, nemmeno per un istante, di voler mollare. E poi, in fondo, se proprio dovesi arrivare a non poterne più, mi basterà ripensare all'allucinante, surreale assemblea di condominio che ho avuto la ventura di presidiare lo scorso venerdì sera: qualsiasi patimento fisico che la montagna mi voglia infliggere, al confronto, sembrerà gioia cristallina!
ROAD BOOK, Settore 5, Tavola 4 - Da Saint Jacques si passa il ponte sul torrente Evançon e si imbocca il sentiero 4 che sale fino a Croues (1871 m) fino all’alpeggio di Nannaz Desot (2040 m). Si prosegue fino al rifugio Grand Tournalin (2535 m). Punto di ristoro. Da qui si scende sulla strada per imboccare sulla destra il sentiero 4A. Con una diagonale in mezza costa il sentiero sale fino al colle di Nannaz (2772 m). Da qui si scende nella conca per risalire fino al Col des Fontaines (2695 m). Il sentiero riprende la discesa, fino alla località di Cheneil (2097 m). Si scende nel bosco, passando l’alpeggio di Promindoz (1845 m) ed infine l’abitato di Cretaz (1515 m). Quinta base vita.
Ripartiamo. Un ponte, una palina che ci indica il Rifugio Grand Tournalin. Va un po' meglio, adesso. La salita è dolce, un alternarsi di boschi di abeti ed ampi pascoli, di sentiero, strada sterrata, ancora sentiero, a tratti lungo il fiume. Là dove il bosco lascia intravedere il cielo, ci godiamo l'azzurro ancora intonso, dopo tanti giorni. Spuntiamo nei paraggi di un alpeggio: Nannaz Desot, circa 2000 m di quota, splendido. Il rifugio appare più avanti, in cima ad un pendio di pascoli; nei paraggi c'è una strada sterrata accessibile in auto, almeno credo con i fuoristrada. Ci avviciniamo al grosso edificio scuro, imponente. Le pause sono ormai religione, per noi: bere qualcosa di caldo, mangiare, riposare le gambe un attimo, anche se il più delle volte io non mi siedo nemmeno.
Ci chiudiamo alle spalle l'ennesima porta: un volontario ci indica il sentiero da imboccare, su, per risalire la verdissima corona di cime che abbiamo di fronte. Diligenti, ci mettiamo in marcia, pian piano, perché qui la pendenza non scherza. Trecento metri, poco più, al colle: si risale lentamente, silenziosi ma segretamente euforici, perché oltre il colle troveremo ad attenderci il Cervino.
Il vento che soffia in faccia, freddo, è il segno dell'approssimarsi del colle, quel che ti dice che, per questa volta, hai quasi finito di soffrire. I fili d'erba ondeggiano e tu sai che è fatta: il cielo, la palina, il colle. Nannaz, 2.770 m ed un'intera splendida valle che si schiude sotto di noi. Scruto l'orizzonte con avidità: una selva di cime, una più bella dell'altra... Ma lui non si vede ancora. E dire che dovrebbe essere vicinissimo... Ciuffi di nuvole bianche si sfilacciano, come impigliati alle vette. Ci attende una discesa facile, dolce, verso destra, ed una breve risalita verso il colle di cui vediamo già da lontano la palina. Sappiamo che lì, per oggi, la nostra lotta contro la forza di gravità avrà fine. Per oggi... Non è corretto parlare di "oggi" e "domani". I nostri giorni non seguono più l'andamento del sole: si regolano sul susseguirsi delle basi vita. "Oggi" finirà a Valtournenche, quando metteremo piede al punto di ristoro; "domani" inizierà, sempre a Valtournenche, quando ne usciremo.
Con l'animo leggero, timidamente in festa, ci avviciniamo all'ultima asperità, il Col des Fontaines. Mi chino a leggere la targhetta metallica: quando mi rialzo, sbatto gli occhi contro la splendida parete. Eccolo, il Cervino. Immenso, davanti a me, celato in parte da una capricciosa nuvola che gli fa da stola. Mi vien voglia di urlare dalla gioia... Anche Giorgio partecipa di questa folle euforia. Ci buttiamo baldanzosi giù in discesa, ben sapendo che, tra noi e le minuscole macchie scure che si vedono a fondovalle, le abitazioni, ci sono milletrecento metri di salto, un dislivello che metterà a durissima prova le nostre povere articolazioni. Pazienza se qualche nuvola di troppo comincia a fare capolino sulle spalle delle montagne. Sentiamo il bisogno di comunicare la nostra gioia al mondo "di fuori": oggi Matteo può sentire un tono di voce ben diverso da quello d'oltretomba che ho sfoggiato negli ultimi contatti. Ebbene sì, comincio a credere che ce la possiamo fare...
La lunga discesa va a ricongiungersi con la parte finale del percorso del Cervino X Trail, nell'abitato di Cheneil, graziosa borgata di casette con cascate di fiori variopinti alle finestre. Mi domando se tutto questo esista davvero, o se sia una scenografia montata apposta per noi... Ma quei gerani, li compreranno nuovi tutte le settimane? Un gruppo di indigeni ci saluta dai balconi: dev'essere ora di pranzo, a giudicare dai profumi. Il Cervino è sparito dietro le nubi. Proseguiamo la discesa, perdendoci per un attimo dietro a bandierine gialle che nulla hanno a che fare con il nostro percorso; poi, dopo una sequenza interminabile di tornanti nel bosco, che straziano ancor più le povere unghie dei piedi del mio compare, raggiungiamo i primi muri di Cretaz, frazione di Valtournenche. Tifo sfegatato da parte di un gruppetto di bimbe in un parco giochi: si sa, il fascino di Giorgio ammalia in particolare le fanciulle... La piazza, il parcheggio, il centro sportivo. Quinta base vita: l'euforia ha scacciato ogni malessere. Si mangia!
Dislivello positivo cumulato 16.523 m; km cumulati 236.
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