5 MAGGIO 2012 - IN MTB AL CORSO PER ISTRUTTORI DI TRAIL RUNNING
Eppure
il cielo sopra Carmagnola era bellissimo: stelle a non finire, aria
limpida, solo qualche sbuffo di nuvoletta qua e là. Già ad Asti,
però, in lontananza si scorge una coltre scura, appena percettibile
al buio. Man mano che mi avvicino, la prima luce rivela
l'inevitabile: è proprio una coperta, spessa e scura. Chilometro
dopo chilometro, è sempre più chiaro che Giove Pluvio è lì per
me. Mi sta aspettando. Non che sia una sorpresa, per carità; le
previsioni del tempo hanno annunciato un sabato e domenica di
tregenda e non c'è ragione per credere ad un errore. E' ben
possibile che si annunci bel tempo e che poi la giornata si riveli un
disastro meteorologico, ma non accade mai il contrario. Soprattutto
se io ho messo in cantiere un giro in bici.
In
vista del diluvio universale, non ho avuto dubbi nella scelta del
mezzo; niente bici da corsa, meglio la mountain bike: più stabile,
più sicura sull'asfalto bagnato e soprattutto affidabile, quanto a
frenata, sotto il diluvio come con il solleone. La fatica in più
sarà ben compensata dalla tranquillità del viaggio.
La
prima goccia di pioggia si spiaccica sul parabrezza non appena esco
al casello di Ovada. Ne seguono altre, per ora non troppo frequenti
né troppo grandi. Parcheggio in uno spiazzo appena prima
dell'abitato, scarico e ricompongo la MTB, con un occhio preoccupato
al fronte delle nuvole, nerissime, che dividono il cielo in due
sinistre metà. Non si può dire che faccia freddo, per essere le sei
del mattino, ma soffia un vento fastidioso ed insistente che piega i
ciuffi di papaveri spuntati chissà come in mezzo alla ghiaia. Io
vado proprio in quella direzione. Amen, è il caso di mettersi il
cuore in pace.
Mi
carico sulle spalle lo zaino, un vero macigno. Ci ho messo dentro
l'occorrente per la pioggia, le luci per il rientro al buio, un
cambio d'abito borghese; dovrò pur darmi una rassettata, quando
arriverò a Caprile. Se c'è qualcosa che mi turba più della
pioggia, è il compito che mi attende oggi, nel pomeriggio; ho
l'incombenza di partecipare al Corso per Istruttori di Trail,
organizzato dal vulcanico presidente della ASD Ergus, associazione
sportiva di cui sono tesserata nonché segretaria. Incombenza che
senz'altro è un onore, ma anche un gran patema per me, che me la
cavo forse benino con la scrittura, ma non ho affatto dimestichezza
con l'arte oratoria. Già, perché partecipo non come discente, ma
come docente... Mi sono state assegnate le parti sul materiale
tecnico e sulla gestione delle risorse fisiche e mentali. Per la
verità, avrei potuto partecipare al corso in entrambi i ruoli,
seguendo anche le lezioni tenute dagli altri relatori; anzi, sarebbe
stato senz'altro più rispettoso dell'impegno e della dedizione di
chi ha lavorato per creare questa prima edizione. Ma mi conosco; a
proposito di risorse mentali, le mie non sono sufficienti a
consentirmi di restare due giorni chiusa in un rifugio e seduta a
lavorare di cervello... Per quanto l'oggetto del corso sia una delle
mie più grandi passioni, darei di matto in brevissimo tempo.
Così,
ne approfitto per unire l'utile al dilettevole; il mio turno è nel
pomeriggio e, secondo i miei calcoli, dovrei avere ampio margine per
arrivarci in bici, anche tenendo conto della lentezza del viaggio in
mountain bike. Ripartirò dopo la lezione, credo intorno alle sei di
questa sera; tornerò all'auto con il buio.
Rimuginando,
mi avventuro verso Ovada. Il difficile è sempre l'inizio; so che da
qui devo salire a Tagliolo Monferrato, ma non ho idea di dove si
imbocchi la strada giusta. Chiederò informazioni... Individuo una
signora che cammina sulla passeggiata lungo il fiume, tenendosi
stretto il bavero della giacca per proteggersi dalle folate, con
l'aria di chi vorrebbe essere ovunque ma non lì. E' mia regola non
chiedere mai indicazioni stradali ad una donna, perché il meno
peggio che possa capitare è che non sappia rispondere... Ma a
quest'ora del mattino, con questo tempo di tregenda, non posso
permettermi di essere schizzinosa. L'esitazione con cui la madama
accoglie la mia domanda mi fa quasi perdere la speranza; d'improvviso
qualcosa si sblocca: "Deve andare fino in centro al paese, al
semaforo; prende il ponte sulla destra e...". Un attimo di
perplessità: "Con la bici può fare le salite?". Mi vien
da sorridere: difficile pedalare in Monferrato evitando le salite...
