Le minilepri ed il gatto
li ho schivati con un buon margine... Ma il capriolo può davvero
ringraziare la sua stella e la mia abitudine di calcare poco
l'acceleratore, soprattutto quando è buio, quando conosco poco la
strada e quando sono, come stamattina, angosciata dalla spia della
riserva. Sveglia, però, a quanto pare sono sveglia: inchiodo
all'istante quando vedo l'animale schizzare sulla strada, a pochi
metri dal mio cofano; sterzo a destra per non investirlo e riesco
persino a non finire giù dalla riva, mentre il simpatico ungulato,
limortaccisua, risale leggiadro e beato il pendio alla mia sinistra.
Ma lo spavento fin qui
provato è nulla rispetto allo sbigottimento che mi genera la figura
vagamente umana in gilet rifrangente, casco e pantaloni rossi,
crocifissa in mezzo alla rotondina in centro a Vicoforte. Strabuzzo
gli occhi e capisco: trattasi di un tipico esemplare di pirla.
Infatti è Ivano, già pronto per la partenza. S'era detto alle
quattro e sono, infatti, le quattro in punto. Cinque minuti in tutto
per parcheggiare l'auto, consegnare al mio assistente ciclista di
oggi il bagaglio e partire.
La mia scorta alimentare,
come sempre, è raffazzonata: ho buttato un una borsa di plastica a
casaccio le prime derrate che ho trovato aprendo la dispensa,
peraltro non rifornita da me ma dalla santa madre. Quattro o cinque
plumcake alla marmellata nella pietanziera di metallo per evitare che
si schiaccino; un Buondì, un pezzo di croccante alle mandorle, due
lattine di Red Bull. Manca il capitolo “salato”, ma a quello
confido abbia provveduto Ivano. Uomo all'apparenza cattivissimo,
cinico, inaffidabile, insomma un mostro: ma, quando si tratta di
sport, è una garanzia, per sé e soprattutto per me, che sono
decisamente meno affidabile di lui e per giunta anche pericolosa, in
primis per me stessa.
Maglia tecnica invernale,
maglietta a maniche corte da bici per la comodità delle tasche sulla
schiena, gilet, giacca impermeabile, pantaloni ¾, due paia di calze,
immancabili Hoka ai piedi e fascia per le orecchie. I guanti...
Ehm... Me ne sono ricordata all'ultimo istante, uscendo di casa: per
non frugare negli armadi e svegliare mia mamma, ho afferrato il primo
paio che mi è capitato a tiro, un elegante paio di guanti in pelle
che mia nonna indossava nei giorni di festa. Sono un po' stretti e
del tutto estranei al contesto, ma che importa. Basta che riparino le
mani, visto che la temperatura è di ben due gradi.
Anche Ivano è sepolto
sotto più strati di indumenti. Non lo invidio davvero: correndo, io
mi scalderò in fretta, ma lui, pedalando alla mia velocità, è a
serio rischio ibernazione. Per fortuna, è uno che in materia sa il
fatto suo.
Si parte in leggera
discesa, giusto per scaldarsi un po'. Chissà quante maledizioni
piovono dalle case dei paraggi... Altissimi latrati di tutti i cani
del circondario, indignati dai nostri movimenti notturni. Meglio
allontanarsi, prima che, oltre a santi e madonne, qualcuno decida di
far volare anche un pitale. In effetti, non posso dar loro torto. La
gente normale, a quest'ora, dorme o guarda film a luci rosse, oppure
esce ubriaca dalle discoteche e si stampa in auto contro i platani.
Noi ci avviamo a piedi e su ruote lungo le strade deserte del
Monregalese, sotto lo sguardo benevolo di una splendida luna piena
appena velata. Attraversiamo la piazza deserta dell'imponente
Santuario di Vicoforte, sfiliamo nei pressi di un distributore di
benzina che mi ricorda l'incombente presenza della spia gialla sul
cruscotto della Zafira e poi via, sempre in un concerto di latrati,
finché le case cominciano a diradarsi. Il mio primo problema, come
sempre alla partenza, è trovare un luogo per una sosta tecnica,
ermeticamente protetto dalla vista di chiunque. Scrupolo quasi
superfluo nelle tenebre di quest'ora, si dirà: eppure, non appena
individuo un posticino che potrebbe fare al caso mio, in lontananza
appaiono i fari di un'auto. Se osassi fermarmi, sono certa che
arriverebbe immediatamente una carovana di pullman di turisti
giapponesi con i teleobiettivi. Lasciamo perdere, soffriamo in
silenzio.
