Il
marchingegno automatico del casello autostradale di Ceva, oggi,
dev'essere in confusione: invece di mangiarselo, come fanno di solito
tutti i caselli o perlomeno quelli che frequento di solito, mi
restituisce il biglietto che ho appena inserito. Purtroppo, però, i
soldini se li tiene, e neanche pochi: cinque euro e settanta per
pochi km di autostrada, credo sessanta. Ceva mi accoglie con una
temperatura che, dato il clima abituale di questa sezione distaccata
di Antartide, si può quasi definire tropicale, ben quattro gradi
alle cinque del mattino passate da poco.
Parcheggio
la Zafirona nella solita piazza centrale, appena sotto la stazione
ferroviaria, in modo da ridurre al minimo il tragitto che dovrò
percorrere a piedi, stasera, con le gambe disintegrate. Giacca,
berretto, guanti, zaino: pronti, via, si parte, alla luce giallognola
e fioca dei lampioni, in compagnia di un paio di viandanti notturni
dall'aspetto a metà tra stravolto ed addormentato. Tempo di
percorrere duecento metri e... Alt, indietro tutta, il telefono è
rimasto in auto! Fosse solo per me, potrebbe restarci, in auto; anzi,
già che ci sono, lo catapulterei direttamente nel Tanaro, visto che
ce l'ho qui a disposizione... Ma la mamma è sempre la mamma,
potrebbe aver bisogno e in ogni caso vuole sapere come va in tempo
reale! E poi ci sono i Tittoni, ho necessità di sapere notizie dei
Tittoni almeno un paio di volte nella giornata.
La
seconda partenza è quella buona. Supero il viale centrale del paese,
in direzione di Mombasiglio. Nel silenzio dell'ora mattutina, mi
giungono le voci concitate di quella che ha tutta l'aria di essere
una lite: poco più avanti, quattro o cinque energumeni davanti alla
saracinesca sprangata di un bar altercano con fare minaccioso. Passo
oltre con un certo timore, sperando che nessuno si interessi a me...
In effetti, credo non si accorgano nemmeno del mio passaggio. Supero
il ponte e la rotonda e procedo in direzione di Battifollo; la strada
sale ed offre un bel panorama sulle luci di Ceva e del circondario.
Di certo, lo spettacolo notturno è più suggestivo di quello diurno:
eccezion fatta per il centro dell'abitato, tutto il resto è
un'accozzaglia di capannoni e strade.
La
mia presenza suscita la viva indignazione dei cagnetti e cagnoni a
guardia dei giardini, probabilmente poco avvezzi ai viandanti
mattutini. Posso solo immaginare il fremito di paura dei proprietari
di casa, svegliati di soprassalti dall'abbaiare furioso dei
quattrozampe. Di questi tempi, corro quasi quasi il rischio di essere
impallinata, a maggior ragione man mano che mi allontano dall'abitato
e percorro tratti più isolati.
La
strada sale decisa appena superato il cavalcavia dell'autostrada.
Qui, all'aperto, il termometro dev'essere sceso parecchio; un refolo
di vento contribuisce a rendere più acuta la sensazione di freddo.
Affronto il primo tornante all'interno della curva: il piede,
appoggiato all'asfalto con la decisione dell'andatura di corsa,
scivola; l'altro piede lo segue a ruota: a momenti mi ritrovo lunga e
distesa per terra... Meglio tener conto del ghiaccio. La neve,
abbondante a bordo strada, si scioglie durante il giorno e forma
colate d'acqua che di notte si trasformano in un micidiale strato
scivolosissimo.
Non
c'è bisogno della luce frontale; la luna non si vede, ma la striscia
bianca a bordo strada è più che sufficiente ad indicare la
direzione. Inoltre, spesso sulla strada si affacciano case e cortili.
Nel buio delle pareti spicca già qualche quadrato luminoso, qualche
autoctono mattiniero come me. Mi sembra quasi di sentire il profumo
del caffè... Andrebbe tutto bene, se non fosse per il freddo
intenso. Pessima decisione, quella di privilegiare la felpa, sia pure
spessa, rispetto alla giacca che ripara meglio l'aria. Mi sembra di
essere assalita dagli spifferi... Il freddo alle spalle ed alla
schiena mi mette in agitazione, non lo sopporto.