"Certo, sono qui per questo", rispondo. Visibilmente
sollevata: "Ah bene... Perché adesso le indico una salita".
L'eccezione che conferma la regola: le indicazioni della madama sono
perfette. Pochi minuti e mi ritrovo a salire in direzione di
Tagliolo, rampe secche che corrono tra bellissime ville e palazzotti
d'epoca. Non risparmio la tripla, fin da subito: mi attendono circa
90 km per arrivare a Caprile ed altrettanti per tornare indietro;
meglio risparmiare le forze.
Pioviggina
appena, per ora; le nuvole sono cumuli neri in continuo movimento,
rimescolati dal vento forte. Ampi squarci di sereno lasciano di tanto
in tanto passare qualche raggio di luce limpidissima. Non devo
nutrire la speranza di cavarmela; so bene che è pia illusione.
Tuttavia, per il momento va bene così.
Tagliolo
è un paesino bello e quieto; anche qui non mancano quei bellissimi
edifici d'epoca, in pietra, dalle linee solide e sobrie.
Tutt'intorno, colline dolci, per quel che la nebbia bassa lascia
intravedere. E' una zona che non conosco, questa. E sono ben lieta di
esserci, anche se sarà una gita turistica umida. Giù per una
discesa blanda, due curvoni in mezzo ai vigneti. Tutto tace, non
un'anima, né nel paese, né per la strada. Un ponticello e si torna
a salire. Certo, la mountain bike non è il mezzo ideale per le
salite su asfalto; se poi aggiungiamo il peso dello zaino, il
sovrappeso della ciclista e la mancanza cronica di allenamento al
pedale, guai. Ma sono d'umore troppo roseo per preoccuparmene. Il
verde della primavera, accentuato dalle piogge abbondanti degli
ultimi giorni, è meraviglioso; erba e foglie che crescono
rigogliose, quasi esplodono. Riprende a piovere a metà della
successiva salita, anch'essa dolce e breve. Pare che questa volta
voglia fare sul serio: uno scroscio in piena regola, un'auto con i
tergicristallo a pieno regime. Il paese è ad un tiro di schioppo; mi
incaponisco a voler trovare un piccolo riparo per fermarmi ed
estrarre l'armamentario impermeabile... Così, quando mi rifugio
sotto un balconcino in pietra, son già bell'e fradicia. Indosso la
giacca in goretex; faccio per ripartire, alzo la testa e mi vedo
davanti, al culmine della stretta strada in salita pizzicata tra le
case, una bellissima torre merlata, baciata da un raggio di sole
mentre tutt'intorno piove. Ci vuole una foto... Un'altra, senza
fermarmi, la scatto al complesso delle mura e del torrione. Lerma si
guadagna, a buon diritto, un posto nel mio elenco dei paesi che
valgono la pena di una visita.
Qualche
umano comincia ad avventurarsi tra le pozze ed il vento gelido e
capriccioso. Ancora discesa, in vista della prossima collina. Mi
colpisce, di questi rilievi, la dolcezza delle forme; sono molto
diversi dalle asperità di Langa e Roero. Ancora vigne, gelsi,
gaggie; di paese in paese, Casaleggio, Mornese. La nebbia sfuma in
lontananza i profili delle colline e dei campanili. Come sempre, il
mio sistema di riferimento teorico pecca nelle proporzioni; sulla
cartina, questo tratto di strada mi era parso ben più lungo, e
invece in quattro e quattr'otto arrivo a Bosio. Attenzione: qui
Matteo mi ha raccomandato di prendere la direzione di Gavi, piuttosto
che quella che avevo individuato io per Carrosio, Sottovalle e da lì
ad Arquata. Giustamente, non si fida delle mie doti di navigatrice, e
ne ha ben donde. Qualche km di discesa, sotto la pioggia che è
tornata ancora una volta intensa. Non smetterò mai di apprezzare la
mountain bike e di meditare su quanta inutile paura abbia patito per
tanti anni con le discese in bici da corsa... Tutta la mia stima a
chi ha inventato il freno a disco!
A
Gavi, sotto una fitta pioggia, seguo le indicazioni per Arquata, che
mi portano ad evitare l'abitato e superare un guado provvisorio in
cemento, quindi una galleria, in direzione di Serravalle Scrivia.
Rapido consulto della cartina, diligentemente stampata in settori da
Googlemaps, per confortarmi d'essere sulla strada giusta. Un tratto
di strada trafficata, in lenta salita, da affrontare con la pazienza
che il mezzo richiede; dai capannoni al bosco, fino ad un'altra
galleria. Discesa all'asciutto, anche se le ruote della bici tirano
su acqua sporca e fanghiglia a più non posso; anche qui, la distanza
si rivela molto più breve di quel che pensassi. In un battibaleno mi
ritrovo sullo stradone che collega Serravalle ed Arquata.