La strada in leggera
salita porta conforto alle membra intirizzite. Il buio mi confonde le
idee: ho già perso l'orientamento rispetto alla partenza. Ad un
incrocio, in corrispondenza di una cappelletta illuminata da una viva
luce gialla, svoltiamo a sinistra. A sinistra per gli uomini,
specifica Ivano. Già, perché io spesso mi trovo in difficoltà
quando, a bruciapelo, devo decidere dove sia la destra e dove la
sinistra. Ho bisogno di un istante per ricordare qual è la mano con
cui scrivo. Dicono che sia un difetto non così raro nelle donne.
Si torna in mezzo alle
abitazioni e, ancora, si scatena il concerto canino. Posso solo
immaginare lo sbigottimento degli indigeni assonnati ed intuisco
occhi ansiosi dietro spiragli di tende appena spostate. Soprattutto
di questi tempi, quando i furti nelle case sono ormai lo sport
nazionale. Figuriamoci poi cosa possono pensare, i tapini, alla vista
di due oggetti semoventi non ben identificati ma molto luminosi. Ed
anche parecchio ciarlieri. Va a finire che tra un po' arrivano i
gendarmi! Basta che a nessuno salti in mente di imbracciare la
doppietta. Soprattutto nel momento in cui io, accanto ad una
provvidenziale catasta di legna, mi concedo il “minuto di
raccoglimento” tanto desiderato.
Il percorso studiato dal
mio fido assistente, nonché guida materiale e spirituale, non
risparmia le sorprese. Persino un tratto di sentiero, qualche
centinaio di metri, che s'infila tra le cascine. “Non c'è fango
qui” - commenta Ivano – “quindi non dovremmo trovarne molto
nemmeno sulla strada sterrata che percorreremo più avanti, anche se
la quota sarà ben più alta”. Un brivido mi corre lungo la
schiena: chissà dove diavolo andremo a finire oggi... Incautamente
ho chiesto di architettare un percorso lungo ed impegnativo, senza
porre limiti di alcun genere, e conosco ben poco il Monregalese,
quindi sono costretta a fidarmi.
Tra un incrocio di qua ed
una svolta di là, posso dirmi in completa confusione. Ivano si
lamenta dell'ammutinamento del GPS: lo posso capire... Il GPS! Siamo
perduti nella notte tenebrosa e nel nulla eterno... Raggiungiamo, al
termine di una discesa, una strada che ha l'aria di essere un po' più
frequentata, almeno nelle ore canoniche del giorno. La percorriamo
per poche decine di metri, incontrando ben un'auto, per poi svoltare
a destra in strada della Galla. Una secca rampa iniziale in salita mi
fa capire all'istante che non ci sarà da scherzare. Anche qui, la
stradina corre ripida in mezzo a ville e villette che, a ragione o
più spesso a torto, si danno un certo tono. Ovunque cancellate che
sembrano fortificazioni, cartelli che avvisano della
videosorveglianza, luci che si accendono al nostro passaggio, spie
dei sistemi di allarme e latrati di cani grossi e minacciosi. Certo
la tranquillità non regna sovrana per chi abita qui.
La salita è irregolare
ma non concede tregua. Oltre una curva, si apre la vista su una
distesa di luci più in basso: Villanova Mondovì, mi informa il
Cicerone. E le sagome delle montagne, ben visibili alla luce della
luna. Questa notte, la pila frontale serve per farsi vedere, ma non è
davvero necessaria per vedere. Nonostante il cielo appena velato,
basta la luce naturale.
Per adesso, le gambe
sembrano promettere bene. Ci avviciniamo ad un paese proprio di
fronte a noi, al culmine della salita: è Monastero Vasco.
