L'idea è nata all'alba
di un lunedì mattina di fine maggio in autostrada, in viaggio da
Cesenatico verso casa, con il sonno, la stanchezza e la soddisfazione
della mia settima Nove Colli Running consecutiva portata a termine,
sia pure per il rotto della cuffia. Mi si è accesa una lampadina,
anzi, un faro da stadio: “Perché la Nove Colli Running sì e la
Fausto Coppi Running no?”
A beneficio di chi non
bazzica di ciclismo, o di podismo, o di entrambi, mi sembra doveroso
spiegarmi meglio. La Nove Colli più conosciuta è senz'altro la
corsa ciclistica, su un percorso di circa 200 km ed oltre 3.000 m di
dislivello distribuiti su nove salite, con partenza ed arrivo a
Cesenatico. Sullo stesso tracciato e nello stesso fine settimana, si
corre anche, ormai da parecchi anni, l'omonima versione podistica, a
cui mi presento fedelmente da otto anni. Il mio primo tentativo, nel
2010, si è arenato al km 150 circa, ma i successivi sono andati
tutti a buon fine. Sommato tutto ciò alle mie due o tre presenze
alla corsa ciclistica, negli anni precedenti, direi che posso ambire
alla cittadinanza onoraria.
La Fausto Coppi è una
manifestazione solo ciclistica, per ora; si snoda su un tracciato di
177 km con quattro salite di tutto rispetto, tra cui il Colle dei
Morti, anche noto con il nome più “vendibile” di Colle Fauniera,
ad oltre 2.400 m di quota. Si parte da Cuneo, a pochi km da casa mia.
Da qui la domanda: “Perché la Nove Colli Running sì e la Fausto
Coppi Running no?”.
L'idea mi è parsa subito
talmente squinternata che la mia sola capoccia, pure squinternata
assai, non sarebbe bastata. Sarebbe servito l'aiuto di un'altra
capoccia ancor più scombinata della mia, con il primo vantaggio di
qualche anno di esperienza in più nel ramo “follia e dintorni”
ed il secondo, pesante, vantaggio di un filo diretto con gli
organizzatori della granfondo ciclistica cuneese. “Senti Ivano...
Ma secondo te a quelli della Coppi potrebbe interessare una versione
podistica? Io sono disposta a far la prova, ben volentieri!”. E'
stato più o meno come buttare un cerino in una bottiglia di alcool,
ma non avevo dubbi. Ad Ivano invidio profondamente alcune doti di cui
io, purtroppo, non sono provvista: la faccia tosta e l'incrollabile
determinazione nel calpestare gli altrui attributi fino ad ottenere,
per sfinimento, quello che vuole. Non oso neppure immaginare la
persecuzione che abbia messo in atto nei confronti dei componenti
degli organizzatori della granfondo, non certo per ottenere un
impossibile riconoscimento “ufficiale” di una corsa a piedi di
tanta portata nel giro di un mese e mezzo – la Nove Colli Running è
a fine maggio, la Fausto Coppi nella prima metà di luglio) – ma
per far sapere, diciamo così, che ci sarei stata anche io, senza
bicicletta.
Sapevo inoltre che,
lanciata la palla ad Ivano, il mio compito sarebbe finito lì, fino
al giorno della gara. Avrebbe provveduto lui a tutto il resto. Così
è stato. Ivano il Terribile si è immediatamente arruolato come uomo
assistenza pre, durante e post corsa. Ha studiato il percorso per
un'ipotetica futura gara ufficiale a piedi, che io avrei dovuto
sperimentare con una sorta di edizione zero, sia sulla carta che di
persona. Ha scovato stradine alternative nei tratti iniziale e finale
di gara, per risparmiare ai podisti lo strazio ed il pericolo del
passaggio sugli stradoni principali senza tuttavia aggiungere km. Ha
elaborato un ipotetico programma orario dei passaggi nei punti
chiave. Si è persino procurato il mezzo di trasporto più adatto
alla situazione, un agile scooter estorto al legittimo proprietario,
non voglio neanche sapere con quale minaccia. E due maglie ufficiali
della granfondo...
Così, alle otto e mezza
di sabato 8 luglio, eccomi in Piazza Galimberti a Cuneo, messa di
fronte alle conseguenze della mia pensata e del tutto inconsapevole
di ciò che andrò ad affrontare. Come sempre, del resto: se fossi
consapevole, non ci proverei nemmeno. In piazza fervono i preparativi
per la corsa ciclistica, che partirà domani mattina alle sette. Ci
sono già i gazebo dove verranno distribuiti i numeri di gara, gli
espositori di bici e materiale da bici, qualche ciclista ansioso che
già si aggira a chiedere informazioni. Avrei in programma di partire
alle 9, ma un quarto d'ora prima esaurisco la pazienza. Accendo il
Garmin, saluto i presenti che mi guardano con aria interdetta e
preoccupata per il mio stato mentale e parto.
Canotta e pantaloncini
corti, null'altro. Mi attende, secondo le previsioni meteo, una
giornata molto, molto calda. Del bagaglio non ho bisogno: tra poco mi
raggiungerà lungo la strada Ivano, che sta finendo di sistemare il
necessario per il viaggio, vestiario e cibo. Con passo cauto, mi
allontano dalla bellissima piazza cuneese verso il Viadotto Soleri,
in direzione di Cerialdo. Toh, guarda. Credo di aver percorso un
centinaio di volte il viadotto in auto e parecchie volte in bici, ma
a piedi mai. La vista è una meraviglia, peccato per le reti
metalliche, come se bastasse una rete a scoraggiare chi ha deciso di
buttarsi di sotto. Il traffico di auto è già intenso; per fortuna
c'è il marciapiede. Alla fine del ponte, svolto a sinistra e poi
subito a destra: comincia qui il lungo tratto di pianura, quasi
rettilineo, fino a Busca, con lo sfondo della corona di montagne
vicinissime, ma dai contorni sfocati per via della calura. Questo è
il primo dei tratti alternativi rispetto al percorso della GF
ciclistica. Le bici percorreranno domani la strada statale, che per
il loro passaggio sarà chiusa alla circolazione delle auto. In
previsione di una corsa a piedi, che per ora esiste solo nella mia
immaginazione e nelle mie gambe, occorreva pensare ad una variante
meno trafficata, onde evitare di passare dalla condizione di podista
a quella di birillo, vista purtroppo la disposizione d'animo
dell'automobilista medio nei confronti di qualsiasi altro occupante
della strada, peggio che mai se non dotato di almeno quattro ruote.
