Era da parecchio tempo
che non caricavo più la bici in auto e me stessa in sella alla bici.
Ho pedalato l'ultima volta ben sei mesi fa, proprio il giorno di
Ferragosto, peraltro con esito penoso per me stessa e per i due
tapini che quel giorno mi accompagnavano. Poi, la corsa ha assorbito
tutte le mie energie, anche perché, per la prima volta nella mia
vita, ho deciso di provare ad allenarmi con un po' più di metodo,
affidandomi ai consigli di chi, in materia, ne sa più di me. Non
l'avessi mai fatto: prima, l'euforia del miglioramento e poi, ahimè,
la dura sorpresa del primo, serio infortunio da quando ho coscienza
di esistere. Non certo per colpa dell'allenamento finalmente sensato,
ma della jella che, si dice, al contrario della fortuna, ci vede
benissimo. Ormai da due mesi trascino un fastidioso problema che, a
giudicare da quanto ho letto qua e là su internet, potrebbe
vagamente somigliare alla metatarsalgia: ho provato un po' di tutto,
anche a stringere i denti e continuare a correre, ma ultimamente il
dolore è davvero pungente e le uscite per gli allenamenti sono
diventate una pena. Da una parte, sono quasi sollevata: da che mondo
e mondo, un podista che si rispetti ha almeno un acciacco in corso,
sempre, di cui parlare con malcelato compiacimento e da brandire come
scusa per qualsiasi prestazione al di sotto delle aspettative. Io non
avevo mai avuto nulla, fino ad ora. Mi sentivo quasi un po'
discriminata, diversa. Ora che ho anche io il mio malanno sono
finalmente a posto con la coscienza. Però non riesco più a
correre... Tra qualche giorno andrò a farmi dare un'occhiata da
qualcuno che dovrebbe saperne un po' più di me. Nel frattempo, ho
pensato di sostituire la corsa con l'antico e forse unico vero amore,
la bici.
In realtà, pedalare è
ciò che avrei continuato a fare con vera passione, se nel mio
percorso di vita e di sport non mi fossi imbattuta in alcuni
incidenti, l'ultimo dei quali avrebbe potuto lasciare conseguenze
molto peggiori di un trauma cranico e della rottura degli incisivi.
Sono passati ormai parecchi anni, ma la paura non è più guarita.
Soprattutto se si tratta di pedalare su strade con un certo traffico.
Oggi, però, potrebbe essere una buona occasione per un ritorno in
sella ovattato: lungo l'itinerario che ho programmato, se ne vedranno
ben pochi, di veicoli a motore.
Il parcheggio di
Campetto, accanto al ponte sul Belbo, a metà tra Borgomale e
Castino, alle otto e mezza è deserto. Temperatura, zero gradi, tondi
tondi. Non è che io sia proprio convintissima, intendiamoci, ma
ormai son qui... Tre strati tra maglie e giacca invernale, pantaloni
Assos lunghi e spessi, guanti, calze spesse, plantari morbidi per
l'avampiede, nella speranza che le sollecitazioni dei pedali non
facciano ulteriori danni. Eh, brutta bestia, la vecchiaia. Acciacchi
che spuntano come i funghi in un piovoso autunno. A stento mi ricordo
come si salti in sella, non parliamo poi di ricordare come si
manovrino i rapporti. Ma intanto sono partita. Prima salita in
direzione di Bosia. Poche centinaia di metri bastano a ricordarmi il
motivo per cui, negli ultimi tempi, io mi sia sempre rifiutata di
pedalare in inverno: piedi gelati, irrigiditi e dolenti; mani, idem.
Comincio spasmodicamente a staccare dal manubrio una mano per volta,
aprendo e chiudendo le dita per riportare un'idea di circolazione
nelle falangi; nel contempo, cerco di muovere le dita dei piedi, che
però non hanno proprio più sensibilità. La salita è tutta in
ombra; la luce lambisce appena le cime delle colline dall'altro lato
della valle. Qui in basso è tutto bianco di brina, immobile, cupo.
