Preparatori atletici e nutrizionisti, fatevi da parte... Non avete
speranza di competere con la MADRE, che alle cinque e mezza del
pomeriggio, al mio rientro anticipato per l'occasione dall'ufficio,
mi fa trovare una ciotolona colma di fonduta in cui galleggiano gli
gnocchi. “Devi fare il pieno di energie”, sentenzia. E chi sono
io per disobbedire alla mamma? Ammetto però che l'impresa è ardua:
ingollo metà del lauto pasto subito e metà qualche ora dopo. Come
sempre, la preparazione dei bagagli è avventura dell'ultimo minuto;
in più, prima di partire, devo preoccuparmi di organizzare tutto
affinché la genitrice ed i tredici cagnoni possano sopravvivere due
giorni e mezzo in mia assenza. Morale della favola, accendo il motore
della Zafira quando sono già passate le dieci di sera.
Il viaggio non comincia
sotto i migliori auspici. Sono parecchi mesi che non mi allontano da
casa per ben tre notti: mi assale un senso di angoscia e di disgrazia
imminente. Ma forse è solo colpa della stanchezza: sono in piedi da
prima dell'alba e non posso certo far finta di ignorare il sonno,
nonostante il caffé tracannato a litri. I riflessi fanno quel che
possono e la trasferta è, per forza, molto lenta e carica di
tensione. Il programma prevede di arrivare oltre Bologna, per evitare
il rischio di intasamenti il sabato mattina, e fermarmi in autogrill
a dormire, con il sacco a pelo. Ma getto la spugna poco dopo Modena:
è l'una e non riesco più a tener gli occhi aperti. Area di
servizio: giusto il tempo di puntare la sveglia alle otto del mattino
e crollo in un profondissimo sonno, da cui mi risveglio alle prime
luci dell'alba. Guardo l'ora e mi riaddormento, ma di lì a poco il
trillo imperioso del cellulare mi ricorda che la MADRE non dorme
mai... E già reclama mie notizie. Ok, ci rinuncio, tantovale che mi
rimetta in marcia.
Un incidente, segnalato
alla radio, mi costringe ad un tratto fuori autostrada. Raggiungo
Cesenatico ben prima delle nove, sotto un cielo che definire plumbeo
è ottimistico. La partenza della corsa è a mezzogiorno: meglio
provare a dormire ancora un po'... Ho la fortuna di poter quasi
dormire a comando. Mi risveglia, a tratti, il rumore degli scrosci di
pioggia sulla carrozzeria, ma riprendo piena conoscenza solo dopo le
dieci.
Pazienza, se non altro
non si patirà il caldo. E' ora che mi cambi e mi prepari per il via.
Soprattutto, è il momento di dare l'ultima occhiata alle sacche per
i cambi d'abito, da lasciare ai rifornimenti. Ho intenzione di
mandare l'abbigliamento per la notte al punto di ristoro del km 70
circa, al Ciola, e quello per il mattino, come gli anni scorsi, al
Pugliano, al km 130 circa. Nello zainetto che porterò sempre con me
infilo i documenti, la chiave dell'auto, la giacca impermeabile, un
tubetto di pasta di Fissan e qualche barretta. Dopodiché, con aria
da funerale e passo adeguato, mi avvio verso il Municipio.
Ormai mi sento quasi a
casa, qui a Cesenatico. Sono almeno dieci anni, tra granfondo in bici
e corsa a piedi, che mi ci presento puntuale a maggio. Potrei quasi
avanzare richiesta di asilo. Vero, non sarei il tipo da vita in una
cittadina turistica di mare; ho un livello di sopportazione dei miei
simili prossimo allo zero. Però, c'è anche da dire che i Romagnoli
sono, per la mia esperienza, persone con cui si sta bene... La
gentilezza proverbiale e la risata sempre pronta sono due fattori non
trascurabili per la qualità della vita.
Il punto della partenza
brulica già di corridori, assistenti e spettatori. Qualche saluto e
poi ritiro il mio pettorale, numero 7: infatti, se ce la dovessi fare
anche stavolta, si tratterebbe della settima Nove Colli Running
conclusa. Se. Ma è troppo presto per pensare all'arrivo.
Il pacco gara contiene
una bellissima felpa ed una bandana, entrambi col marchio della gara.
Torno all'auto e deposito tutto nel bagagliaio. Per ora non piove...
Il solito, interminabile
appello dei partecipanti, uno per uno. Momento di curiosità e di
ansia insieme. Si parte dal numero più alto... Quindi posso godermi
la sfilata di quasi tutti i partenti, visto che ho il numero 7.
Intanto, i primi goccioloni piombano sui crani. Ecco... Tempismo
perfetto. Le ultime raccomandazioni e la vana ricerca dell'unico
iscritto che non ha risposto all'appello: non si trova da nessuna
parte... Probabilmente avrà avuto un attacco di saggezza e se ne
sarà rimasto a casa.
Poi, quasi puntuale, il
via. Sotto uno scroscio di pioggia, si parte. Ed il pensiero è
sempre lo stesso: fino a domani pomeriggio, sarà lunghissima...
L'anno scorso, con me, c'era il buon Ivano, impegnato in
un'impeccabile ed assidua scorta ciclistica. Anche oggi avrebbe
dovuto essere qui, se un incidente in bici e conseguente frattura del
bacino non l'avesse immobilizzato a letto. E, ne sono certa, non
esserci gli rincresce quasi più che essersi sinistrato. Ecco un
ottimo motivo per cui ce la devo fare: non voglio causargli sensi di
colpa.