Per il momento il caldo
sembra tollerabile; si percepisce persino un alito di vento. Ben
prima della località Passatore, arriva alle mie spalle il rumore di
un motorino che rallenta. Eccola qua, la scorta. Mi ritrovo subito in
mano una bottiglietta d'acqua e ne “ordino” un'altra di the,
quando si arriverà alla prima fontana. Ho messo nel bagaglio alcune
bustine di the solubile, alla pesca ed al limone, risorsa utilissima
a cui non avevo mai pensato. Ivano riparte a caccia di acqua;
speriamo bene... Ha indubbiamente un talento innato per la guida di
qualsiasi mezzo a motore, ma sarà dai tempi ormai dimenticati della
scuola che non guida un motorino. Meno male che ci attende un
percorso con poco traffico.
Procediamo così, ad
elastico, per tutto il lungo rettilineo fino a Bosco di Busca, mentre
il sole si alza e comincia ad incattivire. Nei giardini delle case
affacciate sulla mia strada è tutto un fervore di tosaerba,
tagliasiepi e decespugliatori. Il rettilineo termina all'incrocio con
la strada tra Busca e Caraglio, dove svolto a destra sbocconcellando
il primo panino al formaggio della giornata, seguito da una
minilattina di Coca Cola. La mia scorta ha uno spacciatore di fiducia
di lattine che conterranno si e no un bicchiere di bibita.
Appena prima di Busca, ci
separiamo, per via di un senso unico che la moto non può percorrere.
E qui mi rendo conto che la mia disorganizzazione può diventare, per
me stessa, davvero pericolosa. Benché io abbia percorso queste zone
in lungo ed in largo, in auto ed in bici, chissà quante volte, non
mi sono minimamente preoccupata di dare un'occhiata alla cartina
della gara e mi sono fatta un'idea completamente distorta, nonché
assurda, dell'itinerario da seguire per raggiungere l'imbocco della
Valle Varaita. Attraverso Busca senza l'assistente, che ha deviato
alla ricerca di una fontanella per riempire la borraccia, ma poi,
anziché seguire la logica direzione per Costigliole Saluzzo, giro,
non so neanche io perché, verso Dronero. Macino così almeno un paio
di km, sempre più preoccupata perché non vedo arrivare la mia
scorta. Fuori dal paese, però, mi rendo visivamente conto che
qualcosa non quadra: mi ritrovo la montagna a destra, quindi dalla
parte sbagliata. E' bene che torni sui miei passi. Ma dove sarà
Ivano? Mi starà cercando. Non ho nemmeno il telefono, ho lasciato
tutto a lui. Che fare? Beh, non è che ci sia molta scelta. Torno
indietro, raggiungo la strada principale e rimango lì, sperando nel
colpo di fortuna di incontrarci.
La sorte è dalla nostra.
Proprio all'incrocio con la strada che va a Costigliole, ecco il
motorino bianco. La mia scorta è nervosa ed arrabbiata: ammiro il
suo sforzo per evitare di darmi della deficiente. Anzi, quasi si fa
colpa del fuori programma. In effetti, lasciata a me stessa, io
divento pericolosa... Decidiamo per una breve sosta, per calmare gli
animi e le gambe. I primi venti km, più la deviazione, sono andati.
Ivano è preoccupatissimo, teme che io abbia sprecato tempo ed
energie che comprometteranno il resto della corsa. Io no, per nulla.
180 km o 185, cambia poco, alla fine. Si riparte in direzione di
Costigliole, lungo una stradina in parte sterrata. Me lo raccomanda
in ogni lingua: “Devi solo andare dritto, sempre dritto. Io ti
aspetto all'incrocio”. Preferisce non cimentarsi sulla ghiaia con
lo scooter. Obbedisco. Andar dritto dovrebbe essere facile. Corro su
un tracciato parallelo alla strada statale, in mezzo ai frutteti; poi
la strada torna asfaltata e risale la collina, lentamente, tra le
prime case di Costigliole. Due cose catturano i nostri sguardi: per
Ivano, una bella podista in due pezzi da corsa con cui fa una gran
figura; per me, una Dacia Dokker parcheggiata. Ho la passione per le
auto “da carico e da nanna” e quel modello lì mi fa svitare il
collo. Se potessi comprare tutte le station wagon ed i furgoni che
ammiro con cupidigia, guai, dovrei avere almeno un hangar per
ricoverarli tutti!
Alcuni tratti su e giù
per arrivare poi nel centro di Costigliole, tra i profumi dell'ora di
pranzo. Da lì, mi immetto sulla strada principale verso Piasco,
all'imbocco della Valle Varaita. Il caldo è ormai a livello di
crudeltà e lo stradone con l'asfalto nero e rovente non aiuta. Non
so quante borracce io abbia già vuotato. Sarà dura... La scorta non
mi perde d'occhio, sempre un po' avanti ed un po' dietro di me.
All'ingresso di Piasco,
altra provvidenziale pausa alla casetta dell'acqua: mi siedo per
qualche istante, con la schiena appoggiata alla parete di legno, come
ordina Ivano perentorio. Una focaccina ed un paio di borracce di
acqua frizzante fresca mi rimettono in condizioni quasi decenti.