Pedalo il più agilmente
possibile: l'itinerario di oggi sarà impegnativo e non posso
permettermi di irrigidire le gambe già adesso. Ma i piedi e le mani
fanno sempre più male. Quanto a circolazione periferica, io sono un
vero disastro: le dita non si limitano a diventare fredde, ma
gonfiano e si irrigidiscono, soprattutto quelle dei piedi. E sì che
non indosso più da tempo le scarpe che si agganciano al pedale: ho
un paio di scarpe da corsa, molto morbide sia sulla suola che sulla
tomaia. Con le estremità inferiori conciate male come in questo
periodo, non potrei sopportare nulla di vagamente più rigido.
La salita scalda il resto
del corpo, ma è una pena. Mi maledico mille volte per la mia
sciagurata idea: ma chi me l'ha fatto fare di venire a soffrire così?
Ma come facevo, tanti anni fa, ad uscire in bici in qualsiasi
condizione di temperatura, con ostinazione furiosa?
Mi superano in tutto tre
auto, prima di raggiungere l'incrocio con la strada che scende a
Torre Bormida. Prima, agghiacciante discesa, che affronto come se le
ruote viaggiassero su un tappeto di uova. Il mio terrore della
discesa ha ormai raggiunto il punto di non ritorno, soprattutto
adesso che, con mani e piedi insensibili, non ho sicurezza né
nell'appoggio sui pedali, né nella frenata. Nel dubbio, appena
riesco, afferro i freni e li tengo tirati. Scendo pianino, ma il
freddo penetra immediatamente nel collo, nel tronco, nelle gambe. Qui
un po' di sole arriva, ma è ancora troppo presto. Per ora non riesco
ad ammirare la bellezza della Valle Bormida che si apre qui sotto.
Anzi: un paio di volte mi fermo per scuotere con violenza i piedi, se
non altro per capire se sono ancora attaccati alle caviglie. Di
muovere le dita non c'è modo. E il ghiaietto e l'umidità
sull'asfalto mi incutono una gran paura.
L'arrivo a Torre Bormida,
fine della discesa, è una liberazione. Mi immetto sulla strada di
fondovalle, tenendo la destra: pochi km e ci sarà il bivio per
Levice, sulla sinistra. Uno dei pochi tratti di pianura di questa
giornata. Al bivio, svolto ed attraverso il ponte sul torrente
Bormida: finalmente, si ricomincia a salire. Lentamente, con molta
fatica e ancora per lunghi tratti in ombra. Mi fermo ancora una volta
per riattivare la circolazione nelle mani e nei piedi. Il sole inonda
la vallata, man mano che si alza, ma il freddo è ancora pungente.
Breve e dolce la strada che, con alcuni ampi tornanti, sale a Levice:
uno dei pochissimi posti dotati di bagni pubblici puliti ed aperti.
Sarà che qui non c'è proprio mai anima viva... Sono tappe
strategiche, essenziali, soprattutto adesso che la salopette lunga
invernale costringe ad un mezzo strip tease per assecondare le
esigenze “interiori”.
Da Levice, conclusa la
tappa e l'ennesima sessione di massaggio e scuotimento dei piedi,
riparto in direzione di Bergolo. Si sale ancora, ma lievemente, per
alcuni km, in cui approfitto per mangiare la prima barretta della
giornata. Da Bergolo scendo verso Cortemilia, altro momento di gelido
dolore: ad un paio di km dal fondovalle, incrocio Matteo che, partito
da tutt'altra parte, mi pedala incontro. Carico come un mulo di ogni
sorta di mercanzia, tra cui tubo e telefono della doccia da cambiare
a casa mia ed un paio di scarpe da corsa per me, che chissà se e
quando potrò tornare ad usare. Ma lui non fatica, soprattutto se si
tratta di pedalare al mio ritmo. Mi accoglie con un entusiasta “Che
bello rivederti in bici”, a cui io rispondo con un ringhio:
“Tralasciando il freddo porco, il male alle mani ed ai piedi, il
dolore al culo, è bellissimo, senza dubbio”.
