Gli
strizzacervelli sostengono che "esternare" sia un valido
aiuto per elaborare un lutto. A me, il verbo "esternare" fa
orrore; proporrei piuttosto di internare chi l'ha coniato. Tuttavia,
a parte la forma, sono d'accordo sulla sostanza: parlarne, a voce o
per iscritto, attenua il dolore. Ergo, eccomi qui, reduce da un breve
giro in mountain bike fino alle prime propaggini di collina, in quel
di Ceresole d'Alba e dintorni. Come ieri sera. Due tramonti molto
diversi, entrambi stupendi. Tormentato di nuvoloni neri dai contorni
incandescenti, incastonati su un cielo di metallo, quello di ieri, e
coronato da un arcobaleno intero, da terra a terra. Limpidissimo, la
luce di un incendio attraverso l'aria spazzata dal vento, una brezza
che sembrava il mare d'inverno, stasera. La corona delle cime
nettissima tutt'intorno; spiccava la guglia del Cervino, bellissimo,
anche da qui, anche se forse proprio oggi avrei dovuto essergli ben
più vicina, se tutto fosse andato come speravo. Ma è da un po' di
tempo che nulla va come io spero...
"Deve
rassegnarsi, signorina" commenta il medico, mentre armeggia con
provette e lacci emostatici. "Non ha più vent'anni". Con
il braccio sul tavolo del prelievo ed il viso girato da tutt'altra
parte, per limitare il rischio che il terrore mi faccia crollare a
terra come una pera matura, sono troppo avvilita per rispondere come
dovrei. E poi non posso reagire, la mia vena è alla sua mercè... Se
sono qui, è solo perché mi sento proprio con le spalle al muro.
Altrimenti, mai e poi mai mi sarei rassegnata alla trafila della sala
d'attesa, della ricetta medica, delle analisi. Il fatto è che, così,
non posso più andare avanti, proprio nel senso letterale
dell'espressione. Tutto ciò che desidero è tornare a correre come
prima.
Tutto
sembrava andare per il meglio, domenica mattina. Nove ore di sonno
profondissimo, nel minialloggio che Matteo e la mamma hanno preso in
affitto per la settimana della gara; colazione pantagruelica,
bagaglio organizzato, una volta tanto, nei minimi dettagli. Ultime
ore di vigilia di un appuntamento sognato per un anno intero, notte
dopo notte e giorno dopo giorno, fin dal primo istante successivo al
traguardo dell'edizione 2011; immaginato, rivisto, pensato,
raccontato, vissuto tra me e me in ogni attimo possibile, in coda
agli sportelli di qualche ufficio pubblico, nella quiete di un lungo
viaggio in autostrada negli allenamenti quotidiani, persino nella
concitazione di altre corse. Il cuore sempre, sempre lì. Ad un'ora e
mezza dalla partenza, non sto più nella pelle: seguo i preparativi
di Matteo, i suoi gesti lenti e studiati, con crescente
esasperazione. Non è umanamente possibile che si possa impiegare
tanto tempo per indossare un paio di calze o per legarsi le scarpe...
Io son pronta già da un'eternità! Sembra che lo faccia apposta, il
marrano; sento le mie pupille restringersi a capocchia di spillo.
Quando finalmente il sacro rito della vestizione sembra volgere
all'agognato termine, il maledetto produce un'idea geniale: "Ah
già, devo ancora preparare il the per la borraccia!". In un
sovrumano sforzo di autocontrollo, in omaggio alla presenza della
mamma, riesco ad evitare di commettere un omicidio con l'aggravante
della crudeltà, ma non ho intenzione di aspettare un attimo di più:
anche se la partenza è a un solo km di qui, prendo la porta e me ne
vado.
Cielo
terso, non fa nemmeno così freddo. Sotto l'effetto dell'ipnosi, mi
avvio verso il centro di Courmayeur, con il battito del cuore che
accelera all'unisono con il crescere del brusio. Un cagnone nero, a
pelo lungo, gironzola da solo lungo il viale e mi concede di fargli
qualche coccola; altri cani portano a spasso padroni dagli occhi
ancora appiccicati di sonno, benché siano ormai quasi le nove.
Corridori spuntano da ogni dove, dalle viuzze laterali, dai bar, soli
o in gruppetti o accompagnati dalle famiglie. Spero di non rimediare
troppe brutte figure... So già che l'agitazione mi impedirà di
vedere e riconoscere i volti noti; passerò, come minimo, per
maleducata. Conosco ormai Courmayeur come le mie tasche, neanche ci
abitassi da una vita: i suoi negozi, le vetrine, i bar. E la piazza
in cui, stamattina, campeggia la griglia di partenza del mio terzo
Tor des Geants. L'emozione è pari al primo, anzi peggio, se
possibile... Perché la prima edizione è stata una scoperta, la
seconda mi ha regalato un risultato per me lusinghiero... La terza, è
inevitabile, porta con sé la speranza di riuscire ancora meglio. So
benissimo che un Tor des Geants, 330 km per 24.000 m di dislivello,
non si potrebbe mai dare per scontato, nemmeno dopo averne concluse
dieci edizioni di fila, perché troppe sono le variabili in gioco,
molte di carattere personale, ma molte altre, troppe, del tutto
indipendenti dalla volontà e dalle possibilità dell'atleta.
Allenarmi e saper dosare le forze dipende da me... Incappare in una
settimana di tempo splendido o di tregenda no, com'è ovvio, ed è
cosa che può cambiare radicalmente le sorti della prova.
Già,
il meteo. A quanto sembra, non sarà favorevole come gli anni scorsi.
Non ci sarà risparmiata qualche solenne lavata. Del resto, in alta
montagna, il sole e le notti stellate non sono affatto la norma; sono
solo uno dei tanti scenari possibili. Seduta sul bordo del
marciapiede, scruto quel minuscolo spicchio di cielo che s'insinua
tra i tetti della via: se non altro, la partenza sarà calda ed
asciutta. Così piazzata, all'altezza dei miei occhi vedo sfilare
mani che stringono bastoncini e mani che armeggiano con macchine
fotografiche di ogni genere, dal giocattolo al marchingegno
professionale. E cagnoni di ogni taglia, foggia, mantello, razza o
non razza, tutti convenuti a salutare i loro amici umani un po'
suonati. Penso ai miei tesori pelosi: mai e poi mai li vorrei al via
di una corsa... Sarebbe troppo doloroso, benché momentaneo, il
distacco, forse più per me che per loro.
Il
brusio aumenta, un microfono gracchia, Matteo non si vede ancora. Ma
che fine ha fatto? Voleva prepararsi il the o piuttosto la ribollita?
Mi procuro un torcicollo per cercare di scorgere, tra la folla di
polpacci e ginocchia che vedo da quaggiù, la sua sagoma... Niente.
Amen, io non resisto più; mi alzo, malferma sulle gambe per
l'emozione, e raccolgo obbediente l'invito della voce del microfono:
gli atleti alla punzonatura. Faccio un po' fatica a riconoscermi
nella definizione di atleta, ma, se son qui agghindata in questo
modo, significa che, almeno formalmente, faccio parte della
categoria. Con il mio numero di pettorale, 99, ben esposto sulla
pancia, mi avvicino al gazebo, il braccialetto già orgogliosamente
esposto al polso destro, più prezioso per me di mille gioielli. Per
la terza volta, in un tempo che sembra volato, e che spero invece, di
tutto cuore, si fermi in questi giorni che mi attendono, diventi
lunghissimo, lentissimo, quasi eterno. E' proprio come se l'avessi
corsa solo ieri, questa gara. Le immagini, i paesaggi, le sensazioni,
le voci, tutto è vivo, nitido nella memoria. Mi fermo lungo il
corridoio di passaggio, un po' più sollevata dopo aver fatto il mio
dovere di registrazione; ma innumerevoli sono ancora i volti che
scorrono lenti ed ordinati, prima che compaia quello di Matteo.
Un
ronzio insistente ci fa voltare tutti con il naso all'insù: un
aggeggio che mai avevo visto in vita mia sta volando sopra le teste
dei corridori; è una minuscola telecamera, appesa ad una struttura a
croce con quattro eliche, una per ogni estremità, un aggeggio
radiocomandato che si aggira per la piazza, a svariati metri
d'altezza. In me si risveglia all'istante l'antica passione per le
macchine radiocomandate: all'epoca in cui, nei pomeriggi liberi della
scuola elementare, facevo correre una bellissima Chevrolet Corvette
in miniatura su e giù per l'orto della nonna, con rovinose derapate
tra le file d'insalata e passaggi assassini in mezzo alle piante di
pomodoro, coltivavo il sogno segreto di poter tenere tra le mani il
telecomando di un modellino d'aereo, di quelli alimentati a
cherosene, da far volare sopra i tetti di Carmagnola... Un desiderio
che già allora mi pareva talmente esagerato da non aver mai nemmeno
osato esprimerlo a mamma. Per un oggetto come quello che ora mi
volteggia sulla capoccia, avrei fatto follie...
