lunedì 12 febbraio 2018

11 febbraio 2018 – SI TORNA A PEDALARE


Era da parecchio tempo che non caricavo più la bici in auto e me stessa in sella alla bici. Ho pedalato l'ultima volta ben sei mesi fa, proprio il giorno di Ferragosto, peraltro con esito penoso per me stessa e per i due tapini che quel giorno mi accompagnavano. Poi, la corsa ha assorbito tutte le mie energie, anche perché, per la prima volta nella mia vita, ho deciso di provare ad allenarmi con un po' più di metodo, affidandomi ai consigli di chi, in materia, ne sa più di me. Non l'avessi mai fatto: prima, l'euforia del miglioramento e poi, ahimè, la dura sorpresa del primo, serio infortunio da quando ho coscienza di esistere. Non certo per colpa dell'allenamento finalmente sensato, ma della jella che, si dice, al contrario della fortuna, ci vede benissimo. Ormai da due mesi trascino un fastidioso problema che, a giudicare da quanto ho letto qua e là su internet, potrebbe vagamente somigliare alla metatarsalgia: ho provato un po' di tutto, anche a stringere i denti e continuare a correre, ma ultimamente il dolore è davvero pungente e le uscite per gli allenamenti sono diventate una pena. Da una parte, sono quasi sollevata: da che mondo e mondo, un podista che si rispetti ha almeno un acciacco in corso, sempre, di cui parlare con malcelato compiacimento e da brandire come scusa per qualsiasi prestazione al di sotto delle aspettative. Io non avevo mai avuto nulla, fino ad ora. Mi sentivo quasi un po' discriminata, diversa. Ora che ho anche io il mio malanno sono finalmente a posto con la coscienza. Però non riesco più a correre... Tra qualche giorno andrò a farmi dare un'occhiata da qualcuno che dovrebbe saperne un po' più di me. Nel frattempo, ho pensato di sostituire la corsa con l'antico e forse unico vero amore, la bici.

In realtà, pedalare è ciò che avrei continuato a fare con vera passione, se nel mio percorso di vita e di sport non mi fossi imbattuta in alcuni incidenti, l'ultimo dei quali avrebbe potuto lasciare conseguenze molto peggiori di un trauma cranico e della rottura degli incisivi. Sono passati ormai parecchi anni, ma la paura non è più guarita. Soprattutto se si tratta di pedalare su strade con un certo traffico. Oggi, però, potrebbe essere una buona occasione per un ritorno in sella ovattato: lungo l'itinerario che ho programmato, se ne vedranno ben pochi, di veicoli a motore.

Il parcheggio di Campetto, accanto al ponte sul Belbo, a metà tra Borgomale e Castino, alle otto e mezza è deserto. Temperatura, zero gradi, tondi tondi. Non è che io sia proprio convintissima, intendiamoci, ma ormai son qui... Tre strati tra maglie e giacca invernale, pantaloni Assos lunghi e spessi, guanti, calze spesse, plantari morbidi per l'avampiede, nella speranza che le sollecitazioni dei pedali non facciano ulteriori danni. Eh, brutta bestia, la vecchiaia. Acciacchi che spuntano come i funghi in un piovoso autunno. A stento mi ricordo come si salti in sella, non parliamo poi di ricordare come si manovrino i rapporti. Ma intanto sono partita. Prima salita in direzione di Bosia. Poche centinaia di metri bastano a ricordarmi il motivo per cui, negli ultimi tempi, io mi sia sempre rifiutata di pedalare in inverno: piedi gelati, irrigiditi e dolenti; mani, idem. Comincio spasmodicamente a staccare dal manubrio una mano per volta, aprendo e chiudendo le dita per riportare un'idea di circolazione nelle falangi; nel contempo, cerco di muovere le dita dei piedi, che però non hanno proprio più sensibilità. La salita è tutta in ombra; la luce lambisce appena le cime delle colline dall'altro lato della valle. Qui in basso è tutto bianco di brina, immobile, cupo.