La pioggia ci accompagna
per i primi chilometri, poi cessa. Ho fatto bene a tener duro e non
indossare subito la giacca impermeabile: sarei già alle prese con un
irritante metti giacca – togli giacca. Non si può certo dire che
faccia caldo, adesso, con gli abiti umidicci, ma si corre e ci si
scalda.
Per i primi chilometri,
come sempre, mordo il freno ed inganno la fatica chiacchierando.
Ormai qui ci sono i fedelissimi della corsa; ogni anno è quasi un
raduno di compagni di scuola. E qualche nuovo arrivo a cui vengo
additata come quella da seguire per arrivare senza dubbio alla fine.
Vorrei averla io, questa certezza... Quattro ciance con Popof, con
Alina in bici al seguito della fortissima Brenda candidata alla
vittoria assoluta, con ABS alias Andrea. Quest'ultimo è ormai il mio
portafortuna; il gesto scaramantico di appioppargli un ceffone su una
chiappa è ciò che garantisce il successo della mia corsa. Anche per
questo, ero molto preoccupata di non aver visto il suo nome
nell'elenco iscritti: per fortuna c'è, anche se in versione ciclista
assistente. Speriamo che il palpeggio sortisca lo stesso l'effetto
sperato.
Il cielo nuvoloso ci
regala, per ora, una temperatura più che sopportabile, rispetto al
caldo assassino degli anni scorsi in questo primo tratto
pianeggiante. Corriamo lungo un tratto di pista ciclabile sterrata,
tenendo a destra il letto di un torrente. Ad un tratto, lungo la
strada asfaltata dall'altra parte del corso d'acqua, da una moto due
persone si sbracciano verso di noi e suonano a tutto volume: che
cari, quanto entusiasmo, fanno il tifo... Macché: tempo qualche
istante e realizziamo che i due figuri non ci stanno salutando:
stanno cercando di farci capire che siamo sulla strada sbagliata!
All'ultimo bivio, il vigile di guardia all'incrocio ci ha fatti
proseguire anziché farci attraversare il ponte... Bisogna tornare
indietro! Beh, nel mio gruppetto non si manifesta grave irritazione:
in fondo, si tratta di recuperare poche centinaia di metri. Ma chissà
dove sono già arrivati i primi... Ululati di giubilo dai miei
compagni di viaggio, appena invertiamo la marcia: “Ragazzi che
culo... Siamo quasi i primi!”. E poi, suvvia... Se saremo in grado
di arrivare alla fine di 202 km di corsa, ce la faremo anche a farne
203! O no?
Recuperata la retta via,
alla spicciolata veniamo raggiunti e superati da chi, già prima, era
parecchio avanti rispetto a noi, ma per qualche istante ci godiamo la
gloria della testa della corsa.
A Cesena il primo bel
ristoro ricco, con tanto di fragole e ciliegie. Merita una breve
sosta, anche per riempire la bottiglietta di plastica che quest'anno
ho deciso di portare con me. Non sopporto le borracce nello zaino e
fatico a tollerare la sacca per l'acqua... Senza contare il fatto
che, se nello zainetto avessi messo la sacca, non avrei potuto
mettere altro o quasi. Ho comprato al supermercato una bottiglietta
di bibita lunga e stretta, che si potesse portare comodamente in
mano; spero di sopportarla per tutto il giro.
Attraversata la città,
rimane l'ultimo tratto in piano prima dell'attacco della salita del
Polenta: anch'esso, per fortuna, in ombra. Fino a poco tempo fa amavo
molto il caldo. Ma ora, sarà l'età, lo tollero sempre meno. Vorrei
solo smettere di pensare alle mie gambe ed alla mia condizione. Se
non stessi bene, mi preoccuperei. Invece sto bene e mi preoccupo
anche di più. Forse ho esagerato fin qui? Vorrei non sapere che ora
è, ma naturalmente c'è l'inopportuno di turno che, ad alta voce, fa
sapere a tutti che i primi 21 km sono stati coperti in 2h e 10'. Un
po' troppo svelti, contando che siamo ad un decimo del percorso.
Rapida sosta al punto di
ristoro. L'errore di percorso ha fatto sì che l'affollamento, quando
arrivo io, sia maggiore del solito. Tempo di riempire la bottiglietta
ed afferrare al volo qualcosa da mangiare e riparto: non voglio
perdere tempo, non ancora.
La prima salita inizia
appena oltre il semaforo. Alla fontanina, due anziani giunti con
tanta buona volontà e la Panda carica di taniche da riempire d'acqua
sono costretti, loro malgrado, a cedere il posto ai corridori
accaldati, ma fanno buon viso a cattivo gioco.
Il Polenta è insidioso:
alterna strappi severi a tratti in piano ed addirittura in lieve
discesa, in cui si può correre. In salita non si può, o meglio, io
non può. Sono troppo pesante, dovrei perdere almeno dieci chili; ma
l'unica tecnica con cui potrei riuscirci sarebbe l'amputazione di una
gamba. Controproducente, direi. Cammino di buon passo ed osservo,
invidiosa, un podista che va su camminando, con i bastoncini da
montagna. Ero fermamente decisa anch'io a portarli: in salita, anche
su asfalto, sono di enorme aiuto. Il problema è che in quel caso,
sì, avrei avuto bisogno dell'assistente per scarrozzarli nei tratti
in cui a me non fossero serviti. Portarmeli dietro da sola per tutto
il percorso sarebbe stato gravoso: è noto che, oltre ad un certo
livello di stanchezza, ciò che prima era fastidio poi diventa un
macigno.
Scruto il cielo. Per il
momento, le nuvole non destano grande preoccupazione. Il meteo,
tuttavia, annuncia temporali nella notte: la peggiore delle
circostanze possibili. Va bè... Godiamoci questo spettacolo di
colline nella luce bigia del tardo pomeriggio. Poi si vedrà.
