Il programma avrebbe previsto di
partire da casa alle 6. Tra colazione mia, colazione per le belve,
turni di coccole a tutti per non far torti, preparazione dello
zainetto, nonostante la sveglia alle 4 e mezza, accumulo quasi tre
quarti d'ora di ritardo. Beh, pazienza. In fondo non ho appuntamenti,
o meglio: l'appuntamento ce l'ho, ma è un appuntamento di massima,
adattabile alla necessità.
Il termometro segna esattamente zero
gradi, tanto per mettere subito le cose in chiaro. Parto con il
parabrezza congelato e la testa fuori dal finestrino: confido che, da
queste sonnacchiose parti, le prime ore del mattino della domenica
sono, come da definizione del buon Ivano, “un tempo che non
esiste”. Tutto tace, nulla muove. Infatti, raggiungo la cima della
salita di casa ed attraverso il paese, sempre con la capoccia fuori
dal finestrino, senza incontrare anima viva. Nel frattempo, un
francobollo di parabrezza si è scongelato: abbastanza per avere
almeno una vaga idea di dove sia la strada.
Raggiungo Canelli alle sette e mezza e
parcheggio nel piazzale dello stadio, piena di speranza: spero che
oggi non si giochi alcuna partita; se si dovesse giocare qualche
partita, spero che non sia prevista la rimozione forzata delle auto
che non appartengono ai tifosi ed anche che i tifosi del Canelli e
delle sue avversarie non siano troppo turbolenti ed inclini alla
distruzione delle vetture. Anni di frequentazione dello stadio
milanese di San Siro, sia pure in veste di spettatrice delle altrui
intemperanze e non di distruttrice in prima persona, hanno lasciato
il segno.
La temperatura non è molto
più confortevole. Un grado e mezzo. Me l'aspettavo ed infatti mi
sono premunita con pantaloni ¾, maglia a maniche lunghe e collo alto
felpata e maglietta da bici sopra, per via delle comode tasche sulla
schiena. Zainetto, immancabili Hoka ai piedi, fascia protettiva sulle
orecchie e si parte. Immediatamente mi accorgo che qualcosa l'ho
dimenticato: i guanti... Via, le mani assiderano subito e non ci si
pensa più. Spero che, guadagnando quota, si spunti al sole.
Mi dirigo di corsa verso il
centro, ma dopo poche centinaia di metri svolto a sinistra, direzione
Cassinasco. E lì mi ricordo che potrei sfruttare al meglio le
potenzialità del GPS, se lo accendessi. Amen, conterò un chilometro
in più, tanto non siamo mica qui a spaccare il capello in quattro.
Per fortuna, la salita
comincia subito. Prendo quota tra casette e ville con giardino: più
che le case, ammiro alcuni parchi con alberi che devono davvero avere
una bella età. Quanti cani ci potrei far vivere... Qualche cane, in
effetti, già c'è ed abbaia: l'unico segno di vita in una
sonnacchiosa domenica mattina. Primi sprazzi di sole; qualche curva e
mi ritrovo in vista di un bellissimo limpido panorama sulle Alpi. Sul
Monviso, in particolare, così diverso da come sono abituata a
vederlo da casa. Il sole è abbagliante ed è proprio di fronte,
ancora basso: speriamo che i pochi automobilisti in movimento mi
vedano. La torre di Cassinasco appare presto, ma è ancora lontana;
cinque o sei kn da Canelli, occhio e croce. I primi fiori sugli
alberi da frutto... E primule gialle fiorite su ogni zolla di terra a
bordo strada. Peccato che, al momento, io non sia in grado di
apprezzare al meglio la poesia. Come sempre, alla partenza e
soprattutto in giornate dal clima frizzante, la prima esigenza da
soddisfare con estrema urgenza è trovare un anfratto per un pit
stop... Ma la salita da Canelli a Cassinasco non si presta: troppe
abitazioni, troppa umanità, occhi che potrebbero vedere. A me serve
poco meno di un bunker antiatomico per poter sostare serenamente.
Il sole è ormai alto, ma in
quota soffia un venticello gelido. In preda alle mie preoccupazioni,
per così dire, idriche, raggiungo Cassinasco quasi senza
accorgermene. Anche qui, non muove foglia. Secondo le istruzioni di
Matteo, adesso devo seguire la strada principale e scendere a Bubbio.
