I sintomi della vecchiaia sono sempre
più evidenti. Fino a qualche anno fa, mai e poi mai mi sarei
permessa di sgarrare al programma che io stessa avevo stabilito per
la giornata sportiva. Se avevo deciso di partire di corsa o in bici
alle tre di notte, sarei partita alle tre di notte, senza alcuna
pietà per me stessa. Ora, l'età avanza e la volontà vacilla. Così,
la sveglia che suona alle 3,30 viene prontamente zittita,
accompagnando il gesto con espressioni che mal si addicono ad una
signora, e spostata alle 4.30. Ma la sveglia delle 4.30 viene
bellamente ignorata, o meglio, spenta in un momento di sonnambulismo.
Apro gli occhi alle cinque passate. Ai tempi d'oro, sarei schizzata
giù dal materasso inferocita con me stessa, cominciando la giornata
con un diavolo per capello. Ora, più anziana e forse un po' più
saggia, prendo atto della mia stessa pigrizia, sposto con delicatezza
un paio di cani che mi dormono addosso – e che non provano alcun
rimorso per il sonno prolungato – e mi alzo, ormai rassegnata a
cambiare un po' il piano d'attacco del giorno.
Dalla sveglia alla partenza trascorre
oltre un'ora, un po' perché la mia abituale colazione pantagruelica
richiede tempo e un po' perché, oltre alla preparazione della
podista, bisogna provvedere al nutrimento delle tredici belve. Li ho
svegliati ad un'ora per loro inammissibile... Il minimo che adesso
possa fare è dar loro la pappa. Rapida occhiata dalla finestra per
valutare il meteo: sembra nuvoloso, come del resto era stato
annunciato, ma non fa freddo. Ergo, maniche corte, gilet e
pantaloncino corto. Zainetto con sacca per l'acqua, perché starò in
giro qualche ora, quattro barrette, un gel e rotolo di papiro per le
soste d'emergenza. Telefonino da usare come lettore di musica,
cuffie, GPS per il reparto tecnologia. Cani sazi, bagaglio pronto, si
parte. Venti minuti di auto per trasferirmi da casa fin nei paraggi
di Neive: tutto ciò che rimane del mio rapporto con le discoteche,
al di là di qualche domenica pomeriggio trascorsa a ballare ai tempi
dei primi anni del liceo, è la consuetudine del parcheggio davanti
al Pepedoro, locale che, a giudicare dalle pubblicità martellanti
sulle radio locali, fa furore, ma che, come tutti i luoghi che vivono
di notte, con la luce del sole mette un po' di tristezza.
Fa freddo, ma non troppo. Aleggia una
nebbiolina che i raggi del primo sole cominciano a bucare. Non sono
ancora le sette: sistemo zainetto ed auricolari, smadonno per
districare il groviglio di fili e spallacci, ricomincio da capo.
Finalmente si parte. Con cautela: le gambe sono reduci da un penoso
tentativo di partecipazione alla 24h a circuito di Torino, tre giorni
fa, in cui ho percorso poco più di un centinaio di km prima che la
nausea del circuito da un km e mezzo prendesse il sopravvento su di
me. Non ce l'ho potuta fare: a tarda sera ho riconsegnato il chip di
cronometraggio, ho raccolto i miei stracci, sono saltata in auto e
son tornata a casa. Però, cento km di corsa son sempre 100 km e
lasciano il segno per qualche giorno. Mi avvio a passo lento tra i
noccioleti e la nebbia sospesa, lungo la strada secondaria che taglia
l'abitato di Neive e porta direttamente a Castagnole delle Lanze. Il
centro storico di Neive rimane sulla destra, lassù in alto. Qui,
solo nocciole, viti e qualche cascina. Subito un paio di strappi
severi, per gradire, e l'incrocio nell'interno di una curva cieca con
il camioncino della raccolta dell'immondizia. Mannaggia, ma oggi i
netturbini non fanno festa?
In effetti, per essere il 25 aprile di
primissima mattina, c'è parecchio movimento. E persone al lavoro
nelle viti: immagino che questa stagione non conceda requie a chi
vive di vigneti e frutteti, neppure nelle feste comandate. Qualche
saliscendi, una curva secca a sinistra ed ecco le prime case di
Castagnole delle Lanze, precisamente della località Farinere. Sono
per lo più gli anziani a spostarsi a quest'ora, per lo più alla
guida di una Panda e per lo più con il cappello in testa. La piazza
di Castagnole è inaspettatamente animata, soprattutto nei paraggi di
un bar. Il passaggio di una podista di un certo spessore, inteso
proprio nel senso di dimensione fisica, e parecchio desnuda rispetto
alla temperatura, suscita vivace curiosità. Ma è un attimo: supero
la piazza, giro verso Neive ed un centinaio di metri dopo imbocco il
bivio per Coazzolo. Di qui, una teoria di vetrine vuote, il vecchio
passaggio a livello della ferrovia in disuso, qualche condominio che
sa di vetusto e capannoni chiusi per via del giorno festivo. Poi,
dinuovo le colline. La strada sale dolcemente fino al bivio che
interessa a me: non ho intenzione di salire a Coazzolo per la via
diretta. Imbocco sulla sinistra una stradina che, dopo un paio di km
quasi in piano con passaggio vicino ad una fabbrica di piscine,
prende a salire decisa.