Quando
ormai mi rassegno all'idea che abbia cambiato programma, ecco
arrivare anche Matteo, con l'espressione in viso del bovino condotto
al macello. Mi vien da ridere, perché oggi per me su tutto domina
un'euforia incontenibile... Sciagurata incoscienza! Il microfono
scandisce i minuti che mancano alla partenza, le ultime
raccomandazioni a cui nessuno presta più attenzione. Alla prima
telecamera volante se ne aggiunge un'altra, sorretta questa da una
struttura a forma di asterisco, con otto eliche che producono uno
spostamento d'aria impressionante. Il cielo, stamattina
affollatissimo, ospita anche alcuni parapendio a motore; il massiccio
del Bianco, immobile, osserva tutto questo sgambettare ai suoi piedi
e, ne sono certa, sorride divertito... Ciascuno dei minuscoli bipedi
brulicanti alle pendici del monte è lì con un suo motivo, un
obiettivo, addirittura una vocazione. Per me il Tor è tutto, non
saprei dire altro, è quanto di più straordinario la vita mi abbia
regalato: no, non esagero, è proprio così. Forse il buonsenso
suggerirebbe di dare più importanza ad altri aspetti, alla salute,
al lavoro, ecc. ecc.; tuttavia, è risaputo che, quando il buonsenso
veniva distribuito, io ho dimenticato di mettermi in fila. Al cuore
non si comanda...
Occhi
bassi che fissano le scarpe, proprie ed altrui; ce ne sarebbe per
fare un sondaggio commerciale su marche, tipi, preferenze... Gambe
scolpite, gambe tatuate, gambe prigioniere in quelle ridicole calze
multicolori che saranno indubbiamente utilissime per la circolazione,
ma così brutte... Ma non è più tempo di badare all'estetica.
Inizia il conto alla rovescia e via. Si parte, mi sembra di scoppiare
di gioia; mentre passo sotto l'arco, penso che non c'è nulla al
mondo che possa darmi un'emozione paragonabile anche solo ad un
centesimo di questa. Si comincia al passo, mentre la folla di
corridori davanti sfila nella strettoia; poi di corsa lenta, ma solo
per far figura davanti al pubblico che festeggia, solo fino al ponte
sulla Dora, perché c'è discesa. Le telecamerine volanti non ci
mollano un attimo; i bambini che fanno il tifo picchiando le pentole
sono forse gli stessi degli anni scorsi, e chissà se, tra molte
edizioni del Tor, li si rivedrà ancora, ormai universitari, a
picchiare le pentole...
La
salita al Col d'Arp comincia in coda, sul sentiero ripido e stretto.
Come in tangenziale di primo mattino nei giorni di lavoro, si procede
a strappi. Matteo è ancora qui alle spalle, tesissimo al suo
debutto, ma si vede lontano un miglio che frigge. Un po' l'ingorgo
infastidisce anche me, che amo prendere il mio passo e portarlo
avanti sempre uguale, ma è questione di poco. La colonna pian piano
si sgrana, il passo si allunga, nel fitto del bosco; il calpestio di
rami e foglie si sente lontano, a riprova di quant'è lunga la fila
di persone. 650 gli atleti al via, pare. I numeri non sono il mio
forte; mi pare che i metri di dislivello, per cominciare, siano circa
1.300 o poco più. E dire che conosco questa salita meglio delle mie
tasche!
Il
chiacchiericcio si allenta; qualcuno già cerca di passare avanti.
Matteo per primo, ma lui può... Io resto a ruota; mi permetto il
sorpasso solo quando è strettamente necessario per evitare il
"tappo". il primo strappo molto ripido, appena usciti dal
bosco, calma i bollenti spiriti; anche lungo la successiva strada
sterrata, nessuno si lancia a correre. L'elicottero ci segue da
vicino, fa la spola tra noi della coda ed il gruppo di testa, che a
quest'ora sarà già oltre il colle. Non vedo cavalli qui nei
paraggi, ma dovrebbero esserci; si percepisce forte l'odore. Si torna
sul sentiero, in mezzo all'erba, accanto ai ruderi delle baite ed al
solito tubo che da anni convoglia l'acqua e da anni in questo punto
perde, sempre con lo stesso ronzio. Piano, un passo dopo l'altro,
anche se l'entusiasmo suggerisce tutt'altro. Mi sento abbastanza
bene, ma... C'è un "ma", non ben definito. Speriamo sia
solo colpa della colazione abbondante, o della mia solita avversione
ai primi venti km di qualsiasi corsa. Per prudenza, meglio restar
tranquilla.
Il
vallone si apre in vista del colle; da rettilineo, il sentiero
diventa man mano più tortuoso, una serpentina sempre più stretta e
ripida. Cerco silenzio e concentrazione. C'è qualcosa che mi
tormenta, ma non capisco cosa. Non ancora. Scollino ed attacco la
discesa di corsa, ma solo in quei brevi tratti in cui il fondo è
sabbioso, morbido e tuttavia sicuro. Una corsetta blanda, poco più
di una marcia, con i bastoncini pizzicati sotto le ascelle e le mani
sulle borracce, sistemate sugli spallacci. Niente da fare, non ho
ancora trovato un sistema davvero comodo per portarmi appresso da
bere. La borraccia nello zaino è scomoda, devi levarlo ogni volta
che vuoi bere. Nelle tasche laterali, quand'è piena, pesa ed aumenta
l'oscillazione dello zaino in corsa, per quanto si voglia stringere
la fascia a vita. Sugli spallacci sarebbe perfetta, se solo stesse
ferma durante la corsa... Neanche a parlarne. Lasciamo poi perdere le
varie sacche idriche, scomodissime da sistemare nello zaino.
Con
questo incedere oscillante, tipo il leggiadro volteggiare di un
rinoceronte, attraverso il lungo pendio tra i pascoli. Non sono
tanti, i corridori che mi sorpassano, per il semplice fatto che
dietro di me resta ben poca gente. Quattro chiacchiere qua e là; al
ristoro, la prima agognata dose di Coca Cola, un po' di zucchero,
cioccolato, limone e via. Qualcuno già domanda di un massaggiatore:
cominciamo bene...
Riprendo
la discesa, sempre la stessa corsa molto regolare e lenta, giù per
la strada a tratti sterrata, a tratti asfaltata, tranne un tratto su
sentiero ripidissimo per tagliare un tornante. Sulle cime spuntano
fiocchi di nuvole: il meteo, per questa sera, ha annunciato
possibilità di temporali. Continuo a corricchiare lungo la strada,
appena appena, fino al bivio con il sentiero che conduce a La Thuile.
A fondovalle, il rumore sordo delle auto che passano sotto i
paravalanghe.
Brevissima
risalita in compagnia di due fanciulle ed una pessima sensazione.
Improvviso e penetrante il mal di testa. Poche ciance, sono appena
all'inizio, passerà... Non è il caso che mi spaventi, né tantomeno
che mi affretti. Va benissimo procedere con calma. Il sentiero torna
a scendere, attraversa il corso secco e pietroso di due ruscelletti,
per poi attraversare un tratto di bosco profumatissimo e raggiungere,
infine, La Thuile. Anche qui ci attende un folto pubblico festante.
Attraversiamo alcune viuzze secondarie, per restare lontano dal
traffico e raggiungere il punto di ristoro al palazzetto. La mia
sosta è brevissima, giusto il tempo di riempire le borracce e
mangiare un po' di zucchero ed un po' di formaggio. Uno sguardo alla
sala gremita di atleti che se la prendono molto più comoda di me...
Il mio cruccio, adesso, è raggiungere almeno il prossimo colle prima
che cominci a piovere; a giudicare dalle previsioni, e soprattutto
dai nuvoloni che si rincorrono in cielo, direi che non c'è tempo da
perdere. Mi fiondo fuori dal palazzetto, con la tazza colma di pezzi
di cioccolato e di fontina, un connubio agghiacciante.
Concluso
il tratto di asfalto, si passa sul sentiero dietro il campo sportivo.
Brevissima ma secca risalita ed io, ancora una volta, storco il naso,
ma taccio, anche e soprattutto a me stessa. Attraversiamo l'ormai
nota via di mezzo tra zona industriale e parco, con alcuni
stabilimenti circondati dagli alberi. Per la prima volta noto un
impianto che ha tutta l'aria di essere quello del teleriscaldamento:
e chi l'avrebbe mai detto, che si potesse avere anche in montagna?
Altra
breve risalita interlocutoria, qualche centinaio di metri in
lunghezza, su sterrato, per tagliare le curve della strada. La fatica
che sento ogni volta che devo riprendere a salire è quantomeno
anormale... Ancora un po' di asfalto in leggera discesa, uno di quei
tratti in cui mi ero ripromessa di provare almeno a corricchiare. Ma
non ne ho le forze. Gian, cavolo, vuoi stare calma? E' solo l'inizio,
avrai più o meno 20 km alle spalle, te ne toccano ancora 310. Cosa
vuoi che cambino, nella realtà dei fatti, i tuoi due passi di corsa?