Pedalo il più agilmente possibile: l'itinerario di oggi sarà impegnativo e non posso permettermi di irrigidire le gambe già adesso. Ma i piedi e le mani fanno sempre più male. Quanto a circolazione periferica, io sono un vero disastro: le dita non si limitano a diventare fredde, ma gonfiano e si irrigidiscono, soprattutto quelle dei piedi. E sì che non indosso più da tempo le scarpe che si agganciano al pedale: ho un paio di scarpe da corsa, molto morbide sia sulla suola che sulla tomaia. Con le estremità inferiori conciate male come in questo periodo, non potrei sopportare nulla di vagamente più rigido.
La salita scalda il resto del corpo, ma è una pena. Mi maledico mille volte per la mia sciagurata idea: ma chi me l'ha fatto fare di venire a soffrire così? Ma come facevo, tanti anni fa, ad uscire in bici in qualsiasi condizione di temperatura, con ostinazione furiosa?

Mi superano in tutto tre auto, prima di raggiungere l'incrocio con la strada che scende a Torre Bormida. Prima, agghiacciante discesa, che affronto come se le ruote viaggiassero su un tappeto di uova. Il mio terrore della discesa ha ormai raggiunto il punto di non ritorno, soprattutto adesso che, con mani e piedi insensibili, non ho sicurezza né nell'appoggio sui pedali, né nella frenata. Nel dubbio, appena riesco, afferro i freni e li tengo tirati. Scendo pianino, ma il freddo penetra immediatamente nel collo, nel tronco, nelle gambe. Qui un po' di sole arriva, ma è ancora troppo presto. Per ora non riesco ad ammirare la bellezza della Valle Bormida che si apre qui sotto. Anzi: un paio di volte mi fermo per scuotere con violenza i piedi, se non altro per capire se sono ancora attaccati alle caviglie. Di muovere le dita non c'è modo. E il ghiaietto e l'umidità sull'asfalto mi incutono una gran paura.

L'arrivo a Torre Bormida, fine della discesa, è una liberazione. Mi immetto sulla strada di fondovalle, tenendo la destra: pochi km e ci sarà il bivio per Levice, sulla sinistra. Uno dei pochi tratti di pianura di questa giornata. Al bivio, svolto ed attraverso il ponte sul torrente Bormida: finalmente, si ricomincia a salire. Lentamente, con molta fatica e ancora per lunghi tratti in ombra. Mi fermo ancora una volta per riattivare la circolazione nelle mani e nei piedi. Il sole inonda la vallata, man mano che si alza, ma il freddo è ancora pungente. Breve e dolce la strada che, con alcuni ampi tornanti, sale a Levice: uno dei pochissimi posti dotati di bagni pubblici puliti ed aperti. Sarà che qui non c'è proprio mai anima viva... Sono tappe strategiche, essenziali, soprattutto adesso che la salopette lunga invernale costringe ad un mezzo strip tease per assecondare le esigenze “interiori”.

Da Levice, conclusa la tappa e l'ennesima sessione di massaggio e scuotimento dei piedi, riparto in direzione di Bergolo. Si sale ancora, ma lievemente, per alcuni km, in cui approfitto per mangiare la prima barretta della giornata. Da Bergolo scendo verso Cortemilia, altro momento di gelido dolore: ad un paio di km dal fondovalle, incrocio Matteo che, partito da tutt'altra parte, mi pedala incontro. Carico come un mulo di ogni sorta di mercanzia, tra cui tubo e telefono della doccia da cambiare a casa mia ed un paio di scarpe da corsa per me, che chissà se e quando potrò tornare ad usare. Ma lui non fatica, soprattutto se si tratta di pedalare al mio ritmo. Mi accoglie con un entusiasta “Che bello rivederti in bici”, a cui io rispondo con un ringhio: “Tralasciando il freddo porco, il male alle mani ed ai piedi, il dolore al culo, è bellissimo, senza dubbio”.