Tra corridori ed
assistenti al seguito, chi in bici e chi in auto, siamo una bella
folla su questa strada che immagino, diversamente, quasi deserta.
L'allegria, per ora, regna sovrana. Al punto di ristoro, in cima alla
salita, birra e patatine: cosa si potrebbe chiedere di più dalla
vita? Ottimi antidoti contro la nausea da barrette e dolciumi in
genere; gradisco molto.
La prima discesa,
piuttosto ripida, va via veloce. Mi sforzo di lasciar andare le
gambe, di frenare il meno possibile. Il prossimo tratto, lunghi km di
falsopiano in salita, sarà un'ottima prova per capire come sto.
Intanto, Fratta Terme: punto di ristoro. Questa volta, patatine,
birra ed anche un paio di spicchi di limone, per tenere sotto
controllo l'attività della pancia, che per ora – prima volta dopo
anni ed anni di tribolazioni – non ha ancora dato segni di alcun
problema. Ottimo incoraggiamento.
Il tratto che segue, fino
all'attacco della seconda salita, è lungo ed insidioso. E noioso. E
faticoso, perché non è considerato una salita, ma costringe ad un
sacco di salita. Le gambe, per ora, vogliono correre... Ma con
cautela e senza mai vergognarsi a percorrere tratti al passo. Al
prossimo colle, Pieve di Rivoschio, km 57, è fissato il cancello
orario: vero, non ho mai avuto alcun problema a superarlo in tempo,
ma non si sa mai. Intanto, gli assistenti degli altri corridori fanno
la spola e non lesinano mai parole di incoraggiamento. Non ho la mia
scorta personale, ma è quasi come se l'avessi... C'è chi segue i
corridori in auto, con tanto di numero di gara e cartello “scorta
tecnica” appeso ai finestrini; chi preferisce la moto e addirittura
chi si è dotato di bici elettrica.
Proprio quando i primi,
subdoli segni di stanchezza cominciano a fare capolino tra le fibre
dei muscoli e soprattutto tra i pochi neuroni, ecco che si
materializza, provvidenziale come non mai, il fascinoso Andrea ABS,
il Mel Gibson di Sant'Ilario d'Enza, in tutta la sua ciclistica
beltà. Il vile, che fino all'anno scorso si è presentato a
Cesenatico in veste di podista, oggi si è saggiamente convertito al
ruolo di assistente in bici: non di qualcuno in particolare, però.
Assistente, in generale. Così, in questo noioso tratto, mi degna
della sua assistenza psicologica. Bene: mi farò quattro risate e mi
rifarò gli occhi. Mi chiede del mio viaggio da casa: non si stupisce
del fatto che io abbia dormito in auto la notte prima della gara...
Ma si scandalizza oltremodo, quando ammetto vergognosamente di aver
prenotato una stanza d'albergo per la sera e notte dopo la corsa. E'
vero, ha dannatamente ragione: sto invecchiando. Una volta non
l'avrei mai fatto. A fine gara, mi sarei tristemente trascinata fino
all'auto, mi sarei messa alla guida in condizioni, sia fisiche che
igieniche, disperate e mi sarei avviata verso casa combattendo una
battaglia impari contro il sonno. Ma si sa che, invecchiando, si
diventa saggi, o fifoni. Quindi, questa volta, mi concederò una
doccia e qualche ora di sonno civile, prima di ripartire.
Attacco, si fa per dire,
la seconda salita con l'occhio fisso ai nuvoloni che incombono. Per
ora, il cielo è ancora in parte sgombro, ma i cumuli bianchi non
promettono nulla di buono. Si va su al passo. ABS ancora presente, ma
per poco: deve tornare a casa. Lo ammetto, un po' mi dispiace.
Chiacchierare tiene lontana la stanchezza, almeno finché possibile.
Ma me lo devo mettere in testa: quest'anno me la devo cavare da sola.
Un punto di ristoro a
circa metà salita: mangio qualcosa di dolce, anche se avrei piacere,
al contrario, di cibo salato. Quando la fame si fa brutta, il dolce
non basta più, anzi; nausea... Anche il corridore che arriva appena
dopo di me nota la mancanza di cibo salato. Brontolando
sull'argomento, ripartiamo insieme. Non avrei potuto essere più
fortunata: sono incappata in un corridore veneto, anzi, proprio
veneziano, io che adoro ascoltare il suono della parlata di quella
regione. Anche se a Venezia sono stata di passaggio solo un paio di
volte, all'arrivo della Maratona, e non amando né il caos né le
città, non tornerei. Mi faccio raccontare qualche aneddoto della
vita in un posto così particolare: molti aspetti che chi vive sulla
terraferma dà per scontati, laggiù, non lo sono affatto...
Così, tra una
chiacchiera e l'altra, raggiungiamo la cima della salita ed il punto
di ristoro, dove troviamo il boss Castagnoli con il suo inesauribile
entusiasmo. Mi sforzo di mangiare un po' più di quel che avrei
voglia, in ordine sparso, dal pane con la marmellata alle arachidi
tostate, ai pomodori con il sale, alla frutta secca. E naturalmente
l'immancabile goccio di birra. Primo cancello orario comodamente
superato: si riparte. Il mio compagno di viaggio veneziano si attarda
ancora un po', ma io ho una missione da compiere. So che, non molto
lontano dal punto di ristoro, prima che la strada cominci a scendere
decisa, sono piazzati i wc chimici destinati a chi correrà domani in
bici. Ne approfitto, di già che la pancia mi ha fatto la grazia di
non reclamare soste, fino qui.