Imbocchiamo la via sulla destra: si scende. Il che non è affatto un
sollievo, per due buoni motivi: perché le gambe in discesa
patiscono, pur con meno fatica, e perché il freddo arriva subito a
mordere le spalle e le braccia. Ivano avanza il dubbio che questa
strada possa essere chiusa, ma secondo me vale la regola aurea per
cui a piedi, o in bici, si passa più o meno ovunque.
Al fondo della discesa,
incrociamo nuovamente la strada provinciale. La attraversiamo in
direzione di Niere e di un luogo dall'inquietante nome di “Madonna
delle Lame”. Appena oltre il bivio, un edificio dall'aria vetusta e
l'insegna di un ristorante che immagino abbia vissuto tempi migliori.
Si torna a salire, stavolta nel fitto del bosco. Cinguettii di ogni
tonalità ed il canto lontano di qualche galletto insonne. Ci si
allontana dalla civiltà, ma mai del tutto. Ancora salita ripida, ma
le gambe sembrano reggere bene. Il primissimo chiarore dell'alba
infonde un po' di fiducia in più. Ivano, preciso come un orologio
svizzero, ad intervalli regolari mi porge la borraccia, a cui
ovviamente ha pensato lui e non io: acqua e sali, oppure acqua e
sciroppo alla menta. Entrambi graditissimi, se non fosse per la
temperatura gelida. Ed è quasi ora di mangiare qualcosa. Fino a
pochi minuti fa non ne avrei avuto voglia, ma adesso il languorino
comincia a farsi sentire.
Questa salita, strada
Unie, è spietata. Infila una rampa dietro l'altra, senza
misericordia. Ma il premio non tarda ad arrivare: alla mia destra, la
luna che pian piano scende dietro il costone della montagna,
illuminando di mille sfumature di azzurro i pendii innevati. Una
favola ed una sferzata di gioia per la mente e per i garretti.
Evidentemente la pendenza non è solo una mia impressione: anche
Ivano fatica parecchio a salire in bici. La fatica è spezzata, e
spazzata via per un istante, dallo spettacolo di due agilissimi
camosci che attraversano la strada a pochi metri da noi.
Quando comincio ad
accusare la stanchezza, finalmente la salita si placa. L'alba
guadagna terreno e ci rivela lo spettacolo splendido di una stradina
deserta lungo un pendio punteggiato qua e là da poche case e qualche
cappelletta. I segni della presenza umana ci sono eccome... Ma tutto
tace, tutto è silenzio ed immobilità. I prati sono un tripudio di
fiorellini di ogni colore, soprattutto primule gialle, a profusione.
L'aria è frizzante, il cielo ancora leggermente velato. Dopo la
prima barretta Ciocovo, è la volta di una banana, con corollario di
disquisizione semiseria circa il modo corretto di afferrare la
banana. Da sempre io sostengo che questo frutto abbia sviluppato una
sorta di gambo che è fatto apposta, proprio apposta secondo i
disegni di madre natura, per essere tenuto in mano, aprendo la buccia
dall'altra estremità... Ma pare che io sia l'unica a pensarla così
e che il resto del mondo sbucci la banana spezzando il gambo. Non
importa, rifiuto l'omologazione e lancio la buccia in mezzo al bosco.
Tutt'intorno è montagna con qualche spruzzata di neve ed un cielo
color acciaio.
Un tratto di strada
sterrata, breve ed insolito, visto che l'asfalto ricompare dopo
qualche decina di metri. La strada corre quasi in piano per un lungo
tratto, fino a raggiungere, all'alba delle sette, come mi informa
l'orologio del bel campanile in pietra, il primo avamposto di
civiltà. Mondagnola. Qui, qualcosa muove. Incontriamo persino
un'auto. Ormai è giorno fatto, ma noi siamo ancora bardati ed
illuminati per la notte. Trottiamo ancora in leggera salita.