Il
sentiero sulla sinistra, che imbocco tra gli incoraggiamenti della
piccola folla qui assiepata, segna l'inizio della seconda salita, il
Passo Alto, nomen omen, oltre quota 2.800. Tappa intermedia, il
Rifugio Deffeyes. Oltre il primo tratto pianeggiante, il sentiero
sale subito, aspro ed irregolare, tra i roccioni, nel bosco. Le
quattro parole che tento di spendere qua e là mi rendono evidente,
se ne avessi avuto bisogno, che in salita sto sprecando troppa fatica
e che mi manca il fiato. Quel che è peggio, il risultato di questo
gran dispendio di energie è quasi nullo. Tanti, troppi concorrenti
mi sorpassano in salita: non è un rammarico di carattere agonistico,
il mio; il guaio è che, in condizioni normali, non accade...
Insomma, la salita è uno dei miei pochissimi punti di forza. Oggi,
tutte queste grosse pietre, queste radici costringono a sollevare
molto i piedi, a spingere molto sui bastoncini, ed ogni volta è un
respiro profondo, troppo.
Nei
tratti in cui le fronde degli alberi lasciano spazio al cielo, quel
che vedo non è incoraggiante; una cappa scura, pulmbea, minacciosa.
Qualche goccia, qua e là, cade; s'è alzato un leggero vento che sa
di pioggia. Dannazione... Quest'anno ho messo nella mia dotazione
anche il poncho, ma per la prima tappa ho pensato bene di lasciarlo
nel borsone al seguito. Vuoi vedere che adesso mi servirà? Calma
Gian, calma... Hai comunque la giacca impermeabile. E poi, i pensieri
negativi assorbono energie preziose. L'unica speranza è che una
fettina di cielo sembra ancora sgombra; con un po' di fortuna, è
proprio nella direzione in cui andrà la corsa.
In
un tratto ripido tra gli alberi, il compagno d'avventura che mi segue
esclama: "Dai, facci ridere un po'!". Riemergo dal profondo
delle mie cupe elucubrazioni: ma che stai addì? Alzo la testa e
capisco: "Capperi! Non è un'allucinazione da fatica! E' proprio
lui!". Giovanni, del trio "Aldo Giovanni e Giacomo",
che scende in senso contrario alla gara. Appassionato pure lui di
corsa in montagna, sarà venuto a vederci!
Ormai
conosco bene il tratto aspro, impegnativo, tutto a scalini di questa
salita. Stavolta però ho la sensazione che qualcuno ne abbia
aggiunto un pezzo. Un po' aiutano gli incoraggiamenti degli
innumerevoli turisti che oggi affollano questo sentiero - e quanti
splendidi cani! - ma la fatica che provo non si cancella. Finalmente
il breve tratto sul pianoro, con vista sui laghetti ed un cielo che
fa paura. Urla e schiamazzi dai nugoli di tifosi che hanno scelto
questo tratto "comodo" per osservare la nostra marcia. Poi
si torna a salire, ma su un sentiero con fondo più praticabile.
Qualche tornante e siamo in vista dei cartelli gialli segnaletici, su
in alto. Dal bivio, faticosissima conquista, pochi minuti ed ecco il
ristoro al Rifugio Deffeyes.
Faccio
il pieno di Coca Cola e polenta, meravigliosamente disposta a fette
su un vassoio. E' vero, la polenta riempe la pancia dando però ben
poco nutrimento. Ma è troppo buona... Un po' di cioccolato, il pieno
alla borraccia e via, si riparte, mentre molti - più assennati di me
- si riposano ai tavoli del rifugio. Breve tratto in piano, una
pietraia attraversata da rigagnoli d'acqua limpidissima, e si torna a
salire. Non appena la pendenza torna positiva, sento il battito del
cuore quasi impazzire: un fiatone esagerato, una sensazione di
malessere in tutto il corpo. E non siamo ancora, credo, al trentesimo
km di corsa! Mi raggiungono altri corridori, sento il loro fiato sul
collo, mi faccio da parte per lasciarli passare... E il mio morale
scivola verso il grigio pesante del cielo ed il nero minaccioso della
sconfinata pietraia tutt'attorno. Quel che è peggio, questo tratto
di salita, fino al Passo Alto, è irregolare, a strappi. Accolgo le
ultime rampe come una liberazione, e non mi conforta affatto vedere
che c'è chi soffia più di me...
La
discesa, impegnativa e tecnica, per un po' mi distrae dalle fosche
riflessioni. E' una distesa di pietre, richiede un equilibrio che
certo io non ho, un lavoro certosino di occhi e bastoncini, anche se
in alcuni tratti è stata ben sistemata con le rocce piazzate a
scalini; manca un bel corrimano e poi è perfetta! Con mia gran
sorpresa, noto che, nonostante tutto, qui me la cavo meglio di altri,
che rimangono indietro. Sarà che le gambe sono ancora agili e
sciolte. Trovo anche da chiacchierare, mentre l'elicottero è tornato
a volteggiarci sulla testa. Un collega d'avventura, al primo Tor, mi
chiede notizie, s'informa sui miei programmi , in particolare
sull'argomento "sonno". Mah... Difficile fare progetti
precisi; tuttavia, se riesco, alla prima base vita farò una breve
sosta per darmi una rassettata e mangiare una sorta di cena; a Cogne,
seconda base vita, dovrei arrivare nel pomeriggio, quindi mi limiterò
ad una doccia, per non perdere ore preziose di luce, ed andrò a
dormire un paio d'ore al Rifugio Sogno, lungo la successiva salita.
Mi rendo conto che si tratta di una tabella di marcia ambiziosa, ma,
con un po' di fortuna, dovrei riuscire a rispettarla.
Dall'ultimo
tratto di discesa, con i primi alberi a far da contorno al sentiero,
si può osservare la serpentina di corridori appesi alla parete della
montagna, sulla prossima, temibile salita. Se non altro, fin qui non
ha piovuto... Ed al punto di ristoro dell'alpeggio Promoud c'è
dinuovo la polenta. Oltre alla provvidenziale toilette.
Dovrei
mangiare un po' di più, ma ho paura del peso sullo stomaco sulla
prossima salita. Ormai ho un'età, non posso più sostenere di
digerire anche i sassi come una volta, perlomeno sotto sforzo.
Riparto, non prima di aver coperto di coccole un bellissimo cane,
tipo Border Collie, legato ad una recinzione in attesa del padrone.
La bestiola è talmente esuberante da saltarmi letteralmente in
testa, tutta scodinzolante ed uggiolante...
Attacco
la salita con il morale un po' meno cupo e, mi sembra, le forze
rinfrancate. Uso tutta la prudenza di cui son capace, però. Il primo
tratto di salita nel bosco è ripido, a strappi; qui sono sola, mi
sento bene e ritrovo entusiasmo. Dai Gian. Va tutto bene. Il sentiero
prende poi una pendenza regolare, non eccessiva. Scruto le nuvole:
non si può dire che la serata si annunci serena e stellata... Ma
qualche sprazzo di azzurro si salva ancora. Vuoi vedere che, dopo due
anni di fulmini & saette, al Col de la Crosatie stavolta si
arriva asciutti? Non tira neppure vento; l'aria è quasi immobile.
Ormai si fa sera; per quanto la coltre di nubi e le mie lenti ancora
scure - ho notato che gli occhiali fotocromatici, con il freddo,
impiegano più tempo a recepire le variazioni di luce e di
conseguenza a schiarirsi - mi facciano sembrare la sera più buia di
quel che è in realtà, devo comunque considerare che la notte mi
coglierà nella prossima discesa. Tutto sta a vedere a che punto del
sentiero.
Mi
raggiungono due atleti: il primo, un francese, passa avanti; il
secondo preferisce restare a ruota, apprezzando il mio passo lento ma
regolare. I tornanti si susseguono, sempre più stretti, fino a
ridursi a pochissimi metri tra una curva e l'altra. Penso con timore
al tratto che ci attende tra pochissimo: tutta roccia aspra, a
scalini, con passaggi molto esposti, l'ideale per chi, come me, ha
poco equilibrio ed il terrore del vuoto. Se non altro, stasera non ci
sono fulmini che schioccano nei timpani, né roccia bagnata e
scivolosa. Quindi, affronto con rassegnazione le corde, gli scalini,
i tratti da superare con il paraocchi per non guardare giù. Carpisco
un frammento di discorso alle mie spalle: qualcuno afferma che,
nonostante la fatica e la stanchezza, non vorrebbe trovarsi su una
spiaggia di Rimini nemmeno a pagamento... Purtroppo non ho il fiato
per manifestare la mia approvazione!