Mentre la scorta riempe un altro paio di bottiglie, io riparto, prima
lungo la pista ciclabile e poi verso il centro del paese. Un lungo,
sofferente rettilineo in leggera salita prima dell'incrocio per
tornare sulla strada principale; da lì, un altro lungo tratto,
sempre in salita appena accennata, fino a Venasca, tra auto,
capannoni e col riverbero del calore rabbioso dell'asfalto. Non sarà
facile... Avrò percorso una trentina di km e mi sento addosso tutta
la stanchezza del mondo.
Ivano mi attende alla
rotonda all'ingresso del paese. Superiamo il torrente e raggiungiamo
la piazzetta centrale, dove c'è una fontana con un getto gelido ed
abbondante. Altra pausa, all'ombra dell'ala del mercato. E' sempre
Ivano ad ordinare lo stop. Se fosse per me, probabilmente proseguirei
ad oltranza fino a sfinimento... E lo sfinimento arriverebbe ben
prima della mia meta. Ma ormai ho imparato a fidarmi di quello che ho
eletto come capobranco. Pur non avendo mai corso, ormai la mia scorta
mi conosce anche troppo bene e sa organizzare la mia marcia molto
meglio di quanto potrei fare io.
Sbocconcello un panino di
Ivano, dal contenuto non identificabile: una salsa color arancio, un
po' salata, un po' piccante, non capisco. “Stai tranquilla, è
edibile, l'ho mangiato anch'io”, mi rassicura la scorta. Mah.
Speriamo bene.
Prima di ripartire, tolgo
la canottiera e la bagno per bene sotto il getto della fontana. Me la
rimetto addosso con un urlo belluino per lo sbalzo di temperatura,
sotto lo sguardo allibito e divertito di due passanti, e riparto di
gran carriera lungo la via centrale, per non dire unica, di Venasca.
Da qui, seguo la strada parallela alla principale di fondovalle, che
corre dall'altra parte del torrente: c'è meno traffico, anzi, a
quest'ora non passa anima viva. Altro rettilineo, altra leggera
salita, altro caldo assassino. Brossasco, le botteghe per la
lavorazione del legno e la produzione di mobili. Non dovrebbe più
mancare molto al bivio per la prima salita, Valmala. Lo attendo con
ansia, perché finalmente avrò un'ottima scusa per smettere di
correre, almeno per un po'.
Qui, tra una curva e
l'altra, il traffico è più intenso. I merenderos motorizzati, in
questa stagione, in Valle Varaita non mancano mai. Mi preoccupano gli
spostamenti a zig zag di Ivano con lo scooter... Ma non oso fiatare.
“Oggi tu non devi preoccuparti per me. Devi pensare soltanto a
correre. A tutto il resto provvedo io”. Sue testuali parole, a cui
cerco di attenermi.
Sotto il sole rabbioso
del primo pomeriggio, abbandono finalmente la strada di fondovalle.
Recupero dalla scorta un paio di barrette, all'inizio della salita di
Valmala. Circa nove km: a correre, qui, non penso nemmeno. Mi metto
al passo, svelto sì', ma pur sempre passo. Una lattina di bibita
energetica e via, un passo dopo l'altro, tagliando le curve come i
maratoneti, con un po' di cautela. C'è un insolito traffico di
ciclisti oggi, forse impegnati a provare il percorso della granfondo
di domani. Tanto caldo e tanta stanchezza. Chissà se lo scooter
patisce quanto me? Pur avendola percorsa più volte in bici, in
questo momento non ricordo alcunché della salita che sto
affrontando. Provvidenziale, però, il bagnetto pubblico in
corrispondenza della borgata.
Curva dopo curva, la
temperatura si fa un po' più sopportabile. Alzo lo sguardo per
capire a che punto sono, ma tutt'intorno si vede solo verdissimo
bosco fitto. Il cielo si sta velando, finalmente.
La presenza della scorta
è vitale, ma se il mezzo di trsaporto è la moto, non c'è modo di
fare un po' di conversazione. Chissà se avrò pensieri sufficienti a
farmi compagnia da sola fino alla fine? Se ci arrivo, alla fine.
Ivano mi precede al bivio
del Santuario: mette le borracce al fresco nella fontana. C'è
parecchia gente quassù: anziani che chiacchierano sulla panchina di
pietra, turisti, famiglie. Il tempo di bere qualcosa e riparto con la
bottiglia fresca in mano. Di corsa, perché ormai la salita è alle
spalle; rimane un paio di km o poco più di leggerissimo saliscendi
fino al bivio per Lemma. Il GPS mi ha abbandonata, o meglio: si è
rotto il cinturino... Lo lascio alla scorta e non ci penso più. Si
va a sentimento, d'ora in poi.
Ivano mi precede al
bivio, dove mi fa trovare un meraviglioso tomino sciolto dal caldo.
Pura libidine, che però non so bene come affrontare... Lo mangio a
ditate, ritrovandomi in men che non si dica il formaggio fin sulle
orecchie. Lo finirò a Lemma: ora via, in discesa, approfittando
dell'improvvisa frescura in cui non speravo più. La discesa è
dolce, al fresco degli alberi. Qualche auto più del solito, ma credo
che, anche qui, si tratti per lo più di perlustrazioni del percorso
della granfondo. Le gambe vanno bene, sciolte, senza fatica; il
morale per il momento è alle stelle. Lo nota anche Ivano: “Guardala
lì com'è contenta”. E ci credo, che son contenta. Chi sta meglio
di me?