Da Cortemilia, inizia un
giro che ho provato domenica scorsa a piedi e che sono curiosa di
mostrare oggi al mio compagno di viaggio. Sperando di ricordarmi i
mille bivi. Superato il ponte sul torrente Uzzone, svoltiamo quasi
subito a sinistra, in direzione di Monte Oliveto. La salita è aspra,
sale con alcuni ripidi tornanti: in un punto, il Garmin di Matteo
segna addirittura il 16%. Breve tratto di requie prima di Perletto e
poi ancora rampe, in salita sulla via Piazze. Guai a tardare a
mettere il rapportino... Si va su per i boschi, con il sole basso che
abbaglia tra i rami degli alberi. Una stradina minuscola, con
pendenza irregolare, tra pochissime case abitate, cappellette e
costruzioni in pietra purtroppo diroccate. Un secco bivio a sinistra,
con direzione Serole, mostra le prime tracce di neve sulla strada:
già, non ricordavo più che in settimana ha nevicato...
Da qui in poi, molti
tratti di strada sono ingombri di neve. Non per intero: ci si
passerebbe, volendo, comodamente in sella. Infatti, Matteo lo fa. Io
preferisco, in molti casi, scendere e spingere: soprattutto nel
tratto di pianoro più in alto, dove la strada diventa per un tratto
sterrata ed è coperta di neve per intero. Neve, per fortuna, gelata,
che sostiene quasi ovunque il mio peso. Tutto intorno, una distesa
bianca; lingue di bianco a segnare i rilievi dei muretti a secco sui
pendii. Perdo un bel po' di tempo a portare la bici a fianco, mentre
Matteo, alla fine del tratto nevoso, pazientemente attende. Però,
camminare mi aiuta a riportare un po' di sangue fino in fondo alle
dita dei piedi.
L'asfalto riprende in
condizioni migliori, anche se qui, in discesa, bisogna prestare
attenzione al ghiaccio formato sulla strada dallo scioglimento della
neve. Raggiungiamo la strada principale che da Cortemilia sale a
Serole, per due o tre km, non di più: ne approfitto per mangiare un
avanzo di panettone ormai secco. Imbocchiamo poi il bivio a sinistra
per Puschere, dove accumuliamo ancora un po' di dislivello in salita,
un paio di tornanti fino ad un gruppo di cascine. Altro tratto di
discesa: qui la strada, una poderale su cui tra l'altro potrebbero
passare solo gli aventi diritto, è in pessime condizioni. Alcuni
punti sono sterrati, altri hanno visto l'ultima riasfaltatura ai
tempi delle Guerre Puniche. Io, per non saper né leggere né
scrivere, faccio su e giù dalla bici. La strada arriva sul fondo dei
calanchi, sempre in condizioni precarie, ma migliora subito dopo il
ponticello in curva, quando si torna a salire, gradualmente, a
strappi. Soprattutto, si torna al sole. Olmo Gentile è ormai ad un
tiro di schioppo: superiamo alcuni gruppi di cascine e case in
pietra, dove si percepisce traccia di presenza umana – auto
parcheggiate, camini che fumano – ma non si vede né si sente anima
viva.
Attraversiamo il
minuscolo paese di Olmo Gentile, per poi imboccare l'ultimo bivio a
sinistra prima della salita che porta alla torre. Discesa abbastanza
lunga e ripida, con fondo umido ed ingombro di ghiaietto, tanto che
persino Matteo la affronta a freni tirati. Scendiamo per alcuni km e
ci sembra di essere lontani da tutto, come se stessimo andando giù
in un pozzo. Finché la strada asfaltata finisce, ma lo sapevo già.