Il cielo è suggestivo e
minaccioso: si va verso la sera; la luce è di un giallo intenso che
dà al panorama di colline a perdifiato un aspetto quasi sinistro. Le
gambe, in discesa, reagiscono ancora bene. Appena prima del bivio,
alla fine della discesa, mi raggiunge il venessian. Ci attendono
pochi ma insidiosissimi km fino all'attacco della salita del Ciola:
due o tre, ma lungo una strada un po' più trafficata delle
precedenti e, soprattutto, in leggera logorante salita. Non dovrei
correre, ma mi sento quasi vergognosa a non farlo... Il rischio di
stancare troppo le gambe è altissimo.
D'un tratto, si leva
nell'aria una mitragliata di irripetibili bestemmie a volume
inaudito: nientemeno che un automobilista infastidito da una delle
auto scorta, che viaggia lentamente affiancata, per un attimo, ad un
corridore. Un pazzo furioso. Non mi viene neppure da ridere: al di là
del fatto che lo tirerei fuori dall'abitacolo e gli spianerei la
dentiera a calci, mi viene spontaneo pensare che magari un energumeno
del genere a casa ha una famiglia costretta a subire le sue
intemperanze... Chissà, spero di no.
Sono ben lieta di
raggiungere l'inizio della salita del Ciola. Mi sento autorizzata a
non correre più, almeno per qualche km. Continuo a viaggiare in
compagnia, condividendo, come spesso succede, un tratto di strada e
qualche pezzo di vita. Ma poi, tanto temuta, la pioggia arriva a
guastare tutto. Poche gocce, all'inizio: spero di riuscire a
raggiungere il punto di ristoro prima di essere costretta ad
indossare la giacca impermeabile... Non ho voglia di levare ed aprire
lo zaino, vestirmi ora, per poi giungere al colle, svestirmi
nuovamente e prepararmi per la notte. Così azzardo e proseguo, sotto
l'acqua che adesso vien giù a scrosci. La canotta è presto
fradicia; il vento che s'è alzato è gelido. Per quanto possibile,
cerco di accelerare. Ma dove diavolo è finito il ristoro? Quanto
manca? Ecco, ora sì, sono fradicia ed ho freddo, ma non ha più
senso indossare la giacca a questo punto...
Per la miseria. E' il
diluvio. Cominciamo bene... La notte si presenta sotto i migliori
auspici. Raggiungo il punto di ristoro, per accorgermi, con una certa
incredulità, che non c'è altro riparo che il gazebo del ristoro
stesso, sotto cui però sono già ricoverati i volontari ed i
tavolini con le derrate alimentari. Un rapido sguardo nei dintorni mi
fa capire che c'è poco da fare: se mi voglio cambiare, mi tocca
cambiarmi alla pioggia. Ed è qui che ho spedito lo zaino con
l'abbigliamento per la notte. Ok Gian. Questa è la situazione. O
molli e ti ritiri, oppure ti adatti, muovi le chiappe ed affronti la
dura – ed umida – realtà.
Mi ricavo un angolino di
gazebo, in modo da avere la testa al coperto e le chiappe alla
pioggia mentre rovisto nello zaino. Così, la goccia che piomba
pesante dal bordo del gazebo mi coglie esattamente a metà schiena,
con precisione da cecchino sadico. Reprimo un improperio. Tiro fuori
la maglia con le maniche corte, i manicotti, i guanti, i pantaloni
3/4... Tutto drammaticamente umidiccio, per usare un eufemismo. Bene.
Via la canotta, mi rassegno ad indossare quel che c'è: sarà anche
bagnato, ma forse – spero – sarà comunque uno strato un po' più
spesso di quel che ho addosso fino adesso. E poi, suvvia... Sarei
comunque destinata a bagnarmi.
Semi ignuda alla pioggia,
rincaro la dose di pasta di Fissan nei punti critici. Le scorticature
nei punti critici di sfregamento, con la pelle bagnata, sono quasi
una certezza; meglio prevenire. Mi rivesto ed infilo, sopra a tutto,
la giacca impermeabile Gore Tex, con tanto di provvidenziale
cappuccio. Metto su la pila frontale ed il giacchino rifrangente: tra
poco sarà buio del tutto. Mi concedo, anche qui, una raccapricciante
accozzaglia di sapori che fanno a pugni l'uno con l'altro e bevo,
stavolta per dimenticare. Poi via di corsa sotto la pioggia battente.
Per fortuna, di lì a
poco, lo scroscio si attenua. Sta calando il buio. Delle lucciole che
di solito fanno compagnia in questo tratto, ovviamente, neanche
l'ombra. In compenso, arrivano i primi ciclisti della prova notturna,
incuranti del buio e della pioggia. Molti, a dire la verità, sono
dotati di luminaria anteriore e posteriore da far invidia ad un
camion, ma qualcuno è davvero invisibile, soprattutto per un
automobilista alle prese con il parabrezza bagnato. Speriamo bene.
Sono meravigliose le luci applicate ai raggi delle ruote o
addirittura ai cerchi; creano effetti molto suggestivi.
La situazione è critica,
almeno dal punto di vista della temperatura. La strada non scende
ancora, anzi, a tratti risale; piove, ma la giacca impermeabile tiene
caldo più del necessario. Toglierla, però, significherebbe
raffreddarsi troppo. La vita del podista notturno umido è tutta un
dilemma...