Oltre il paese, l'ambiente sembra decisamente meno popolato, tra ampi
pendii e poche cascine. Una cagnolina con collarino rosa mi osserva
perplessa dal cancello aperto di una casa: qualche decina di metri
dopo, me la ritrovo accanto, che corre con me, silenziosa. Mi fermo,
le offro uno dei biscotti per cani che non manco mai di portarmi
appresso, ma non sembra affamata. Le raccomando di tornare a casa:
vero che qui passa un'auto ogni morte di Papa, ma è pur sempre una
strada. Bella, larga ed inondata di sole, anche se in discesa sento
decisamente freddo. Poi la vallata si fa più incassata; la strada
taglia un ripido pendio. Ormai prossima alla detonazione, finalmente
scorgo una traccia di sentiero che sale su per il bosco. I rovi ne
stanno prendendo possesso, ma pazienza... Qui non si può più
tergiversare.
Finalmente rinfrancata, mi
rimetto in marcia. Primo piccolo pasto, una barretta di Ovomaltina.
Non posso dire di sentir fame: la colazione a base di polenta e
gorgonzola, wafer e caffé col mieie è stata più che soddisfacente.
Tuttavia, esperienza insegna che, quando la fame si fa sentire, è
già tardi per evitare conseguenze.
A Bubbio la valle si apre;
resto a margine del paese e raggiungo l'incrocio con la strada che va
a Monastero Bormida. Tre o quattro km con il sole abbagliante proprio
di fronte ed il fiume Bormida, scuro e limaccioso, alla mia sinistra,
fino al paese, in grande spolvero di annunci e cartelloni per
l'imminente manifestazione della “Polentonissima”. Sotto lo
sguardo perplesso di due anziani sulla panchina della piazza,
sfreccio, si fa per dire, al bivio per Roccaverano, e supero il
suggestivo ponte romanico, non prima di una breve sosta per scattare
qualche foto al castello.
Monastero Bormida |
Dodici km di salita mi
separano da Roccaverano. Salita blanda, ma che fin da subito mi mette
in difficoltà, soprattutto nei lunghi tratti di falsopiano che
sembra non salire mai ma mette a dura prova le gambe. Soprattutto
quando le gambe reggono un deretano extralarge. Una fiacca eccessiva
per la distanza percorsa fin qui, poco più di 15 km.
Paradossalmente, va meglio in qualche tratto un po' più ripido.
Speravo davvero che il malanno, influenza o forte raffreddore,
chissà, che mi ha tenuto compagnia per due settimane non avesse
lasciato strascichi... Ma ogni tanto mi prende un tale accesso di
tosse che, se qualcuno dovesse sentirmi, probabilmente mi vedrebbe
meglio in sanatorio che non a zampettare su questa bella strada quasi
deserta.
Un corso d'acqua con muretti
che creano suggestive cascatelle accompagna la mia marcia, mentre in
alto domina la torre di San Giorgio Scarampi. Solo dopo un tratto,
per me interminabile, di falsopiano in salita, arrivano i primi
tornanti. Qua e là, cascine, capre e galline, cartelli che indicano
la vendita della toma di Roccaverano – e sì che ci farei un
pensierino.
La fiacca non mi molla,
anche su tratti con pendenza irrisoria. Mi manca il fiato, ho male in
mezzo al petto. So benissimo che è il raffreddore e non un imminente
infarto, ma mi lascio prendere dallo sconforto. Non sono allenata,
sono pesante, sono irrimediabilmente culona, ergo non vado avanti.
Cammino per venti passi, corro per cinquanta, poi ripeto. Se mi
sforzo di allungare il tratto di corsa, rischio di stramazzare. Ah,
ma a Roccaverano... Manca poco, a Roccaverano c'è il negozietto di
alimentari. Mi ci compro una birra. O una Red Bull. O almeno una
Coca. Già, siamo alle solite. In tanti anni di corsa, io non ho
ancora scovato un modo men che fastidioso di portarmi qualcosa da
bere. La borraccia, dovunque la piazzi nello zaino o negli appositi
portaborraccia sugli spallacci, sussulta in modo insopportabile. La
bottiglia in mano dà fastidio. Il camel bag finora è il sistema
meno odioso che ho provato, ma si tratta comunque di correre per ore
con lo sciacquio nelle orecchie, soprattutto quando la sacca è mezza
vuota. E, se nello zainetto metto la sacca, non ci sta più quasi
nulla. Oggi, in verità, confidavo nel fresco e nel fatto che le
fontanelle fossero sufficienti. Non ho portato nulla da bere e
adesso, qui in mezzo al nulla, patisco la sete. E mi sa che buona
parte della fiacca e della nausea arrivano da lì. A Roccaverano i km
son già quasi trenta senza bere. Ma c'è il negozietto, sì sì,
coraggio.
