“Non
stai bene?”.
“Figurati.
Per me, che patisco qualunque mezzo in movimento da chiunque condotto, questa
meravigliosa sequenza di curve, su da Limone e Vernante e poi giù per la Valle
Roja, con un migliaio di dossi talmente alti che solo Messner potrebbe
superarli senza l'aiuto delle bombole di ossigeno, è una vera goduria”. Lo
penso, ma non lo dico, anche se temo che il mio colorito verdognolo, gli
sbadigli continui ed irrefrenabili, i ripetuti cedimenti ad un sonno breve
quanto profondo lascino intuire qualcosa circa il mio stato confusionale del
momento. Io adoro guidare, davvero, guiderei qualunque mezzo su qualunque
strada, è un piacere quasi fisico, ma non posso pretendere di imporre sempre e
comunque la mia volontà, soprattutto se il mezzo di trasporto in questione non
è il mio. E poi, io amo guidare con la massima flemma, quella del pensionato
col cappello e l'acceleratore fisso sui 30 km/h: ma il viaggio di oggi è già
lungo... Quindi, alla fin fine, è meglio che guidi Matteo. Mi sacrifico.
Un
breve tratto di autostrada mi concede di tornare temporaneamente allo stato di
coscienza. I gendarmi, schierati in forze al passaggio della frontiera, non
sembrano interessati al nostro furgone: probabilmente abbiamo la faccia di due
che vanno a farsi la vacanza pasquale. Per fortuna non ci fermano per chiederci
le nostre intenzioni: altrimenti, ci arresterebbero preventivamente, in attesa
di accertamenti, perché chi progetta un attentato terroristico è senza dubbio
un soggetto pericoloso, ma anche chi ha in animo di partire per il giro del
Verdon di corsa a piedi non scherza.
La
sosta all'autogrill è d'obbligo: scendere dal furgone è un'impresa per cui, in
questo stato, mi servirebbero una corda ed un imbrago. Toccare terra in
posizione eretta è un successo: ora tocca raggiungere le toilette. E qui, il
primo successo della giornata. Dal bagno sulla sinistra esce un omone che
biascica qualcosa facendo segno, sia a me che a Matteo, di entrare nel bagno di
destra. Quello degli uomini. Io rimugino a voce alta: “Quello delle donne non
funziona?”. E l'omone si illumina e ripete, in italiano molto stentato: “Non
funziona!”. E già qui, se io fossi nel pieno possesso delle mie facoltà
mentali, dovrei immaginare che, se un uomo sta uscendo dal bagno delle donne
per entrare in quello degli uomini, non è perché il bagno delle donne non
funziona: semplicemente, è lui che ha sbagliato porta. Ma io raramente sono nel
pieno possesso delle mie facoltà mentali, soprattutto dopo tre ore di viaggio
in dolce compagnia del mal d'auto. Il temutissimo “bergiabau”, come si chiama
dalle mie parti. Quindi, sia pur tra mille titubanze, vinta dall'urgenza della
vescica, entro furtiva come un ladro nella toilette degli uomini. Ma
immediatamente si materializza un inserviente, maschio, che mi cazzia in
francese e mi riconduce sulla retta via, nel bagno delle signore, perfettamente
funzionante. Il fatto che ci entri pure lui è un dettaglio...
Insomma:
espletate le formalità corporali, riprendiamo il viaggio. Purtroppo. E
purtroppo, di lì a poco, abbandoniamo l'autostrada in quel di Grasse, per poi
affrontare, dopo quindicimila rotonde e relativo sbatacchiamento della
passeggera, la Route Napoleon verso Castellane. Come se non bastasse, Matteo,
di norma pilota calmo, riflessivo ed attento a minimizzare il consumo di
carburante, oggi dev'essere stato colto dal sacro fuoco del pilota di Formula
Uno e prende sistematicamente le curve su due ruote, mentre io non ho nemmeno
più la forza di protestare. Avremmo dovuto impiegare cinque ore di viaggio, ne
impiegheremo sei, sempre che noi si arrivi interi: pazienza...