Da Cortemilia, inizia un giro che ho provato domenica scorsa a piedi e che sono curiosa di mostrare oggi al mio compagno di viaggio. Sperando di ricordarmi i mille bivi. Superato il ponte sul torrente Uzzone, svoltiamo quasi subito a sinistra, in direzione di Monte Oliveto. La salita è aspra, sale con alcuni ripidi tornanti: in un punto, il Garmin di Matteo segna addirittura il 16%. Breve tratto di requie prima di Perletto e poi ancora rampe, in salita sulla via Piazze. Guai a tardare a mettere il rapportino... Si va su per i boschi, con il sole basso che abbaglia tra i rami degli alberi. Una stradina minuscola, con pendenza irregolare, tra pochissime case abitate, cappellette e costruzioni in pietra purtroppo diroccate. Un secco bivio a sinistra, con direzione Serole, mostra le prime tracce di neve sulla strada: già, non ricordavo più che in settimana ha nevicato...

Da qui in poi, molti tratti di strada sono ingombri di neve. Non per intero: ci si passerebbe, volendo, comodamente in sella. Infatti, Matteo lo fa. Io preferisco, in molti casi, scendere e spingere: soprattutto nel tratto di pianoro più in alto, dove la strada diventa per un tratto sterrata ed è coperta di neve per intero. Neve, per fortuna, gelata, che sostiene quasi ovunque il mio peso. Tutto intorno, una distesa bianca; lingue di bianco a segnare i rilievi dei muretti a secco sui pendii. Perdo un bel po' di tempo a portare la bici a fianco, mentre Matteo, alla fine del tratto nevoso, pazientemente attende. Però, camminare mi aiuta a riportare un po' di sangue fino in fondo alle dita dei piedi.



L'asfalto riprende in condizioni migliori, anche se qui, in discesa, bisogna prestare attenzione al ghiaccio formato sulla strada dallo scioglimento della neve. Raggiungiamo la strada principale che da Cortemilia sale a Serole, per due o tre km, non di più: ne approfitto per mangiare un avanzo di panettone ormai secco. Imbocchiamo poi il bivio a sinistra per Puschere, dove accumuliamo ancora un po' di dislivello in salita, un paio di tornanti fino ad un gruppo di cascine. Altro tratto di discesa: qui la strada, una poderale su cui tra l'altro potrebbero passare solo gli aventi diritto, è in pessime condizioni. Alcuni punti sono sterrati, altri hanno visto l'ultima riasfaltatura ai tempi delle Guerre Puniche. Io, per non saper né leggere né scrivere, faccio su e giù dalla bici. La strada arriva sul fondo dei calanchi, sempre in condizioni precarie, ma migliora subito dopo il ponticello in curva, quando si torna a salire, gradualmente, a strappi. Soprattutto, si torna al sole. Olmo Gentile è ormai ad un tiro di schioppo: superiamo alcuni gruppi di cascine e case in pietra, dove si percepisce traccia di presenza umana – auto parcheggiate, camini che fumano – ma non si vede né si sente anima viva.


Attraversiamo il minuscolo paese di Olmo Gentile, per poi imboccare l'ultimo bivio a sinistra prima della salita che porta alla torre. Discesa abbastanza lunga e ripida, con fondo umido ed ingombro di ghiaietto, tanto che persino Matteo la affronta a freni tirati. Scendiamo per alcuni km e ci sembra di essere lontani da tutto, come se stessimo andando giù in un pozzo. Finché la strada asfaltata finisce, ma lo sapevo già. Due cagnetti bianchi ci tendono un agguato poco convinto. Da qui, un km e mezzo di sentiero che, ovviamente, è anch'esso ricoperto di neve. Affrontiamo il primo tratto, per forza, con le bici per mano: le scarpette da corsa, per me, e le scarpe da bici di Matteo non sono le calzature più idonee all'uopo... Speriamo di non scivolare. Anche qui la neve è ancora in parte gelata. Attraversiamo un frutteto, superiamo un guado: da qui, nella neve e su una pendenza non trascurabile, è passata un'auto, ci sono le tracce degli pneumatici. Complimenti per il coraggio e l'abilità di guida: l'avessi fatto io, mi avrebbero ritrovata al disgelo...