Il
suono di un flauto sconcerta le orecchie dei presenti. Un flauto?
Qui? Fenomeno di allucinazione collettiva? Eppure non è ancora
trascorsa una notte... No no, il flautista c'è davvero, seduto su
una pietra, a pochi metri dal colle. Al cippo, il collega che mi ha
seguita per buona parte della salita mi fa i complimenti: "Bel
passo, ragazza". Parole che su di me hanno l'effetto del
turbo... Mi lancio a capofitto, per quanto mi è possibile, giù per
la discesa. Per fortuna, sia il fondo che la pendenza sono
tollerabili per le mie scarse capacità. Vorrei macinare più strada
possibile, prima che il buio renda indispensabile la pila frontale.
Raggiungo il primo lago e la mia Petzl è ancora nel marsupio: un
rapido calcolo mentale mi porta a pensare di avere un po' di
vantaggio rispetto all'anno scorso; quando son passata qui, dodici
mesi fa, era già buio pesto. C'è anche da dire che pioveva. Questa
sera, un paio di colpi di tuono ce li siamo concessi, ma nulla più,
almeno finora. La discesa è lunghissima, quasi eterna; le luci del
paese, sempre giù in fondo... Ma non ci si arriva mai. Con sorpresa,
l'ultimo tratto di un paio di km si corre su asfalto. A Planaval, il
punto di ristoro, a cinque km circa dalla prima base vita di
Valgrisenche. Mi fermo qualche istante per indossare la giacca,
mangiucchio e riparto. Quasi subito, la marcia mi riporta a quella
strana sensazione: passo un po' impastato, fiato un po' corto.
Strano, considerato il tratto di pianura e poi la salita finale,
davvero blanda. Forse è colpa dell'abbigliamento sbagliato; temevo
di patire il freddo, ma mi sono coperta un po' troppo. Almeno, cerco
di convincermene... Nei brevi tratti di discesa, provo a correre, ma
le gambe rifiutano. Non le forzo. A Valgrisenche accendo il telefono
quei pochi istanti che bastano per chiamare mammà, anche se sono le
dieci e quaranta; "Sei già lì? - risponde, con la voce un po'
melmosa per il sonno - "Allora quest'anno lo fai due volte il
giro!". Se solo immaginasse, se solo immaginassi...
Alla
base vita di Valgrisenche trovo, puntualissimo, il borsone giallo e
conquisto la prima spillina. Un'ondata di felicità mi travolge: e
una... Scortata da uno degli instancabili volontari, scendo nel
locale dedicato a chi vuol darsi una sistemata, senza però far la
doccia. Stendo qualche istante maglia e canotta ad asciugare; mi
ripulisco alla bell'e meglio con i fazzolettini bagnati; stendo un
nuovo strato di Pasta di Fissan sui piedi; metto nello zaino il
poncho. Tappa toilette con tanto di lavaggio denti: sì, prima di
andare a mangiare, è vero, ma non ha molta importanza; tanto, in
questa corsa si mangia in continuazione... Trovo diversi volti amici,
sia nello spogliatoio che a tavola. Un piatto di pasta, un uovo, due
pezzi di crostata, due lattine di Red Bull che tracanno un po' nella
speranza di un aiuto per la notte, un po' per golosità smodata nei
confronti di questa bibita. E un po' di cioccolato in tasca, da
sgranocchiare salendo.
Dovrei
concedermi più tempo, più pause, lo so, ma non ce la faccio. Un
attimo dopo sono già fuori. Mi avvio verso la terza salita, il Col
Fenetre. Una voce nella notte: mi raggiunge Ernesto, l'angelo custode
che l'anno scorso mi ha trascinata lungo l'ultima salita e fino a
Courmayeur a velocità per me fantascientifica. Attacchiamo la salita
ridendo e scherzando, in compagnia di un terzo elemento che insegue
la moglie in fuga. Lunga e ripida salita nel fitto del bosco. Gocce
mi colpiscono la gamba sinistra: che piova? Eppure è strano...
Cadono sempre lì? Probabilmente è colpa della borraccia sistemata
sullo spallaccio sinistro. Sarà bucata. Meno male!
Un
tratto della salita taglia in verticale un pendio erboso. Vedo salire
i fari di un auto... Ma guarda tu, non mi ero mai accorta che qui
passasse una strada. Alzo gli occhi al cielo; un bellissimo
firmamento di stelle... Esulto. Ancora bosco e poi un tratto di
salita irregolare, sotto il cielo aperto. Il Rifugio nonché punto di
ristoro spunta all'improvviso dietro una spalla erbosa. L'intenzione
è di fermarsi lo stretto necessario per bere qualcosa di caldo, poi
ripartire subito, per non rabbrividire. In effetti, trangugio
volentieri una tazza di the... Ma non tocco quasi nulla di solido,
non ne ho voglia. E non è un buon segno.
Mi
rimetto in cammino un attimo prima di Ernesto, che mi raggiunge.
Breve tratto di strada sterrata, un paio di curve, poi la salita
riprende. Il mio compagno di viaggio è perplesso: ma non si doveva
scendere, adesso? No, niente affatto, c'è ancora un bel tratto di
salita. Solo che nemmeno io lo immaginavo così lungo e così duro.
Contro il cielo nero s'intravede appena la sagoma della montagna, il
contorno lo disegnano le stelle. Il passo è all'incirca lassù... Ma
è un "lassù" che non arriva mai. Nel giro di pochi
minuti, il mio passo diventa estremamente pesante, lento, impastato;
il fiato sembra non giungere più ai polmoni, per quanto io sbuffi
come una ciminiera. Le gambe non vogliono più scorrere una davanti
all'altra; ogni minimo muscolo è pervaso da un senso di fiacca
impressionante. I metri diventano chilometri, altri corridori mi
sorpassano; solo Ernesto rimane alle spalle, forse non s'è ancora
accorto di nulla, forse ha pietà di me. Il panico mi travolge. La
fila delle lucine è lontanissima, là in alto... Come ci arrivo, io,
lassù? Pianto i bastoncini con rabbia, ce la metto tutta, ma
l'andatura è sempre più goffa, il respiro sempre più affannoso.
Mal di testa improvviso e penetrante, un senso di nausea altrettanto
violento; qui va a finire che tra poco svengo...
Mi
sembra siano passate ore di tormento, quando finalmente la frontale
illumina l'ultimo tornante. La discesa non aiuta: un lungo tratto
corre su un sentierino che ha sì un buon fondo, ma una pendenza
severa e, quel che è peggio, il baratro al fianco. Ho il terrore di
scivolare, soprattutto in questo stato, con le gambe malferme ed i
capogiri. Ma mi spiace rallentare Ernesto; faccio del mio meglio per
scendere. Ma non c'è verso, la stanchezza non mi molla; inaudita
tribolazione giù per questa discesa infernale, che ad un certo punto
diventa tutta pietroni, sconnessa, ostica, odiosa. E non finisce
mai... Non finisce mai, anche se Rhemes sembra lì sotto ad un tiro
di schioppo. Nausea, brividi. Mi costano tanta fatica persino quelle
poche centinaia di metri in pianura, su asfalto, per arrivare al
ristoro.
Ernesto
patisce il sonno, decide di fermarsi qui a dormire un po'. Io vado a
caccia di caffé, una tazzona colma e con tanto zucchero; la bevo
d'in piedi, in un misto di confusione, smarrimento, preoccupazione.
"Non ho più forze", rispondo a chi mi chiede come va... E
non lo dico così, tanto per dire. Provo a mangiar qualcosa, ma la
nausea me lo impedisce. Riempo di cioccolato e biscotti vari il
sacchettino che porto appeso alla cintura dello zaino, nella speranza
di approfittarne quando starò un po' meglio, ma... Quando?
Ho
fretta, ho paura. Mi tuffo fuori, nella notte, verso la quarta
salita, ma non mi ci vuole molto per capire che sarà dura.
Durissima. Bastano i primi metri di sentiero. Portare avanti i piedi
è uno strazio. Calma Gian... Calma. Sali piano, piano quanto basta.
Annaspo, proprio come i pesci cavati via dall'acqua, eppure sembra
che l'aria si fermi in gola. Il battito del cuore, per un nulla,
impazzisce, la gola brucia. Il Col Entrelor non è tenero, sono
d'accordo, ma a me sembra di affrontare la Nord dell'Eiger...