La
mia agonia si conclude una dozzina di km prima di La Palud, al punto in cui la
strada che arriva da Castellane si biforca e, a sinistra, va verso Trigance
oltrepassando il ponte sul Verdon, mentre, a destra, prosegue diretta per La
Palud. Abbandoniamo il furgone su una piazzola: la temperatura, ormai da
parecchi km, non supera i 2-3 gradi, nonostante il sole sfavillante. Optiamo
quindi entrambi, io che partirò a piedi e Matteo che si avvierà in bici, per
l'abbigliamento lungo; io aggiungo anche la giacca antivento, perché sì, spira
anche un vento discretamente gelido.
Il
programma di viaggio per la giornata prevede questo: io percorrerò il giro
delle Gorges correndo prima lungo la Rive Droite e poi risalendo per la Rive
Gauche. Matteo partirà per il giro al contrario; mi incontrerà in un certo
punto, presumibilmente intorno al giro di boa geografico del mio itinerario;
poi farà il giro del Lac de la Croix, sempre pedalando; mi raggiungerà una
seconda volta e infine tornerà all'auto. Per me saranno circa 80 km di corsa
con, in sostanza, due punti di assistenza.
Sono
ormai le dieci quando ci salutiamo e ci avviamo per i rispettivi allenamenti.
Parto con un certo timore: fa parecchio freddo, tanto per cominciare, ed il
vento s'infila nella giacca. Poi, ho pochi allenamenti lunghi nelle gambe.
L'ultimo, da 77 km la scorsa domenica, è andato davvero bene, ma lì era un
circuito, con assistenza ogni due km. Oggi qui è tutt'altra musica. Quasi quasi
invidio un po' i pescatori appostati sulle rive del Verdon, che scorre alla mia
sinistra. Verdon di nome e di fatto: l'acqua ha un colore incredibile, non
sembra nemmeno reale. Un po', devo ammettere, è anche merito degli occhiali
fotocromatici, mia recente scoperta che ha un ottimo influsso anche sull'umore.
I colori rosso e verde, infatti, con le lenti scure risultano nettamente
accentuati e fanno vedere il mondo a tinte più vivaci del reale, cosa che io
adoro. Supero il ponte che abbiamo passato poco fa in auto: un cartello mi
avvisa che sono sulla “Rive Droite”. Il primo tratto, tutto curve come l'intero
giro del canyon, è di pianura, ma funestato dalle raffiche di vento che, quando
arrivano di fronte, hanno l'effetto di una mano appoggiata sul petto per
fermarmi. Poi la strada prende a salire, impercettibilmente, ma quel tanto che
basta per abbattere il mio morale già sempre provato dai primi km di qualsiasi
percorso.
Un
cartello, dal ponte, avvisa che la strada è interrotta da lì a 12 km. Più o
meno a La Palud, quindi. Non credo di dovermi preoccupare: penso che la
chiusura non impensierisca chi si sposta a piedi. Alcuni km di salita appena
più marcata, una breve discesa, poi ancora salita, su cui per ora mi sforzo di
correre: ma ci rinuncio ben presto. Passo svelto, più svelto possibile, ma non
sprechiamo inutilmente energie. Il traffico di auto e camper si fa intenso, per
quanto possibile da queste parti: ma la strada sarà poi davvero interrotta?
Dopo
l'Auberge du Pont Sublime, si comincia a salire, con ampie curve che fanno
guadagnare quota ma mi stroncano le gambe. Non ho ancora preso il ritmo, il
fiato, nulla. Cerco il lato della strada al sole, perché fa freddo anche in
salita. Non ricordo molto di questi chilometri che pure, in passato, ho già
percorso più e più volte in bici: e poi, in auto, in bici o a piedi, le strade
sono completamente diverse.