Dal guado, il sentiero diventa strada sterrata e quasi sgombra dalla neve, perché più esposta al sole. Si risale ancora qualche centinaio di metri, Matteo in sella, io sempre prudentemente a piedi con la bici per mano. Fino all'asfalto. A sinistra, si raggiungerebbe Perletto per via diretta. A destra, ancora una sequenza di rampe secche, impegnative, che passano accanto ad alcune case in pietra, ristrutturate, una più bella dell'altra. La torre di Perletto, sulla sinistra, è molto vicina e ci dà l'idea dell'orientamento. Ma noi, salendo ancora un po', arriviamo proprio sotto San Giorgio Scarampi, sulla strada che da Roccaverano scende a Vesime. Ne percorriamo non più di duecento metri, per imboccare immediatamente un bivio a sinistra. Lunga e ripida discesa tutta a tornantini, insidiosa per il fondo stradale. Qualche tratto decisamente ripido risveglia in me il terrore: lo affronto a velocità appena sufficiente a tenere la bici in piedi: anzi, in un punto, addirittura scendo di sella. Ho sempre avuto una paura invincibile della discesa, sempre; però, andando avanti con gli anni, la cosa è peggiorata. Oltre ad una certa pendenza, mi sembra di percepire il ribaltamento in avanti: razionalmente è impossibile, ma non ce la faccio. Ho davvero paura. Così, finisco regolarmente per impiegare più tempo a scendere che a salire. Infatti, per ora, la media del giro di oggi si aggira sui 10 km/h o poco più...

Ancora una volta siamo sulla strada principale. Destinazione, Vesime, per la tappa cioccolata calda. Nella speranza ardente che il bar sull'angolo sia aperto... Matteo mi precede: quando lo vedo fermo davanti alla vetrina, mi rincuoro. Una cioccolata densa e buonissima: peccato che, anziché una tazza, ce ne vorrebbe una vasca da bagno colma...

Ritemprate un pochino le forze – io cominciavo ad avvertire furiosi i morsi della fame – ci avviamo per l'ultima fatica, mentre il cielo, fino ad ora di un azzurro prepotente, comincia a velarsi di grigio. Direzione Cortemilia per un km, più o meno, e poi bivio a destra per Scorrone. Salita ormai nota, assai cattiva, con rampe molto impegnative e pochi tratti di recupero. La collina, con questa luce cupa, mostra il suo aspetto più severo; nemmeno più il conforto di un raggio di sole...

Il lupone meraviglioso, a guardia del cortile di un'azienda agricola, mi accompagna con i suoi latrati verso l'ultimo tornante in salita della giornata. Si scollina, si svolta a sinistra, direzione Castino. Per arrivarci, ancora qualche km di odiosa leggerissima salita: sarà che, per oggi, ne ho proprio abbastanza... Ultimi tre o quattro km di discesa decisa, su strada ampia ma per me un po' più angosciante perché, qui, qualche auto passa. Stoicamente non ho più voluto fermarmi per indossare la giacca antivento: arrivo giù che sono rigida come uno stoccafisso. Circa 72 km e 1.800 m di dislivello: per oggi può bastare. Non mi resta che portare la temperatura dell'abitacolo della Zafirona al calor bianco e pazienza se Matteo ben presto comincia a mostrare segni di disagio: chi osa protestare sarà scaricato ed abbandonato lungo la via. Uomo avvisato...




1 commento:

  1. Finalmente il ritorno in bici, compagna di mille avventure e testimone di tante piccole ma grandi (si fa per dire) imprese. Non c'è niente da fare, la bici è sempre la bici.
    Roberto

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