E'
una fortuna che, a quest'ora, lo spaccio della Venchi sia ormai
chiuso. Non rischio di cadere in pericolose tentazioni, indotte non
solo dalla golosità ma anche da una certa qual fame. Sono saltata in
auto appena chiuso l'ufficio, senza misericordia per le sacrosante
rivendicazioni del pancino. Il fragore della marmitta scassata copre
a malapena i suoi ululati. Vernante, Limone, Colle di Tenda. Fortuna
sfacciata: il semaforo è verde.
Guidare
giù per le curve, ad un'ora in cui non c'è quasi nessuno per
strada, è davvero rilassante. Mi tormenta però il pensiero di
Monaco: mi conosco e so già che, in città, faticherò non poco per
trovare la mia meta, Port Hercule. E' il porto principale, mi han
detto: già, grazie tante, ma immagino che Monaco sia tutta un porto.
A
Ventimiglia, imbocco l'autostrada; è già tardi e non ho voglia di
impazzire lungo le strade della costa. Fino allo svincolo, infatti,
fila tutto liscio come l'olio. Il dramma comincia dopo...
Delirio.
Non mi viene in mente altro termine per definire questo posto. Un
manicomio in piena regola. Senza possibilità di scampo, finisco
risucchiata in un vortice di auto, clacson, luci accecanti, un fiume
in piena di lamiere e gomma. Mi faccio trascinare senza possibilità
di scampo; è già troppo impegnativo destreggiarsi per schivare le
altre vetture, figuriamoci poi capire dove sto andando. E dove dovrei
andare. Con la coda dell'occhio, cerco qualche indicazione che faccia
almeno intuire la direzione dei porti; in questo momento, non capisco
nemmeno se sto viaggiando verso mare, verso monte o in parallelo alla
costa. Giro e rigiro, ripercorro più volte le stesse strade e gli
stessi incroci; mi terrorizza l'idea di sfiorare una qualsiasi delle
altre auto: sono casseforti ambulanti... Per ciascuna di esse, già
solo l'antenna dell'autoradio vale mille volte la mia Opel.
Gioiellerie, banche, alberghi superlusso, boutique, tutto trasuda
ostentazione e lusso sfrenato; auto lustre, luccicanti, enormi più o
meno quanto le navi ormeggiate lungo i moli. Mi rassegno ad andar per
tentativi; prima o poi, a furia di girare, arriverò a Port Hercule,
se non altro per caso... Ma qui la strada sale, non mi sembra una
buona idea. Dovunque sia il porto, non si trova di certo verso monte.
Sciagura delle sciagure; con la mia bagnarola bollata e la marmitta
che romba peggio di un DC9 al decollo, mi ritrovo proprio dietro
un'immensa Rolls Royce, ferma davanti all'ingresso del Casinò,
mentre un tizio vestito da pinguino si affretta ad aprire con mille
salamelecchi la portiera. La situazione potrebbe anche risultare
divertente, se non fosse che qui, prima o poi, mi arrestano per
vagabondaggio... Non appena il catafalco libera il passaggio, mi
affretto ad allontanarmi: data la precedenza, con ogni cautela, ad
una Bentley e ad un grosso SUV BMW che qui in mezzo fa quasi
tenerezza tant'è misero, torno verso il mare. Ormai ho perso la
speranza: non so più se ridere o piangere... Non può essere vero,
tutto questo. Probabilmente sono finita nel bel mezzo del set di
qualche film dell'orrore. Ho una gran voglia di scappare... Ma non
saprei nemmeno come uscire di qui. M'infilo in una sorta di galleria
su cui scorrono gli ingressi di hotel et similia, uno più lussuoso
dell'altro; quei pochi esseri umani che si muovono a piedi portano a
spasso migliaia di euro in abiti, borse e valigie che definire
ridicoli è poco...
Esausta,
mi fermo accanto ad un molo. Non so più dove andare ed è quasi
mezzanotte. D'improvviso, un miraggio: si avvicina una coppia di
persone dall'aspetto quasi normale. Jeans, piumone. Due
extraterrestri, qui. Non mi faccio scappare l'occasione di chiedere
loro dove sia, 'sto stramaledetto Port Hercule. Elementare, Watson: è
proprio qui davanti al mio naso. Non mi par vero... Riavviata la
Opel, mi rituffo nel caos. Peccato che il porto sia in gran parte
occupato da un delirante luna park, che significa folla strabordante
e parcheggi tutti occupati. Giro un paio di volte, avanti e indietro:
niente da fare, non ci sarebbe spazio nemmeno per uno spillo.
Basta,
non ne posso più. Mi fermo lungo il corso principale, accanto ad
un'aiuola, in pieno divieto di sosta, ma in buona compagnia. Mi imita
subito, allungando la fila davanti a me, una Jaguar da cui scende
l'inevitabile coppia di baùscia. Mi vengono i brividi. Ma dove
diavolo son venuta a cacciarmi?
Pace,
ormai sono qui. Non mi resta che abbassare il sedile e mettermi a
dormire. La corsa parte alle 8; è mezzanotte. Domani, qualche santo
sarà.
Un
perentorio "toc toc" mi risveglia di soprassalto. Oddio la
Gendarmerie... No: è un viandante notturno, che mi avvisa di
spegnere i fari. Probabilmente ha pensato che mi sia addormentata in
preda ad una solenne sbornia. Lo ringrazio, spengo i fari e ripiombo
nel sonno. Beh dai, non sono poi così beceri come sembrano, i
Monegaschi.