Al bivio
per la Route des Cretes, un cartello nella direzione di La Palud ribadisce il
concetto: “Route barrée”. Ma vedo che le auto passano lo stesso, quindi
proseguo la mia stanca corsa. Di lì a poco, appare La Palud, con la malefica
salitella che porta in paese. E qui si svela l'arcano: la strada è interrotta
perché, in centro paese, è stato completamente rimosso l'asfalto. Vedo un
furgone ed un'auto arrampicarsi su per una stradina sulla destra, con pendenza
al limite del ribaltamento: ci sarà un'alternativa... Ma io passo a piedi senza
alcun problema, dritta e determinata verso uno dei punti segnati con vernice
indelebile sulla mia personalissima mappa mentale dei bagni pubblici: la
toilette appena all'uscita dell'abitato, sulla destra, subito dopo la grande
vasca in pietra della fontana. Una delle cose che adoro, dei Paesi confinanti
con l'Italia – perché sono certa che in Francia, Svizzera ed Austria sia così –
è la densità di toilette pubbliche, tra l'altro quasi sempre molto pulite. Da
noi non esistono: si presuppone che le persone siano puro spirito, scevre da
volgari bisogni corporali. E, se esistono, sono in condizioni tali che una
contaminazione da Ebola è il minimo che possa capitare a chi ci mette piede.
Tappa
in bagno, con calma: ho macinato meno di 15 km, ma mi sento sfinita. Poi
riparto alternando corsa e passo svelto, perché la salita, sia pur blanda,
prosegue ancora per un po'. Nel frattempo, prendo nello zaino la mini-Colomba
pasquale che sbranerò non appena inizierà la discesa. Alla mia sinistra, il
canyon, profondissimo ed imponente, è sempre più vicino. Inizia, finalmente, la
picchiata verso Moustiers, quasi tutta a fianco del baratro, pareti
impressionanti di roccia che si stringono a picco sul fiume. E, all'orizzonte,
la vetta del Mont Ventoux, innevata. Una meraviglia da allargare il cuore.
Sbocconcello
la colomba a piccoli pezzi: credo siano tre etti abbondanti, con il cuore di
crema di cioccolato. Ho una fame che ne mangerei tre... Intanto, la discesa mi
dà l'illusione di star meglio e procedere spedita, anche se son sempre le gambe
a sostenermi. Gli occhi fissi sul fondo della gola rocciosa e, ogni tanto,
anche sulle vetture che mi arrivano di fronte. Breve pausa alla grossa fontana
in pietra sulla destra, per riempire la borraccia: anche se la temperatura non
è alta, il vento e la corsa seccano la gola. E poi, devo cercare di non patire
la sete, ancor meno che la fame.
Negli
ultimi km prima di Moustiers, la strada si allontana dal corso del fiume.
Guardando dall'alto, noto evidente un tratto di sentiero che si stacca, un po'
più avanti, dalla strada che sto percorrendo io e taglia drasticamente l'angolo
della rotonda di Moustiers, andando a scendere sulla strada di fondovalle,
proprio accanto al ponte sul Verdon, di fronte al verdissimo lago. Da quassù,
vedo nitidamente tutto il tracciato. Se lo imboccassi, mi risparmierei un bel
tratto di stradone: ma tra non molto dovrei incontrare Matteo che risale dal
fondovalle; rischierei di non trovarlo. Meglio non rischiare. Passo oltre il
bivio del sentiero, con un po' di rammarico.
La
parete di roccia lascia il posto al bosco, negli ultimi km prima di arrivare a
livello del lago. Proprio qui, intorno al mio 29° km di corsa, vedo comparire
Matteo che mi sale incontro, in bici. Approfitto per una pausa: da seduta, come
raccomanda sempre l'altra mia fida scorta ciclistica, Ivano. La pausa si fa da
seduti, a riposare le gambe mentre le ganasce lavorano. Uno yogurt, un po' di
focaccia, pane e maionese: e sì... Il tubetto di maionese mi fa compagnia nel
taschino dello zaino: anche se la sola idea fa inorridire quasi tutti i
podisti, io adoro questo alimento maialissimo, che leva la fame e la nausea,
almeno a me. Infatti ho già attinto durante la discesa, in verità. Sì, ho la
fortuna di uno stomaco che digerisce anche i sassi, nonostante lo sforzo.
Ancora
un po' di the dalla borraccia di Matteo: poi la pacchia finisce. Ci congediamo:
io scenderò giù fino al lago e poi, dopo un tratto di strada più o meno
pianeggiante, attaccherò la risalita verso Aiguines e la Rive Gauche del
canyon; lui farà invece il giro del lago. Ci reincontreremo, probabilmente,
quando io sarò ad Aiguines.