Altra breve sosta a Lemma
per finire il tomino, poi ancora in discesa. Certo, a piedi la
discesa non è riposante come in bici, ma è comunque un bel
sollievo. E poi, un improvviso “Ciao Giancarla!” alle mie spalle
aggiunge un po' di allegria. E' Danilo, in bici, in perlustrazione su
una parte del percorso della gara. Sapeva da Facebook del mio
tentativo di oggi.Un bel tratto di discesa se ne va nella
chiacchierata a tre. La cosa curiosa è che viaggiamo in tre,
affiancati – non si scandalizzino i puristi del codice della
strada, che quassù non passa anima viva oltre a noi – con tre
mezzi di trasporto diversi: scooter, bici e piedi.
Il cielo si è fatto
scuro, quasi minaccioso. Da un estremo all'altro. Potrebbe anche fa
comodo un bel temporale... Purché si esaurisca prima della salita
del Fauniera, perché salire a oltre 2.400 m di quota di notte e
sotto il fortunale non sarebbe la strategia migliore per diventare
vecchi. Pare quasi di sentire un bubbolio lontano. Danilo ci saluta e
ci augura buona fortuna. Ne avremo bisogno, entrambi.
Verso la fine della
discesa, un lungo rettilineo ci porta all'incrocio con la strada che
sale alla Colletta di Rossana. Lo scooter ci arriva a motore spento,
avendo finora sfruttato la pendenza. All'incrocio, svolto a destra.
Non sento il rumore del riavvio, ma lì per lì non ci do peso: Ivano
si sarà fermato a sistemare qualcosa nello zaino, penso. Di lì a
poco, mi affianca un'auto con a bordo due giovani, un ragazzo ed una
ragazza, bei visi puliti: “Signora, al suo amico si è fermato lo
scooter”. Frastornata, ringrazio ed inverto la marcia: qualche
centinaio di metri e trovo Ivano fermo, arenato, arrabbiatissimo. La
moto non dà più segni di vita. Si è scaricata la batteria. Sul
momento, non riesco a preoccuparmi: cerco invece di restare calma per
non peggiorare lo stato d'animo della mia scorta. Chissà se anche
per i motorini, come per le auto, funziona il trucco di ripartire in
discesa?
Se c'è speranza di
rimediare al guaio, la si può trovare a Rossana. Quindi, piano
d'emergenza: io proseguo la corsa con un panino nella tasca, la
borraccia ed il telefonino; Ivano si avvia verso Rossana a spinta.
Riparto, appunto, un po' scombussolata e con mille pensieri scuri
come il cielo sopra la mia testa. Sarebbe davvero triste dover
rinunciare al giro per guasto meccanico. Ma, del resto, sarebbe
impensabile completare il giro senza assistenza, senza uno zainetto
in cui portare almeno l'essenziale, con la notte di mezzo. O meglio,
sarebbe impensabile per me. Telefono a Matteo per avere un po' di
conforto: “Ma secondo te c'è speranza che la moto riparta?”. Mi
assicura di sì. Speriamo. Intanto, in leggera salita, raggiungo la
colletta di Rossana ed inizio la discesa in direzione della strada
principale tra Busca e Dronero. Ivano ha tentato di spiegarmi la
strada da imboccare per evitare lo stradone, passando dalla località
Morra, ma io preferisco seguire la via di cui sono certa, perché ho
un'abilità tutta particolare nel perdermi.
Per il momento, sto bene.
Mi sforzo di restare ottimista. Senza dubbio la mia scorta troverà
una soluzione. Ne sa una più del diavolo... E soprattutto è
provvisto di una dose inesauribile di faccia tosta. Il cielo,
intanto, si fa sempre più scuro. Come il mio umore non appena vedo
il cartello: “Dronero 10 km”. Così tanti? Ne ricordavo meno...
10 km di questa orrida piattissima strada trafficata? Per la
miseria... Va bè, dai Gian. 10 sono tanti, ma sono pur sempre solo
10. Ma d'improvviso qualsiasi sciocchezza diventa un problema
insormontabile. Il cibo che ho messo nelle tasche posteriori della
maglia e che balla; la bottiglietta d'acqua vuota; il telefonino
nell'altra mano. Tutto è fastidioso. E cominciano a cadere i primi
goccioloni, senz'altro risultato che quello di aumentare a dismisura
l'afa. E Ivano non chiama. Buon segno... O no? Gambe pesanti, morale
a terra. Non ce la faccio più. Non ce la farò mai...
Il telefono è
momentaneamente parcheggiato nel top. Non perché il contenuto del
top sia tale da piazzarci in mezzo il cellulare, a mò di supporto,
per carità... Solo perché l'indumento è molto stretto. Corro
piano, male, con immensa fatica. Ho caldo e sete. Ho anche fame, ma
non mi va di mangiare quel che ho con me. Ormai penso che tanto è
inutile, non potrò continuare; la moto non ripartirà e quindi...
Che senso ha patire così?
Il cellulare squilla.
Rispondo con un nodo in gola. Lo scooter è ripartito! Una decina di
minuti ed Ivano sarà qui. Una bella notizia... Il morale va un po'
meglio, ma la stanchezza è davvero tanta. Quando finalmente la
scorta mi raggiunge, sono al lumicino. Ci fermiamo ad un bivio. Io ho
disperatamente bisogno di una fontana e di una sosta. Ormai sarà
l'ora di cena... Ho perso il senso del tempo.
Abbandoniamo lo stradone
per raggiungere, con una piccola deviazione rispetto al previsto, una
frazione in cui troviamo una fontanella. Mi spiace perdere tempo, ma
non ce la faccio proprio più. Sono svuotata. Mi abbatto su una
panchina, mentre Ivano armeggia con le borracce e le cibarie. Ci
resto per un buon quarto d'ora, fissando inebetita le finestre di una
palazzina dall'altra parte della strada. Non devo avere fretta. Ma
ripartire si deve, prima o poi... Ed è un vero strazio. Male alle
gambe più rigide che mai, fiacca, spossatezza. Torniamo sullo
stradone, approfittando però di alcuni tratti da correre sugli
spiazzi davanti ai capannoni. La scorta si ingegna per tenere sveglia
la mia attenzione, chiacchierando e scherzando alla sua maniera. Io
sto marciando su un filo, in equilibrio precario. La pancia ogni
tanto dà segni di insofferenza. Per fortuna, ha smesso di piovere...