L'orientamento ormai l'ho perso del tutto, ma mi fido: finché le
gambe reggono... Il paese che vedevo sopra la testa è Frabosa
Soprana. Lo attraversiamo: mette un po' tristezza, come tutte le
stazioni sciistiche, con i casermoni, le insegne chiassose, gli ampi
parcheggi ricoperti di cemento. L'atmosfera, poi, qui, è quella di
un luogo che è stato fastoso e festoso in altri tempi, ma che oggi
sembra scivolare nell'oblio. Per carità, sarà anche la fine della
stagione sciistica... Ma siamo ai primi di marzo ed un po' di neve
resiste in qualche giardino, su qualche pendio ben più alto. Ha un
bel mostrarmi, Ivano, le piste da sci più in quota e le seggiovie in
funzione. Rimane la sensazione di qualcosa che non è più. Poi, in
realtà, io sarei ben felice di non vedere nulla, né casermoni né
impianti né piste. Dovrei essere, visto il mio lavoro, una convinta
sostenitrice dell'economia legata al turismo, in generale
dell'economia che gira, ma proprio non mi riesce. Trovo lo sci da
discesa e tutto ciò che vi gira intorno qualcosa di inutilmente
opulento, chiassoso, modaiolo, che poco ha a che fare con lo sport.
Oggi, tuttavia, c'è ben poca vita. Ma sarà l'ora.
La mia corsa si sta
appannando un poco. Procedo lungo la strada principale, ignorando un
bivio a destra, mentre il fido assistente si è fermato un momento.
Mi guardo intorno: tra i casermoni sopravvive qualche bella
costruzione in pietra. Molto bella la località di Straluzzo, dove
incontriamo il primo essere umano a piedi. Qui abbandoniamo la via
principale per aggredire, si fa per dire, un'altra rampa in salita.
Un paio di curve secche ci portano oltre una cascina; una splendida
baita in pietra apre un lungo tratto di strada tra pendii boscosi e
prati ricoperti di neve e di fiori. Il sole, pur leggermente velato,
è intenso e fa capolino qua e là oltre le curve. Siamo, occhio e
croce, non lontani da quota mille metri.
Ivano deve aver percepito
il mio attimo di scoramento, perché sfodera l'arma segreta: il
panino ripieno di gorgonzola, gustosissimo ed enorme. “Se non te la
senti di mangiarlo tutto, ne mangio un po' anche io”. Lo guato come
il mio maremmanone guata chi osa avvicinarsi alla sua ciotola quand'è
piena: “Tu me l'hai dato e guai a chi me lo tocca!”. Un boccone
dopo l'altro, il meraviglioso paninone va giù come se fosse acqua
fresca. Sarà effetto placebo, non so, ma basta questo a rinvigorire
le gambe.
Una lunga, morbida e
panoramicissima discesa tra i prati, ben esposta al pallido sole
mattutino, ci conduce fino all'abitato di Corsagliola, non prima di
un'altra sosta tecnica tra i castagni. Foto di rito davanti ai
cartelli stradali; bevo una lattina di Red Bull e mangio un boccone
del merviglioso cioccolato maialo che spunta fuori da una delle borse
appese alla bici di Ivano. Che uomo pieno di risorse alimentari.
Levo finalmente la pila frontale, ma tengo ancora indosso il
giacchino rifrangente giallo, perché di qui mi attende un tratto un
po' più trafficato – si far per dire: passeranno dieci auto
all'ora. Si torna a salire, ma in modo appena percettibile, per
parecchi chilometri: un tracciato per me tremendamente logorante.
Come se non bastasse, il tratto iniziale della strada è
completamente in ombra. Mi ero già abituata a quel bel teporino...
Qui, ahimè, è crisi.
Nerissima. La leggera pendenza in salita mi distrugge, soprattutto
moralmente; mi sembra di dover sopportare una fatica davvero
esagerata e di non riuscire in alcun modo a procedere degnamente. La
scorta non mi perde d'occhio: sa benissimo cosa mi sta succedendo,
anche senza bisogno che io parli. Siamo vicini ai quaranta km... E
ciò che mi turba è che non ho idea di quanto sia lungo l'itinerario
architettato per oggi da Ivano. Avevo chiesto un giro lungo e denso
di salite... Non posso certo cominciare a lagnarmi adesso. Ma non mi
va nemmeno di chiedere: sarebbe un segno di debolezza. No no, non è
ancora il momento di cedere, stringiamo i denti.