Il
neurone drizza le orecchie: eccomi in un luogo che ho già visto. Ad
Arquata ho messo piede, anzi ruote, in occasione di una randonnée di
qualche anno fa. Riconosco la rotonda, il negozio di bici, la
stazione ferroviaria. E riconosco pure che ho sbagliato strada, devo
tornare all'incrocio precedente ed imboccare la direzione
dell'autostrada. Dal casello di Vignole Borbera in poi, almeno per un
bel po' di km, non avrò più necessità della cartina: è strada
nota, percorsa forse un paio di volte in bici e più volte in auto
per partecipare al trail "Le Porte di Pietra", con partenza
ed arrivo a Cantalupo Ligure. Mi attendono lunghi km di falsopiano,
prima attraverso un pianoro da cui spuntano rilievi che sembrano
panettoni, anzi direi budini non troppo riusciti; non c'è un
digradare, il piattume della piana si interrompe netto contro le
pareti sabbiose e in molti punti infiocchettate di arbusti. Di tanto
in tanto spunta un gruppo di case, un paesello. Il meteo non ha
ancora deciso da che parte stare: le nuvole scaricano acqua, poi di
tanto in tanto si squarciano e liberano raggi di un limpidissimo e
caldo sole; giusto il tempo che la giacca si asciughi un po', e giù
altra acqua. Non ho levato il goretex nemmeno per un istante; oltre
alla pioggia, soffia un vento a tratti freddo e forte. In tutto ciò,
non manca il lato positivo; non avevo mai visto un arcobaleno
"intero", da terra a terra! Una foto è d'obbligo.
La
strada si infila poi sulla sinistra di un verdissimo e boscoso
canyon; buttando l'occhio oltre il guard rail si vede, giù in fondo,
il corso tortuoso del torrente. Lievi salite e discese precedono
l'abitato di Cantalupo Ligure. Qui il cielo è già più chiuso,
nero. Piove. Procedo lenta, lentissima. Li uso tutti, i rapporti a
disposizione, senza lesinare: non so quanto avrò da salire, di qua
alla meta, né di conseguenza quanto dovrò pedalare per tornare
all'auto, stasera. Non mi dispiace, questo ritmo di viaggio, affatto.
Sono sola e tranquilla; non c'è nessuno che smania perché gli tocca
rallentare ed attendermi. Al bivio successivo, imbocco la strada a
sinistra, verso Alice e Cabella Ligure. Ripasso nella memoria la
linea che ho tracciato sulla mappa; da Cabella in poi, non dovrebbe
mancare molto... Il guaio è che non ho alcuna idea circa
l'altimetria. So di essere già stata da queste parti, ma per il
momento la mia memoria è buia.
A
Cabella, scorgo tracce di vita ed un minuscolo mercato; ultima sosta
sotto l'ala per consultare i miei papiri, ormai sofferenti per la
pioggia. Devo seguire la direzione di Capanne di Carrega. Un cartello
giallo consunto, appeso al muro di una casa all'uscita della piazza,
associa quella località alla quota di 1.400 m circa: ecco, mi pareva
che ci fosse da salire... E parecchio! Proseguo con calma; un
messaggio di Matteo sul telefonino mi raccomanda di fare attenzione
al bivio tra Capanne di Carrega e Capanne di Cosola. Una volta tanto,
posso dire "lo sapevo già". Al bivio, brevissima discesa e
passaggio sul ponte; poi la strada s'infila nel bosco e non si vede
più. Non mi resta che affrontarla, con santa pazienza.
Quassù
ora la coltre di nubi è spessa e scura. La pioggia cade più decisa
e costante; la strada è invasa di ghiaia e terra, segno che il
diluvio è già all'opera da un po'. Goccioloni gonfi cadono dalle
fogle degli alberi, con mira di solito degna di un cecchino
s'infilano tra il collo ed il colletto della giacca. Miseriaccia. Il
mio inossidabile buonumore di oggi comincia a mostrare qualche segno
di cedimento. Salgo piano, con il rapportino; la bici è pesante, lo
zaino è un macigno, la ciclista è un pachiderma. C'è poco da fare,
con queste premesse. Con le lenti degli occhiali bagnate ed anche un
po' appannate, il mondo diventa una fotografia in bianco e nero per
giunta sfocata: ben presto perdo la cognizione del luogo e del tempo.
Il telefonino è ben protetto in un sacchetto e non ho alcuna voglia
di estrarlo per controllare che ora sia. In teoria, dovrei avere ore
di margine e davvero pochi km ancora da percorrere. In pratica, la
sensazione è che il tempo si stia restringendo e la distanza si stia
dilatando senza posa. Salgo e fatico davvero molto, ma più della
fatica patisco il cielo torbido, la pioggia, il vento cattivo, il
freddo sulla pelle, sotto gli abiti ormai fradici. E le mani... Bella
furbata, aver dimenticato i guanti.