E siamo a Dronero. Un'altra piccola meta. Su istruzione di Ivano,
passo in centro e scendo al Ponte del Diavolo, per poi risalire verso
la rotonda del bivio per Montemale. Mi ci avvio di corsa... Ma la
minima pendenza iniziale è sufficiente a ributtarmi addosso tutta la
mia stanchezza. Proseguo al passo, più spedito possibile, ma
faticosissimo. Così non ha senso... Non ho alcuna speranza di
farcela.
Ivano scatta foto, corre
sullo spiazzo del Santuario a fare il pieno di acqua fresca. Io
arranco in preda allo sconforto. Le forze sono davvero al lumicino.
Al bivio a destra per La Piatta, ancora una volta mi abbatto a
sedere. Sto perdendo troppo troppo tempo. E non mi riesce nemmeno di
piangere. Come ho potuto pensare di riuscirci? Non sono ancora
neppure arrivata al centesimo km, che secondo i miei calcoli dovrebbe
essere più o meno a Pradleves.
Riparto ancora una volta.
Gli strappi in salita sono un'agonia. Ivano non mi molla un attimo.
“Dai”, mi incoraggia, “fino alla Liretta è dura, ma lo sai,
poi spiana”. Lo so. Poi spiana. Ma io non ce la faccio più...
Con la luce della sera,
in un modo o nell'altro mi trascino su per la salita, fino al
fatidico bivio per l'agriturismo Liretta. Poi spiana. Ed è vero.
Provo, timidamente, a riprendere la corsa. Passo dopo passo, le gambe
legnosissime sembrano sciogliersi un poco. Il panino al gorgonzola fa
il resto. Alcuni tratti in piano, altri in leggera discesa. Si
riparte, con l'animo finalmente un po' più leggero. A La Piatta sono
già stati montati i gazebo del rifornimento per i ciclisti. Ci sono
una fontana ed una panchina; si impone una pausa seria, ristoratrice.
Mangio ancora, bevo, faccio i conti, con un filo di speranza in più.
Anzi, con un'esplosione di entusiasmo. Non conosco le mezze misure.
Mi attende il Colle di Fauniera: se ci arrivo, poi è fatta...
Mi avvio in discesa,
lungo i tornanti ripidi di questa stradina sconnessa in mezzo ai
boschi. Di lì a poco, mi raggiunge Ivano, con il motorino che dà
segni di sofferenza. Uno dei freni non funziona... “Ha i freni a
disco?”, domando, nella mia suprema ignoranza. “Sì”. “Allora
può darsi che siano surriscaldati. Succede anche sulla mia MTB”.
La scorta si rassegna a procedere in discesa fino al bivio, senza
aspettarmi. Un'altra nuvola scura passa nel mio cielo: “Speriamo
che la diagnosi sia giusta... Altrimenti, come se la caverà giù per
il Vallone dell'Arma?
Non è solo l'illusione
della discesa. Le gambe trottano bene anche nel breve tratto in piano
prima del bivio per immettersi sulla strada tra Caraglio e Pradleves.
Trovo Ivano che mi rassicura: il mezzo meccanico è tornato in piena
efficienza. Indosso il giacchino rifrangente e riparto, ricordandomi
dopo pochi metri che avrei dovuto prendere anche la pila frontale...
Pazienza, non mi va di fermarmi ancora. C'è luce, per adesso, anche
se ormai è la luce della sera. Raggiungo Monterosso Grana, popolato
così come non l'ho mai visto nelle ore diurne. Supero camminando di
buon passo la breve salita successiva, godendomi anche un brano del
coro di canti di montagna nel cortile di un ristorante. Poi, l'ultimo
tratto di corsa prima di Pradleves. E' quasi buio. Ivano propone una
sosta caffé ed ultimo ristoro a Pradleves, prima di affrontare il
mostro. Va benissimo, ma... Troveremo un locale che ci faccia un
caffé alle dieci di sera in quel di Pradleves? Sono scettica.
La scorta mi precede in
paese, in perlustrazione. Io cerco di allungare il passo, perché qui
non si vede più un tubo e passano più auto di quanto potessi
immaginare, il sabato sera in Valle Grana. D'un tratto, il fanale
dello scooter si muove verso di me. Ivano ha trovato un locale ancora
aperto, appena prima di Pradleves. Al bar annesso al caseificio “La
Poiana” ci sono ancora alcuni avventori ai tavolini. Ammetto che la
sosta mi è di conforto. Il doppio caffé e la lattina di Lemonsoda,
pure. Ricaccio indietro la fretta e la smania di dover ripartire
subito. La mia scorta si veste per la notte: immagino che il freddo,
in moto, si percepisca ben più di quanto lo senta io, che per ora me
la cavo con le maniche corte. Riparto con l'incoraggiamento della
signora al banco del bar. Ora non c'è più santo che tenga: comincia
la salita del Fauniera.
Procedo al trotto finché
sono in paese. Con mia grande sorpresa, la serata ferve: addirittura
una cena di matrimonio in un piccolo ristorante del centro. Ma, oltre
il ponte, proprio dove un minaccioso cartello annuncia l'inizio
ufficiale dell'ascesa... Il buio. O meglio: il buio, ma con la luce
fioca della luna, più che sufficiente a permettermi di vedere dove
metto i piedi. Di qui in poi, vado al passo: passo spedito, il più
possibile, ma passo. Correre sarebbe un suicidio. La salita è lieve,
fino a Campomolino, ma c'è e lima i muscoli già provati.