Appena prima dell'abitato
di Corsaglia, Ivano si ferma per sistemare il vestiario. Il paesino,
con il torrente che scorre proprio accanto, a destra rispetto alla
strada, è un gioiello di case con i muri in pietra. A sinistra,
impetuosi piccoli affluenti saltano tra le rocce e passano sotto i
ponticelli in pietra che collegano le abitazioni abbarbicate sul
fianco della montagna. Un negozietto di alimentari, persino una
cantina.
Oltre Corsaglia, provo a
dare una telefonata a casa, per sapere se madre e beniamini pelosi
sono tutti in forma. Di lì a poco, mi raggiunge Ivano, poco prima
del bivio a sinistra con la strada che sale verso Prà. La
imbocchiamo: proprio di fronte a noi, ma parecchio più in alto, si
scorge un campanile. “Dobbiamo andare lassù”, sentenzia
l'assistente, sottolineando la solennità dell'affermazione con un
grufolio del maiale di plastica legato al manubrio, la nostra
mascotte. Un maialetto rosa a pois, di quelli che si trovano negli
autogrill, già compagno di tanti km. Finalmente la strada sale, ma
sale sul serio. Io non ho ancora capito per quale motivo una pendenza
ripida mi faccia soffrire molto meno di un lento estenuante
falsopiano: e questo per me vale a piedi come in bici. Almeno, qui,
ho la percezione anche visiva del motivo per cui fatico!
Un paio di tornanti
severi ci portano in vista della piccola borgata di Zitella, amena
località di cui merito la cittadinanza onoraria. L'occhio mi cade, a
sinistra, su una morbida massa bianca allungata sulla soglia di una
splendida cascina. Un istante dopo, le masse sono due, imponenti; si
lanciano verso di noi abbaiando furiosamente. E poi, tre, quattro,
cinque! Cosa vedono le mie fosche pupille, meraviglia delle
meraviglie, sono cinque splendidi pastori maremmani, due adulti e tre
cuccioloni. La mia reazione spiazza sia il padrone, che dal cortile
si affanna a richiamare i cani, sia gli stessi morbidissimi bestioni:
lancio un urlo, che non è paura ma incontenibile gioia, e mi ci
butto in mezzo, menando coccole a destra e a manca. Questo è il mio
paradiso, io mi fermo qui, voglio essere adottata qui, morire ed
essere sepolta qui!
Gli adulti, più
sospettosi, tornano sui loro passi; i tre cuccioloni invece non
disdegnano le coccole. Me li ritrovo persino sulla schiena. Staccarmi
da qui e ripartire mi costa una fatica inaudita... Ma s'ha da fare,
ovviamente dopo la foto di rito sotto il cartello “Zitella”. Un
pugno di edifici in pietra, uno più bello dell'altro, con la cornice
di montagne appena un poco innevate.
La salita prosegue a
rampe severe e tornanti secchi, ma le gambe corrono bene. In men che
non si dica ci ritroviamo proprio sotto al campanile. L'ultimo
tornante ci porta al minuscolo abitato di Prà, di fronte alla
chiesa. Un pannello con la carta dei sentieri è l'occasione per
Ivano di illustrarmi il prosieguo del nostro giro: seguendo con il
dito un percorso che io fingo di comprendere e memorizzare alla
perfezione, mi mostra l'itinerario che ci porterà a San Giacomo di
Roburent e poi a Serre. Razionalmente, so che questo tipo di carte ha
una scala tale per cui le distanze non possono essere più di tanto
lunghe; tuttavia, l'impressione è che si debbano ancora percorrere
parecchie decine di km. E sarei ben felice di poterlo fare... Ma non
sono del tutto sicura di riuscirci.