Buio
e silenzio assoluto sulla strada e nel bosco; solo lo scorrere
impetuoso di tanti rivoli d'acqua e, a seconda dell'orientamento del
pendio, il fruscio dei rami e dei cespugli. Non posso dire di
sentirmi in gran forma, proprio no: fatico, sono senza forze, fiacca,
ho freddo. Ma ormai mi conosco: so bene che all'inizio è sempre
così, e pazienza se l'inizio dura venti e più km. Andrà meglio,
più avanti. In qualche tratto cedo alla tentazione della camminata,
sia pur veloce: probabilmente ce la farei, a correre anche i tratti
più ripidi, visto che, su questa salita, di ripido c'è ben poco. Ma
il viaggio è lungo... Meglio conservare le forze ed i muscoli
integri. Intanto tengo d'occhio i cartelli con l'indicazione dei
chilometri: dovrebbero essere dieci, dall'uscita di Ceva a
Battifollo. Scorrono lenti e travagliati.
Il
primo accenno di alba mi coglie più o meno a metà salita, appena
una sfumatura nel cielo nerissimo. Ed anche la prima auto, che sento
giungere alle spalle: la sento rallentare, passarmi accanto con
cautela, la vedo ripartire. Posso solo immaginare lo sguardo
perplesso dell'automobilista mattutino. Seguono, a breve distanza di
tempo, altri due fuoristrada. Non si può dire che ci sia molta gente
in giro da queste parti...
L'affascinante
ed insieme inquietante sagoma della mezza torre di Battifollo mi
appare ben prima di quanto me l'aspettassi, e pure in un punto dove
non avrei creduto di vederla: rispetto a me, tutta a destra. Quindi
la strada qui fa un ampio curvone verso destra... Incredibile, quanto
ci si perda di un paesaggio, se si percorre una strada sempre e solo
nello stesso verso. Io da qui sono sempre passata in discesa, in
bici... In salita, la prospettiva è tutta diversa. Mancano tre
chilometri all'abitato, così dice il cartello: la torre è una lama
nera che squarcia il velo scuro del cielo, dove pian piano si fa
strada un po' d'azzurro. Gioia per gli occhi, quest'alba, ma non per
il resto del corpo: quassù, dove la strada corre più esposta al
vento, il freddo è feroce, morde le gambe, le spalle, la schiena. Mi
sento a disagio: il freddo è da sempre uno dei miei peggiori nemici;
uno dei tanti, purtroppo, perché di certo io non sono un cuor di
leone... Temo il freddo, temo la pioggia, il vento, la nebbia,
insomma, fatemi correre con il solleone del pomeriggio sahariano e ve
ne sarò grata!
Il
momento è pura poesia, ma sono costretta mio malgrado ad infilarci
un intermezzo di prosa: sosta tecnica lungo uno dei pochissimi
sentieri vagamente praticabili, in parte sgombro dalla neve e non
troppo paludoso. Inutile dire che la parte migliore di me, così
crudelmente esposta al gelo, si iberna all'istante. Sarà anche per
questo che la ripartenza è particolarmente vigorosa...
Sotto
un cielo screziato di viola, arrivo alle prime case di Battifollo.
Qualche camino fuma, ma in giro non c'è un'anima. Manifesti
elettorali e manifesti mortuari si contendono l'occhio del passante;
ghiaccio a terra, silenzio, immobilità. La prima salita finisce qui:
ora si va giù, destinazione Bagnasco, non prima di aver scattato un
paio di foto alla torre che, in questo momento, svetta proprio sopra
la mia testa. Dovrebbero essere sei km, da qui al gelido fondovalle.
E se, quassù, un pallido sole sta tentando di spedirmi pietoso i
suoi raggi ed infondermi un po' di tepore, giù in valle sarà un
supplizio di gelo e nebbia.
Ampie
curve mi accompagnano giù verso la coltre bianca che nasconde
l'abitato. Incontro solo un paio di auto; per il resto, tutto tace.
Ghiacciano anche i rumori del bosco.