A me, che adoro nuotare proprio per il
gesto del nuoto e quindi apprezzo le piscine vere, quelle lunghe e
con le corsie, l'idea della piscinotta domestica mette una gran
tristezza. Come fai a nuotarci dentro? E che te ne fai di una piscina
se non ci nuoti? Sguazzi in una pozza per i due mesi scarsi l'anno in
cui è climaticamente possibile farlo, almeno dalle nostre parti? Non
so... Mi sa di “volere e non potere”, di qualcosa da ostentare,
quindi per me privo di qualsiasi attrattiva. A meno che un giorno lo
zio d'America mi lasci i fondi necessari a realizzare una mia piscina
olimpionica privata. Anzi, solo una corsia di piscina olimpionica
privata. La piscina intera non mi serve, tanto sono un'asociale, ci
nuoterei comunque solo io.
Ora che mi sono tirata addosso l'odio
della lobby delle piscine private, passo oltre e comincio la salita,
a cui le gambe rispondono con insperato entusiasmo. Viti a profusione
e il paesaggio che si allarga, con i cocuzzoli delle colline che
spuntano da un'aureola di nebbia. Le Alpi no, mi sa che oggi non le
vedrò, data la coltre di nuvole scure che copre l'orizzonte, ma
posso accontentarmi.
Questa per me rimarrà per sempre la
strada dove, per la prima volta, ho visto dal vivo il cartello
stradale che vieta l'accesso ai mezzi cingolati. Ce ne sono ben due,
uno appena oltre il primo tornante ed uno più avanti, in
corrispondenza di un gruppo di vecchie cascine bellissime.
Man mano che prendo quota, sento più
intenso il soffio del vento e la maglia già bagnata di sudore che si
appiccica gelida alla pelle. Ville moderne e cascinali di una volta:
poi, la curiosissima chiesetta di Coazzolo. La prima volta in cui
l'ho vista è stata un fulmine a ciel sereno: qui, dove tutto intorno
non si vede altro che regolarissimi filari di viti ed un senso di
rigore, quiete e lavoro, spunta proprio sul crinale una piccola
chiesa ridipinta con colori e forme geometriche sgargianti e
decisamente inconsueti, soprattutto per un luogo di culto. Opera
recente di un artista britannico, David Tremlett, con il sostegno di
un imprenditore del luogo. Non posso fare a meno di scattare una
foto, anche se ne ho già a decine. Il vento, però, mi convince a
ripartire subito, per evitare di prendere un malanno.
Ancora un km di lieve salita, fino al
bivio con la strada che, a destra, raggiunge l'abitato di Coazzolo e,
a sinistra, porta verso Santo Stefano Belbo oppure verso Mango. E' a
Mango che io sono diretta. Ancora qualche panoramicissimo km di
blanda salita, in cui lo stomaco comincia a rivendicare le sue
spettanze. Prima barretta andata. Non è che i garretti siano proprio
brillantissimi, oggi, ma non posso nemmeno pretendere più di tanto.
I 100 km... E l'età che rende più lento il recupero. Quando me lo
raccontavano, anni fa, non ci credevo. Facevo spallucce. Ma
ovviamente, come sempre, il monito era destinato ad avverarsi, prima
o poi.
Ancora un paio di tornanti prima del
bivio per Camo. La musica non mi distrae dal magnifico panorama di
colline tutt'intorno. Oltre la curva a destra, il profilo imponente
del castello di Mango. E ancora il vento, insistente. Un paio di km e
ci sono: mi lascio il paese a sinistra e scendo in direzione di
Neviglie. Il cartello di un sentiero che indica San Donato, sulla
sinistra del viale, mi incuriosisce: lo imbocco... Ma il sentiero
diventa presto una traccia mal segnata ed un tratturo che mi riporta
sullo stesso viale, qualche centinaio di metri più avanti, dopo un
giro nelle vigne. Un po' delusa, riprendo la marcia sull'asfalto e
svolto a destra per Neviglie.