La
salita è severa, a strappi. Mi sembra eterna. Ma quando finisce? E
dove? Non c'è anima viva qui intorno. Calma, Gian. Prima o poi deve
finire. E' il disagio che ti fa sembrare la rotta più lunga e penosa
di quel che è. Affronto una rampa, un'altra ancora, e intanto mi
perdo dietro a calcoli assurdi, basati su ipotesi altrettanto campate
in aria, per capire quanto possa mancare a Caprile... O almeno alla
fine di questa salita. Se poi si debba scendere e di quanto, lo
ignoro. Sull'ennesima rampa, mi rendo conto che sto procedendo, con
fatica immane, ad una velocità che non farei alcuna fatica a tenere
a piedi, con dispendio di energie molto minore: detto, fatto, salto
giù di sella e ci rimonto solo quando la pendenza cala decisa.
Una
curva rivela un minuscolo abitato, su cui svetta un campanile; la
pioggia concede un istante di tregua, come del resto la salita, che
si attenua per qualche centinaio di metri. Vedo alcune auto
parcheggiate lungo la via, ma di esseri umani nemmeno una traccia;
non un movimento, non un rumore, nemmeno un comignolo che fuma,
niente di niente. Un paese fantasma. E sì che dovrebbe essere ora di
pranzo... Nemmeno un cenno di profumo di cibo.
Si
sale ancora, curva dopo curva più in su, oltre al paese. Man mano
che si sale, la vallata, com'è ovvio, è più aperta; il vento
quassù la fa da padrone, gelido. Ho le mani rigide, e sono in
salita... Mi assalgono i pensieri più cupi: non ce la farò... Non
arriverò in tempo... Magari ho sbagliato strada... Cerco
disperatamente, tra le nebbie delle lenti bagnate, un indizio che
davanti a me riv eli la presenza del colle. Macché, ancora niente,
ancora una curva, ancora salita. E freddo.
Un
edificio sulla destra, forse un agriturismo o qualcosa di simile:
vuoi vedere che forse... Una lunga rampa tronca sul nascere la mia
speranza. Ma qualcosa nella memoria mi fa credere che questa sia
davvero la volta buona: in fondo, anche se finora non ho ricordato
nulla, io quassù sono già passata... E quello, mi sa, è davvero il
colle. Mi aiuta, in funzione di cardiotonico, l'intervento di un
cagnone pastore che esplode in un tonante abbaio proprio a pochi
centimetri dal mio polpaccio: s'è avvicinato alla chetichella, il
malefico... Mi fermo, lo redarguisco indignata: "Ehi piccolo! E'
così che ci si comporta? No, eh!". Devo sembrargli abbastanza
minacciosa, o forse al contrario per niente minacciosa, perché se ne
torna alla cuccia, brontolando. E a me tocca ripartire in salita,
impresa non facile se non si hanno i pedali a sgancio.
Il
colle è proprio un colle. Non c’è dubbio che la salita sia
finita, più in su non si va. Peccato che quassù la nebbia sia
fitta, peccato che io grondi acqua da tutte le parti e sia mezza
congelata. La strada prosegue in leggera discesa fino alla località
di Casa del Romano, anche qui, deserta. Il timore di essere sulla
rotta sbagliata è sempre più forte... Decido, non so se mossa dalla
speranza o dalla pigrizia, di proseguire ancora un po‘, prima di
tornare a consultare la carta. Tra l’altro, sotto questo diluvio,
sarebbe un problema… E‘ proprio vero che la fortuna aiuta gli
audaci. All’improvviso mi trovo davanti ad un bivio: cieca come una
talpa – gli occhiali son finiti in tasca già da un po‘ – ci
incollo il naso e leggo: Propata, 4 km. E‘ come se un immenso
macigno si sollevasse dalle mie spalle e dal mio cuore. Gioia
immensa… Caprile è frazione di Propata! E pazienza se mi
toccheranno, così ad occhio, quattro km di discesa sotto la pioggia
e con un freddo che già qui mi paralizza… Ora che so di essere ad
un tiro di schioppo dalla meta, non m’importa più di nulla. Mi
avvio con circospezione; ultimo breve tratto di leggera salita e poi
giù, a freni tirati perché non vedo proprio nulla. Non ho gli
occhiali e c’è la nebbia… Faccio fatica ad intuire le curve ed a
capire da che parte girano. Le mani sono pietrificate. Non riesco a
dominare il tremore. La strada scorre lentissima, ma se non altro è
sotto le mie ruote, quindi al posto giusto. Alberi, paracarri, un
recinto. Una figura chiara che si muove: quando ci arrivo più
vicino, mi accorgo che è una mucca. Toh… Il primo essere vivente
che incontro, da più di 20 km a quest aparte. L’animale rumina e
mi guarda, impassibile. Case, un campanile, un altro cartello che
devo fermarmi a leggere da vicino: Caprile. Ancora avanti. Qualche
centinaio di m oltre il paese, in discesa, poi ancora un bivio,
l’ultimo. Ringrazio la rampa in salita che mi porta alle quattro
case di Caprile. Un giro senza meta lungo i minuscoli passaggi tra le
case, salgo su su finché il passaggio muore in un cortile: guardo
più in basso, ecco il rifugio. Non mi è difficile riconoscerlo,
l’avevo già visto sul sito Internet.