Sono
ormai alle porte di Bagnasco quando squilla l'odiato cellulare: non
sarei tranquilla senza il collegamento diretto con casa,
nell'eventualità che mia mamma avesse bisogno di me, ma nutro un
odio viscerale verso questo aggeggio. L'idea di essere sempre, o
quasi, reperibile mi dà angoscia. Non sono indispensabile...
Lasciatemi in pace! E invece no, la genitrice vuole accertarsi che io
sia viva e vegeta. Così mi tocca sfilare i guanti e, con le dita
irrigidite, frugare nella tasca dello zaino alla velocità della
luce, perché la mater è anche impaziente. Addio alla poesia del
gesto regolare della corsa.
Archiviata
l'inopportuna telefonata, attraverso la strada principale di
Bagnasco, per dare inizio alla seconda salita, verso il Colle dei
Giovetti. Il freddo è rabbioso; anche qui, ghiaccio ovunque, per
terra e sulle chiome degli alberi. Chissà se, e quando, un raggio di
sole scenderà fin giù. Se non altro, il cielo è limpido...
Le
gambe non sembrano gioire della nuova salita, che pure, all'inizio, è
davvero appena accennata. Sono un po' inchiodate. Cataste di legna
coperte di brina a bordo strada; un solo essere umano attraversa il
paese, oltre a me. Ci salutiamo con diffidenza reciproca: l'uno pensa
dell'altro che si tratti di un miraggio, è probabile.
Quando
la strada prende a salire sul serio, mi converto all'andatura di
passo, svelto ma pur sempre passo. La strada è lunga, meglio
risparmiare le energie. Finalmente la luce del sole penetra fino a
me, sia pure solo a chiazze: è spettacolare il gioco di riflessi con
la brina sulle chiome degli alberi; merita un paio di foto, anche se
so già che la mia idea della foto da scattare non corrisponde
affatto a quel che in effetti ne verrà fuori. Sui successivi
tornanti, un po' di luce mitiga di quando in quando il rigore della
temperatura. Osservo la strada che sale fra i tronchi ancora spogli,
anche se ormai la conosco a memoria; proseguo a passo il più
possibile svelto. In salita mi scaldo, ma già temo per il brivido
della discesa...
Al
colle, la desolazione di sempre, bellissima. Il sole scioglie la
brina su rami degli alberi, sembra che nel bosco venga giù il
diluvio; a me tocca, ancora una volta, ripiombare a fondovalle, dove
ormai dispero che arrivi un po' di tepore. In discesa, complice la
forza di gravità, posso riprendere la corsa, mentre tutto intorno a
me ancora tace: solo, ogni tanto, dai rami piomba giù un grumo di
neve che si sbriciola prima di toccare terra. Oggi i muscoli non si
rassegnano al clima; strillano anche se non fanno fatica, sono
rigidi. E il passo è per forza ingessato. A fatica, raggiungo nella
tasca dello zaino l'ultimo Mars che ho trovato in casa; a parte la
consistenza marmorea per il freddo, è delizioso... Di bere, invece,
non se ne parla, non ho nemmeno la borraccia. Confido di trovare,
prima o poi, un rivolo d'acqua accessibile e più o meno potabile.
Dovrebbe esserci, appena prima di Calizzano, una delle tante fontane
provviste di statua della Madonna: con poca coerenza, visto che non
nutro affatto simpatia per il soggetto e per tutti i suoi affini, ne
approfitterò.
Curva
dopo curva, come previsto, la foschia mi avvolge. Non è fitta, ma è
quanto basta per intirizzire le ossa.
Non
finirò mai di benedire la mia diffidenza nelle previsioni meteo, che
per oggi avevano annunciato una giornata quasi primaverile. Altrove,
forse... Non qui, climaticamente una enclave della Norvegia. Cerco
altri pensieri per distrarmi dal pensiero delle mani gelide, ma
quelli che trovo sono altrettanto antipatici, casa, lavoro. Forse
sono ancora meglio le dita gonfie e rosse tipo salsiccia.