Mi
sveglio alle 6 in un altro mondo. La mia auto è rimasta sola lungo
il corso principale, ma adesso tutto tace; l'unico veicolo in
circolazione è quello dei netturbini. Non muove foglia; il luna park
è immobile, il parcheggio è deserto. Mi sposto un po' più vicino a
quello che ho individuato come il percorso di gara, un circuito lungo
il molo. Per chi non lo sapesse – io stessa ne sapevo ben poco,
fino ad un paio di mesi fa – una 24 ore consiste, appunto, nel
correre per 24 ore filate in un circuito di lunghezza variabile, più
o meno come fa il criceto nella ruota. Mi sono cimentata in questo
tipo di prova per la prima volta a Fano, lo scorso ottobre:
l'esperienza non sarebbe stata poi così traumatica, se un fortunale,
tra la quattordicesima e la quindicesima ora, non si fosse abbattuto
sulla pista. Un temporale con raffiche di vento come non avevo mai
visto: roba da non riuscire più a procedere, per le sferzate di
pioggia e grandine addosso; gazebo e seggiole rovesciate e
trasportate in giro per il prato, fulmini che illuminavano il cielo a
giorno. Nel giro di pochi istanti, io ero fradicia... E così pure la
borsa con i miei abiti di ricambio e per la notte, lasciata a bordo
pista a portata di mano. La mia gara si è arenata dentro il gelido
tendone predisposto dall'organizzazione: mai e poi mai, per nessun
motivo, avrei ripreso a correre, bagnata come un pulcino, nel freddo
della notte, nemmeno quando il temporale, dopo un'ora abbondante, ha
deciso di placarsi.
Spero
che qui, nonostante sia novembre inoltrato, il clima voglia
concedermi un po' di clemenza. Perlomeno una temperatura un po' meno
siberiana. In effetti, pure a quest'ora del mattino, scendere
dall'auto non è affatto traumatico, anzi. Il giaccone è eccessivo.
Mi avvicino al circuito, delimitato da transenne e fettucce:
all'interno, qualcuno corre, altri – la maggior parte –
trascinano un piede avanti all'altro come se ogni arto pesasse un
quintale. Lo sguardo perso nel vuoto... Questi personaggi corrono da
sette giorni nel circuito; questo è l'ottavo e l'ultimo... Anche se
credo che abbiano ormai perso il senso del tempo e la coscienza di
sé. E' qualcosa che non riesco ad immaginare... Del resto, già
fatico a capire il senso di ciò che sto per fare io, soprattutto
dopo aver respirato un po' dell'aria di questo manicomio.
Mi
incammino lungo il circuito, facendo attenzione a non ostacolare il
penoso incedere degli atleti. La stanchezza mostruosa che affligge i
più esalta la scioltezza del gesto di alcuni fenomeni che ancora
corrono come se fossero appena partiti o quasi. Tutt'intorno si sente
solo il tenue sciacquìo del mare contro lo scafo degli yacht ed il
grido incessante dei gabbiani. Non c'è traccia degli organizzatori,
per il momento: ritirare il pettorale non è ancora possibile. In
compenso, noto che nell'area di partenza c'è un ampio parcheggio.
Già... Ma come ci si arriva? Approfitto del largo anticipo per
recuperare la Opel e tentare un paio di giri di perlustrazione, alla
ricerca dell'accesso; girare per Montecarlo è molto più facile al
mattino presto, quando gli amanti della movida hanno appena ceduto al
richiamo di Morfeo... Ciononostante, non c'è verso di trovarlo,
questo benedetto parcheggio. Alla fine, la pazienza ha un limite.
Scelgo una sistemazione in rigoroso divieto di sosta, ma più vicina
alla partenza, per poter scaricare il mio tavolino ed il piccolo
bagaglio da lasciare al bordo del circuito. Una volta ritirato il
pettorale, stendo sul volante la maglietta omaggio con il logo della
corsa, sperando di intenerire il solerte gendarme che decidesse di
multarmi o, peggio, rimuovermi l'auto. In ogni caso, avrò il mio
amato bene sempre sotto controllo dal circuito.
Piazzo
il mio tavolino da campeggio vicino a tutti gli altri; sopra, la
borsa degli indumenti e la scatola delle cibarie. C'è chi è ben più
organizzato di me, intere squadre con la scorta; addirittura, i
concorrenti della "otto giorni" hanno al seguito camper,
roulotte ed assistenti dotati di formello ed ogni sorta di
armamentario necessario per la cucina. Sono un po' preoccupata per le
provviste; ho una fornitissima scorta di Toblerone e qualche gel, ma
spero che l'organizzazione abbia previsto un ristoro un po' più
vario, magari con formaggio e succhi di frutta. Sono troppo pigra per
organizzarmi come si deve... Sarebbe saggio provvedere al bagaglio
con qualche giorno di anticipo rispetto agli appuntamenti che
contano, non sempre all'ultimo minuto com'è mia disgraziata
abitudine. Va sempre a finire che, in ogni luogo, mi trovo come se
fossi appena cascata da Marte!
Il
piazzale si anima di atleti e di curiosi. Diversi gli italiani, tra
cui Luciano ed Ilaria, che conosco di persona, ed alcuni noti solo
per fama. Dalle cabine dell'immensa nave da crociera ormeggiata
proprio davanti al piazzale spunta qualche assonnato viaggiatore in
vestaglia, forse incuriosito dal viavai. I minuti scorrono lenti, tra
inutili piccole sistemazioni del bagaglio, visite turistiche ai bagni
chimici ed esplorazione di un minuscolo locale che per me è qualcosa
di molto vicino al paradiso: poco più grande di un box, contiene
ogni sorta di possibile macchinetta "alimentare", da quella
che produce millemila tipi di caffè, cappuccino e cioccolata, a
quella per le merendine, le bibite, persino a quella che vende
yogurt. Quest'ultima è una tentazione... Ci rinuncio solo per
evitare effetti collaterali proprio a ridosso della gara. Ed anche
perché ho già freddo ed è più saggio scegliere una bevanda calda:
una banalissima gustosa cioccolata, ad esempio.
Mi
aggiro come un fantasma in area partenza; pantaloni corti e chiappe
ibernate: va bene che siamo in Costa Azzurra, ma è novembre...
Qualche raggio di sole filtra appena; soffia una leggerissima brezza.