Proseguiamo tra le case,
di cui invidio di tutto cuore i proprietari. Se non dovessi
preoccuparmi di procurarmi da vivere, di certo vivrei in un luogo del
genere; per quanto il luogo in cui vivo effettivamente sia già
abbastanza fuori dal mondo per il comune sentire. Una rampa secca, là
dove non ne aspettavo più, mi fa un po' soffrire. In cima, l'asfalto
finisce; ci si immette su una strada ampia e sterrata. Il fatto che
io accenni a svoltare a destra, quando Ivano comanda imperiosamente
di girare a sinistra, dimostra che del pannello segnaletico io non ho
capito un beato nulla. Obbedisco, comunque.
Pochi metri dopo,
l'assistente attacca con le domande trabocchetto: “Giallo o blu?”.
La litania del “giallo o blu” s'è già sentita un paio di volte
oggi; lì per lì non avevo capito, ma neppure avevo indagato, ben
conoscendo ormai la passione di Ivano per le boiate a sorpresa.
“Blu”, sospiro. Ma questa volta non si tratta affatto di una
boiata, anzi. Ivano sfodera una formaggetta chiusa in un incarto blu
e ne spezza un grosso boccone. Il mio amatissimo formaggio grasso!
Ok, credo sia giunto il momento di una pausa, breve ma seria. Mi
siedo un momento a terra, distendo le gambe, mi godo il
voluttuosissimo boccone di formaggio morbido. Ma la sosta è davvero
breve: qui siamo appena oltre quota mille; il sole è velato e l'aria
è tutt'altro che tiepida. Annego la formaggetta in una sorsata di
acqua e menta – lo so, non c'è più religione – e riprendo la
corsa, un po' rinfrancata. La strada è sì sterrata, ma in ottime
condizioni; qua e là, tratti ghiacciati impongono cautela nella
falcata. Qualche chilometro di morbide curve, in cui corro di buona
lena soprattutto per vincere il freddo, ed ecco apparire il Rifugio
dei Vernagli, più volte citato oggi dal mio accompagnatore. Un altro
meraviglioso edificio in pietra, oggi ancora chiuso; aprirà il primo
di aprile.
Brevissima sosta, cioccolato, una lattina di Coca Cola e
dinuovo di corsa. Da qui, la strada tende ad essere prevalentemente
in ombra; lunghi tratti sono coperti di neve ghiacciata. Si continua
a scendere, con una pendenza appena accennata. Ivano non sembra avere
alcun problema, con la bici che, pur essendo un comodo mezzo da
viaggio, non è certo una mountain bike. Io ho qualche problema di
equilibrio in più, ma me la cavo e mi godo il trotto. Una moto da
cross e, più avanti, tre persone a piedi sono il nostro unico
incontro con l'umanità: si aggiungono, appena prima di Roburent, due
auto che si sforzano di salire nonostante il fango ed il ghiaccio che
qui, appena più in basso, rendono il percorso davvero poco
praticabile. Dov'è che questi incauti piloti vogliano andare, lo
sanno solo loro, visto che il rifugio è chiuso; mi sa che saranno
costretti ad abbandonare le vetture e ad andarle a riprendere al
disgelo...
Man mano che ci
avviciniamo a San Giacomo di Roburent, proprio alle porte del paese,
vedo sempre più alberi con le radici all'aria e tracce di lavori in
corso per segarne i tronchi, ma lì per lì non capisco. Mi concentro
sulla rampa che conduce, nuovamente sull'asfalto, nel centro del
paese, per capire se e quanto io “ne abbia ancora”. Sono stanca,
questo senza dubbio.
Ivano ordina una pausa.
Ci fermiamo nei pressi di un negozietto di alimentari. Mi siedo sul
marciapiede, accanto ad una fettuccia che delimita una ringhiera in
parte divelta. In paese c'è movimento; dovrebbe essere tarda
mattinata. Siamo a 53 km e circa 2000 m di dislivello già
accumulati. Mangio un paio di plumcake ed un po' di cioccolato,
osservando il passeggio dei presenti. Qui l'unica lingua che si sente
parlare è il genovese: questa zona è una vera e propria enclave di
Genova in terra piemontese. Qualcuno si aggira in divisa da sci,
anche se il verde del paesaggio stride con l'idea che si possa sciare
nelle vicinanze. Qualche tratto di pista si intravede, più in alto.