Il mio collega veneziano
si lancia giù con una foga che non tento nemmeno di imitare. E' pur
vero che si scende, ma, a piedi, la discesa non costituisce né un
vantaggio né un'occasione di riposo. Calma e gesso. La pila frontale
mi aiuta un po' ad evitare le buche, anche se le lenti degli occhiali
bagnate sono una vera iattura. Curva dopo curva, sembrano
interminabili i km che portano a Mercato Saraceno. Mi distraggono un
po' gli scambi di saluti con i ciclisti, che sfrecciano via come se
l'asfalto fosse perfettamente asciutto. Chissà quanti di loro
parteciperanno anche alla granfondo, domani?
In paese, c'è vita,
tutta concentrata nei due bar sulla piazza. Il punto di ristoro degli
anni scorsi non c'è più... Trovo solo un tavolino con alcune
bevande. Poco male. L'ascesa al Barbotto è dura, ma è breve. Supero
il ponte, attacco la prima rampa. Un trio di ciclisti scatta foto con
il telefonino: “Ma tra noi – domando – chi è più malato?”.
E' una bella lotta. Salgo al passo, più rapido possibile. Ogni tanto
immagino qualche variazione sul tema: meglio passi brevi o molto
rapidi, oppure passi lunghi per fare più strada? La tecnica perfetta
non credo ci sia. La tecnica perfetta sarebbe perdere peso, ma nel
mio caso è più facile che un cammello obeso passi per la cruna di
un ago piccolo...
La fame si fa sentire,
prepotente. Mi tornano in mente le raccomandazioni di Ivano: fermati,
riposati, mangia da seduta ed appoggia la schiena”. Ha ragione da
vendere, pur non essendo podista. E' incredibile il beneficio che può
derivare per le gambe, in termini di recupero, sedendosi qualche
minuto. Peccato solo che io non abbia molti minuti da dedicare al
riposo.
Cade qualche goccia
mentre affronto l'ultima rampa. Niente lumini quest'anno: sarebbe
dura tenerli accesi. Il grande punto di ristoro si è spostato: è
piazzato sulla destra, all'ingresso di un locale pubblico. Chiedo
subito un piatto di pasta: non mi pare ci sia coda, ergo non avrò
molto da aspettare. Detto, fatto; eccomi col piatto in mano, alla
conquista di una sedia.
Inforchetto le penne una
ad una, cercando di non ingozzarmi, mentre mi guardo intorno. Provo
un tale senso di calma che quasi, paradossalmente, mi preoccupa. La
bolgia dantesca di corridori infreddoliti e stanchi ed assistenti
volenterosi si agita frenetica, ma io son qui, seduta, gambe distese
in posizione tutt'altro che elegante e femminile, fiero cipiglio e
mascella in movimento. Nel frattempo, riprende seriamente a piovere.
Mi avvicino al banchetto, bevo e mangio ancora un po' di tutto in
ordine sparso, senza mai dimenticare birra ed arachidi salatissime,
poi riparto, sotto la pioggia.
Non ricordo mai con
precisione quanti km separino il Barbotto da Sogliano al Rubicone.
Quindici, forse. Tuttavia, so bene che sono km odiosi di perenne
saliscendi, che induce a correre e poi a pentirsene amaramente. Non
c'è panorama. Cielo coperto e leggera pioggia; tratto monotono ed
angoscioso, se non fosse per qualche ciclista che ancora ci
accompagna. Ma le auto dell'assistenza sono una presenza costante e
di conforto, anche se nessuna di loro è qui per assistere me. In
verità, non sopporterei l'assistenza motorizzata: non servirebbe per
tenermi compagnia e mi darebbe il patema d'animo di sapere che i
passeggeri si annoiano a morte... Ben altra cosa è la scorta in
bici; ovviamente, per una corsa come questa, deve essere affidata ad
un ciclista di tutto rispetto, che deve sì pedalare alla velocità
di una persona a piedi, ma per duecento km, con tutte le salite e con
il carico di bagagli.
Ogni tanto, qualche
stella fa capolino tra le nubi, ma è una pia illusione. Per adesso,
pioviggina, ma per fortuna non fa freddo, nonostante gli abiti umidi.
Per ora.
Al ristoro di Sogliano,
un'abbondanza di scelta inaudita: tra le altre cose, anche alcune
barrette di cioccolato, che per adesso posso anche prendere, contando
sul fatto che non si scioglieranno. Ho voglia di mangiare qualcosa di
dolce, ma poi il dolce mi nausea subito. Breve visita di cortesia ad
uno dei miei adoratissimi Sebach, piazzati lì per la granfondo di
domani, e poi via, in discesa. Meglio non pensare che qui sono circa
a metà gara. Altri 100 km... Le gambe sono stanche, sentono il
bisogno di soste frequenti che però non mi posso permettere. Il
tempo massimo incombe.
A Ponte Uso, in fondo
alla discesa, ultimo punto di ristoro prima di un lungo tratto di
solitudine. Ancora un po' di the, un po' di Coca Cola. Puntualmente,
prima di arrivare al banchetto, mi riprometto di mangiare questo e
quello e fare il pieno... E poi, quando sono lì, è quasi un senso
di rifiuto. Ivano, se sapessi quanto mi mancano i tuoi panini al
gorgonzola! Ne spazzolerei un paio volentieri.
Torno ad immergermi nella
notte. Poche parole con altri viandanti: menare la lingua è un
ottimo palliativo per la stanchezza e per il sonno, ma mi costringe
ad adattarmi al passo altrui, cosa che può rivelarsi molto
pericolosa. Quindi, in breve, sono costretta a lasciar allontanare i
miei occasionali compagni di viaggio. Alterno passo e corsa in questo
odiosissimo tratto che mi sembra sempre interminabile. E quando
finalmente attacco la salita di Monte Tiffi... Comincia a piovere sul
serio. Salita abbastanza breve, circa 4 km, buia e cupa. Le auto
delle scorte continuano a fare su e giù, podisti mi precedono e mi
seguono, ma su tutti è calata una cappa pesante di preoccupazione e
silenzio. Mamma mia... Se continua così, è ben difficile che io ce
la faccia, ad arrivare a Cesenatico.