Con poca convinzione, seguo la massa che sciama verso uno dei gazebo,
intorno ad un omino con un microfono in mano. Lunga tiritera in
francese, a cui presto poca attenzione, se non per apprendere che il
circuito è lungo appena più di un chilometro. Noto però con la
coda dell'occhio che il punto di ristoro, come speravo, è ben
fornito di ogni sorta di vivande. Di fame non morirò... Di noia,
forse.
Il
via viene dato senza tanti preamboli né fronzoli. Si comincia a
correre, con tutta calma. Fin dal primo giro, vado alla ricerca di
cose che distraggano la mia attenzione; qualsiasi cosa, dai
seggiolini dei bar alle piante, alle finestre dei palazzi che
riflettono il sole, all'orrore dei cubi di cemento e vetro, al
castello isolato lassù in mezzo alle brutture, agli scheletri oggi
immobili delle giostre. Il gruppo si sgrana; chi "ci crede"
e parte forte, chi come me comincia fin da subito a domandarsi il
perché di tutto ciò e decide di correre giusto perché "son
venuta fino qui, ho speso i soldi del viaggio, tantovale fare buon
viso a cattivo gioco e cavare almeno un allenamento decente".
L'entusiasmo no, quello non lo trovo...
I
primi giri passano veloci; in fondo, è tutta una novità. Via la
giacca: se avessi avuto il coraggio di levarmela subito, prima del
via, avrei evitato una pausa. Ed avrei risparmiato cinque secondi. Mi
mando al diavolo da sola per questo assurdo pensiero e riprendo il
mio passo. La forma del circuito non è delle più gradevoli; una
serie di curve strette sia nell'area di partenza che all'estremo
opposto, dove ci tocca persino una netta inversione: potrà sembrare
una sciocchezza per le gambe fresche, ma è destinata a diventare un
tormento dopo qualche decina di giri.
Questa
è una 24 ore anomala, a vocazione più "umanitaria" che
sportiva. Infatti, permette a chi ne ha piacere di entrare nel
circuito in qualsiasi momento della giornata e percorrere un
qualsiasi numero di giri, anche soltanto uno. Per ciascun giro
completato da ciascun atleta, o non tanto atleta, una somma verrà
devoluta all'associazione "Children & Future". Io sono
per natura scettica sull'argomento; ho sempre la sensazione che i
fondi destinati in teoria alla beneficienza prendano in realtà altre
strade. Ma qui, c'è da dire, non siamo in Italia; chissà, magari
quel che viene promesso è persin vero. In ogni caso, non fatico ad
ammettere che la filantropia non è la mia passione... E che
l'aspetto sportivo è l'unico che mi ha trascinata oggi fin qui; vale
per me, ma immagino anche per molti altri compagni di sventura che
vedo parecchio impegnati nella sfida.
La
vita pian piano si risveglia nei lussuosissimi appartamenti
galleggianti. Giro dopo giro, non posso fare a meno di osservarne uno
in particolare, ormeggiato nei pressi del "giro di boa"
della corsa. Lo abita una coppia credo inglese; lui, un uomo di
mezz'età, non esattamente un adone, con una pancia da commendatore,
che credo faccia, come unica attività fisica, la salita e discesa
dal transatlantico, ammesso che il transatlantico non abbia qualche
forma di ascensore; lei, una donna bionda, ben più giovane, bella ma
non appariscente, al punto che potrebbe davvero essere la moglie.
Fanno colazione con studiata lentezza, tanto da irritare persino me
che corro; mi verrebbe da andar su ed invitarli caldamente a
schiodare il posteriore... La signora si ritira per qualche momento;
al giro successivo, la vedo nuovamente sul ponte, in abiti da lavoro,
con guanti e straccio, a lustrare il corrimano di metallo. Al giro
ancora successivo, eccola ancora che lustra il corrimano, e così per
parecchi giri. Poi si sposta e lustra i vetri. Infine scende e lustra
lo scafo... Il tutto, senza che alcuna parte della barca abbia alcun
bisogno di essere lustrata, visto che già di suo il mastodonte è
tirato a specchio. Mi vien da ridere... Per carità, io sarò grezza
e non capirò nulla di simili finezze, ma che senso ha possedere uno
yacht se poi si trascorre il sabato a lavorare come schiavi per farlo
brillare? Ma soprattutto: un personaggio che può permettersi uno
yacht non ha forse la possibilità di assumere una domestica? Mah...
Penso alla mia casetta, che sembra un campo di battaglia... Ancora un
po' e servirà il machete per passare da una stanza all'altra. Però
io me ne infischio ed oggi sono qui a correre!
In
effetti, c'è da dire che dovrei anche badare agli affari miei. Ma
non è proprio possibile, quando tocca girare come il criceto nella
ruota su un percorso lungo poco più di un km. Occuparsi dei cavoli
altrui è indispensabile per sopravvivere. Così, mentre la madama
s'impegna a lustrare ogni centimetro quadrato del suo possedimento,
la passeggiata si anima. I Monegaschi si risvegliano, anche se qui,
di Monegaschi veri, se ne vedono ben pochi. Squillano spiccati
accentu cuneesi, milanesi, del Sud Italia. Sulla pista dei corridori
si riversa di tutto: madame impellicciate con venti gradi, coppie
molto stilose, marmocchi vestiti come i modelli delle pubblicità di
abbigliamento junior, anziani che di certo non si fermano alla
pensione minima e svernano qui anziché a Borghetto. Nel giro di
mezz'ora, ci si ritrova a correre in qualcosa di molto simile a Via
Roma, a Torino, nei giorni di punta dello struscio davanti alle
vetrine. Correre per modo di dire... Se prima era noia mortale,
adesso il mio sentimento è odio viscerale. Proprio io, che detesto
la folla e soprattutto questo tipo di folla. Mi maledico mille e
mille volte per la sciagurata idea di venire fin qui. Giro dopo giro,
sono assalita da un irrefrenabile desiderio omicida.