Mi avvicino alla bici, dove Ivano sta riorganizzando il contenuto
delle borse. L'occhio mi cade su un balconcino del condominio,
affacciato sul cortile più basso della sede stradale, anch'esso
divelto. Mi domando ad alta voce cosa sia successo: che un'auto sia
uscita di strada proprio qui, precipitando di sotto? “E' stato il
vento, ci ha portato via il tetto”, spiega, con spiccata cantilena
ligure, una corpulenta signora seduta sulla panchina. Alzo gli occhi
e capisco. E' vero: qualche giorno fa, nelle valli di Mondovì e fino
a Cuneo, si è scatenato un vento del tutto anomalo che ha combinato
guai di ogni genere. Ora si spiegano gli alberi rovesciati... In quel
momento, esce dal negozietto il commerciante: “Eh signora –
rivolto alla madama – lo ammetta, che voleva farsi il terrazzo per
prendere il sole, l'ha fatto apposta...”. Mi rimetto in marcia per
non assistere alla manifestazione della furia di un genovese colpito
da un grave danno pecuniario e per giunta preso in giro così, coram
populo. Nemmeno un chilometro di leggera salita, sotto un raggio di
sole; alla rotonda, la pendenza si inverte ancora. Si scende.
Passiamo davanti al punto di partenza di una seggiovia in funzione e
parecchio frequentata, a giudicare dalla quantità di auto che
affolla il piazzale del parcheggio. “Siamo noi quelli fuori
stagione – osserva Ivano – mica loro”. Sarà, ma a me va
benissimo così.
Il fido compare mi
precede a Serra Pamparato, alla ricerca di una fontanella per
riempire la borraccia. Procedo tranquilla, di buon passo, un po' più
fiduciosa sulle possibilità delle mie gambe. Ancora alberi divelti,
crollati su lampioni, ringhiere a lato strada e persino sui tavolini
da picnic; tegole in pezzi ai piedi di edifici e tettoie. Che
disastro.
Ritrovo Ivano sdraiato in
mezzo alla strada, che emette versi indecifrabili. Ormai non mi
stupisco più di nulla; basta solo che nessun mezzo a motore gli
passi sopra, perché non sono sicura di essere in grado, da qui, di
tornare a Vicoforte... Al centro dell'abitato di Serre, accanto ad un
edificio anomalo, tutto vetrate e fregi e purtroppo lasciato
all'abbandono, si stacca sulla sinistra una stradina che, superate
alcune cascine, subito riprende a salire in mezzo al bosco fitto,
catapultandoci in un attimo in un ambiente di montagna. Viene
spontaneo commentare come queste strade siano non solo sconosciute,
ma assolutamente inconcepibili per la maggior parte dei podisti e dei
ciclisti, abituati a calpestare sempre gli stessi chilometri di
asfalto, preferibilmente su stradoni pianeggianti e trafficati.
Davvero, a 99 ciclisti su 100 mai verrebbe in mente di imboccare un
bivio davanti a cui passano magari decine di volte, né sorgerebbe
loro il desiderio di sapere dove porti quella strada. Guai ad uscire
dal tracciato segnato ed arcinoto.
Per me quassù è il
paradiso, nonostante la stanchezza che ormai non riesco più a
celare. Continuo a correre, ma solo perché so che, da qui, dovrebbe
mancare al massimo una decina di km. Ivano ha colto la mia
condizione; mi tiene sveglia e distratta con il racconto delle
avventure e disavventure ferroviarie dei suoi innumerevoli viaggi
bici + treno. E' sorprendente, quasi preoccupante, il modo in cui
riesce ad intuire i miei stati d'animo durante la fatica. Tant'è
che, ad un certo punto, presa dalla sete ormai intensa, guardo la
borraccia e penso di chiedergliela: sono sicura, proprio certa, di
non aver proferito parola, eppure un secondo dopo Ivano prende la
borraccia e me la passa. Confesso che quasi quasi mi fa paura. Che i
poteri soprannaturali di Mel Gibson in “What Women Want” si siano
incarnati anche in lui?