Due cagnetti bianchi ci tendono un agguato poco convinto. Da qui, un
km e mezzo di sentiero che, ovviamente, è anch'esso ricoperto di
neve. Affrontiamo il primo tratto, per forza, con le bici per mano:
le scarpette da corsa, per me, e le scarpe da bici di Matteo non sono
le calzature più idonee all'uopo... Speriamo di non scivolare. Anche
qui la neve è ancora in parte gelata. Attraversiamo un frutteto,
superiamo un guado: da qui, nella neve e su una pendenza non
trascurabile, è passata un'auto, ci sono le tracce degli pneumatici.
Complimenti per il coraggio e l'abilità di guida: l'avessi fatto io,
mi avrebbero ritrovata al disgelo...
Dal guado, il sentiero
diventa strada sterrata e quasi sgombra dalla neve, perché più
esposta al sole. Si risale ancora qualche centinaio di metri, Matteo
in sella, io sempre prudentemente a piedi con la bici per mano. Fino
all'asfalto. A sinistra, si raggiungerebbe Perletto per via diretta.
A destra, ancora una sequenza di rampe secche, impegnative, che
passano accanto ad alcune case in pietra, ristrutturate, una più
bella dell'altra. La torre di Perletto, sulla sinistra, è molto
vicina e ci dà l'idea dell'orientamento. Ma noi, salendo ancora un
po', arriviamo proprio sotto San Giorgio Scarampi, sulla strada che
da Roccaverano scende a Vesime. Ne percorriamo non più di duecento
metri, per imboccare immediatamente un bivio a sinistra. Lunga e
ripida discesa tutta a tornantini, insidiosa per il fondo stradale.
Qualche tratto decisamente ripido risveglia in me il terrore: lo
affronto a velocità appena sufficiente a tenere la bici in piedi:
anzi, in un punto, addirittura scendo di sella. Ho sempre avuto una
paura invincibile della discesa, sempre; però, andando avanti con
gli anni, la cosa è peggiorata. Oltre ad una certa pendenza, mi
sembra di percepire il ribaltamento in avanti: razionalmente è
impossibile, ma non ce la faccio. Ho davvero paura. Così, finisco
regolarmente per impiegare più tempo a scendere che a salire.
Infatti, per ora, la media del giro di oggi si aggira sui 10 km/h o
poco più...
Ancora una volta siamo
sulla strada principale. Destinazione, Vesime, per la tappa
cioccolata calda. Nella speranza ardente che il bar sull'angolo sia
aperto... Matteo mi precede: quando lo vedo fermo davanti alla
vetrina, mi rincuoro. Una cioccolata densa e buonissima: peccato che,
anziché una tazza, ce ne vorrebbe una vasca da bagno colma...
Ritemprate un pochino le
forze – io cominciavo ad avvertire furiosi i morsi della fame –
ci avviamo per l'ultima fatica, mentre il cielo, fino ad ora di un
azzurro prepotente, comincia a velarsi di grigio. Direzione
Cortemilia per un km, più o meno, e poi bivio a destra per Scorrone.
Salita ormai nota, assai cattiva, con rampe molto impegnative e pochi
tratti di recupero. La collina, con questa luce cupa, mostra il suo
aspetto più severo; nemmeno più il conforto di un raggio di sole...
Il lupone meraviglioso, a
guardia del cortile di un'azienda agricola, mi accompagna con i suoi
latrati verso l'ultimo tornante in salita della giornata. Si
scollina, si svolta a sinistra, direzione Castino. Per arrivarci,
ancora qualche km di odiosa leggerissima salita: sarà che, per oggi,
ne ho proprio abbastanza... Ultimi tre o quattro km di discesa
decisa, su strada ampia ma per me un po' più angosciante perché,
qui, qualche auto passa. Stoicamente non ho più voluto fermarmi per
indossare la giacca antivento: arrivo giù che sono rigida come uno
stoccafisso. Circa 72 km e 1.800 m di dislivello: per oggi può
bastare. Non mi resta che portare la temperatura dell'abitacolo della
Zafirona al calor bianco e pazienza se Matteo ben presto comincia a
mostrare segni di disagio: chi osa protestare sarà scaricato ed
abbandonato lungo la via. Uomo avvisato...