La pioggia cade
abbondante; in pochi attimi, rivoli d'acqua corrono lungo la strada.
Con gli occhiali bagnati, vederci comincia a diventare un problema.
Beh, finché si sale, più o meno ci vedo... L'ascesa è breve, ma su
questo colle non ci sono punti di ristoro. Tocca arrivare fino al
Perticara. In cima, a bordo strada, si affollano ferme le auto delle
scorte, in cui si infilano podisti intirizziti alla ricerca di un
momento di sosta e riparo. Non so quanto sia di conforto, in realtà.
Credo che, se mi fermassi qui al riparo, difficilmente poi sarei in
grado di ripartire. Meglio non pensarci e tirare dritto. Il cappuccio
della giacca, sfregando contro le orecchie con il movimento, mi fa
sentire un brusio confuso dai goccioloni di pioggia che picchiano
insistenti sul tessuto. Che idea provvidenziale è stata mettere
nello zaino del ricambio i pantaloni ¾. Vero che si sono
infradiciati in pochi secondi; tuttavia, la sensazione sulla pelle è
meno penosa rispetto all'acqua diretta.
La discesa è un pianto.
Dovrei e vorrei correre, ma come faccio, senza veder nulla? Al buio
ed alle lenti bagnate si aggiunge la nebbia, contro cui la pila
frontale può poco o nulla. Provo a levarla dalla fronte ed a tenerla
in mano, ma la situazione non migliora di molto. Letteralmente, non
vedo dove metto i piedi. Conoscendomi, è una condizione
pericolosissima; io riesco ad inciamparmi spesso e volentieri anche
con la migliore visibilità... Se non corro, perdo tempo; se non
corro, mi congelo. Non vorrei lasciarmi prendere dall'ansia, ma non
ho difesa. Buche e crepe nell'asfalto sono un'insidia. Quanto manca
alla prossima salita? Almeno, lì, ci si scalda un poco e si
cammina...
Quando ormai sono certa
di essere lontana anni luce da tutto e da tutti, galleggiante nella
nebbia, ecco una voce. Allucinazione? No no, è proprio una voce
umana e persino conosciuta. Il buon Paolo mi raggiunge poco prima
dell'attacco del colle successivo. Devo dire che mi capita di rado,
molto di rado, di accogliere la vicinanza di un essere umano con
tanta gioia. Paolo sembra molto più tranquillo di me, come se per
lui la situazione non rappresentasse un problema. Per me, un po' di
calore, anche se solo psicologico. Se qualcuno ce la fa, allora si
può fare. Forse. E poi, con le lenti bagnate combatte anche lui...
In salita, ci distraiamo a vicenda a suon di chiacchiere, mentre la
pioggia ci sferza senza misericordia. La giacca Gore Tex ha fatto
quel che ha potuto, ma per i miracoli, come si suol dire, ci stiamo
attrezzando... Sono fradicia in ogni dove. Man mano che prendiamo
quota, si aggiunge il vento: è l'unico particolare da cui capiamo di
essere ormai vicini al colle. Rimangono un paio di km di strada in
falsopiano, oltre il bivio, prima di giungere al punto di ristoro di
Perticara. Coperto, per fortuna, ma ovviamente non riscaldato,
considerata la stagione.
Paolo ha saggiamente
mandato qui una borsa con abiti di ricambio, che, fortunatamente,
sono persino asciutti. E' molto più attivo e razionale di me: si
cambia, si sistema, organizza le sue cose con calma. Io non riesco a
far di meglio che inchiodarmi su una sedia a tremare. Tolgo la giacca
impermeabile, cerco di scuoterla per asciugarla un poco, se
possibile, ma lo sforzo è quasi vano. Intorno a me, un girone
infernale di podisti mezzi ibernati ed assistenti che si affannano a
portare in giro abiti asciutti e piatti caldi di pasta. Molti hanno
già comunicato di voler abbandonare la corsa. Io stessa sono in
dubbio. Come faccio a buttarmi fuori di qui in queste condizioni
meteo? E con il freddo che mi è già entrato nelle ossa da un po'?
Provvidenziale e salvifica è la maglia con le maniche lunghe che mi
offre Paolo. Calda e morbida, soprattutto asciutta. Quel che ho
addosso adesso, potrei strizzarlo. Mi cambio con gran fatica; mangio
un piatto di pasta. Mollare? Sto perdendo tempo, mi sembra di essere
qui ferma da un'eternità. Sarà bene che mi decida alla svelta. Un
piatto di pasta. Continuo a tremare; mi chiedono se voglia una
coperta o un the caldo. No... Devo ripartire a tutti i costi, subito.
Rimetto addosso la giacca, purtroppo bagnata. La maglia si inumidisce
subito... Ma almeno è spessa e mi aiuterà a scaldarmi un poco. Via,
di corsa, un gelido trauma. Non ci pensare, Gian, tra poco sarà
l'alba. Qualche km di stradone in discesa e la pioggia che sembra
voler cedere il passo. Qualche podista in più. Ho timore di aver
perso troppo tempo al ristoro, ma non avrei potuto fare altrimenti.