Scendo
giù verso l’ingresso: per la mia MTB è il momento di riposare un
po‘. La pioggia è a dir poco torrenziale. Ed io, più tardi, dovrò
ripartire… L’angoscia mi assale al pensiero di tornare lassù,
sul colle. Con quel gelo… Quel diluvio… Quella nebbia. E se poi
fosse già tardi? E se venisse buio? Accantono il pensiero con la
lungimiranza che mi contraddistingue: mi preoccuperò quando sarà il
momento.
All’ingresso
della bella struttura in pietra, un losco figuro che riconosco come
uno dei partecipanti al corso. „Toh – gli dico – sei il primo
essere umano che vedo, da Cabella!“. Ero attesa, a quanto pare: in
verità, non avevo dato precise indicazioni circa l’ora del mio
arrivo. Non avrei proprio potuto. Appoggio il potente mezzo sotto una
piccola tettoia e seguo la mia guida verso una bella porta in legno:
l’accoglienza è delle più festose. Prevale l’istinto di
conservazione: prima ancora della piccola folla che saluta il mio
arrivo, tutta la mia attenzione si rivolge ad una meravigliosa stufa
a legna. Accesa, ovvio. Un po‘ stordita per la fatica e per il
contrasto tra la Siberia di fuori ed il caldo intenso, improvviso,
avvolgente, mi lascio trascinare dall’entusiasmo dei presenti,
primo tra tutti il mitico Andrea, Presidente della ASD Ergus, la
„mia“ squadra, nonché mente creatrice del Corso per Istruttori
di Trail Running. Neanche due minuti ed ho già a disposizione una
doccia calda, anzi bollente, al piano superiore, da raggiungere con
una bella e cigolante scala in legno.
Tutto
quel che ho addosso cola: lo zaino, gli abiti, le scarpe. Il punto
dolente è proprio quello: di scarpe e di pantaloni imbottiti ne ho
un paio solo… Come farò a ripartire in questo stato? Mah.
L’urgenza è quella di scaldare me stessa, in primis. L’acqua
della doccia è davvero rovente: quasi quasi faccio fatica a restarci
sotto. Me la godo per un’eternità, tanto da riempire di vapore
l’intera stanza da bagno. Poi, quando a malincuore ne esco, mi
ingegno per stendere gli abiti fradici su qualsiasi appiglio che
possa fungere da stendibiancheria. Scarpe, calze e pantaloni andranno
giù, accanto alla stufa. E‘ passata da poco l’una: mi aggrego ad
un’allegra tavolata su cui circola un pentolone di pasta con il
pesto. A dire il vero, mi sento a disagio, quasi fossi un’intrusa;
non certo per colpa dei commensali, che anzi si rivelano subito
persone molto semplici, affabili, alla mano, ma per il fatto che sono
poco abituata a trovarmi in compagnia. Per natura, amo e cerco la
solitudine: sarà che le relazioni „obbligate“, quelle che
intrattengo per ragioni di lavoro e di famiglia, colmano e superano
ampiamente il livello della mia capacità di sopportazione… Questa
volta, però, la mia innata diffidenza non trova terreno per
attecchire. E‘ proprio una bella compagnia, leggera e divertente.
Così, oltre allo stomaco, appago anche lo spirito. Impiego un po‘
di più a far risalire la mia temperatura; nonostante la scelta
strategica del posto più vicino alla stufa, non riesco a smettere di
tremare.
Il
Rifugio comprende alcuni edifici tra loro collegati; nel blocco in
cui ci troviamo, l’ampia sala al piano terra è stata dedicata sia
alle lezioni del corso che alla tavolata, mentre i cameroni al piano
superiore sono destinati alla nanna. Qui sotto, pareti e pavimento
sono in pietra, con due finestre che mi tolgono ogni speranza di
miglioramento del meteo. Continua a diluviare senza posa. Ma le due
finestre al piano superiore, sulle falde del tetto, rendono ancor
meglio l'idea...