Rallento a dismisura, medito i passi, salgo al buio e non so dove
sono, né quanto manca. Sembro il classico assetato che striscia nel
deserto. Tanta, troppa gente mi raggiunge e passa oltre. E lo
sfinimento gonfia i pensieri negativi a dismisura. Calma, calma,
calma, più calma di così... Dentro il bosco, fuori del bosco,
passata quota duemila metri. Un cielo stellato meraviglioso suona
quasi come una beffa. Qualcuno s'accoda; ormai non mi sposto nemmeno
più per lasciarmi superare; ogni minima variazione di questo ritmo
penoso mi costa un dispendio di energie eccessivo. Passeranno se e
quando potranno... Due compagni di avventure restano dietro: così
facendo, buttano benzina sul fuoco della mia inquietudine, anche se,
poveretti, non lo possono sapere... Mi affanno ancor più per non
rallentarli, ma rischio davvero che il mio respiro diventi un
rantolo. Il sentiero è sempre più ripido, sempre più ripido, non
ce la faccio più... Le lacrime ormai annebbiano quel poco di vista
notturna che ho. Uno dei due corridori passa avanti; provo a
seguirlo, ci riesco per un po', ma a prezzo di una fatica
distruttiva. Mi incoraggia, dice che mancano meno di seicento metri
di dislivello: in queste condizioni, per me, un abisso... Dai Gian,
devi stargli dietro, devi. La puntura nel petto, sul fianco, tra le
costole, si fa sentire perentoria, mi toglie quel poco di fiato. La
voce squillante di Ernesto, che mi ha già raggiunta, è il colpo di
grazia al mio morale già sottoterra...
Ormai
non posso più nascondere a me stessa la verità. Quel che mi sta
succedendo è lo stesso malanno che mi ha colta alla "24h del
Parco Sempione", a Milano, a giugno, e poche settimane dopo
all'Ultrabalaton; finite entrambe in ambulanza, alla diciassettesima
ora di gara ed al centesimo km rispettivamente. E poi, a fine luglio,
all'Ultra Tour du Beaufortain, dove non ho avuto bisogno di soccorso
solo perché, dopo cinquanta km di fatica e di pena, sono stata
fermata per aver oltrepassato il cancello orario... Ma speravo, dopo
un mese e mezzo di cura con un buon integratore e, sì, anche un po'
di riposo, di esserne fuori. Ad agosto, le due maratone a Foglizzo,
il giro del Monte Bianco, la Susa Susa in bici, il giro del Monviso,
ancora domenica scorsa i cinquanta km in Roero, e stavo bene...
Invece no, non ne sono fuori affatto. Non abbastanza, perlomeno.
La
situazione precipita nell'ultimo tratto di salita. Sono costretta ad
alternare il passo alle soste, mi sento soffocare, sempre che prima
non mi scoppi la testa. E non riesco a fare a meno di piangere...
Ernesto dev'essersi reso conto di ciò che sto vivendo, perché non
cerca nemmeno più di incoraggiarmi. Prego lui e gli altri che mi
seguono di andare, di non preoccuparsi, vorrei dire di levarmi almeno
dalle spalle il patema di causare loro un ritardo... Le ultime decine
di metri di dislivello, quassù, sono una coltellata. Infiniti
scalini ed io non ho la forza di sollevarmi, non ce l'ho nelle gambe
né nelle braccia. Il cielo sta schiarendo, l'anno scorso l'alba mi
aveva colta più in basso, maledizione, sarei in vantaggio e invece
guarda che disastro... Gian, piantala, il cronometro è l'ultimo dei
tuoi problemi adesso. Devo trascinarmi fino in punta ed ho
l'impressione che non ci arriverò mai...
Ci
arrivo, invece, ma distrutta, sfinita. Ernesto passa oltre, vuol
prendere vantaggio per poter dormire un po' a Cogne; lo saluto con
rammarico, chissà se ci arrivo, io, a Cogne... Per mia fortuna,
questa discesa non si può certo dire pericolosa. Sono così malferma
sulle gambe che, se accanto a me ci fosse un baratro, ci finirei
dentro di sicuro. Sento la testa, le orecchie, il palato, persino i
denti pulsare. Cammino piano, passi stentati, brividi di freddo
continui; il sole illumina appena le cime, ma ci vorrà un'eternità
perché arrivi a me. Mi sforzo di dare un tono allegro a quelle poche
parole che scambio con altri corridori, ma provo una tristezza
infinita. Anche scendere, pure su un sentiero comodissimo, è dura da
morire. Un paio di volte barcollo, mi fermo, mi siedo, ma congelo.
Ancora in marcia: i laghetti, l'alpeggio, l'altro alpeggio. Una
ragazza sembra patire quanto me; ha avuto una congestione, prova
nausea e mal di stomaco. Purtroppo, nella mia scorta di farmaci, non
c'è nulla che possa aiutarla, anzi...
Oltre
il secondo alpeggio, il sentiero si rituffa nel bosco. E' ancora
lunga, tanto, troppo lunga. Sono un sacco vuoto, e moralmente a
pezzi. Io ci provo ancora, ce la metto tutta, ma ormai è finita... A
meno di un miracolo, ma i miracoli non esistono.
Eaux
Rousses, finalmente il ristoro. Benedetto chi ha inventato il wc
chimico, trovo un po' di sollievo per il mio pancino sconvolto, ma
non riesco a mangiare quasi nulla. Ormai sono digiuna da troppe ore.
Trangugio bibite dolci, le uniche che io riesca a mandar giù
volentieri, ma nient'altro, grazie alla nausea che non mi dà tregua.
Mi accascio qualche minuto sulla panca, sfinita. Che fare adesso?
Beh, dubbi non ce ne sono. Devo ripartire, questo è certo. Il Col
Loson, la Cima Coppi del Tor; tremilatrecento metri di quota, duemila
metri di dislivello di qui a lassù. Un'impresa disperata...
Riparto
tra i singhiozzi; ormai non mi curo nemmeno più della brutta figura.
Ormai so che è tutto finito, che il mio sogno straordinario sta
scorrendo via dalle mie dita come sabbia finissima. Non so che ora
sia, potrebbero essere all'incirca le otto; i raggi del sole non sono
ancora arrivati quaggiù. Levo la giacca, guardo il sentiero. Forza
Gian. Attacco la salita con una lentezza degna del peggiore dei
merenderos da montagna domenicali. Un passo, un altro passo,
lentissimi; un bastoncino, l'altro bastoncino. Il cuore non tollera,
batte all'impazzata; il mal di testa, sopito per qualche momento,
torna a tormentarmi. Il Col Loson è un'ascesa molto lunga, ma mai
terribile, salvo forse negli ultimi trecento metri di dislivello. Ma
per me, adesso, è drammatica. Un passo, un altro passo, annaspo, un
passo, ancora un passo, corridori che salgono sciolti, mi superano,
se ne vanno. In questo istante, se mi guardassi, mi farei pena. Piede
destro avanti, piede sinistro avanti, ci devo pensare bene, per
muoverli. Sono disperata... Perché? Perché a me, perché oggi,
perché qui? Perché, dopo un anno di sogni ad occhi chiusi ma
soprattutto ad occhi aperti? Perché?
Raggiungere
la baita dei guardiacaccia mi costa un tempo infinito. Alcuni
colleghi sono fermi nei pressi del laghetto, chiacchierano
tranquilli, beati loro... Passo oltre senza nemmeno salutare, non ne
ho cuore. Ora il sentiero spiana, diventa quasi una strada sterrata,
comoda ed agevole, ma nemmeno questo mi aiuta. Non vedo più nessuno
davanti, nessuno alle spalle, non riesco a procedere, sono sfinita.
Sta nascendo una meravigliosa giornata di sole ed io vorrei
sparire... La salita riprende e, con essa, il peggio delle mie
tribolazioni. Mi muovo al rallentatore. Raggiungo il ponte, seguo il
sentiero che tutto si può dire fuorché ripido, proseguo piano, ma
non basta più. Pochi passi e mi mancano le forze; mi siedo, la testa
che scoppia. Atleti sfilano e proseguono. Mi rialzo a fatica,
riparto, percorro un po' di strada, ma devo ancora sedermi. E ancora,
ed i tratti di camminata sono sempre più brevi, ed il colle è
lassù, ad anni luce di distanza. Male al petto, mal di testa,
vampate di calore e poi brividi. Mi sdraio un paio di volte, riparto,
soffoco, mi appoggio ai bastoncini; le pause sempre più lunghe e
penose. Conto dieci passi ed una pausa, dieci passi ed una pausa. Ma
ho ancora troppe centinaia di metri sopra la testa...
Luciano
mi raggiunge nel momento di peggiore sconforto. Mi sprona,
perentorio, quasi mi ordina di seguirlo, ed io ci provo, per
l'ammirazione che ho verso di lui che non molla mai, per la vergogna
della brutta figura, sentimento che mi coglie di fronte a ben poche
persone al mondo. Ma lo spazio tra me e lui diventa sempre più
ampio, non ce la faccio più a colmarlo. Ed ho paura di dargli
fastidio con la mia lentezza. Approfitto di una sua pausa per
fermarmi anch'io ed abbattermi su una pietra... Ma, quando riparte,
non sono più in grado di seguirlo. Resto lì, a vedermi passar
davanti agli occhi gambe e ginocchia altrui, a singhiozzare con la
testa dolorante tra le mani, a farmi pena e rabbia per lo straccio
che sono diventata. Non so che fare: forse dovrei tornare giù a Eaux
Rousses... Sarebbe la scelta più saggia, ma non ce la faccio ad
incrociare quel serpentone di corridori che sale. No, morirei di
pena. Ma come ci arrivo, al colle? E' l'ultimo obiettivo, almeno il
colle... Poi basta, poi per me è finita, inutile, questa non è la
crisi che va e viene.