Intorno a me è un
meraviglioso tripudio di lucciole. Tantissime, dappertutto. Per la
vista, le lucciole; per l'udito, lo scroscio continuo ed impetuoso
dell'acqua del torrente, di cui la strada più volte interseca il
corso. Riflessi e bagliori tra le piccole cascate e le rocce. Mi
sforzo di reggere un passo molto rapido: alla fin fine, il mio timore
è sempre per la mia scorta, che immagino si stia annoiando a morte.
Non che, correndo, io possa abbreviare molto i tempi... Ma camminare
sembra sempre un po' una resa. Eppure, qui, devo essere prudente. Ho
passato i 100 km; me ne restano circa ottanta, pesanti. Ivano non mi
perde d'occhio, si porta un po' avanti e poi mi aspetta; a volte mi
chiede se io abbia voglia di mangiare o bere, a volte me lo impone.
Curva dopo curva, i paravalanghe, gli strappi, le pareti di roccia.
Le luci di Campomolino e Castello, gialle, suggestive nella notte:
sembra di essere in mezzo ad un presepio...
Tra i due tornanti ripidi
appena prima dell'abitato, la stanchezza mi crolla addosso tutta d'un
colpo. Mi abbatto a sedere su un muretto in pietra, subito accudita
dalla mia fedele scorta, che non lascia trapelare nemmeno una virgola
del suo scetticismo circa le mie probabilità di successo. Mangiare,
bere. Testa e schiena appoggiate. Sconforto profondo. Sfinimento...
Non ce la farò mai.
Indosso la maglietta a
maniche lunghe. Sopra, metto la maglia ufficiale della GF Fausto
Coppi. Si era detto di indossarla al mattino... Ma in fondo, chi mai
potrebbe vederla stanotte? Non c'è anima umana viva!
Con enorme fatica, mi
rialzo in piedi e riparto. Sempre al passo, consapevole che da qui,
per i prossimi sei km circa, mi toccheranno le rampe più dure, fino
al Santuario. Con la testa che pulsa e sembra sul punto di scoppiare,
con le gambe molli. Se arrivo in cima è fatta, si era detto. Sì,
ma... Arrivarci! La strada fin lassù è infinita. La meta si
allontana man mano che la stanchezza mi assale.
Pensieri cupi e lacrime
che premono per uscire. Passi stanchi e rampe. Non ce la faccio, ma
ancora un passo ce la faccio. San Bernardo da Mentone, la rampa più
dura. Le case ed i campanili di Borgata Chiotti. Il silenzio, le
stelle. Nel tornante successivo, ancora una sosta. Mi siedo, mi
sdraio per qualche minuto. Riparto ancora, quasi fosse una condanna.
Del resto, in cima devo arrivare. Non posso mica fermarmi qua! Sullo
scooter non salirei mai e poi mai, visto il mio terrore per i mezzi
motorizzati a due ruote.
Un brevissimo tratto di
respiro, poi l'ultimo abitato, appena sotto il Santuario. Si sentono
i campanacci delle mucche al pascolo. Il cielo è di una bellezza
struggente. Un'infinità di lucciole...
Mi sembra che le forze
debbano sparire da un attimo all'altro. Non so nemmeno cosa sia che
mi porta ancora avanti. Ormai sono certa che non ce la farò mai. Dal
Santuario mancano otto km. Solo otto km... Ma ancora otto km.
Ennesima sosta. Mi accascio a bordo strada. Ivano, la scorta
perfetta, si siede accanto e mi offre una spalla su cui piangere. Ma
sono troppo stanca: invece di piangere, mi ci addormento. Qualche
minuto, ma potrebbero essere ore, non lo so. Mi sveglio irrigidita ed
intirizzita. Qualche boccone, qualche sorso di the. Ancora, dinuovo
in marcia. Qui si potrebbe correre, ma le gambe non ne hanno più. E
questo mal di testa feroce. Conosco ogni centimetro di questa strada.
Non posso illudermi che manchi meno di quel che so che manca. Non ce
la faccio. Sonno, sfinimento. Ivano spesso mi affianca, mi spinge a
parlare. Mi fa coraggio. Ma non bastano neppure le stelle e la luce
della luna che inonda i pascoli. Crollo, letteralmente, a terra
ancora due volte prima di arrivare al Colle Esischie. Da lì manca
poco più di un km. E solo da lì posso cominciare a sperare un poco.
Il vento rinforza, freddo. Siamo a quota 2.400 in piena notte. Povera
scorta, spero non iberni. Ultimi passi quasi in piano, spediti, in un
luogo meraviglioso, dove l'unica nota stonata ma necessaria è il
rumore del motore dello scooter. Ultima curva, la statua di Marco
Pantani, il colle. La gioia incontenibile che caccia via la
stanchezza. Mi abbatto ai piedi della statua e mangio con un appetito
che non immaginavo di avere: panino al formaggio e dolci, senza
ritegno. Ivano si siede a fianco, in modo da ripararmi dal vento.
Credo di essere parecchio debilitata... Il freddo mi entra subito
nelle ossa.
Indosso la mia giacca
Gore Tex, più quella di Ivano. Mi addormento, anche qui, per qualche
minuto, ma il vento soffia teso e gelido. Meglio andare, non prima,
però, di una foto con la luna piena sullo sfondo. Parto al trotto:
il morale alle stelle mi permette di ignorare, o quasi, il dolore
intenso alle gambe irrigidite. E di non pensare ai venticinque
lunghissimi km di discesa da qui a Demonte.
Basta perdere poche
decine di metri di quota perché la seconda giacca diventi già
superflua. Vedo le luci della moto al colle Valcavera: ci arrivo,
sempre al trotto, e consegno l'indumento. Poi giù, curva dopo curva.
La luna si nasconde dietro ai monti: qui, sì, in effetti la frontale
un po' servirebbe... Ma mi accorgo, solo adesso, che, nonostante le
ore di carica, le batterie rendono immediatamente lo spirito.