Ripartire
dopo una sosta è sempre una tragedia: scricchiola tutto... Per fortuna, c'è
ancora qualche tornante in discesa che mi aiuta a riprendere il ritmo. Alla
rotonda, giro a sinistra. E qui comincio a patire un po' il caldo: sono vestita
con maglia a maniche lunghe, pantaloni lunghi e calze al ginocchio della
Compress, un esperimento. Sono molto comode, in effetti, ma indossarle per una
corsa di una decina di ore forse è stato un azzardo. Amen, ormai è fatta.
Esaurisco in fretta l'acqua della borraccia: qui la quota è bassa e l'asfalto
dello stradone riverbera il sole limpidissimo del primo pomeriggio. Alla mia
destra, il lago, sulle cui sponde sono assiepati camper e tavolini da picnic.
Mi sforzo di tener duro, nonostante la fatica cattiva: è solo un breve tratto,
poi si tornerà a salire e quindi a riposare un po', camminando a passo spedito.
Raggiungo il ponte, sul Verdon, con uno splendido colpo d'occhio dal basso
sulla strettissima gola: ci sono alcune canoe. Ormai al bivio per Aiguines
dovrebbe mancare un chilometro o poco più.
Ci
sono, finalmente. Si svolta e si ricomincia a salire. E quindi, al passo. Su
questa pendenza, un occhio al Garmin, riesco a viaggiare intorno ai 5,5 km/h,
che tutto sommato non è neanche malaccio. Il dolore ai piedi che mi dà il
tormento da qualche mese è spuntato nel tratto di fondovalle ed ha tutta l'aria
di volermi far disperare: soprattutto il piede sinistro. Ogni appoggio è una
fitta sull'esterno: cerco di “storcere” il passo in modo da appoggiare la parte
interna del piede e, soprattutto, cerco di pensare ad altro. Fa ancora caldo e
la borraccia è ormai desolatamente vuota. Il punto critico del giro del Verdon
in effetti è l'acqua: ci sono pochissimi punti in cui è possibile riempire la
borraccia, soprattutto da questo lato del canyon. C'è una fontana ad Aiguines,
ce n'è un'altra prima del Col d'Illoire, ma le distanze a piedi sono lunghe.
Volendo percorrere il giro nella stagione calda, bisognerebbe trovare il modo
di portarsi dietro una bella scorta d'acqua, cosa che, per il podista, non è
facile.
Resto
a secco per i sei caldi km fino all'abitato. Ricordo che in paese la fontana c'è,
da qualche parte. Mi piacerebbe anche comprare una bottiglia di Coca Cola in un
negozio di alimentari: ma i negozietti sono chiusi. Sono aperti alcuni bar, ma
c'è troppa folla nei dehors. E' più forte di me: forse non è paura, ma certo il
mio è un profondo senso di disagio quando mi trovo in mezzo a tanta gente.
Preferisco, dopo qualche esitazione, tirare dritto, con la mia borraccia in
mano, a caccia della fontanella. Incrocio i passi di un omone dai tratti
marcatamente nordici, che mi chiede in inglese se io abbia bisogno d'acqua: in
tal caso, ne ha una scorta nell'auto parcheggiata proprio lì. Ringrazio, ma
vedo proprio in questo istante la fontana. L'omone mi chiede dove io sia
diretta: “Devo andare a Trigance”, gli rispondo. Vedo perplessità sul suo volto:
da qui a Trigance ci sono ancora 40 km...
Con
la borraccia piena, riparto. Per telefono ho sentito Matteo, che è in dirittura
d'arrivo. La salita qui si fa più ripida, ma ormai io ho il mio passo marziale
che mi porta su senza problemi, una volta placata la sete. Poche curve più su,
ecco Matteo alle spalle. Altra sosta, sempre da seduta, altro pasto caotico,
dal cioccolato al pane con la maionese, passando per gli amaretti ed il the. A
questo punto ho una tale fame che potrei incenerire qualsiasi cosa. 46 km ed un
bel po' di salita alle spalle. Ancora una volta, si riparte. Il programma, a
questo punto, prevede che Matteo raggiunga Trigance in bici entro le sei e
mezza, perché lì è il B&B prenotato per la notte; dovrà prendere le chiavi,
poi andare a recuperare il furgone, indi avvicinarsi con il furgone al B&B,
oppure venirmi incontro un pezzetto, visto che, a quell'ora, anche io non sarò
più molto lontana da Trigance. Programma complicatissimo e che presuppone una
velocità di crociera non indifferente per essere portato a termine, ma il bello
è che, in questo, Matteo è sempre una garanzia. E' sempre più veloce di
qualsiasi previsione.