Il primo chiarore
illumina il bivio alla fine della discesa. Un odioso tratto di brevi
strappi in salita tra le cascine, dove non posso fare altro che
camminare, e poi qualche km su uno stradone, con il traffico di
qualche automobilista molto mattiniero. Le gambe, irrigidite dai km e
soprattutto dal freddo, stentano a rimettersi in moto, ma qui bisogna
correre, a tutti i costi. Almeno fino all'agognato punto di ristoro
all'attacco della salita numero sette, il Pugliano. Qui si mangia,
purtroppo poco perché a questo punto, nonostante la fame, trovo
nauseabonda qualsiasi cosa. Ma soprattutto si beve, perché il goccio
di birra all'alba non me lo leva nessuno.
Ogni anno mi sforzo di
fare un confronto con l'anno precedente. E' più presto dell'anno
scorso? E' più tardi? Impossibile dirlo, soprattutto per una come me
che viaggia senza orologio e con il cellulare spento imboscato in
fondo allo zainetto. Non pensarci, Gian, sali e vai. Passo svelto,
anche qui, almeno ci si scalda. Prima sui km di salita e poi sul
lungo, lunghissimo, interminabile tratto in piano, che ad ogni
edizione sembra più lungo. Provo a correrne qualche centinaio di
metri, ma le gambe non rispondono. Dopotutto, non sono l'unica tapina
che si trascina camminando stancamente. Il fatto è che, ad ogni
curva, il colle sembra lì... Ma non è lì, affatto.
Finalmente ci si arriva.
Purtroppo, come sempre, questo punto di ristoro è un po', per così
dire, approssimativo. Non c'è un minimo di riparo per potersi
cambiare completamente: va bene essere disinibiti, ma a tutto c'è un
limite... In più, questa volta, le borse devono aver preso parecchia
pioggia. Il contenuto è fradicio. Ma da queste constatazioni mi
distrae il dialogo tra un corridore ed un operatore dell'ambulanza:
pare che più avanti, a bordo strada, ci sia un capriolo ferito. Per
fortuna si è già provveduto a chiamare il servizio veterinario. In
effetti, riparto e, di lì a poco, vedo la povera bestiola adagiata
tra i cespugli. Vorrei fermarmi, ma non saprei cosa fare e rischierei
di spaventarlo ancor di più... Consapevole però che qualche anima
buona ha già provveduto, riprendo la mia marcia.
Siamo ormai al cospetto
della Rocca di San Leo. Il cielo continua ad essere nuvoloso; la
temperatura, fresca e confortevole. Nel lungo tratto di discesa,
piuttosto sconnesso, inganno la fatica guardando quel che resta
dell'imponente e terrificante frana che si è staccata qualche anno
fa, non ricordo esattamente quando. La lunga discesa è un calvario
per le gambe che fanno male, anche se per ora riesco ancora a
correre. Corro anche il tratto finale, sul ponte, e la breve risalita
verso l'abitato. Confido nel punto di ristoro, dove mi fermo per
qualche minuto. Seduta.
Passo delle Siepi. Salita
breve, ma non è quella a spaventarmi. E' la discesa successiva,
ottimo termometro di quel che accadrà poi nei lunghi km finali. Con
mia sorpresa, e solenne botta di fiducia, mi accorgo di riuscire a
correrla, sia pure con cautela. Intanto, la strada si affolla di
auto, moto, ciclisti e persone a piedi, tutti in attesa del passaggio
della granfondo. Infatti, nell'ultimo tratto della discesa, vedo di
fronte a me il serpentone multicolore delle bici che scendono dal
Barbotto. Ne incrocerò il tracciato, per un breve tratto, giù a
Ponte Uso. Poche centinaia di metri in cui tuttavia, neanche ci
fossimo dati appuntamento, incontro alcuni amici che mi salutano e mi
incitano con tutto il fiato che hanno in gola.
Da qui... Ancora 45 km.
Poco più di una maratona, da percorrere con le gambe stanchissime.
Il fatto che di mezzo ci sia un Gorolo è un dettaglio trascurabile.
Forse...
Il lunghissimo tratto di
pianura e leggera salita è micidiale, anche oggi che il clima sembra
restare benevolo. Mi ci lancio al trotto, con grande entusiasmo...
Ma, ad un paio di km dal Gorolo, si spegne la luce. Niente più
fiato, niente più forze. Niente di niente. Il buio. Ahia... Questa è
la volta buona, anzi, la volta cattiva. E' la volta che a Cesenatico
non arrivo. Gli incoraggiamenti di ciclisti e spettatori non servono
più, anzi: ottengono l'effetto opposto. Non ce la faccio più...
...la salita del Gorolo
s'ha da fare, comunque. Mi arrampico su per le rampe con passo stanco
e sfiduciato, masticando rabbia e lacrime, braccia e gambe vuote come
sacchi ed un mal di testa senza fine. Sfilano a frotte i ciclisti
della granfondo... A me pare di essere ferma, inchiodata all'asfalto.
Distrutta, sfinita, senza alcuna possibilità di giungere al
traguardo.
Nel brevissimo tratto in
piano che precede la staffilata finale, vorrei abbozzare qualche
passo di corsa, ma le gambe non reggono proprio. Lascia perdere,
Gian. Cerca di trascinarti fin su in qualche modo. Poi ti fermi lì,
ti ritiri, basta.