Pazienza. Verrà chiaro, prima o poi. Nel frattempo, cerco di
sollevare i piedi un po' più di quanto mi sentirei di fare. Ivano si
porta avanti un po', volta per volta: poi parcheggia lo scooter ed
accende una lucina a led, lampeggiante, verso di me che ho ancora i
bracciali rossi con le luci intermittenti accese. Non ci perdiamo di
vista. Procedo di buon trotto, con il favore della discesa e del
morale altissimo. Mi stupisco io stessa di come mi sia possibile
precipitare nel baratro dello sconforto con tanta facilità... E con
altrettanta facilità uscirne.
Di lì a poco, levo anche
la seconda giacca. Tutto si può dire, ma non che faccia freddo. A
qualche km dal colle, il buio del cielo si attenua. Primissime luci
dell'alba. E prima auto che sale verso il colle. Al Rifugio
Carbonetto è giorno fatto, anche se non c'è traccia di movimento
umano. Solo le mandrie al pascolo e due animali selvatici che ci
attraversano la strada d'improvviso e che, dalle corna, parrebbero
addirittura stambecchi... Possibile? Siamo al di sotto dei duemila
metri di quota... Mi sembra strano. Ma chissà, forse è l'effetto
del sonno.
Tornanti e tornanti,
l'aria frizzante del mattino, il tratto in piano. Le gambe sono
stanche e rigide. E la discesa, lo so bene, è lunghissima. In un
tratto quasi piano e rettilineo, vedo Ivano fermo a rassettare il
bagaglio. Anche per lui, anzi, soprattutto per lui il sonno è ormai
una compagnia scomoda ma fissa. Ed è pericolosa se si guida una
moto. Indugio forse un po' troppo, ma sono davvero stanca. Nuovi
dubbi mi assillano. A Demonte mancano ancora più di dieci chilometri
ed io sto procedendo così piano... Passo dopo passo, sempre più
fiacca. Arriviamo alla centrale idroelettrica ed alle frazioni
abitate. La prima, ancora deserta se non per il latrato di qualche
cane. Nella seconda, trovo Ivano impegnato, guarda caso, in
conversazione con una signora: se ce n'è una nel raggio di mille
miglia, a quest'ora dell'alba, lui la scova di sicuro... L'incontro
con un trattore che traina un rimorchio carico di cani, più un paio
di cani anche nell'abitacolo, mi mette di ottimo umore: un chiasso
che non finisce più, ma è musica per le mie orecchie.
Il cielo del mattino è
nuvoloso. Cade persino qualche goccia di pioggia. La partenza della
granfondo in bici è prevista per le sette: mi lancio in ipotetici
calcoli per capire quanto impiegheranno i primi ciclisti a
raggiungermi. Quelli del percorso corto, prima, e quelli del lungo,
che dovranno percorrere tutta la mia strada.
Più ci avviciniamo a
Demonte, più la strada mi sembra ancora lunga. Le gambe sono a
pezzi, tutto il resto è dolorante e vuoto. Il traffico si fa più
intenso: penso che buona parte dei veicoli che stanno salendo verso
il colle sia legata all'organizzazione della gara. Ricordo di aver
visto stanotte, al Colle Esischie, un camioncino parcheggiato:
probabilmente è già lì per i rifornimenti.
Ivano, ad un paio di km
dal fondovalle, parte e mi precede a Demonte. Con una mossa che
definire geniale è davvero riduttivo, nei giorni scorsi, ha pensato
bene di portare la sua auto sulla piazza del paese e lasciarla lì.
Il programma di viaggio, adesso, prevede di arrivare all'auto,
dormire un'ora e poi decidere il da farsi: proseguire, oppure
smettere.
Le brevi ma secche rampe
che accompagnano la fine della discesa mi lasciano perplessa e
demolita. Quando arrivo a Demonte, alla piazza, ho male dappertutto.
Trovo l'auto. Ivano è già addormentato sul sedile passeggero. Io
m'infilo nello spaziosissimo bagagliaio della Volvo Station Wagon. E'
tardi, speravo di arrivare qui un po' prima. Sono le otto. Ma non ce
la faccio più nemmeno a preoccuparmi. Sono distrutta, lurida,
puzzolente e sfinita. Voglio solo crollare... Poi si vedrà.
Galleggio per un tempo
indefinito tra il sonno ed una specie di veglia, sufficiente a farmi
percepire il male ed i crampi alle gambe. Cambio posizione di
continuo, ma serve a poco, visto che ogni virgola del mio corpo è
pesta e dolorante. Poi la sveglia pone fine all'agonia. Le nove. Sono
sveglia. Ora s'ha da decidere. Continuo o abbandono? “Quanti
chilometri mancano da qui?”, domando perentoria ad Ivano. E lui
comincia ad abbozzare conteggi parziali, con una flemma che mi
precipita in un'ansia senza fine. Poi, con la solennità di un
oracolo: “Trenta, forse trentadue”. Ok. Allora si fa. Ce la
faccio, si riparte. In realtà l'avevo già deciso... Ma mi serviva
un motivo per dare un senso alla mia risoluzione. Scendo, ignorando
di proposito il dolore a tutto. Faccio schifo anche a me stessa, ma
non è il momento di preoccuparsi di certe sottigliezze. Mi vien da
ridere al pensiero di certe fanciulle che corrono con trucco e
parrucco impeccabili: io sembro la sorella brutta di Maga Magò, in
questo momento... Ma vorrei vedere loro, in questa circostanza!