Pasta
al pesto, torta salata, frutta, caffé, il tutto condito dalla
gentilezza e disponibilità dei gestori. Poi si passa a „fare sul
serio“. In realtà, i presenti han già fatto sul serio stamattina…
Prendiamo posto sulle seggiole sparse, sulle panche, sugli scalini.
Tocca ora alla lezione di Rocco, dedicata agli aspetti legali
dell’attività di accompagnatore e di istruttore. Lo seguo con
attenzione, sia perché il suo argomento mi interessa e mi
incuriosisce molto, sia per la sua stessa abilità di oratore. Riesce
ad essere tecnico e preciso senza risultare noioso, anzi, tutt'altro!
Se i relatori, ai convegni a cui partecipo per forza e non per
piacere causa lavoro, fossero vivaci la metà di lui, forse riuscirei
a non dormire... Di tanto in tanto, lancio un'occhiata al resto
dell'uditorio; sono tutti con le orecchie dritte. Non credo di
sbagliarmi, se azzardo la previsione che questo corso sarà un
successo... Sono contenta per chi ci ha lavorato tanto e, in primis,
per Andrea che ci mette un entusiasmo inesauribile.
Quando
tocca a me, l'ansia la fa da padrone. Non sono abituata a parlare in
pubblico, né tantomeno ad avere a che fare con gente che mi prende
sul serio. Prendo posto accanto allo schermo per le diapositive,
indossando un fantastico paio di babbucce di pile: meno male che il
rifugio è dotato anche di queste finezze... Altrimenti avrei dovuto
far lezione a piedi nudi! Le mie scarpe sono là, accanto alla stufa.
In testa ho una scaletta di argomenti lunga chilometri; ci penso e ci
ripenso da giorni, l'ho sviscerata ancora questa mattina, tra un
improperio e l'altro lungo la salita e sotto la pioggia. Ma
l'agitazione sbriciola l'edificio del mio discorso, peggio di un
terremoto. Mi rendo conto di essere ridicola; non trovo nemmeno il
fiato per parlare: sembra che qualcuno mi abbia legato un cappio
intorno al collo... Ho timore di risultare noiosa e scontata, di
esprimere concetti già triti e ritriti. Tutto quel che so, l'ho
imparato per esperienza, ma ho l'impressione che le persone che mi
stanno intorno ne sappiano già molto più di me. Chi si diletta con
le cascate di ghiaccio, chi con l'alpinismo di buon livello, oltre,
com'è ovvio, alla corsa in montagna. E non sono capace di grandi
voli pindarici; insomma, come oratrice... Un disastro. Per fortuna,
di tanto in tanto una battuta ed una risata stemperano la tensione,
cosicché i minuti scorrono e si portano via un po' d'affanno. Ma per
me sarebbe tanto, tanto più facile se, in luogo di una platea,
avessi di fronte solo un foglio bianco. Tutto quel che avreste sempre
voluto sapere, e mai avete osato chiedere, su zaini, scarpe,
bastoncini, abbigliamento tecnico, telo termico, riserve alimentari,
più qualche dritta per imparare a non gettare la spugna anche quando
si è cotti... La mia soddisfazione più grande è l'impressione che
i sorrisi soddisfatti di chi mi sta davanti siano davvero sinceri.
Quasi a malincuore mi decido a tacere: non tanto per mancanza, quanto
per dimenticanza di argomenti. Tutto ciò che ho dimenticato di dire
mi verrà in mente a valanga non appena sarò fuori di qui...
...già,
bisogna tornare fuori di qui. A causa di una modifica „in corso
d'opera“ del programma degli interventi, il mio turno è finito con
un'oretta di anticipo sul previsto. A seguire, la lezione dei due
rappresentanti del Soccorso Alpino: in verità, mi piacerebbe davvero
tanto restare ad ascoltarli... Ma, date le condizioni del meteo, è
meglio che mi rassegni a partire subito. Si tratta pur sempre di
un'ora di luce guadagnata, in una giornata in cui la copertura
nuvolosa farà sì che venga buio più presto del solito. Inoltre,
sembra che il diluvio voglia concedere una tregua... In quattro e
quattr'otto, onde evitare ripensamenti, mi preparo per tornare in
sella. L'essenziale – pantaloni con il fondello imbottito e scarpe
– è quasi asciutto. Le calze no, niente affatto. Mi terrorizza
l'idea di percorrere ottanta e passa km con le calze fradice... Metto
in moto il neurone, che una volta tanto non mi tradisce: infilo i
piedi in due borse di plastica; sopra le borse, indosso le calze che,
seppure bagnate, non sono più a contatto con la pelle e un minimo di
calore lo danno. Giacca impermeabile, zaino, luce frontale e
rifrangenti dappertutto: sono pronta per tornare fuori ed affrontare
l'avventura.