Qualche
volto noto mi sorpassa, mi chiede cosa succede, mi incoraggia, ma
ogni volta per me è una coltellata. La distanza che mi separa dal
colle è infinita. Devo tornare giù... No Gian, non puoi tornare
indietro. Non hai scelta, sali. Il vento quassù è gelido, ho i
brividi, la nausea. La pietraia... Guardo in su, quei trecento metri
che negli anni scorsi, sia in gara che in vacanza, ho percorso con
presuntuoso entusiasmo. Sono un abisso. Non ce la farò mai... I
passi tra una pausa e l'altra si riducono, non più dieci, molto
meno; salgo quasi a forza di braccia, le gambe non rispondono più,
ma rantolo, niente più aria nei polmoni. E la sella del colle sembra
allontanarsi... Capogiro, voci che sembrano lontanissime, che
rimbombano nella scatola cranica. La fitta nel petto non mi dà
tregua. E' finita, quest'anno è finita... Un passo, un tornante, una
fitta, una pausa, un altro passo, due, tre, penosi. I gruppi che mi
precedono segnano il tracciato del sentiero... Non ci arriverò mai,
io, lassù.
All'improvviso,
due mani mi afferrano quasi con rabbia, la stessa rabbia nella voce:
"Dammi lo zaino", ripete. Mi vien quasi da ridere, un riso
isterico, toh, guarda chi si vede... Ma riesco solo a piangere. E'
Giorgio: sapevo che sarebbe venuto a vedere il passaggio della gara,
lui che quest'anno non si è iscritto, e sapevo che oggi sarebbe
stato a Cogne... Ma non mi aspettavo di trovarlo quassù. Rifiuto di
cedere lo zaino; è leggerissimo, non cambierebbe nulla, e poi non se
ne parla; o ci arrivo con le mie forze, lassù, o non ci arrivo
proprio. Lo seguo, perché devo, ma non è facile; le mie forze sono
davvero al lumicino. Il mio calvario si attenua al colle, tra le
lacrime, ma non finisce... Protesto, vorrei che Giorgio se ne andasse
per la sua strada, che evitasse di perdere tutto questo tempo per me.
E non voglio sentire i suoi incoraggiamenti. Per me è finita, vorrei
solo arrivare a Cogne, ma è finita. Sei ore per salire al Col Loson,
quando di norma impiego meno della metà del tempo... Non ha alcun
senso. Non è la crisi di un momento. E' dalla scorsa notte che vado
avanti così. La discesa calma un po' i nervi, ma prolunga lo
strazio; cammino piano, a fatica, ascolto il mio cuore che sembra una
mandria di cavalli al galoppo. Le ceneri del mio sogno più bello. Mi
sforzo di chiacchierare, chiedo notizie di Matteo che per fortuna
procede bene, almeno lui, ma nell'animo ho già indossato il
braccialetto nero a lutto. Tutto quel che ho sognato, sperato, visto
come se fosse vero davanti ai miei occhi, per dodici mesi infiniti...
Tutto quel che contava per me, finito, demolito. Come se qualcuno mi
avesse levato la terra da sotto i piedi... Qualcuno mi dica che è un
incubo, per favore. Qualcuno mi svegli...
Impiego
un'eternità a raggiungere il Rifugio Sella. Giorgio continua a
ripetere che non mi ritirerò, che devo solo riposarmi e ripartire.
Io penso alle sei ore dell'ultima salita, penso alle forze che non ho
più. Penso al tempo che ho perso, a quello che perderei, al fatto
che sarei poi costretta a viaggiare quasi senza più margine rispetto
ai cancelli orari... Penso che mi troverei per forza a ripartire di
notte, che affronterei un'altra salita con la stessa pena di quella
appena superata, che non potrei fare a meno di fermarmi mille volte,
ma nel freddo della notte. E che magari finirei per costringere i
soccorsi a venirmi a raccattare... No, non ha alcun senso.
Una
processione di dolore fino al Rifugio Sella. Il percorso è di una
facilità disarmante, almeno fin qui, eppure io procedo come un
infortunato reduce da mesi di gambe ingessate. E il bello, ironia
della sorte, è che non ho dolori muscolari, non sento le gambe
stanche in quel senso. Sono un'automobile in condizioni perfette, a
cui manca la benzina.
Al
Sella, i volontari ed il pubblico salutano ed incoraggiano. Possibile
che nessuno capisca come sto? Perché non tengono le bocche chiuse?
Anche qui, al punto di ristoro quasi non riesco ad inghiottire nulla.
Due metri di risalita mi massacrano, ancora una volta, il cuore, per
non parlare della discesa da qui in poi: interminabile e
rognosissima, tutta su pietre e ciottoloni disposti male, infidi,
scivolosi, una disperazione. Più volte chiedo a Giorgio di
andarsene, ma non molla. Ha deciso di scortarmi fino a Cogne...
Troppe
volte mi inciampo e scivolo; studio con pena i passi per non finire a
gambe all'aria. Ci mancherebbe solo una visita al Traumatologico...
Ancora pietroni, ancora e ancora. Voglio solo arrivare a Cogne, il
Tor non esiste più. Quest'anno è andato tutto storto, quasi tutti
gli appuntamenti a cui tenevo, sprecati così, rubati da non so cosa.
Qualcuno sostiene che il mio corpo non regga più la mole di km che
gli infliggo; può darsi, ma io so solo che, l'anno scorso, per
diversi mesi ho partecipato a prove di corsa di oltre cento km tutte
le settimane, senza contare le uscite per conto mio, e stavo
benissimo... Dall'autunno scorso, purtroppo, ho dovuto rinunciare a
molto, non certo per scelta ma per necessità; è stato un anno
brutto, penoso, pesante su troppi fronti... E questo è il risultato.
Altro che eccesso di allenamento.
La
luce gialla del tardo pomeriggio illumina l'abitato di Valnontey. Se
non altro, la discesa da tregenda è alle spalle. Ancora qualche
breve tratto di saliscendi e poi, alle porte di Cogne, troviamo
Enrica, la compagna di Giorgio. Poche centinaia di metri e ci
separiamo: loro sono giunti all'albergo; continueranno, nei prossimi
giorni, a girare in montagna ed a seguire la corsa. Io entro in
paese, con le lacrime che vorrebbero schizzar fuori quando gli
spettatori da ogni angolo applaudono con fragore ed io so che quegli
applausi non sono più per me... Il tempo di entrare nel locale docce
e non riesco più a trattenermi. Sfogo tutta la mia tristezza in un
pianto dirotto che non è, purtroppo, liberatorio. Una volontaria,
persona stupenda, si ferma a parlarmi, fa di tutto per aiutarmi. Devi
mangiare, devi dormire qualche ora, poi decidi... No, io non ce la
faccio più. Lo so, nessuno può capire perché nessuno è nei miei
panni, ma questa volta, se decido di proseguire, rischio grosso. E
non è per me la preoccupazione, quanto per chi dovesse partire in
mio soccorso. Un conto è l'incidente imprevisto, un conto è proprio
andarsele a cercare, le grane... Faccio la doccia, trangugio un
piatto di pasta. Con il mio borsone, preparato con tanta cura, e con
lo zainetto miseramente abbandonato a terra, mi siedo su una panca,
sotto il tendone del punto di ristoro, in attesa della navetta.
Osservo i corridori che arrivano, quelli che partono, con uno strazio
infinito. Se potessi scavare una buca e sparire... Tanti mi salutano,
a tutti ripeto la stessa nenia: "Non ho più forze. Non ce la
faccio più". A casa l'ho già comunicato, con un dispiacere
senza fine. Questa corsa per me era tutto. Sarò esagerata, può
darsi, sarò frivola... Ma io credo che tutti più o meno abbiano un
obiettivo, un sogno da inseguire con anima e corpo, e non credo che,
per tutti, si tratti di trovare la cura universale per il cancro o
portare la pace nel mondo. Il Tor des Geants, da quando esiste, per
me è diventata la madre di tutte le passioni. E qui, dopo nemmeno un
giorno e mezzo di gara, su questa panca è finito tutto. Crollato,
come il vetro di una finestra sfondato da una pietra, con lo stesso
fragore. Lo ammetto, non ero preparata, anche se l'avrò ripetuto
chissà quante volte, che una corsa così non si può mai dare per
scontata. Non ero pronta a fallire. Posso piangere, ma non serve,
eppure che sforzo devo fare per sorridere a chi mi si avvicina.