Proseguo
a passo più veloce possibile, mentre, alle mie spalle, arriva una coppia di
ciclisti. Salgono a buon ritmo, ma si fermano ad ogni belvedere: del resto, da
quassù, lo spettacolo è impareggiabile. La strada che ho percorso prima,
dall'altro lato della gola, è talmente vicina che pare di poterla toccare
stendendo il braccio; le pareti rocciose sono impressionanti e paurosi sono i
salti di roccia verticali. Ho già percorso il Verdon più volte in bici, ma
girarlo a piedi è una scoperta, come non averlo mai visto.
La
temperatura è già scesa parecchio. Anzi, da questo lato delle Gorges, il sole
al pomeriggio su molti tratti di strada non arriva già più, lasciando il campo
libero al freddo portato dal vento: se non fosse che sono in salita e sto
cercando di menare i piedi il più in fretta possibile, in alcuni tratti avrei
quasi la tentazione di indossare la giacca. E' nettissimo il contrasto di luce
tra i tratti ancora al sole ed i tratti già in ombra. Il Verdon, là in fondo, è
un filo verdissimo, contorto.
Il
traffico è intenso, ma sempre cauto: pur con tante auto, tante moto e tanti
camper su una strada stretta e destinata a piloti arditi, oggi non ho corso il
benché minimo rischio. Ovvio: non è suolo italico, questo. Se fossimo in
Italia, avrei già fatto collezione di improperi e colpi di clacson.
Ormai
il Col d'Illoire è a poca distanza. Supero la grande fontana sulla mia destra,
ma questa volta non mi avvicino nemmeno, all'acqua: sono già abbastanza
intirizzita. Riprendo a correre, perché, oltre il colle, mi attende una lunga e
comoda discesa in cui sgranchire le gambe. Alla mia sinistra, davvero ad un
tiro di schioppo, abbarbicata sull'altro versante del canyon, la Route des
Cretes, la strada che compie un ampio e panoramicissimo giro partendo ed
arrivando a La Palud. Quello è il programma per domani. Adesso, la lunga
discesa mi porta ad allontanarmi pian piano dal tratto più aspro delle Gorges,
per raggiungere un bellissimo altopiano deserto, punteggiato da pochissime
costruzioni e da qualche gregge di pecore. Memorabile l'incontro con tre
meravigliosi pastori australiani ed un collie, di guardia ad un bell'edificio
in corso di ristrutturazione. I tratti di risalita sono brevi e molto dolci: mi
sforzo di correre comunque o, al limite, di alternare un tot di passi di
camminata ad un tot di passi di corsa. Il traffico è cessato all'improvviso, le
ombre si allungano. Sono io e solo io nel raggio di chissà quanti chilometri:
un silenzio quasi irreale, un paesaggio immobile, una meraviglia.
Raggiungo
il Pont de Soleils con le luci del tramonto: un gruppo di turisti si sporge a
guardare il vuoto sotto questa struttura eccezionale che congiunge due lembi di
terra separati da una profondissima crepa. Il corso d'acqua sul fondo non è più
il Verdon, rispetto a cui qui mi trovo parecchio spostata a destra, ma
l'Artuby. Scatto qualche foto, mi azzardo ad affacciarmi, ma per me, da sempre
terrorizzata dal vuoto e dalle altezze, non è spettacolo consentito. Ci sono
centinaia di metri di salto da qui al fondo: e pensare che, proprio da questo
parapetto, si pratica il bungee jumping. Esperienza che, nonostante la mia
paura, mi tenta moltissimo: ma tengo famiglia, madre e cani, non posso
rischiare così tanto per un capriccio.