Il
cigolio degli scalini accompagna l'ultimo passaggio nel salone. Un
saluto veloce ed un grazie di cuore a tutti i presenti, in
particolare al gentilissimo "allievo" che, impietosito
dalle mie mani ignude, mi regala il suo paio di guantini da bici: non
ha nemmeno idea dell'immenso aiuto che mi sta dando! Quei venti km di
discesa quasi costante dalle Capanne di Carrega a Cabella sarebbero
un supplizio, senza guanti... Poi prendo il coraggio a quattro mani,
recupero la bici e torno in strada. Giusto il tempo di un saluto al
gestore che, con quella sua marcata cantilena tipica della parlata
genovese, mi chiede, perplesso: "Ma te ne vai già via? Ma che
strada fai?".
Soddisfatta
e ancora un po' stordita dalla bellissima esperienza, giù al bivio
scalo il rapportino e torno a salire, pian piano. Per ora non piove,
anche se il cielo gonfio di nubi grigie non lascia presagire nulla di
buono. Propata, il campanile e le quattro case; un anziano che carica
legna nel bagagliaio di una vecchia Panda; una rampetta, le curve, la
nebbia. Si respira acqua; le foglie neonate degli alberi si piegano
sotto il peso della goccia, che scorre lungo la vena centrale, resta
un istante sospesa sulla punta e poi piomba giù, di solito con
precisione millimetrica sulla lente del mio occhiale o nella fessura
tra giacca e collo. Chissà che sofferenza sarà la discesa... Ma il
timore non riesce a scalfire il mio buon umore. Sono raggiante, anche
se tutt'intorno la nebbia ha inghiottito il panorama. Quattro, cinque
chilometri di risalita: ancora l'abitato di Casa del Romano, abitato
per modo di dire perché non c'è traccia di presenza umana. Poi il
colle. Da lì, uno spettacolo meraviglioso e del tutto inatteso: sul
versante piemontese, ampi squarci di cielo azzurro tra le nuvole, una
luce soffusa, gialla, un contrasto netto e molto pittoresco con il
nero delle nubi. E il verde dell'erba di primavera che risponde e
risplende come se emanasse luce propria. Mi lancio senza freno giù
per la prima rampa, una vera e propria sfida al cagnone
dell'agriturismo: infatti, lo colgo di sorpresa; sfreccio davanti
alla sua cuccia e sono già lontana quando, voltandomi, lo vedo
schizzare fuori strepitando. Povero patatone...
Il
paesaggio è di quelli che meritano il disagio di qualche sosta, per
scattare foto. Nubi e limpidissimi raggi di sole si fanno compagnia;
la strada sotto di me forma ampi tornanti in mezzo ai pascoli. Sembra
un paesaggio di alta montagna: eppure qui siamo di poco sopra i mille
metri di quota. Scendo veloce, senza scomodare più di tanto i freni;
mi godo la fiducia incondizionata nella stabilità della MTB, che non
mi tradisce nonostante l'asfalto bagnato e viscido di terra,
pietrisco, rami strappati. Il vento sembra meno ostinato rispetto
all'andata. L'impressione di un ambiente selvaggio e deserto è
confermata: bosco, bosco a perdita d'occhio. Là in fondo, da qualche
parte, il fiume... Il freddo torna a farsi sentire, dopo tanti km
senza pedalare; freddo al torace, alla schiena, alle mani, alle gambe
che diventano subito rigide. Non vedo l'ora di arrivare giù, anche
se un po' mi dispiace lasciare questo luogo incantato. L'importante è
che non piova più...
Breve
risalita oltre il fiume, per tornare all'incrocio con la strada che
arriva dalle Capanne di Cosola. Pedalo verso Cabella, scambiando
messaggi con Matteo che è partito da Genova in auto per lasciarla,
pure lui, ad Ovada e venirmi incontro per un certo tratto, in bici.
Spero solo che si renda conto che il mio incedere è molto, molto
lento. Finché si scende, ovvio, va tutto bene, ma pianura e risalita
sono un pianto... Tocca rassegnarsi ed andar piano.
Fatico
a credere ai miei occhi, che svelano squarci di sereno sempre più
ampi. In effetti, da Propata a qui non ho più avuto il piacere di
una sola goccia di pioggia. Terrà? Nel dubbio, meglio affrettarsi a
mettere chilometri sotto le ruote. Il fatto che il ritorno sia sempre
più breve dell'andata non è un luogo comune, almeno in questo caso.
Si pedala davvero poco; il grosso del lavoro lo fa la forza di
gravità. In breve mi ritrovo a Cantalupo, con la luce del sole ormai
basso che illumina le strane montagne a picco sulla piana. Un
bellissimo tramonto mi accompagna lungo il canyon, con qualche breve
tratto di affannosa risalita, mentre la strada si popola degli
automobilisti del sabato sera. Passo attraverso nuvole di profumi di
cena, accanto ai dehors di bar e ristoranti, gremiti di persone, ma
non provo la benché minima invidia... Anzi! La mia felicità in
sella è quasi perfetta...