Così faccio, o almeno,
credo di poter fare. Arrivo al ristoro con i lacrimoni e comunico di
volermi fermare. Caso vuole che lì, al ristoro, ci sia in quel
momento un concorrente che prende la cosa come se fosse un'offesa
personale. Ritirarsi, qua, non è neanche da pensare, è proibito,
anzi, è un reato da punire con l'immediata crocifissione. Ma io non
sento ragioni. So di non avere speranza alcuna di arrivare in tempo a
Cesenatico. Da qui ci sono trenta km, circa, ma sono trenta km
agghiaccianti. Ed affogo il dispiacere nella birra. Il podista, Luca,
però, non ammette di essere contraddetto. E quasi quasi, sarà
perché il soggetto in questione è anche quel che si dice un bel
manzo, mi viene la tentazione di credere che abbia ragione lui. Provo
ad alzarmi, faccio una tappa ai bagni e poi torno al ristoro:
convinta di voler ripartire, ma le gambe non mi tengono su. Mi
abbatto seduta per terra, con la testa appoggiata al bagagliaio di un
auto. L'aguzzino, però, è ancora lì e non mi molla. Tanto fa e
tanto dice che, alla fine, in un modo o nell'altro mi rimetto in
piedi e riparto.
Scopro, nel giro di
pochissimi metri, di non essere l'unica vittima delle sue angherie.
C'è anche un altro povero tapino, che non è solo stanco, ma deve
avere dolori alle gambe ed ai piedi tali da emettere lamenti
strazianti. Ma il Cerbero non ha pietà: si può dire che ci sospinga
fisicamente avanti con lo spostamento d'aria causato da potentissime
tonanti irripetibili bestemmie che, credo, si sentano già anche a
Cesenatico. Così, il mio tristissimo umore è scacciato, almeno per
il momento, da un accesso di risate che per poco non mi soffoca allo
stesso modo. Che dire: un motivatore sui generis, ma senza dubbio
efficace!
Corro per qualche
chilometro, con prudenza e sempre con difficoltà. Ma la stanchezza
presto torna ad avere il sopravvento. Purtroppo o per fortuna, avevo
assicurato a Luca che stavolta non mi sarei più fermata... Così, mi
tocca cavarmela da sola. E, siccome da sola non me la cavo, impiego
ben poco a sprofondare nuovamente nell'abisso del “non ce la farò
mai”. Tanto da percorrere gli ultimi km di discesa camminando e
convincermi, senza che la matematica me ne desse ragione, che il
tempo massimo non mi basterà per giungere al traguardo. Ancora
fatica, crampi e lacrime. Provo ancora a ritirarmi, ma dai punti di
ristoro mi cacciano via. E il caldo, alla fine, è scoppiato.
I venti km finali della
Nove Colli sono un'esperienza mistica, sia per chi sceglie la gara in
bici, sia per chi li affronta a piedi. Sono generalmente torridi e
comunque lunghissimi, molto molto più lunghi di qualsiasi altra
ventina di km al mondo. Mi trascino senza forze e senza senso fino a
quando ne mancano circa dieci. Poi decido di prendermi a schiaffi da
sola. Allora, Gian. O muovi le tue grosse chiappe e ci provi, almeno
ci provi... Oppure butti tutto via da idiota e ti mangerai le mani
per il resto della tua esistenza. L'anno scorso, qui, c'era Ivano a
buttarmi in corpo la rabbia giusta per finire. Questa volta sono
sola. La decisione è nelle mie mani.
Chiamo a raccolta tutto
quel che resta delle mie forze e delle forze di qualcun altro, credo.
Riprendo a correre, piano, tribolando, ma corro. Km dopo km, incrocio
dopo incrocio, maledicendo me stessa perché credevo di essere più
avanti e invece sono ancora qui. Poi raggiungo qualche altro
concorrente e mi sembra di stare un pochino meglio. Quel maledetto
grattacielo sempre troppo lontano. Il traffico, l'asfalto, il caldo,
la sete maledetta. Rasente ai muri a cercare un po' d'ombra, la pelle
che brucia. E poi il viale. Gli ultimi due cavalcavia, dove i
ciclisti lanciano improperi in ogni lingua per l'inattesa fatica. Il
curvone finale, il tratto lungo la pista ciclabile. Il rettilineo
finale, dove la gente oltre le transenne ti fa un sacco di festa e le
gambe d'improvviso sembrano quelle di Varenne. Incredibile ma vero, a
quaranta minuti dalla fine del tempo massimo, per la settima volta,
l'abbraccio di Mario Castagnoli e la pesantissima medaglia da
finisher.
Ormai veleggio verso i 36
anni: invecchio. Infatti, questa volta, ammetto di aver commesso un
grave atto di debolezza. Ho prenotato, per la notte successiva alla
gara, una stanza presso l'Hotel Anthos, convenzionato con
l'organizzazione. Ci arrivo con la navetta, ritiro i bagagli e, dopo
una birra in compagnia, con le ultimissime forze residue, mi butto
sotto la doccia e quindi sul materasso. Per mia fortuna, ho ancora la
lucidità necessaria per puntare la sveglia alle quattro del mattino
successivo, perché per l'ora di pranzo dovrò essere in ufficio. Per
fortuna: perché l'idea è di riposarmi un poco prima di andare a
cena in albergo. In realtà, piombo in un coma profondo da cui mi
sveglia appunto il cellulare, puntuale, alle quattro del mattino.
Ritorno faticosamente al mondo dei vivi, ricompongo zaini e borsoni,
me li carico in spalle, esco. Giusto per avere un'idea, controllo sul
navigatore la distanza tra qui e l'auto, parcheggiata nei pressi
della partenza della corsa. Quattro km e mezzo. A piedi, con le
borse, praticamente un'altra Nove Colli Running. Ma non importa,
respiro il profumo del mare e mi godo l'alba all'orizzonte. Inizia il
nuovo conto alla rovescia per la Nove Colli Running 2018.
Sempre bello leggere i tuoi racconti Giancarla!
RispondiEliminaUn ONORE aver ASSISTITO alla tua 7a impresa Giancarla! Alla prossima :D
RispondiEliminaABS
emozionante veramente ...
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