Ancora lenta salita con vista, questa
volta, verso Neive, fino ad un gruppo di cascine in località
Ronconuovo; qui si scollina e si scende verso Neviglie. Area pic nic
sulla sinistra, rigorosamente deserta, e, appena prima del paese, un
bivio sulla destra con strappo secco in salita. E' il mio. Lo
imbocco, supero la rampa che le gambe, un po' rilassate, digeriscono
male, e poi in picchiata lungo una ripida discesa tra i vigneti, in
cui l'asfalto per qualche tratto lascia il posto al cemento. Ancora
un bivio a sinistra: qui, per districarsi nel groviglio di stradine,
bisogna prima perdersi qualche volta, ma è un capitolo che ho già
scritto. Punto decisa verso il fondo della valletta, dove qualche
solitario di buon gusto ha ristrutturato ad arte due meravigliosi
edifici in pietra; supero un ponticello e poi mi concedo una novità.
Di solito, qui, piego a sinistra e vado direttamente verso Neive,
lungo una splendida stradina che va a ricongiungersi al primo
tornante della strada principale tra Neive e Mango. Oggi invece ho
pensato di provare a girare a destra. C'è una strada che non ho mai
percorso e che, per ovvio obbligo geografico vista la conformazione
del luogo, non può che tornare a Mango o nei paraggi. D'altro canto,
potrebbe anche interrompersi in qualche frazione. Ergo, proviamo.
Altra salita, per un breve tratto su
asfalto. Poi, un cartello di legno attira la mia attenzione: “Mango”,
con la freccia rivolta verso un ampio sentiero tra i filari. E perché
no? Proviamo. Affronto con un po' di rassegnazione l'ennesima nuvola
di chissà quale intruglio chimico che alcuni lavoranti stanno
spandendo nelle vigne: se non altro, questi sono dotati di tuta e
mascherine... Non è affatto una precauzione comune, anzi. Io no, non
ho nulla di tutto ciò. Passo alla svelta ed un po' scocciata, anche
se in realtà non posso certo pretendere che queste persone
interrompano il loro lavoro al passaggio di una squinternata che
corre. Il sentiero, quasi una bella strada bianca, prosegue fino ad
un gruppo di case e ridiventa strada asfaltata. Un altro cartello di
legno ed un altro bivio a sinistra mi rimandano però su un nuovo
tratto di sentiero, prima ben segnato e poi più vago, prima in un
vigneto e poi attraverso i noccioleti, con Mango sopra la testa. La
terra grigia e sabbiosa è spaccata e come sfogliata dalla mancanza
d'acqua; le scarpe non lasciano quasi traccia.
Seguendo quello che mi sembra il
tracciato più logico del sentiero ben poco tracciato, sbuco
nuovamente nel viale di Mango già percorso prima. Torno su, ma
neppure questa volta entro in paese. Comincio la lunga discesa verso
Neive, mentre in cielo si addensano nuvoloni scuri ed il vento
rinforza ancora. Sono a circa 25 km di giro; ne mancherà una decina,
occhio e croce.
Scendo osservando la strada da cui sono
scesa prima, sull'altro versante della valle, alla mia destra. In
effetti è proprio ripida. Ci sono mezzi scavatori al lavoro per
l'impianto dei nuovi vigneti, su fette di collina nude e bruciate
dalla siccità. Incrocio qualche ciclista: in effetti, sono tutti ben
più vestiti di me. E poi, mentre procedo di buon passo, sopra
pensiero...
…la lapide. Quel pezzo di marmo
vagamente triangolare, con la foto di una ragazza bruna, davvero
bella, ed un nome scritto in elegante carattere corsivo, Alessia.
Negli ultimi anni ho percorso spesso
questa strada, più sovente in salita che in discesa, talvolta in
bici e talvolta a piedi. E' ormai da tanto che c'è, quella lapide.
Ma, sulle prime, non ci avevo fatto più di tanto caso. Un po'
perché, per natura, sono poco incline ai sentimenti nei confronti
dei miei simili, siano essi di affetto o di pietà, e un po' perché
ai bordi delle strade capita spesso di vedere lapidi, cippi
commemorativi, mazzi di fiori legati ad un sostegno qualsiasi. Ma
sugli altri cippi, spesso, le immagini e le dediche si coprono di
polvere che col tempo nessuno toglie più; i fiori prima freschi
lasciano il posto a quelli finti e, poi, anche i fiori finti si
sgretolano al passare delle stagioni, forse perché il dolore sfuma
in ricordo, forse perché non c'è più neppure chi si curava di
ricordare e far ricordare.
Tutto questo però non è accaduto alla
lapide di Alessia. Ogni volta che passavo, la vedevo sempre lustra,
ricolma di ninnoli, bella come può essere bello un monumento ad un
defunto, curata, immaginavo, dalla mano di qualcuno che non avrebbe
mai potuto darsi pace.