Attraverso
la borgata quasi deserta: solo una casa ha il camino che fuma; tutte
le altre sono sprangate, la neve accumulata davanti ai cancelletti
d'ingresso, le porte protette da pannelli di plastica o metallo fino
a mezz'altezza. Io mi lamento del costo del riscaldamento a
Carmagnola, ma qui, per raggiungere una temperatura che niente niente
consenta l'esistenza di una forma di vita in casa, credo si debba
bruciare mezza Foresta Amazzonica all'anno. I campi sono
ostinatamente ricoperti di neve; i cavi dell'elettricità, abitati
solo da qualche corvo, neri sul bianco dello sfondo, sembrano quasi
spartiti musicali.
La
mia corsa, a questo punto, è proprio penosa. Supero il primo e poi
il secondo ponte sul torrente; un paio di sentieri che si inerpicano
tra i tronchi spogli del bosco attirano la mia attenzione. Chissà
dove portano? Sono anche segnati... I ruderi pericolanti, poi
l'ultima curva che mi porta in vista di Calizzano. Qui dovrebbe
esserci la fontana... Infatti la trovo. Una targa millanta chissà
quali virtù curative di quest'acqua: e capirai... Fosse almeno
frizzante, di già che afferma d'essere così speciale! In realtà,
non amo l'acqua naturale, affatto... Almeno per il palato, è come
non bere proprio nulla, ma è sempre meglio la fontana di una
borraccia che sballotta nello zaino. L'acqua balla comunque, anche se
la borraccia è ben fissata in una tasca.
Dopo
aver prosciugato lo zampillo dell'acqua, riparto verso Calizzano, le
gambe sempre più appesantite. Il lungo rettilineo prima del paese
"fuma" per effetto del calore del sole; tutt'intorno, le
montagne sono ancora cariche di neve. Calcolo con una certa
preoccupazione la strada che mi resta da percorrere: con i garretti
in questo stato... A Calizzano, qualche anima osa aggirarsi per il
paese. Dovrei aver percorso poco meno di quaranta km, occhio e croce;
quindi, ormai è mattino avanzato... Superato il paese, la strada
torna a salire blanda. Mi impongo di correre almeno fino all'inizio
del tratto nel bosco, gli ultimi sei km di faggi e di curve.
Raggiungo la borgata con l'unico negozietto che vende di tutto, dal
pane al detersivo; più avanti, l'agriturismo. La fame si fa sentire,
ma non ho più nulla per placarla. Provvederò più avanti.
A
fatica raggiungo, di corsa stentata, l'obiettivo che mi ero
prefissata; di lì in poi, cedo alla tentazione della camminata a
passo svelto, anch'essa faticosa ma meno massacrante per i muscoli
ormai doloranti. Beh, che dire, la mia condizione sportiva non è mai
stata brillante, ma oggi sono proprio a terra...
Perlomeno,
le stalattiti che pendono giù dai muretti in pietra sul bordo della
strada sono quasi dissolte; ne restano solo i monconi sgocciolanti.
Salgo di buon passo, guardandomi intorno; questo è il bosco in cui,
anni fa, ho scoperto l'esistenza di quel curiosissimo fenomeno
chiamato "anastomosi", una sorta di "ponte" tra
due alberi, un ramo che sembra nascere da entrambi i tronchi e fa da
collegamento... Da allora, ogni volta che passo di qui, butto
l'occhio per scovarne qualche altro caso. Oggi, infatti, sono
fortunata: aguzzando la vista ne scopro un'altra, evidentissima, a
cui scatto qualche foto.
Mi
preoccupa un po' quel che vedo in direzione del colle, ancora
lontano: sembra uno strato di nuvole scure... Vuoi vedere che io da
ore bramo il calore della riviera e invece di là, oltre il Melogno,
mi ritroverò nella nebbia? In effetti, chilometro dopo chilometro,
mi avvicino alla coltre scura, mentre, ironia della sorte, in
direzione della Valle Tanaro il sole illumina le cime. Pazienza,
indietro non si torna, ormai, anche perché sarebbe lunga assai.
Affretto, per quanto possibile, il passo; chiudo per benino la
cerniera della giacca antivento, che speravo di levare parecchie ore
fa e che invece mi è ancora indispensabile. I cartelli che indicano
km e centinaia di metri mi informano che ormai al colle manca poco:
il sole è sparito oltre la nebbia. Mi resta ancora la speranza che
si tratti di un nuvolone che ha incappucciato solo le vette...