Meglio
tirare dritto. Oltre il ponte, la strada riprende a salire dolcemente e, da qui
in poi, alterna tratti di lieve risalita a tratti più lunghi di marcata
discesa. Oltre una curva, una folata improvvisa ed inaspettata di vento mi
inchioda, come se avessi picchiato la faccia contro un muro. Subito dopo, due
brevi tratti di galleria buia, che non mi è facile affrontare: le lenti degli
occhiali sono scure per effetto della luce e, senza occhiali, io non vedo un
tubo... Cerco di sollevare bene i piedi per non inciampare e di superare in
fretta l'ostacolo. Di lì in poi, davvero viaggio nel nulla, un paesaggio forse
per certi versi sinistro, silenziosissimo, di bosco e prati senza fine. Ormai
sono le sei e mezza, circa; Matteo non dovrebbe più essere lontano, secondo i
miei calcoli. Faccio i conti con la fame ormai costante e le scorte alimentari
ridotte: trangugio, sempre correndo, una barretta al cioccolato e cocco,
seguita dall'ultimo residuo di maionese che estraggo a fatica spremendo il
tubetto. La strada torna a salire ancora: la pendenza è dolce, ma le gambe
cominciano a sentirne il peso. Forse, più che delle gambe, è colpa di un po' di
sconforto che mi assale a seguito della stanchezza. Venti passi di camminata,
cinquanta passi di corsa, venti di camminata, cinquanta di corsa; mi concentro
su questo e non penso ad altro. Ed ignoro i morsi della fame ed anche della
sete. Ormai sono a quota 65 km: ad onor del vero, i muscoli non sono così
provati come avrei immaginato, però... Insomma, diciamolo pure, ne avrei anche
abbastanza. Ecco. Mettiamola così: potrei correre ancora per un bel po', ma
dovrei prima fare una robusta cena e magari una doccia.
Coraggio,
Gian, tra non molto arriverà Matteo, con un mezzo o con l'altro. Tento di
capire fin dove la strada andrà a salire, mentre il sole si abbassa e le ombre
si allungano a dismisura. Qui siamo più ad ovest rispetto a casa, quindi il
buio dovrebbe concedermi un po' più di margine. E poi, mal che vada, ho la pila
frontale.
Mi
superano un paio di auto. In lontananza davanti a me, mi sembra di scorgere una
figura che scende. E' lui, è Matteo, finalmente. Anche se non è molto gentile,
da parte mia, ammetto che, in questo momento, sono felice di vederlo
soprattutto nella sua qualità di portatore di cibarie e conforto... Ha fatto
tutto quel che doveva fare e poi, siccome i 180 km percorsi durante la giornata
non gli parevano sufficienti, ha pensato bene di lasciare l'auto a Trigance e
pedalarmi incontro. Gli chiedo subito dell'acqua: ha di meglio, una
graditissima bottiglia di succo di frutta che ha il sapore di un miraggio.
Basta questo a farmi sentire già meglio, mentre si avvicinano la fine della
salita ed i 70 km percorsi. Sta per calare il buio: Matteo riparte per
recuperare l'auto e venirmi un pezzetto incontro, in modo da farmi lo “sconto”
di qualche km, mentre io proseguo a piedi. In discesa e con lo stomaco
momentaneamente tacitato, sto molto meglio e riprendo a correre di gran
carriera. Qualche km dopo il colle, imbocco il bivio a sinistra in direzione di
Trigance: do fondo a quel che resta delle energie per approfittare della
pendenza favorevole. E' ormai quasi buio quando scorgo i fari del furgone che
si avvicinano. 75 km esatti, neanche a farlo apposta: per oggi possono bastare.
Il
B&B è una struttura semplicissima e meravigliosa, così come la camera,
anche se ci vorrebbe una laurea in fisica nucleare per capire come far scendere
acqua calda dalla doccia. E poi la cena, come ai bei vecchi tempi: due belve
affamate all'assalto delle scorte portate da casa, sul tavolino della camera.
Pane, formaggio, crema di cioccolato, insalata di riso in rigoroso ordine
sparso; opera di accurata pulizia delle briciole e perdita immediata di
conoscenza sotto al piumone. Il programma di domani sarà un po' più leggero, ma
si dovrà comunque correre.