Da
Borghetto di Borbera ad Arquata, l'itinerario è un po' meno
piacevole; il viavai di auto è frenetico, la strada è piatta e
noiosa. In compenso, riesco finalmente a fare a meno della giacca
impermeabile: la temperatura è davvero confortevole... Il casello
dell'autostrada a Vignole, il passaggio ad Arquata, ai margini
dell'abitato. Mentre viaggio verso Serravalle Scrivia, sullo
stradone, scorgo una piccola luce che mi viene incontro alla velocità
di un motorino: eccolo... E' Matteo, che ha coperto la distanza da
Ovada a qui in un battibaleno. E infatti soffia come un mantice. Sono
contentissima di incontrarlo... Ma quasi altrettanto contenta di
incontrare le scorte alimentari che si porta dietro sempre in grande
abbondanza. Nel viaggio di andata, stamattina, non ho toccato cibo; a
pranzo ho mangiato, tutto sommato, pochino rispetto alla fame
accumulata. Ora sono già al secondo Mars, dalla partenza di Propata,
ed ho il pancino che ulula di solitudine...
Ripercorriamo
all'indietro, chiacchierando, la stessa strada che ho macinato questa
mattina. A Gavi, Matteo mi regala un bel giro turistico ciclistico
nel centro del paese, molto suggestivo. E' ormai buio fatto quando
cominciamo la salita verso Bosio. Il cielo è a chiazze; chiazze di
stelle fittissime e chiazze di nuvole che ancora resistono. Di tanto
in tanto, quattro gocce, ma qui Giove Pluvio non fa più paura;
troppo sfilacciate le sue nubi, per organizzare un bel diluvio.
L'aria pulita, limpidissima, permette la vista sulle lucine dei paesi
sparsi tra le colline; silenzio, solo qualche fruscìo, poche auto.
Le luci delle pile frontali, almeno in salita, possono addirittura
restare spente: fa capolino tra le nuvole una bellissima luna piena,
che cerco di fotografare, ma con scarso successo. Si chiacchiera ed
io mi dimentico persino la fatica ed il dolore dello zaino pesante.
Discese leggere e brevi risalite tra un cocuzzolo e l'altro: anche di
notte, bellissimo e suggestivo l'abitato di Lerma: le pietre delle
mura del bellissimo castello, illuminate dai fari disposti
tutt'intorno, fanno vivace contrasto con il nero del cielo. Mornese,
Casaleggio, l'aria fredda sulla pelle, sulle dita, sulla faccia. E
infine Tagliolo: certo, da una parte sono contenta di essere già nei
paraggi dell'auto, perché, volente o nolente, questi centonovanta km
in MTB con la pioggia ed il macigno sulla schiena hanno richiesto un
bello sforzo a cui non sono più abituata. Ma dall'altra parte avrei
voglia di imboccare un'altra salita, una qualsiasi, e prolungare il
giro in compagnia...
Matteo
decide di scendere ad Ovada per una strada diversa da quella che ho
percorso io in salita. Anziché passare dal centro di Ovada, ci si
ritrova accanto al casello autostradale. Momenti di panico al
pensiero di non ricordare più dove sia l'auto... Ma la Opel è
sempre una certezza, c'è, mi aspetta. Saluto Matteo, che ha
abbandonato il furgone a qualche km di distanza; neanche a parlarne,
proporgli di accompagnarlo in auto. Rapido cambio della maglia, per
lenire il senso di gelo che, lo so già, tra poco mi arriverà al
midollo. Poi via, autoradio a palla. Sono passate da poco le undici;
per l'una, poco più, sarò a casa, se tutto va bene. A nanna, ma per
poco: domani a Vigone c'è la Mezza di Varenne. Non si può dire che
la mezza maratona sia la mia specialità, ammesso che per me esista
una specialità oltre al sollevamento del cucchiaio di Nutella... Ma
andrò a Vigone in bici, in modo da scaldare un po' il cuoricino e
non partire proprio a freddo. So già che soffrirò, finirò in apnea
e rischierò di stramazzare. Ma Vigone è a un tiro di schioppo da
casa... Vuoi non partecipare?
Giorni dopo ho incontrato uno dei due volontari del Soccorso che erano presenti alla lezione: era ancora stupito ed incredulo per quello che ha visto di te.....
RispondiEliminaleggo sempre volentieri le tue avventure e ammiro la tua grande forza di volontà.
RispondiEliminaIo,comune mortale, già avrei problemi a sciropparmi 190 km da solo in bdc, figuriamoci in mtb , sotto l'acqua e con il buio.E il giorno dopo te ne vai in bici a fare una mezza maratona. bho ,x me sei proprio matta (nel senso buono) ma grazie x quello che ci racconti.
ciao .Ilario