La
trattoria del Melogno è una vera tentazione. Per fortuna, il
capannello di gente che è lì lì per entrare mi fa desistere dal
proposito gastronomico; questa piccola orda di barbari affamati
monopolizzerà i titolari per un po'... Ed il mio panino andrebbe per
le lunghe. Meglio puntare all'altro bar, al bivio con la strada che
va verso Pian dei Corsi, tra un km o poco più. Supero la galleria
del forte, anche se, con mia gran sorpresa, noto un cartello di
divieto di passaggio ai pedoni: mi spiace ma non vedo alternative...
Vorrà dire che non sarò arrestata per questo. Ciò che vedo
dall'altra parte annienta ogni residuo barlume di speranza: nebbia.
Il mare, questo sconosciuto, risulta oggi non pervenuto. Rassegnata,
riprendo la corsa, con gran dolore delle gambe ancora più
inchiodate. La discesa è lunga, sedici km... O la va, o la spacca.
Un
altro curioso fenomeno vegetale attira la mia attenzione, nonché
l'obiettivo della macchina fotografica: due aberi, un faggio ed una
conifera nella cui identificazione non mi cimento, hanno i tronchi
letteralmente fusi l'uno nell'altro per un breve tratto. Chissà chi
ha mangiato chi...
Da
una delle prime case, mi abbaiano due cani ormai noti, un Sanbernardo
ed un botolino a pelo lungo. Mi piacerebbe un sacco coccolarli, ma
non oso importunare i padroni di casa, presenti in cortile.
Un
certo senso di panico mi assale quando mi rendo conto che il bar,
l'ultimo prima di arrivare al mare, è chiuso... Ma immediatamente
m'illumino d'immenso: la nebbia svela, sul piazzale proprio di
fronte, il banchetto del venditore di formaggi. E' vero, mi sono
ripromessa di diventare, pian piano, vegetariana integralista,
vegana, insomma; per coerenza, la toma sarebbe vietata... Ma il mio
stomaco non è affatto coerente; prende il controllo della situazione
e mi trascina davanti alla lussuriosa esposizione di leccornie. Il
simpatico venditore, un omone dall'aria paciosa, completa l'opera
porgendomi un boccone di formaggio dolce e fresco. In men che non si
dica, il mio zaino accoglie una bella fetta da tre etti di toma. Il
formaggiaro mi chiede che giro io stia facendo e rimane perplesso
alla mia risposta: non so se ci creda davvero... Comunque sia, mi ha
salvato la vita. Contenta come una Pasqua, riparto di corsa con il
mio dolce ed odoroso peso supplementare; farò merenda lungo la
discesa. La compagnia della toma allevia un po' il male alle gambe,
che ormai si fa sentire prepotente, ed anche la tristezza della
nebbia che avvolge ed annulla la mia speranza per un po' di tepore.
Incontro
parecchi ciclisti che salgono con ogni tipo di mezzo, dalle bici da
corsa ai pesantissimi trabiccoli da downhill. Ci vuole coraggio per
affrontare l'ascesa al Colle del Melogno con quelle bici pesantissime
ed ammortizzate: infatti, la maggior parte degli appassionati della
disciplina suicida, da queste parti, va su con i furgoni e le bici
nel rimorchio. Non li invidio in ogni caso: almeno per me, scendendo
verso mare, la foschia si attenua un poco. Il mare, più che vedersi,
si intuisce, anche se ormai da qui sono ad un tiro di schioppo.
Levo
finalmente i guanti e, senza smettere di correre sia pure a passo di
lumaca anziana, sbrano un pezzo di toma. A Gorra, per fortuna, la
fontanella rimedia all'arsura del formaggio... Giusta punizione per
la mia golosità.
Alla
fine della discesa, ho la sciagurata idea di passare da Finalborgo. E
sì che ormai mi conosco da quasi trentadue anni; sono capace di
perdermi in un bicchier d'acqua... Succede, infatti. All'uscita del
borgo, imbocco la strada lungo il torrente, ma nella direzione
sbagliata. Il sospetto mi coglie quando butto l'occhio alla direzione
della corrente: è contraria alla mia... Sto andando verso monte
anziché verso mare. Per carità, sono poche centinaia di metri da
ripercorrere al contrario, ma non ne sentivo il bisogno...