Non
è più il circuito di una 24h, questo. C'è di tutto, cani e porci:
e passi per i cani, l'unica compagnia che apprezzo di tutto cuore, e
passi anche per i loro padroni, che un fondo di buono nella loro
inutile esistenza devono pur averlo, se portano a spasso un
quattrozampe... Ma che diamine fanno tutti gli altri qui? Sono
disperata: possibile che nessuno abbia pensato di riservare questo
straccio di km di asfalto a chi corre? Ho sempre più la sensazione
di non aver capito nulla. E sì che mi avevano avvisata: "Troverai
di tutto sul percorso". Ma si sa che bisogna sbattere il naso,
per percepire il dolore. Carrozzine, biciclette, borse... Non è una
24h, è una corsa ad ostacoli. E non uno, dico io, non uno che curi
di spostarsi, che eviti magari di impegnare tutta la larghezza della
strada con la propria mole sovrabbondante. Frotte di ragazzini, ed
anche meno ragazzini, che trascinano le loro fiacche membra e menano
la lingua stando in cinque uno a fianco dell'altro.
Ho
perso il senso del tempo e della misura, non so più se sto correndo
troppo piano, troppo forte, se devo usare prudenza, se devo fermarmi
a mangiare e bere... Vado avanti a forza di nervoso, mando gomitate a
destra e a manca, senza alcun ritegno. Alla vista delle damazze con i
colli di pelliccia, poi, la tentazione è proprio quella di
asfaltarle... La maleducazione generale è tale e quale a quella
italiana; quella dei marmocchi raggiunge l'apice. Scorrazzano come
biglie impazzite, incuranti dei corridori che arrivano alle spalle.
Di
tanto in tanto, lo sguardo va ai miei compari di sofferenza: in un
circuito così breve, ci si vede spesso. Ho l'impressione di essere
l'unica a patire così la situazione: gli altri atleti, perlomeno
quelli che "la prendono sul serio", mi sembrano più
concentrati sull'obiettivo, più assenti. I "Sanremo Runners",
assistiti a bordo pista da un personaggio alquanto pittoresco;
Luciano, un trattore che non si fermerebbe neanche davanti ad un
muro; Ilaria, lanciatissima, che mi ha già doppiata innumerevoli
volte. Espressione imperscrutabile, sguardo fermo in avanti. Non ho
dubbi su chi salirà sul gradino più alto del podio femminile,
domattina: Ilaria ha una determinazione incrollabile. Se vuole, ce la
fa... Ed oggi vuole.
La
temperatura è l'unico aspetto piacevole della giornata, almeno nel
primo pomeriggio. Ma sono sempre più convinta che non dovrò
preoccuparmi dei rigori della notte. Io qui fino a domani non resto,
no no... Non posso nemmeno pensarlo. E' distruttivo correre così;
non c'è nulla, proprio nulla di piacevole, è un continuo zig zag,
rallentare, accelerare, scartare all'improvviso. Per me che amo la
regolarità assoluta della marcia, questo è un pianto. Mi dispiace,
ritirarmi non è da me, ma così non ha alcun senso.
Il
culmine della disgrazia arriva con il luna park. Come se non bastasse
il caos totale della folla, a metà del pomeriggio si dà fuoco alle
polveri. Musica sparata a tutto volume dalle casse, luci abbaglianti,
truppe di ragazzini e meno ragazzini che si riversano nell'area. Mi
coglie un attacco fulminante di orticaria. Con tutte le notti
trascorse sui sentieri di montagna, con la sola compagnia della luna
ed a volte neanche di quella, tutt'intorno assoluto silenzio...
Essere qui oggi è un insulto a quei ricordi ed a me stessa. Passano
i giri, i minuti, mi sembra di impazzire. Ho deciso. Resterò qui
fino alle 20, non un solo minuto di più. 12 ore per fare cifra
tonda, poi prendo e me ne torno a casa. E domani mattina, puntuale,
sarò al via dell'Ecomaratona di Alba, a cui tra l'altro sono già
iscritta. L'Ecomaratona avrebbe dovuto corrersi un mese fa, ma è
stata rinviata a causa dell'alluvione. Tuttavia, quando mi sono
iscritta alla 24 ore, non lo potevo ancora sapere... Beh, in ogni
caso non la perderò. Non resterei qua fino a domani, nemmeno dietro
congruo compenso.
Non
so quanti giri ho accumulato sinora. Le ombre si allungano, l'aria si
fa più frizzante. Non ce la faccio più. Ci vorrà già un
bell'impegno per arrivare alle otto, stasera. Il mal di gambe è
comparso troppo presto e mi inchioda i muscoli. Ok, ho già deciso di
ritirarmi, ma non voglio cedere prima dell'ora stabilita. Quello sì,
sarebbe un fallimento. Non vorrei nemmeno rassegnarmi a camminare:
non m'importa se, in una 24 ore, farlo è normale; per me non ha
senso. O si corre, o si molla. Ma il dolore cresce, le gambe sono
sempre più rigide, il morale sempre più a terra. So che, come
sempre, a mente fredda riderò dell'assurdità di questi sentimenti
così forti, ma in questo momento avrei voglia di piangere. Il mio
umore stride con il chiasso allegro – sia pure un'allegria
innaturale e forzata – delle giostre. Provo a distrarmi osservando
la plancia con i seggiolini, che viene sollevata lentissimamente in
alto e poi sganciata all'improvviso, con il suo corredo di urli ed
agitarsi di mani e piedi; non so se si stia peggio lassù o qui. Ci
vorrebbe un conforto, ecco. Mi costa ammetterlo, anche a me stessa;
vorrei sempre essere in grado di cavarmela da sola, eppure in questo
momento ci vorrebbe una voce amica. So bene che non può succedere. O
forse sì. In realtà so bene che potrebbe anche succedere. C'è una
sola persona al mondo che potrebbe comparire qui, oggi, pur non
essendo in gara. Sarebbe assurdo, da parte sua, macinare tutta questa
strada in auto solo per venire ad assistere alla corsa, e
razionalmente spero che non succeda. No, non accadrà. Tiro ancora
avanti, sempre più disfatta; l'obiettivo delle 24 ore si è ormai
dissolto da un po', ma anche quello delle 12 ore si allontana.