Lunga, bellissima discesa
boscosa, in direzione di Torre Mondovì. La stradina, dapprima
stretta, si allarga poi in un'ampia carreggiata con curve ampie e
morbide. Anche la discesa, ormai, mi costa fatica. E' circa l'una del
pomeriggio: sono in giro da nove ore, ma sono state nove ore molto
dense. La salita non è certo mancata. Ivano, che si era fermato poco
sopra, mi sfreccia accanto e passa oltre, alla ricerca della stradina
del 40%: un breve tratto di strada dentro l'abitato di Torre Mondovì,
lungo il quale un minaccioso cartello indica, appunto, una pendenza
davvero estrema. La troviamo, sulla sinistra. E va bè, se si tratta
di scendere... In effetti, forse 40% è eccessivo, ma in alcuni
tratti questo è quasi un sentiero di montagna, ripidissimo, che in
poche decine di metri ci porta giù, nel punto più basso del paese.
Non so se, in bici, avrei più timore ad affrontarlo in salita oppure
in discesa. Sarebbe ribaltamento sicuro, in entrambi i casi.
In paese svoltiamo a
sinistra e, qualche centinaio di metri più avanti, alla rotonda, a
destra. Passiamo accanto alla cartiera. Cerco di capire come sto,
come reagiscono le gambe. Manca ancora una salita... Mi riesce
difficile mascherare lo sfinimento, ma mi sforzo di trottare ancora.
Manca poco. E fa caldo, nonostante il cielo velato. Qui, lungo questo
tratto, accanto alle cave, siamo già passati in occasione di un
altro giro. C'è una casa in cui abita un bellissimo border collie:
già quella volta avevamo notato il comportamento del cane che, pur
con il cancello aperto, non oltrepassava di un millimetro la linea di
demarcazione del cortile. Lo ritroviamo oggi: ci abbaia, ci osserva,
ma non esce dal confine della proprietà. Dev'essere il cane di un
geometra, di sicuro.
Nella borgata di Moline,
ultima breve sosta, seduta sul bordo in pietra di una splendida
fontana. Bevo, mi sciacquo la faccia. Di mangiare no, non ho più
voglia, non è più necessario. Ora si torna a salire, ma manca
poco...
Ripartire sulla secca
rampa in salita mi costa uno sforzo notevole. Ivano lo sa e sfodera
l'arma segreta, l'ultima spiaggia. “Sei andata davvero bene, sei
molto avanti nella preparazione”. Funziona sempre, anche nei
momenti di crisi più nera, anche quando corro con il naso all'insù
alla ricerca disperata del punto in cui andremo a scollinare...
Eccoci, finalmente. Oltre una curva, il panorama cambia
completamente. Spunta il cupolone del Santuario di Vicoforte, inizia
l'ultimo blando tratto di discesa prima della meta. Il mio assistente
mi chiede se io desideri arrivare all'auto “da sotto” o “da
sopra”: arrivarci “da sotto” vorrebbe dire aggiungere ancora un
chilometro di strada ed un centinaio di metri di dislivello in
salita. No, mi spiace, non mi sono macchiata di alcun crimine tanto
grave da meritare simile punizione, almeno credo. Mi costa
ammetterlo, ma ne ho davvero abbastanza, per oggi. Non me la sento di
infliggermi ancora un giro di quelli “tanto per allungare”. Sono
al limite. Ma tanto, tanto felice.
Mi riempo gli occhi del
panorama di Vicoforte nella luce del primo pomeriggio. Ultima,
leggera risalita, poi fermo il cronometro, già in mezzo alle case.
73 km e circa 2.400 m di dislivello in salita. Gambe sfinite, ma non
doloranti, almeno per il momento. Mi abbatto in auto, qualche minuto
per riprendermi, prima di ripartire. Giusto il tempo di realizzare
che, a casa, i cani mi accoglieranno, freschi e pimpanti, entusiasti
all'idea di fare, uno per volta, una bellissima passeggiata!
Bella corsa e bel racconto. Roberto
RispondiEliminaPs. Ma poi li hai portati i cani a passeggio?
Eccierto che sì! Lo pretendono!
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