Nell'ultimo km prima del
paese, aggredisco il croccante alle mandorle, di solito un buon
rimedio contro la fiacca. Il panorama, da quassù, è meraviglioso;
la vista spazia sulle Alpi, con i primi fiocchi di nuvole che
nascondono le cime. Mi sforzo di correre fin su in paese, ma, appena
oltre il cimitero e la bella chiesetta in pietra, la pendenza della
strada mi convince a rinunciare. Salgo di buon passo, ma con il
morale sotto le suole. Poche centinaia di metri lungo la ripida
strada in centro paese ma... I miei sogni di gloria e Coca Cola si
infrangono contro le inferriate chiuse. Niente da fare, la domenica
qui si santifica il riposo. Eppure ricordo occasioni in cui,
arrivando quassù durante giri in bici in anni passati, si comprava
la focaccia anche la domenica mattina...
Coraggio, Gian, elabora il
lutto. Rapido sguardo alla piazza della torre. Gran folla che esce
dalla chiesa: beh, saranno venti o trenta persone in gran spolvero da
messa domenicale; comunque troppe per la mia limitatissima
sopportazione dei miei simili. Rinuncio a fare una tappa al bar e mi
accontento, mestamente, di prosciugare la fontanella davanti al
Comune. Poi riparto, confidando nell'aiuto della discesa, tra le
bellissime case in pietra di Roccaverano, in direzione di Vesime. Una
decina di km davvero panoramici sulla Langa e sulle Alpi sempre più
coperte dai nuvoloni. Breve tratto di salita fino al bivio per Serole, che
affronto con cauto ottimismo: sembra andar meglio. Poi, giù lungo
una discesa mai troppo ripida ed abbastanza gradevole per le gambe,
con vista sui gioielli di Olmo Gentile, prima, e di San Giorgio
Scarampi, poi. Ma il passo è stanco e la testa leggera. Avessi
almeno bevuto un buon bicchiere di Moscato, me ne farei una
ragione...
Olmo Gentile |
Cascine, frutteti, vigneti,
bovini che mi guardano con occhio fisso – bovino, appunto – da un
recinto. Una secca rampa in salita, un km prima di Vesime, mi riporta
alla dolorosa realtà: una fatica esagerata e quel dolore pungente al
petto. Penso alla salita che mi attenderà dopo... Un'ascesa tosta,
pendenze feroci, che adoro e che avrei voluto affrontare in altra
condizione. Ma che ci posso fare?
A Vesime c'è un bar,
sperando che sia aperto. É la mia ultima speranza. Qui, anche se mi
costa ammetterlo, ci vuole una sosta. E Matteo? A che punto sarà? E'
in arrivo in bici da Genova; a quest'ora, dovrebbe essere nei
paraggi. Infrango la legge non scritta che vuole che ci si telefoni
solo in caso di morte imminente, perché nessuno dei due tollera di
essere disturbato, quando pedala o corre, per ragioni men che di
sopravvivenza immediata. Se è qui vicino, al bar si va assieme.
Invece no: deve ancora arrivare a Roccaverano. Pazienza. Spingo
speranzosa la porta del bar deserto: si apre... Alleluja.
Lo sguardo si posa
immediatamente su una lattina, anzi lattona, di Red Bull. La mia
innata tirchiaggine fa sì che una parte di me si ribelli all'idea di
comprare una bibita al bar, dal momento che la stessa bibita,
comprata al supermercato e portata al seguito, costerebbe molto meno.
Ma portare una Red Bull nello zainetto è oltremodo scomodo nel
viaggio e potenzialmente devastante quando la si apre... Quindi,
rassegnamoci all'esborso. Lattona, cannuccia, bevo con l'avidità
dell'assetato nel deserto, tant'è che il contenuto finisce troppo
presto. Mi levo il gilet, ora che comincia a far seriamente caldo.
L'inevitabile conseguenza della bibita molto gassata, tracannata a
velocità record, è una rumorosa emissione gassosa che per un attimo
inverte lo scorrere del Bormida e provoca un'onda anomala su cui si
materializza all'istante una squadra di fighissimi surfisti
californiani. Rimedio forse poco elegante, ma quanto mai risolutivo.
Riparto con cautela per un
breve tratto della strada principale che va verso Cortemilia, per
imboccare il primo bivio a destra, appena fuori paese. Dal giardino
di una casa schizza una cagnolina poco più che cucciola, che si
fionda fin quasi al mio tallone per poi invertire bruscamente la
marcia a tutta velocità e cominciare una folle corsa a cerchio sul
prato. Così ci scappa una seconda sosta, non programmata, a
chiacchierar di cani con il padrone ed una bella setterina. Noto un
lampo di perplessità dietro gli occhiali scuri dell'uomo, quando,
rispondendo alla sua domanda, gli dico di aver lasciato l'auto a
Canelli. Il lampo diventa di terrore quando gli spiego che, a
recuperare l'auto e me stessa medesima, provvederà Matteo in arrivo
da Genova. Prima che imbracci il fucile, saluto e riparto, solo per
inciampare, poche decine di metri dopo, in un botoloso can da pajè
che chiede, anche lui, la sua dose di coccole.