Scambio qualche parola con i colleghi, per dissimulare la stanchezza.
La signora dello yacht ha concluso da un po' il suo alacre lavoro;
pare che a bordo sia in programma, per la serata, un ricevimento.
Ormai
tiro avanti per inerzia. Ho fame, ma non riesco più a mangiare
frutta secca, dolci, formaggio senza sapore. Possibile che, nel Paese
dei millemila formaggi, non possano servirci altro che questo
sedicente formaggio di plastica? Corro, a tratti cammino, occhi bassi
e testa altrove. Quando sento quel "ciao", poco ci manca
che stramazzi a terra per lo spavento. Non ci posso credere... E'
venuto fin qui davvero! In tenuta da corsa, me lo trovo di fianco.
Sono così sorpresa che quasi non riesco a spiccicare parola, né
tantomeno a ringraziare come dovrei. Giorgio è venuto fin qui, ha
colto l'occasione per una puntata a Montecarlo con la compagna, per
essere al mio fianco per qualche giro. E portarmi una razione magnum
di focaccia. Non so se di tutto ciò sia più grato lo stomaco o
l'animo... So solo che non so da che parte cominciare per
ringraziarlo e per dargli un'idea di quanto sia importante la sua
presenza qui. Il guaio è che le mascelle sono troppo impegnate a
triturare la focaccia: i sentimenti sono importanti, ma le grette
necessità del corpo prendono il sopravvento. Il gusto della focaccia
è un dolcissimo, anzi salatissimo conforto; cancella la nausea
seduta stante. La compagnia è un'occasione per dare sfogo a tutta la
mia tristezza. Mi rincresce che Giorgio possa fermarsi così poco. Un
giro, due, tre, poi è ora, per lui, di recuperare la compagna
temporaneamente dispersa tra le vetrine e tornare a casa. Prometto
che farò il possibile per continuare: mollare stasera, a questo
punto, mi sembra un atto di bieca ingratitudine verso chi è venuto
fin qui quasi apposta per farmi un po' di tifo. Ma il "possibile",
questa volta, è proprio poco. Non è una crisi momentanea, di quelle
che si superano con la forza di volontà. Ho le gambe doloranti ed
inchiodate... E non sono ancora trascorse 11 ore. Come è possibile?
Non me lo spiego. Dov'è andata a finire la mia tanto decantata
resistenza alla fatica? Ormai cammino, più che correre. A nulla
valgono le accorate esortazioni dell'allenatore – assistente dei
Sanremo Runners. Ce la mette tutta, lui, per infondermi coraggio, ma
non ce la faccio più. E' vero, la sera e la notte porteranno via la
bolgia infernale; sarò più tranquilla, starò meglio. Già, ma io
non riesco più a correre. Forse potrei riprendermi, con una sosta,
un massaggio, un po' di riposo. Ma per me qui vige la legge del "chi
si ferma è perduto"; non avrei la volontà per trascinarmi
camminando per altre 12 ore. Potrei farlo, anzi ce la metterei tutta,
in un altro genere di gara, una bella corsa in montagna in cui c'è
un colle da superare, un ristoro da raggiungere, un traguardo che dà
emozione. Qua non c'è nulla di tutto ciò. Girare, girare e ancora
girare. Senza contare il fatto che prima o poi io qui faccio una
strage...
Ad
ogni giro, cerco convulsamente l'orologio. Attendo le 8; l'unico mio
desiderio è che arrivino le 8. Poi salterò in auto e me ne andrò
da questo posto disgustoso – odioso indipendentemente dalla corsa –
per non metterci piede mai più.
Giro
dopo giro, il mio traguardo si avvicina. Penso a domani, ad Alba,
alle mie colline. Ci arriverò con le gambe devastate, soffrirò
parecchio, ma non ha importanza. Sarò mille volte più felice.
Ennesimo
passaggio sotto l'orologio. Le otto. Ok, perfetto, è fatta.
Raggiungo il tappeto del cronometro in area di partenza, registro il
passaggio. Poi mi siedo, slaccio le scarpe, levo il chip
cronometrico, lo restituisco. Ed è la prima volta, nella mia lunga
anche se non troppo gloriosa carriera sportiva, che compio questo
gesto con incrollabile convinzione ed infinito sollievo. Mi sento già
molto meglio. Recupero il mio tavolino, la mia borsa; carico la Opel,
constato con gratitudine verso i gendarmi monegaschi che sul mio
parabrezza non compare alcuna multa. Speriamo che qui le multe non
siano occulte. Metto in moto e me ne vado, senza rimpianti. Tra un
semaforo e l'altro, mando un messagio a Giorgio: "Passatemi a
prendere domani, tu e Candido. Vengo ad Alba anch'io". Resta il
disappunto per aver ridotto le gambe in questo stato disastroso, al
punto da non riuscire più a correre. Non ne sarei così delusa, se
solo sapessi di aver percorso, in 12 ore, ben 116 km. Lo scoprirò
lunedì... A riprova del fatto che, con il nervoso in corpo, ho perso
qualsiasi buonsenso e prudenza nella corsa.
Mi
godo la guida tranquilla su per la Valle Roja, la solitudine
dell'abitacolo della Opel e della strada quasi deserta. All'imbocco
del tunnel del Tenda, il semaforo è rosso; c'è un po' di coda. Mi
rassegno all'attesa. D'improvviso scorgo due fagotti indefiniti, uno
a destra, l'altro a sinistra dell'auto che mi precede, vicinissimi.
Un parto della mia stanchezza? Strabuzzo gli occhi. Sono due volpi...