Atleti che girano con il piatto in mano e le ciabatte, atleti che si
fanno tagliuzzare e sforacchiare dagli infermieri, atleti stravolti e
chini sui tavoli. Altri atleti che si fermano, come me, ma siamo in
pochi.
La
navetta, il ritorno, Courmayeur. Il punto di sbarco è a poco più di
un km dalla mia auto; mi carico il borsone in spalla, mi avvio, ma a
pena di una fatica enorme e di innumerevoli pause. Come al Col Loson.
Come a Milano, alla 24h abortita; che fatica mostruosa il ritorno
alla Stazione Centrale, alle cinque di mattina in una città orrenda
e deserta, e gelida, benché fosse giugno, ma forse era solo colpa
del mio stato larvale... Sono sfinita, ma non voglio restare qui un
minuto di più. Mi fermerò lungo il viaggio, se necessario. Sono
quasi le undici di sera, accendo il motore, riparto. Ci vorrebbero i
tergicristallo anche per gli occhi. Seguo la strada statale fino a
Quincinetto; mi fermo a dormire, non so bene dove; viaggio a velocità
di lumaca, per il resto. Verso le quattro sono a casa, mi assalgono i
miei adorati pelosi, che nulla sanno della mia tristezza e sono solo
felici di rivedermi. Il mattino dopo, in ufficio. Senza più voglia
di nulla...
***************
Sono
trascorsi alcuni giorni ormai. Oggi, a Courmayeur, dovrebbe aver
avuto luogo la cerimonia di premiazione del Tor, quella a cui mia
mamma già pensava da tempo: "Poi la domenica andiamo su a
prendere il premio"... Ovviamente non m'è passato per
l'anticamera del cervello di partecipare. Lo so, non è affatto
sportivo da parte mia, ma, dopo il mio ritiro, non ho più voluto
sapere nulla di nulla, né via internet, né dai giornali, ed ho
proibito a chiunque di nominare in mia presenza qualsiasi cosa che
avesse a che fare con il Tor des Geants. Disfare il borsone giallo,
ripensando a tutto quel che avrei voluto utilizzare, dove e come, è
stato uno strazio; via le maglie, i pantaloni, le calze, via il
fischietto, la benda, le borracce, via tutto, tornato nel buio di
armadi e cassetti senza aver potuto vivere, nemmeno per un po'. Non
era una gara qualsiasi, non era solo una gara. Ora, nei giorni grigi
d'ufficio, nei momenti bui, non ho più il mio sogno. Il Tor des
Geants, non mi vergogno a dirlo, è stato per me fonte della più
grande gioia e della più profonda delusione che nulla potrà lenire.
Mi dicono "Ti rifarai l'anno prossimo", certo, come se
altri dodici mesi d'attesa fossero bazzecole; mi dicono "Pensa
che hai tante persone che ti vogliono bene", io penso, senza
falsa ipocrisia, che nessun affetto umano può colmare la perdita del
"mio" Tor, e quelle persone che mi vogliono bene lo sanno,
e della mia ipocrisia non saprebbero che farsene. Penso che non ho
più voglia di correre altre gare, e del resto in questo stato non
potrei, perché, a distanza di alcuni giorni, la mia condizione
fisica non è purtroppo migliorata ed anche le scale di casa sono una
via di settimo grado. Penso che ho fatto le analisi del sangue ed
attendo i risultati, ma che in fondo non m'interessa sapere perché,
se non riesco più a correre come voglio. Penso che ieri sono andata
a scarpinare ai piedi del Monviso, pur con una fatica inaudita, penso
che un po' il sole e le pietre ed i rifugi mi hanno fatto sentire
meglio anche se alla sera non stavo più in piedi dalla nausea, ma
penso che nulla sia più come prima. Perché il Tor è come il grande
amore della letteratura e dei film, ti sconvolge la vita, se ce la
fai. Ma, se non ce la fai, se prima lo conquisti e poi lo perdi così,
senza poterci fare proprio nulla, allora la vita te la distrugge...
Un abbraccio, anche se non ci conosciamo.
RispondiEliminaNon ho mai incontrato nessuno così innamorato di una gara. Forse non riesco nemmeno a capirlo un sentimento del genere, ma dalle tue parole si vede che è vero e genuino.
Leonardo
Grazie Giancarla per la tua onesta. Ti conosco poco ma quando ho letto che ti eri ritirata, ho subito pensato che c'era qualcosa di grave ed ho avuto paura che ti eri fatta male. Vedo che è stato peggio di un infortunio!
RispondiEliminaSei molto forte e ti manca solo l'animo adesso. ti tornerà a breve spero!
Un abbracio,
Nicolas
Ti capisco. Anch'io lo scorso anno finischeur felice e quest'anno a Esaux Rousses l'abbandono, con il medico che giustamente sentenzia " è inutile continuare, se non riesce a nutrirsi la sua pressione sarà ancora più ballerina, le consiglio di fermarsi .... ci saranno occasioni per rifarsi !!" e questo lo ricordo anche a te.
RispondiEliminaCiao
Francesco
Ciao Giancarla, ho avuto la fortuna di fare qualche km con te in una 100 e di incrociarti sui sentieri della Valle in qualche occasione. Ho imparato ad apprezzarti come atleta dai tuoi libri e racconti, e non penso che le mie parole possano in qualche modo cambiare lo stato d'animo. L'unica cosa che voglio dirti è non mollare, mai!Torna, prenditi il tuo tempo ma torna.
RispondiEliminaMarco
Ho vissuto anche io questi giorni di TOR con grande coinvolgimento emotivo e posso immaginare quello ch eprovi: ma sono cose che, razionalmente, possono accadere a tutti. Il cuore non vuole, ma il fisico è materia (e pesante per di +). Non abbatterti: il TOR è un viaggio del cuore che in qualche modo ognuno può percorrere anche lontano dai sentieri della Valle.... e tu avrai forza e coraggio per fare un altro Tor che ti ridoni quello cui quedsta volta la machina fisiologica ha rifiutato!
RispondiEliminaTienici aggiornati
ANDREA - Aosta
Giancarla purtroppo i momenti bui capitano ma con un po' di calma e tranquillità tutto passa...
RispondiEliminaCiao...monoclueosi? i sintomi paiono quelli...
RispondiEliminaSemplicemente, e' l'inizio di una nuova battaglia. La vita porta cosi'. Una battaglia dietro l'altra. Tieni duro.
RispondiEliminaVedi l'esito degli esami del sangue e poi fatti consigliare da qualcuno di bravo e fidato (mi pare che gli amici non ti mancano). Auguri di pronta guarigione e su con la vita!!!
RispondiEliminascema !!! hai trent'anni e una vita intera di gare e di Tor da conquistare ! io sono la tua mamma putativa, sei troppo come me! Ti capisco perfettamente e mi sembra di vedere me in quest'anno di merda in cui tutte le mie aspettativa sono andate a farsi benedire..ma la differenza è che io ho 53 anni e una vita ormai andata ( sportivamente parlando ) tu hai appena cominciato! fatti curare( sicuramente hai una grossa carenza di mille cose ) e poi vai a fare l'amore con il tuo Tor che ti sta apsettando !! <3
RispondiEliminaRosanna
Ciao,
RispondiEliminanon ci conosciamo eppure sento il desiderio di esserti vicino.. tutte le cose belle che hai narrato qui sono tali non solo perchè le hai vissute da cima a fondo, nel bene o nel male, ma perchè ne hai fatto partecipe un sacco di persone. Io fra questi, ti ammiro e stimo!!anche se la distanza impedisce che tu lo sappia.. non solo per la tua energia, che si consuma e si ricrea, ma per la tua sincerità, determinazione, naturalezza (e la memoria :D per ricordarti ogni singola sensazione provata in giri anche lunghissimi)..
cmq so che non è facile e nelle prox settimane se il fastidio persiste sarà ancora peggio.. perchè quando si assuefa il corpo a così tanta adrenalina sportiva, se poi per cause maggiori si interrompe, si va in contro a depressione e scoraggiamento..
se posso quindi ti consiglio di stare vicini ad amici, fidanzato, cani e famiglia per trarne la maggior forza possibile nei momenti di necessità e non avere paura a fare cose nuove, ma solo quella di rimanere da sola a pensare al Tor.. magari chiedi al medico se c'è qualche pozioncina per compensare la mancata "adrenalina" che creavi con la corsa (io questo non l'ho mai chiesto)..
magari ci si sente peggio che se uno ti avesse investito in auto mentre andavi in bici (perchè non te la puoi prendere con qualcuno, in quanto è il tuo corpo che ti ha "tradito" o meglio "avvertito") però in compenso, augurandoti che non sia nulla di grave come dice Rosanna, hai la consapevolezza di POTERE continuare ad essere un'Atleta, a divertirti, a stare insieme agli altri, a darti nuovi o vecchi obiettivi e superarli!!
non so se leggere commenti da sconosciuti ti faccia piacere o rechi fastidio in questi momenti, però colgo l'occasione per ringraziarti per tutte le avventure di cui mi hai fatto partecipe in questo blog :D
firmato: un ragazzo di 25 anni
sono gianni lorenzi,giancarla,siamo amici su facebook,leggere il tuo racconto,mi ha stretto il cuore,quest'anno ho fatto l,utmb ed e andato bene anche perchè è diventato una schifosissima 100 km,le tue senzazioni qualche volta le ho provate anche io,adesso questo racconto mi ha provocato un solo desiderio,voglio provare il tor,e se non riuscirò pazienza,non si può essere amati da tutti,grazie giancarla,io credo che se tutto va bene un'altranno su qualche colle ci incontremo col sorriso sulle labbra, al TOR........forza sei grande.