Lasciata tanta caninità, mi
preparo ad affrontare le rampe della salita di Scorrone, che mi
porterà a scollinare in Valle Belbo. Il GPS segnala un rapido
aumento di quota... E, in effetti, la pendenza è davvero
impegnativa. Ma la Red Bull, non avevo dubbi, ha posto rimedio ai
miei patemi. Le gambe vanno su come se fossi appena partita. Beh,
insomma, quasi. Di vigneto in vigneto, tra splendide case in pietra,
prendo quota in fretta. Intanto butto l'occhio alla strada sotto di
me: Matteo dev'essere andato come un disperato, in discesa e poi in
salita, perché ben presto fa capolino oltre la vigna. In bici, su
queste salite, non c'è molta ressa. Mi raggiunge mentre sono ferma
ad una grossa vasca di pietra, a bere avidamente dal getto d'acqua
che in verità non sono così certa sia potabile. Pazienda, mi sembra
buona, questo basta. Gli consegno la chiave dell'auto. Proseguiamo
insieme fino alla fine della salita, che, con un altro paio di rampe
secche, ci porta a scollinare in Valle Belbo. Il trucco psicologico
di farmi i complimenti per l'andatura in salita, Matteo ormai lo sa
bene, funziona anche stavolta, meglio di qualsiasi doping. Qui ci si
separa: lui svolta a destra, verso Canelli; io procedo a sinistra
verso Castino, per poi imboccare una stradina che scende a
fondovalle. “Prendi ancora un po' del mio cibo, io ne ho troppo”,
mi raccomanda. E poi l'elenco del menù disponibile nel borsello da
manubrio, dal vitello tonnato alla peperonata al tiramisù... In
fatto di cibo, non si fa mai cogliere impreparato. Rimedio un grosso
biscotto con il cioccolato, tipo bacio di dama: nello zaino ho ancora
due Buondì, ma ormai sono al punto in cui scatta l'effetto
inceneritore. Potrei mangiare qualsiasi cosa ed avere ancora fame...
Breve tratto sulla strada
che da Cossano Belbo conduce a Castino e poi piego a destra, giù
lungo una discesa ben più ripida della precedente. Anche qui, un
trionfo di primule. Qualche nuvola però a tratti oscura il sole e mi
ricorda che la temperatura è pur sempre ancora quella di un giorno
di inizio marzo. Colline, torri e campanili tutt'intorno; il colore
dominante è ancora quello scuro degli alberi e dei vigneti senza
foglie, ma per poco ancora.
La strada si incassa in
fondo a due pareti boscose, per poi spuntare al paese di Rocchetta
Belbo. Oltrepasso il ponte e prendo a sinistra: qualche km della
strada di fondovalle, con il sole che torna a scaldare e, qua in
fondo, si fa sentire sul nero della maglia e dei pantaloni. La sete
morde ancora, ma so che non ho più molta strada da percorrere. Anche
per questo, mi sforzo di tenere un buon passo, per quanto possibile.
Ben poco traffico, poche auto ed i primi motociclisti della stagione.
Ignoro, a malincuore, la salita di San Bovo sulla destra, quella che
porta alla Cascina Pavaglione: forse ce la farei ancora, ma per oggi
basta così.
A Ponte Belbo faccio una
breve sosta alla fontanella, ma questa volta le mie speranze sono
deluse: è chiusa. Nemmeno un goccio d'acqua. Pazienza. Riparto. Uno
sguardo appena oltre l'incrocio, nella direzione di Bosia: lì c'è
un bellissimo pastore tedesco che di solito se ne sta sulla soglia
del cortile di casa, a controllare la situazione traffico. Io temo
comunque per la sua incolumità... Ma lui è lì, come sempre; mi
lancia uno sguardo da lontano, come a dire “Tranquilla, conosco il
fatto mio”. Attraverso il ponte sul Belbo ed inizio la salita verso
Borgomale. Insidiosa, sempre, benché non molto ripida: quando il
sole è alto, ci fa sempre molto caldo. E poi ormai manca pochissimo
al cinquantesimo km. Parto con brio, sia pur con la sete, ma con
l'orecchio teso al rumore del motore delle auto che salgono. Qui c'è
un po' più di viavai, è la strada che congiunge Alba a Cortemilia.
Ovviamente, quando, appena prima di Borgomale, mi raggiunge la
Zafira, non la riconosco se non dal clacson. E non posso che
ammettere di essere, per oggi, soddisfatta. Neanche a farlo apposta,
cinquanta km esatti e 1.400 m di dislivello in salita. Da qui a casa,
si va a motore.
Che bello rileggerti anche qui su blog!
RispondiEliminaFinalmente un nuovo post!
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