E ce n'è una terza, poco distante. Sono allibita... Le bestiole
fissano insistentemente i finestrini delle auto in coda, da cui
arriva qualche porzione di cibo della più varia natura. Ho ancora un
pezzetto di focaccia: abbasso il finestrino, allungo la mano. La
volpe non si fa pregare, prende il boccone dalla mano e manco ci
pensa, a dividerlo con le compagne. So di non aver compiuto un'azione
saggia: il comportamento di queste bestie è tutto fuorché naturale;
quel che è peggio, con simile fiducia verso gli esseri umani, le
volpi si espongono al rischio che qualche bipede idiota e criminale
faccia loro del male.
Mezzanotte
è passata da poco quando rientro a casa, accolta dai miei amori
pelosi. Crollo sul divano senza nemmeno pensare alla doccia ed entro
in coma. La sveglia suona alle 6, appuntamento alle sette e mezza: ho
un bel po' di incombenze da sbrigare. Quella doccia che qualche ora
fa ho saltato, ad esempio... Lunga, calda e confortevole. E poi il
bagaglio, le scarpe, le stesse Salomon che ho indossato ieri. Sul
sentiero, terreno per cui sono state pensate, a mio parere valgono
poco, ma su asfalto sono ottime e comode. Un po' di colazione, del
tutto insufficiente a reintegrare lo sforzo di ieri ed a fare da
serbatoio per la maratona di oggi. Purtroppo il frigo piange, è
vuoto, ed io sono troppo pigra per aver voglia di cucinare una pasta.
Infine, ecco l'inseparabile zainetto con cui correrò anche oggi.
Puntualissimi
arrivano Giorgio e Candido. Meno di mezz'ora e siamo ad Alba, accolti
da una fredda ma bellissima giornata di sole. Cammino con qualche
difficoltà: le gambe sono inchiodate proprio come ieri sera. Ma mi
do un contegno. Ritiriamo il numero di gara, accompagnato da due
invitanti bottiglie di vino: io non sono un'estimatrice e non ne
capisco nulla, ma conosco qualcuno che apprezzerà. Gli spogliatoi
del centro sportivo sono caldi e confortevoli, in piacevole contrasto
con il clima gelido della giornata. Attendiamo le 10, ora del via,
gironzolando per le vie di Alba, a caccia di un bar che sia già
aperto. Alla fine, ne troveremo due, con altrettanti caffè. Mi
sforzo di capire come e quanto le gambe potranno sostenermi; le
premesse non sono incoraggianti. Ma non è la prima volta che piazzo
una maratona in coda ad un'altra corsa lunga ed impegnativa: solo lo
scorso ottobre, mi sono trascinata al traguardo dell'Ecomaratona di
Cuneo dopo aver concluso, nella notte, i 110 km del Morenic Trail. E
in mezzo, quella volta, ho avuto niente più di un'ora di sonno...
Nonostante tutto, mi avvio alla partenza un po' titubante e con un
buon carico di preoccupazione.
Una
splendida luce illumina le torri, ma non raggiunge ancora la piccola
folla di atleti radunati sulla piazza del Duomo. Ragioni misteriose
ritardano la partenza; nell'attesa, registro previsioni e prospettive
di chi mi sta intorno. Una piccola folla, anche se molti si
limiteranno alla mezza maratona. Non che io sia lieta del ritardo:
qui si congela... Però trovo maleducati e fastidiosi i fischi che si
levano all'indirizzo dell'organizzatore, che parla dal palco.
Possibile che non si riesca ad avere qualche minuto di pazienza,
nemmeno quando si va in giro per divertimento? Prendiamoci un po'
meno sul serio...
Finalmente,
all'improvviso, si parte. Mi ritrovo a muovere i primi passi di
corsa: non mi ci vuole molto ad avere la certezza che sarà un
calvario... Le gambe sono pezzi di legno, pesanti, rigide; la gola
brucia; l'aria fatica ad arrivare ai polmoni. Calma, Gian. E' così,
all'inizio, ma vedrai che andrà un po' meglio, quando ti sarai
scaldata. Il mio timore, adesso, è restare indietro rispetto al
resto del gruppo: non siamo così numerosi da poter contare sulla
presenza di qualche collega di fatica sempre nei paraggi. Inoltre ho
l'impressione che, là davanti, gli apripista non si accorgerebbero
se l'ultima ruota del carro si staccasse. E, nel tratto iniziale, il
percorso non è segnalato o quasi...
Il
primo tratto si corre in mezzo ad un prato, a ridosso della città.
Subito il dolore al fianco destro, appena sotto le costole, si fa
sentire, prepotente. I posteriori dei miei compagni di corsa sono già
lontani; mi sorpassano tutti, proprio tutti. Le mie articolazioni si
muovono a scatti. Premo la mano contro il fianco, sforzandomi di non
sentire la fitta. Gian, mi sa che stavolta hai fatto una boiata. Se
non passa, come la mettiamo? Certo, nessuno ti obbliga a concludere
la maratona; puoi sempre ritirarti. Ma così, serviresti su un piatto
d'argento l'occasione ai tuoi detrattori: ecco, ha voluto fare la
spaccona e si è sgonfiata come un palloncino bucato... Per carità,
non è che io abbia dei detrattori. Non sono così importante da
avere dei nemici e credo che il mio prossimo abbia qualcosa di più
importante a cui dedicarsi, che non la ricerca della mia posizione in
classifica. E' la mia stessa delusione, quella che temo di più. E'
frustrante dover riconoscere di aver fatto il passo più lungo della
gamba: a proposito, dato il contesto, direi che questa è una
metafora azzeccatissima.
Si
rientra in mezzo alle case, al passaggio a livello ed ancora su
sentiero, questa volta in salita, però. Una volta tanto, sono ben
lieta di dover smettere di correre. Non sono proprio sola; un paio di
tapini, con me, ci sono. Guarda tu... Chi l'avrebbe mai detto che un
sentiero così aspro si potesse trovare qui, proprio a ridosso della
città? Fango, arbusti, foglie morte, fiato corto e mani a spingere
gioù le ginocchia. Spuntiamo sul crinale di una collina, nei pressi
di alcune ville che sono una favola già solo per il panorama di cui
godono... Vecchi edifici ristrutturati in modo magistrale, tettoie,
porticati, archi e volte in mattoni, un sogno. Un po' di asfalto, un
po' di strada sterrata; le gambe, per ora, sembrano accettare un
trotto appena accennato. Tutt'intorno le colline che conosco da anni,
come non le avevo mai viste; davanti, la strada bianca che sale e
scende dolcemente. Ben pochi concorrenti sono ancora in vista, gli
altri schizzati chissà dove.