Un giorno, non so quanto tempo fa,
mentre scendevo in bici da Mango verso Neive, ricordo di aver visto,
già da lontano, un'auto ferma nei pressi del cippo. Ricordo di aver
rallentato molto: c'erano due persone, un uomo ed una donna, delle
cui fattezze non mi è rimasto impresso nulla, ma che senza ombra di
dubbio erano la mamma ed il papà, intenti a ripulire ed abbellire la
lapide. Ricordo di aver provato il fortissimo desiderio di fermarmi,
avvicinarmi, chiedere loro cosa fosse successo. Forse avrei dovuto
farlo; probabilmente quella mamma e quel papà avrebbero parlato
volentieri della loro figlia, chissà se unica. Sarebbero stati
contenti di sentirsi dire che era molto bella, perché questo è
tutto ciò che io so di quella ragazza, dalla sua foto. Non ho osato,
per timore che la mia fosse scambiata per curiosità morbosa. Ma,
soprattutto, non ho osato per vigliaccheria, perché ho avuto paura
di non poter reggere nemmeno una minuscola scheggia del loro immenso
dolore.
Se devo essere sincera, non ho mai
apprezzato l'ostentazione dei sentimenti, di qualsiasi natura essi
siano, nel bene e nel male. Non sono mai andata a trovare i miei cari
defunti al cimitero, perché è una cosa che ritengo del tutto priva
di senso, posto che lì non c'è altro che materia organica in
decomposizione e che le persone, semplicemente, non esistono più. E,
per quel poco che mi importa del “dopo di me”, vorrei che nessuno
venisse a cercare me quando non ci sarò più. Ma è una mia scelta.
E' anche vero che io non sono genitore, non ho mai desiderato nemmeno
per un istante un figlio e quindi non posso, né cerco di immaginare
neanche lontanamente quel che possa significare, per una madre o un
padre, perdere un figlio. Se non attraverso mia madre, la sua
preoccupazione e la sua paura ogni volta che per qualche ragione ha
temuto per la sorte delle figlie.
Alla lapide di Alessia non ho mai
neppure trovato il coraggio di scattare una fotografia. Ma qualcuno,
un inverno, lo ha fatto. Ho trovato in rete, questa immagine (scatto di Carlo Meazza).
Da poche notizie rinvenute su internet,
con il beneficio del dubbio dei resoconti di cronaca, ho letto che la
ragazza, appena diciottenne, è rimasta vittima di un incidente
stradale in una notte di novembre del 2010, sull'auto guidata da un
coetaneo. Mi è venuto spontaneo di pensare che diciotto anni siano
proprio pochi per guidare un'auto e mi sono domandata come possa un
genitore sopravvivere all'angoscia di sapere un figlio così giovane
in auto. Ci vuole troppo coraggio per essere genitori.
Da quel giorno, non passo più davanti
a quella lapide senza fermarmi almeno un brevissimo istante, per quel
nulla che può servire. Nemmeno oggi. Mi allontano come sempre con il
groppo in gola. La vita continua, quasi sempre, ma per le mani che
curano quella lapide sembra essersi fermata ad una notte di poco più
di sei anni fa.
Al trotto, supero gli ultimi due
tornanti in discesa. Altro attentato ai miei polmoni, da parte di un
anziano che sta bruciando sterpaglie usando come combustibile
qualcosa come uranio impoverito, a giudicare dall'odore... Mi salva
il sentiero sulla sinistra, che mi fa guadagnare ancora qualche metro
di dislivello, per poi scollinare al cospetto della bellissima torre
romanica del monastero. Ancora uno strappo alla periferia di Neive,
per superare la rotonda ed imboccare a destra la strada del cimitero.
Provvidenziale la fontanella: la sacca idrica nello zaino ormai è
vuota ed ho una gran sete... Oltre ad una gran fame. Ho consumato due
barrette, ma ormai non vale più la pena di attaccare la terza. Mi
avvio in direzione della località Albesani: passo oltre, sfilando
accanto ad una casa protetta da tre meravigliosi maremmani dall'aria
ben poco amichevole. Non mi resta che l'ultima discesa secca, prima
di tornare in vista del Pepedoro e della mia fida Zafira in attesa.
Avviso la Madre a casa: venti minuti ed arrivo, butta la pasta o
mangio le gambe del tavolo!
Gran bel racconto. R.
RispondiEliminaPs. Ma la bici l'hai appesa al chiodo?
Per ora sì... Non ho il tempo di far tutto. Allenarsi in bici seriamente ne richiede troppo. Per la corsa ne basta meno. Spero, in futuro, di poter fare meglio.
RispondiEliminaConcordo... io (quando posso) vado in bici ma è dura e ci vuole un sacco di tempo per raggiungere una discreta forma, già sapendo che poi andrà immancabilmente persa durante il successivo inverno... R.
Elimina