Faticosamente,
tra un marciapiede, un passeggino e varie altre insidie ai miei
garretti, conquisto il mare. E questa è una certezza anche per il
mio scarso senso di orientamento: da qui, per raggiungere Savona o
almeno avvicinarmi, non mi resta che tenere le onde alla mia destra.
Il
sole latita, anche in Riviera. Soffia un vento freddo, per fortuna
non così intenso. Beh, non tutto il male viene per nuocere: il meteo
cupo scoraggia i turisti da passeggiata, soprattutto quelli con torme
di marmocchi al seguito. Sopporto volentieri il disagio del clima, in
cambio della quiete. Mare e cielo hanno lo stesso colore metallico...
Ciononostante, qualche temerario osa avventurarsi in spiaggia in
tenuta da bagnante. Sarà qualcuno che ha una fiducia ostinata ed
incrollabile nelle previsioni del tempo, che per oggi promettevano
una giornata calda ed asciutta. Rabbrividisco al solo pensiero: sarà
che io sconto anche un po' di stanchezza e patisco il vento perché
sono sudata, ma mai e poi mai rimarrei all'aperto con meno di due
strati di vestiario, oggi.
Le
gambe sono tutt'altro che in forma. Legnose, doloranti, oggi va così.
Sono un po' delusa, anche se, in tutta onestà, non è che potessi
aspirare ad un risultato molto migliore di questo. Grazie, si fa per
dire, a quella stramaledetta 24 ore a circuito di San Benedetto del
Tronto del primo dicembre... Oltre ad aver seriamente rischiato di
demolire l'auto nel viaggio di ritorno, mi sono anche procurata
un'infiammazione con i controfiocchi al ginocchio destro: ormai ero
quasi arrivata a credere di non poter più correre... Dieci km al
massimo e poi il dolore sull'esterno del ginocchio spuntava e
cresceva nel giro di poche centinaia di metri, fino a rendermi del
tutto impossibile la corsa. Ho sempre confidato nella capacità del
mio corpaccione di risolvere da sé i guai, senza andare a sprecare
soldi miei e soldi del Servizio Sanitario Nazionale in chissà quali
visite ed esami specialistici, ma devo ammettere che questa volta
sono giunta a nutrire qualche dubbio in proposito. Per fortuna, alla
lunga, per questa volta ho ancora avuto ragione; sia pure tra
improperi, dolore, rabbia e tristezza al pensiero di non poter più
correre, il problemaccio, com'era arrivato, se n'è andato. Il guaio
è che due mesi di seri allenamenti sulla distanza sono andati in
fumo... E probabilmente ho messo su della gran ciccia. Pazienza:
tocca rassegnarsi.
Mentre
corricchio a velocità da carro funebre sul lungomare, quasi stordita
dal movimento regolare di un mare quasi placido nonostante il vento,
mi rendo conto che forse è il caso di tenere d'occhio l'orologio.
Avendo io viaggiato fin qui con molta lentezza, ho fatto tardi: a
Savona, di questo passo, non arrivo di certo prima delle sette e
mezza. Già, ma poi? Ci saranno ancora treni per Ceva, e quando? Già,
un viaggiatore accorto e previdente si sarebbe preparato una
tabellina con gli orari delle partenze dalle varie stazioni, da
Finale a Savona. Io non ho la più pallida idea di niente di tutto
ciò. Mah... Finale, Varigotti, le bellissime scogliere, oggi ancor
più arcigne per effetto della luce; i gabbiani con le loro grida
stridule; la vista sulla costa, che ogni tanto sfuma nella foschia; i
brividi per le folate di vento. Non mi va giù l'idea di non arrivare
a Savona, ecco... Ma le gambe stanno cercando di farmi capire che non
hanno intenzione di portarmi fin là di corsa. Il mio viaggio rischia
di diventare eterno... OK, la costa non è il deserto; non è grave
perdere l'ultimo treno, alla peggio si dorme in stazione e si prende
il primo dell'indomani. Ma scoccia, anche perché a casa ci sono i
miei beniamini pelosi in attesa.