Mi
ritrovo, non so bene come, sulla strada principale che da Alba sale a
Barbaresco con curvoni ampi e dolci; percorro questo tratto in
compagnia di una mamma genovese impegnata nella mezza maratona.
Chiacchiero e intanto corro: non voglio mollare, nonostante la salita
e la stanchezza. I muscoli caldi sono un po' più docili. Non riesco
a fare a meno di meravigliarmi per la splendida giornata... E di
ringraziare, mille e mille volte, la decisione di abbandonare quello
scellerato circuito di Monaco, quell'assurdo calvario, quel
disgustoso carnaio. Qui mi sento a casa, per nulla al mondo vorrei
essere altrove...
Giorgio
e Candido saranno già anni luce più avanti, a quest'ora. Del resto,
non potrei reggere il loro passo nemmeno se fossi fresca e riposata,
figuriamoci in questo stato. Ma del tratto che sto percorrendo
conosco ogni metro, per averlo salito tante volte in bici da corsa;
ogni metro, ogni cortile, ogni casa, ogni cane. Ancora in compagnia
della signora genovese, seguo le indicazioni che conducono verso il
centro del paese, di una bellezza struggente: l'itinerario prevede il
passaggio proprio sotto alla splendida torre, con tanto di piccola
scalinata da risalire: goduria massima per i miei poveri garretti. Ma
soffro stoicamente, anche perché poco oltre, mimetizzato tra i
banchetti del mercato, c'è il tavolino del ristoro, con Coca Cola,
succhi di frutta, the caldo e vino, più una quantità di frutta
secca di ogni genere. Mi allontano con le mani colme di noci e
nocciole: un breve tratto in salita mi ricollega alla strada
principale poc'anzi abbandonata. Ma è una breve illusione: sulla
sinistra mi attende una discesa molto ripida, giù per una strada che
deve aver visto l'ultima ripassata di asfalto ai tempi delle Guerre
Puniche. Una rampa lunghissima, in picchiata, tortura per le
ginocchia ed i muscoli induriti; ci sarebbe quasi da correre
all'indietro! Breve deviazione in mezzo ai campi ed ai pioppi,
passaggio sotto lo stradone e poi si torna lungo una bella strada
asfaltata, secondaria, per fortuna. Ho perso l'orientamento; so di
essere nei paraggi di Neive, ma non credo di esser mai passata di
qua. I nomi delle borgate non mi dicono alcunché.
Il
sole mi dona il suo tepore, nonostante la stagione fredda già
inoltrata; sgranocchio un Tronky rubacchiato all'ultimo ristoro. La
strada risale blanda, proprio in direzione di Neive: quasi mi
stupisco di come io riesca ancora a trottare bene in salita. In
lontananza mi pare di scorgere qualche altro corridore... Raggiungo
infine il bivio tra il percorso della mezza e quello della maratona;
a me, buona ultima, tocca svoltare a destra. La mia compagna di
viaggio, rimasta un po' indietro, si vede piccola piccola, in basso.
Proseguo in salita, ormai senza più il senso della direzione, ma
curiosissima di vedere dove andrò a finire. A Neive, proprio in
centro, tra i profumi invitanti delle trattorie ed i grappoli di
affamati che stanno per invaderle. Un punto di ristoro anche qui,
presidiato da simpaticissimi volontari che apprezzano senza dubbio il
mio pantaloncino minimo; si beve, si mangiucchia, si riparte, sempre
con un occhio alle frecce che indicano il percorso. Giù per un bel
viale, poi su per una strada che diventa sentiero e si inerpica tra i
filari delle viti. In cielo non una nuvola; la terra è secca,
polverosa. Ai piedi delle viti, quel che resta di grappoli scartati e
ormai avizziti.
Se
il senso dell'orientamento non m'inganna, ormai ho passato la metà
della corsa e dovrei quindi tornare verso Alba. Non mi rassegno a
camminare, in salita, ma il mio passo è molto lento e legnoso. Spero
davvero di farcela, fino alla fine. Ma sì, farcela sì, insomma,
credo. Quel che non so è se troverò ancora qualcuno ad attendermi
al traguardo! Lo sguardo si perde tra bellissimi casali ristrutturati
e ville nuove, ahimè, quasi inevitabilmente pacchiane e pretenziose.
Tra salite e discese in cui non so più dire come io sia girata,
d'improvviso mi ritrovo in un luogo familiare: Barbaresco, o meglio
la strada principale che vi passa accanto. Al bivio per località Tre
Stelle, un'ambulanza è pronta a ripartire: il punto di ristoro è
già stato sbaraccato. "Mi hanno detto che non c'era più
nessuno", esclama uno dei volontari. Beh caro mio, ti hanno
informato male... Imbocco la strada in salita, sulla sinistra,
inondata di sole; pian piano, al mio passo, corricchio, dissimulando
fatica e dolore con un enigmatico sorriso in stile Gioconda. Almeno,
nelle intenzioni. Non so se il risultato sia proprio quello.
L'ambulanza mi affianca, "Signora, vuole salire?". Salire,
io? Piuttosto striscio fino al traguardo... No no, non se ne parla
nemmeno. Non so se sono in tempo o fuori tempo, poco m'importa. Mi
dispiace per i tapini costretti a prolungare il loro turno di
assistenza, ma tirerò dritto! Chi si ferma è perduto!
Conosco
a memoria la salilta blanda e regolare fino al paese. Lì un punto di
ristoro ancora in piedi mi offre bibite, nocciole e noci, fantastico!