RispondiEliminaRicordo l'amarezza del ritiro di 3 anni fa all'UTMB, quando avremmo dovuto correre assieme e quando sognavo di passare con te per mano sotto l'arco del traguardo. E invece nulla: ritiro di entrambi, per causa mia, con te che mi consolavi.
RispondiEliminaQuest'anno avevo sognato una scena simile: quella dell'arrivo di entrambi al TOR, anche se in momenti diversi perché ognuno stava facendo la sua gara. Quando ho saputo del tuo ritiro non potevo far altro che continuare a correre, con un fondo di amarezza. Poi anch'io ho avuto problemi e non ce l'ho fatta: leggendo il tuo racconto ho trovato molto di ciò che ho provato in quei momenti. Ma bisogna saper prendere il meglio da ogni insuccesso, imparare, capire cosa non va. Forse è ancora presto... ne riparliamo tra un anno, al prossimo TOR...
Dai Giancarla .. Sei forte... E con la bici sei di piu'..
RispondiEliminaNon mollare Giancarla, tornerai più forte e appassionata di prima.
RispondiEliminaAlessandro - Trento
ti ho vista quel giorno alla partenza: sorridevi seduta sul tuo gradino, mentre io emozionata, mano nella mano al mio bimbo, auguravo in bocca al lupo a mio marito e poi scappavo via, per non scoppiare a piangere per vi di quell'emozione che eventi meravigliosi come il Tor sanno darti, e un po' per l'invidia, di non essere io lì, pronta a partire per una grande avventura.
RispondiEliminadai, che sei forte, come quel tuo sorriso.
Da sportivo e da tecnico capisco la tua enorme delusione e ti sono vicino.
RispondiEliminaQuello che non condivido è come tu abbia imperniato tutto il tuo equilibrio psicologico sullo sport e in particolare su un solo evento. Questo approccio è squilibrato in partenza e secondo me nasconde dei problemi di fondo sul quale vale la pena riflettere seriamente, prima che diventino enormi (e non sono solo fisici).
Cosa devi riempire con questa sete di avventura e fatica?
E' amore o nevrosi?
Se tu dovessi per motivi irreparabili fare a meno delle corse, ti suicideresti?
Dico ciò per aver visto questo atteggiamento in molti atleti anche professionisti e per aver corso personalmente un rischio simile.
L'organismo ha una grande capacità di resistenza ma anche un limite quasi matematico alla rottura (sindrome da esaurimento di Selye).
@ C., spiacente che tu non condivida... Non so se ho qualcosa da riempire, né se ho dei problemi da nascondere; non so se sia amore o nevrosi, ma ti assicuro che per ora la mia vita mi piace tantissimo così... Probabilmente hai ragione, rasenterei il suicidio se non potessi più correre, anche se poi sarei troppo vigliacca per riuscirci davvero, ma va bene anche questo. Ritengo che non abbia senso un'esistenza senza una passione traboccante; per altri può essere il lavoro, un amore, una missione, per me è la corsa. Non so se si possa giudicare una ragione di vita più assurda di altre e nemmeno mi interessa. Quanto alla capacità di resistenza, quel che mi è successo quest'anno è stato un grosso e stupido inciampo ma, a giudicare da come è tornata a girare la storia, direi che non era affatto il limite... Se ci arriverò, prima o poi, al limite, me ne preoccuperò quando sarà il momento! :-D Tranquillo comunque che le sindromi da esaurimento non mi arriveranno dallo sport, semmai da tutto ciò che sport non è...
RispondiEliminadovresti solo imparare a sentire quei minimi sintomi che ti dicono che qualcosa inizia a non funzionare, che un granello di sabbia si è infilato tra i denti degli ingranaggi. e a quel punto intervenire, se necessario fermarti, prima che sia troppo tardi. non è per niente facile, ma significa imparare a conoscere se stessi, ad essere più consapevoli di quel che si fa. e alla fine aiuta anche migliorare le proprie prestazioni
RispondiEliminaallora stai meglio???
RispondiEliminaNarraci... e scrivi qualcosa dai... qui si muore di noia.
Ilaria
Lo so che le sindromi da esaurimento non ti arriveranno dallo sport! Infatti quello che volevo farti notare è proprio quello. Semmai la somma dei vari fattori farà si che lo sport ne risenta più di tutti, dato che in quell'occasione porti l'organismo, testa compresa, al limite,
RispondiEliminaDa quello che dici, sembra proprio che la tua vita si salvi solo grazie allo sport (e al tuo bel cane). Il disequilibrio non è fare tanto sport (anzi, il sottoscritto vive come te!), ma dare ad un solo aspetto dell'esistenza una tale importanza da dover dire :"io penso, senza falsa ipocrisia, che nessun affetto umano può colmare la perdita del "mio" Tor, e quelle persone che mi vogliono bene lo sanno, e della mia ipocrisia non saprebbero che farsene."
Quando poi affermi :"Non era una gara qualsiasi, non era solo una gara. Ora, nei giorni grigi d'ufficio, nei momenti bui, non ho più il mio sogno." Da questa frase non sembrerebbe che la tua vita ti appaia bella al di fuori dello sport o ancora più restrittivamente al Tor des Geants.
Se i tuoi giorni di ufficio sono grigi, lo saranno anche se farai cento Tor des Geants, anche vincendo la tua categoria.
La mia non vuole essere ne una critica ne un giudizio di merito ma uno spunto di riflessione poiché amo le persone che si appassionano e hanno oggetti d'amore vero.
Il tuo post mi ha fatto tristezza perché al di là del problema contingente del tuo, spero momentaneo, disturbo, vi ho letto una sofferenza più profonda che riesci a sostenere solo grazie alle gioie dell'attività fisica.
Ti ripeto, parlo per esperienza personale del tuo stato d'animo ( e fisico).
In bocca al lupo!
Beh, come psicologo sei bravo, te lo dico senza alcuna ironia... Sembrerebbe quasi che tu mi conosca, e chissà che non sia così! "Sofferenza" è esagerato, ho sempre avuto ed ho tuttora una vita comoda, non vivo certo nel lusso ma non mi manca nulla, quindi direi che, rispetto ad uno che si spacca la schiena a lavorare in miniera, per esempio, non ho alcun diritto di lamentela. Mi ritengo una persona molto molto fortunata. Non si può dire che sia cresciuta in un ambiente familiare sereno, questo no, e negli anni la situazione su questo fronte, se possibile, è andata peggiorando... Ma non si può avere tutto, e poi chi è che ha un'esistenza del tutto esente da magagne? La mia vita non mi appare bella o brutta fuori dallo sport, è che non mi appare proprio... Tutto quel che è fuori dallo sport è un "male necessario", mettiamola così; mi ci adatto perché non ho molta scelta, bisogna pur lavorare per campare, bisogna intrattenere almeno un minimo sindacale di relazioni sociali, ma tutto questo lo faccio indossando una maschera. E' solo quando esco a correre, a camminare, in bici o a spasso coi Tittoni, che la posso togliere... :-)
RispondiEliminaPenso che chi ama la fatica fine a se stessa, abbia una certa affinità intellettuale ed emotiva. Per questo che ti ho voluto scrivere e rispondere.
RispondiEliminaLa gara che mi sono fatto, a dispetto del dolore fisico che mi portavo dietro da tempo, condizioni logistiche avverse, gravissimi problemi familiari in corso, solo per orgoglio, per dimostrare a me sopratutto e forse anche agli altri che "sono uno tosto", la Skyrace delle Apuane del 2011, a dispetto del buon risultato, è stata una sofferenza gratuita che non mi dato soddisfazione ne divertimento. Mi sono trascinato, con un'andatura esteticamente orrenda, fino al traguardo e dopo l'attimo di gioia delle premiazioni, sono precipitato nuovamente nella durezza dei giorni successivi.
Sarà servito? E' stata l'esperienza che mi ha fatto capire che non si può giocare tutta la nostra vita su una sola carta. In quel senso è servita veramente.
Dalle mie parti si dice: "per capi' c'è da picchiarci il muso!" (per comprendere qualcosa è necessario sbatterci la faccia).
Alla prossima!
Ripresa? Adesso all'opera, mi manchi.
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