A
Noli la stazione non c'è, almeno credo. Passo lungo la spiaggia,
butto l'occhio ai cartelli stradali, ma non vedo nulla che mi ispiri.
A Spotorno, il prossimo paese, se non erro dovrei essere più
fortunata... Raccolgo le ultime forze per allungare ancora un po' il
passo: sempre più rari i pedoni che incontro sulla mia rotta. Il
vento rinforza, la luce cala; è ora, per chi può, di ritirarsi al
calduccio. Ma a Spotorno ci sarà poi davvero la stazione? E' la
domanda che comincia a tormentarmi. Curioso, come la stanchezza
ingigantisca piccoli problemi che in realtà non sono degni della
benché minima ansia. In fondo, se anche non dovessi trovare un
treno, non ci sarebbe poi nulla di male... Prima o poi, ne arriverà
per forza uno!
Con
il cuore in gola, non solo per la fatica, entro in paese. Poche
centinaia di metri e, con sollievo, addocchio il cartello con il
simbolo del treno. Perfetto... Abbandono il lungomare, seguo le
indicazioni. La stazione appare, effettivamente, di lì a poco. Mi
precipito, come posso, al tabellone dei treni: partenza per Torino,
17.25... Guardo l'ora e mi affloscio: sono le 17.27. Il prossimo
treno sarà tra due ore... In un impeto di disperazione, pigio
forsennatamente i tasti del bigliettaio automatico, che, per fortuna,
non si offende per la mia mala grazia. Poi, con le residue forze,
schizzo al binario deputato. Vedere un fitto assembramento di persone
mi rincuora... "E' già partito il treno per Torino?",
chiedo al primo viaggiatore in attesa che mi sembra avere la faccia
di chi sa quel che dice; "No... E' in ritardo". Beh...
Credo di non aver mai gioito così tanto, di cuore, per il ritardo di
un treno. E' proprio vero; io viaggio in treno una volta ogni morte
di Papa e puntualmente incappo in un ritardo... Mi vien da dire,
questa volta, meno male! Trovo persino una cabina in cui cambiarmi la
maglietta al riparo dal vento gelido. Ancora qualche minuto e la
locomotiva spunta fischiando. Il tragitto è di quelli in stile carro
bestiame; manco a pensarci, di trovare un sedile; ancor grazie che si
trovi spazio vitale in piedi. Mi ritrovo in mezzo ad una vera babele
di lingue, stili e motivi di trasferta: dai pensionati che fanno la
spola tra Torino e la Riviera agli studenti fuori porta, alla
famigliola di orientali, credo filippini, ai vù cumprà vocianti con
la loro voluminosa mercanzia. In tutta sincerità, non amo la
multietnia e non riesco a trovare nulla di pittoresco in tutto questo
crogiolo di origini... Ma faccio buon viso a cattivo gioco, il
viaggio è breve. E pazienza se il posticino a sedere che
faticosamente mi ritaglio - per terra, accanto ad una delle porte - è
spazzato dalla corrente gelida degli spifferi, e pazienza anche se la
stanchezza mi provoca un fortissimo mal di testa. Mi consolo con
l'ultimo frammento di formaggio, alla faccia dell'igiene e delle mani
ormai lerce - a cosa serve il sistema immunitario altrimenti? -
finché mi accorgo di essere ormai a destinazione. La Zafirona è
ancora lì, in paziente attesa; mi ci fiondo e, per prima cosa,
accendo il riscaldamento al massimo. Poco più di settanta km nelle
gambe, occhio e croce, mi rendono arduo persino manovrare i pedali...
E il fatto di patire la lunga distanza, per me, è un duro colpo
all'orgoglio. L'unico mio lato positivo è sempre stato proprio
quello di reggere bene la fatica prolungata; se mi s'incrina questa
certezza, sono dolori... Coraggio, datti da fare Gian, tira via la
ruggine. Ci vorrà un po' per recuperare, ma è ora di scrollarsi di
dosso un bel po' di patemi, fisici e morali. La radio a tutto volume
terrà lontani i mugugni, almeno fino a casa. Poi affogherò la
tristezza tra peli e bava dei miei beniamini: la migliore psico e
fisioterapia!
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