Via in direzione di Treiso: i garretti protestano fieramente, ma
sapere che ormai ho passato da un po' la metà mi mette di ottimo
umore. Lungo questo splendido tratto con vista a perdita d'occhio
sulle colline, scopro con piacere di non essere sola: poco avanti a
me, un puntolino ciondolante in assetto da corsa... E' un rivale! Non
è certo la prospettiva di giungere penultima anziché ultima al
traguardo che mi mette le ali ai piedi, quanto il sollievo di sapere
che, d'ora in avanti, non sarò più il solo bersaglio degli strali
dei volontari al seguito. La loro interminabile pena non è più solo
colpa mia... E le colpe si sopportano meglio, se spartite con altre
spalle.
Come
sempre, non mi sono data pena di consultare l'itinerario, prima del
via; così, oggi tutto è una sorpresa. Anche il piccolo "posto
di blocco" creato dai veicoli dell'assistenza: lì per lì, ho
l'impressione che vogliano caricarmi a forza su un'auto e porre
caritatevole fine ai miei patimenti.... Invece no, intendono solo
farmi, anzi farci, capire che qui bisogna svoltare a destra. Giù per
una ripidissima stradina asfaltata e poi, sempre sotto sorveglianza
di un volontario – ma quanti sono? - deviazione su sentiero. Il
panorama alla mia destra impone un istante di sosta: mi manca il
fiato... Uno spettacolo meraviglioso di muraglioni di sabbia, solcati
da profonde rughe; uno scorcio davvero meraviglioso, che io pur
passando molto spesso da queste parti in bici da corsa non avevo mai
visto... Il pannello delle informazioni spiega che questa
conformazione naturale prende il nome di "Rocche dei Sette
Fratelli", pare da una leggenda a sfondo religioso. Sono
talmente estasiata che quasi quasi mi dispiace andar via di qui... Il
bianco della sabbia di quelle pareti è abbacinante! Sembra uno
scenario creato ad arte per un film...
Via,
alla svelta, non c'è tempo da perdere. Mi butto a capofitto giù per
il ripidissimo sentiero, che altro non è che il taglio di un
tornante già ripido di suo, e ancora giù in picchiata, con serio
rischio per le articolazioni poco protette dai muscoli stanchi, tra
viti e nocciole, giù giù, tanto che sembra di precipitare in un
imbuto... Sensazione presto scacciata dalla vista di una bella
cascina, credo un bed&breakfast, che mi accoglie nel cortile al
cospetto di una sontuosa tavola imbandita. Ci sarebbe persino il
vino, ma mi accontento, si fa per dire, di una robusta fetta di torta
alle nocciole che è la fine del mondo, condita dalla simpatica
cordialità di chi assiste alle libagioni. Mi allontano di
malavoglia, leccandomi ancora le dita. Una ripidissima rampa
sterrata, degna compare della precedente discesa, mi richiama
bruscamente alla realtà: mi arrampico con i piedi, le mani ed i
denti, sorpresa e quasi stordita dalla cattiveria improvvisa di
questo strappo verso il cielo. E dinuovo ho perso l'orientamento...
Torno
a vedere il cielo all'improvviso, come se spuntassi fuori dall'orlo
di un pozzo. La vegetazione è ancora rigogliosa, nonostante sia
autunno inoltrato; fogliame e rovi non mancano. Chissà dov'è
l'inseguitore? In salita l'ho seminato... Ma ora una lunga discesa su
asfalto mi rimette in difficoltà. Corro come posso, mentre mi sforzo
di riconoscere la vallata in cui sto scendendo. Si risalirà
dall'altra parte? O si correrà lungo il fondovalle? La seconda
opzione è quella buona, ma lo scopro solo quando ci arrivo. Altri
volontari sorvegliano ancora gli incroci, mi chiedono come va. Va
benissimo, va, eccome! Località San Rocco Seno d'Elvio. Raccolgo le
forze che mi restano; mi concedo ancora una breve sosta al punto di
ristoro; corro, salgo e scendo per inerzia... I 120 km scarsi di ieri
reclamano giustizia. Mio malgrado, mi tocca abbandonare ancora una
volta l'asfalto, in favore di un lungo tratto sterrato in mezzo ai
campi ed alla boscaglia, un luogo davvero insolito a due passi dalla
città. Corro su un morbido tappeto di foglie secche, mentre altre
foglie planano a terra pigre. E' bellissimo, ma ormai s'insinua
sempre più impaziente la voglia di arrivare alla fine... Sono in
ansia, non so esattamente quanta strada manchi e m'impensierisco a
sentire le forze sempre più flebili. Ormai mi conosco, è un
classico alla fine di ogni gara un po' sofferta: "Ma possibile?
Ma dove ci fanno passare ancora? Quanto manca? Bastaaaaaaa!".
Ancora un po' di salita, passaggio in una località che riconosco per
averla già calpestata all'andata; discesa secca e planata su
Altavilla, di fronte al cancello di una meravigliosa villa d'epoca,
oggi albergo o qualcosa del genere. Manca solo l'ultima discesa su
asfalto, un paio di morbidi tornanti con vista sulle torri. Il bivio
per Manera, il passaggio a livello, la rotonda. Incredibile, c'è
ancora un'auto dei Vigili Urbani in attesa... Imbocco la via che va
verso il centro, cercando di farmi piccola piccola e mascherare lo
scempio di un arrivo in quasi cinque ore... Anche se sono più che
soddisfatta del mio risultato. Che importa quel che pensano gli
altri: le mie gambe sanno bene cos'hanno combinato!
Giorgio
e Candido sono in fiduciosa attesa; nel frattempo, si sono offerti
come sostegno per un numero imprecisato di ragnatele. Per non farli
penare oltre, punto diritta all'auto: la meravigliosa vetrina della
panetteria pasticceria sulla piazza mi attenderà invano... Ma è
l'unica, piccola ombra in una giornata da favola. E Monaco è già
solo più un brutto ricordo!