Una rapida tappa al bagno
pubblico sulla piazza. Poi afferro un paio di barrette, incurante,
questa volta, delle raccomandazioni di Ivano a mangiare. La fida
scorta mi spiega dove andare per raggiungere la strada militare oltre
il fiume, ma ormai non lo ascolto neanche più. Ci arriverò, in
qualche modo. In effetti, mentre lui risistema il bagaglio e si
riorganizza, io mi perdo un paio di volte tra le viuzze del paese. Ma
poi, grazie all'unico essere umano incontrato per caso accanto ad una
fontana ed alla mia conoscenza dell'idioma locale, trovo la retta
via. Mi raccomanda, l'anziano passante, di fare attenzione, perché è
in arrivo una gara... Già!
Rieccomi sul tracciato
ufficiale della gara: neanche a farlo apposta, cinque minuti dopo mi
raggiungono i primi corridori del percorso corto. Sono le nove e
mezza, più o meno... Significa che questi missili hanno impiegato
due ore e mezza ad andare da Cuneo a Pradleves, salire al Fauniera,
scendere ed arrivare qui. Inimmaginabile.
Non pensavo davvero che
le gambe potessero ancora correre così. Tutto, o quasi, merito
dell'entusiasmo. Ora che i ciclisti mi arrivano alle spalle, ora che
la presenza di una maglia della gara ciclistica indosso ad una
podista comincia a suscitare curiosità, ora che sento il traguardo,
è tutta un'altra cosa. Anche se in mezzo c'è ancora la Madonna del
Colletto, circa nove km di salita che non perdona.
Ivano mi raggiunge, anche
lui con la maglia della gara. Anche questo, accorgimento quanto mai
strategico per consentire il passaggio senza problemi allo scooter
anche nei tratti in cui il traffico è bloccato per il passaggio
della corsa. Chi potrebbe dire che la moto non fa parte della
carovana della gara ciclistica?
Ancora qualche centinaio
di metri in piano, prima del bivio per l'ultima salita. Ho il
terrore, in verità, che lo scooter possa causare impiccio o, peggio,
cadute ai ciclisti che ci arrivano a frotte alle spalle: soprattutto
ai primi, che viaggiano spediti senza badare troppo ai possibili
ostacoli. Dovrei fidarmi un po' di più... Mangio ancora qualche
barretta, prendo la borraccia piena. Per adesso non fa caldo: il
cielo è velato e spero rimanga tale. Un caldo pari a quello di ieri
sarebbe letale.
Al bivio mi precede
Ivano, che ha già sparso la voce tra gli spettatori presenti: un
applauso di incoraggiamento è quel che mi ci vuole. C'è davvero
tanta gente, lungo la salita. Alterno passo e corsa, schivo gli
spettatori che invadono la strada, cerco di stare il più possibile
di lato per non dare fastidio ai ciclisti. Poi, quando le rampe si
fanno decise, mi rassegno a camminare, ma con tutt'altra andatura
rispetto a quella della scorsa notte. Molti ciclisti notano la
maglia: si sprecano le domande del tipo “Dove hai lasciato la
bici”, a cui di norma rispondo con “L'ho dimenticata” oppure
“Me l'hanno rubata”. Ma c'è anche qualcuno che, con mia grande
sorpresa, conosce il motivo per cui io sono lì. E poi ci sono i
compagni di squadra del Team Nordovest e gli amici di Facebook:
insomma, l'incoraggiamento non mi manca. Per tacere di chi, più che
la maglia color ciclamino, si fa distrarre dal pantaloncino molto,
molto sgambato. Mi ribalto dalle risate quando un ciclista mi chiede
di poter toccare con mano: “Se porta fortuna, fai pure”,
rispondo. “Se porta fortuna non lo so, ma è tanto bello...”. Che
volete farci, dalla vanità non sono certo immune.
Le rampe secche si
alternano a tratti quasi in piano. Il frastuono della musica al
ristoro sul colle si sente molto prima di arrivarci: mancano ancora
almeno un paio di km... Ed ' un coro di ciclisti che domandano,
estenuati, quanto manchi ancora alla cima. Io stessa, pur avendo
percorso più volte questa salita in bici, in questo momento non ne
ricordo quasi nulla. Ma ormai non può mancare molto. E comunque non
mi interessa, in cima io ci arrivo, a qualsiasi costo!
Ultimo rettilineo prima
del colle. Musica a tutto volume. Io tirerei dritto senza fermarmi...
Ma Ivano mi intima l'alt, almeno per qualche minuto. Un panino,
qualche fragola e diversi bicchieri di Coca Cola. Mi sento una ladra
ad approfittare del ristoro, io che non sono nemmeno iscritta. Mentre
rifiato, seduta sul muretto di fronte alla chiesetta, presto orecchio
alle notizie che giungono dalla radio del punto di soccorso: pare che
più di un ciclista abbia avuto la sciagurata idea di schiantarsi in
discesa. Vuoi per la pioggia, vuoi per l'incoscienza. Più per la
seconda, a mio parere. Infatti, i sei km di discesa successivi sono
da brivido: mi tengo il più possibile di lato, addirittura fuori
dall'asfalto se c'è spazio, ma i proiettili che mi sfrecciano
accanto fanno paura. Ma che senso ha? Ormai i primi sono passati da
un'ora e mezza almeno... Ma perché rischiare così tanto? Perché
lanciare invettive se qualcuno osa scendere con un po' più di
cautela? Non posso che associarmi al rimprovero canzonatorio diretto
da un ciclista “normale” ad uno di questi pazzi: “Ma dove caxxo
vuoi andare?”.
Sei km di discesa sono
lunghi, soprattutto se le pendenze sono severe come in questo tratto.
E' una coltellata nelle gambe ad ogni passo. Ho raccomandato ad Ivano
di scendere direttamente a Valdieri, senza fare soste intermedie, per
limitare i rischi di incidenti. Mi aspetto di trovarlo là.
A fondovalle arrivo dopo
un tragitto che mi sembra eterno: ormai Cuneo è vicina, ma non
ancora così vicina. Tocca portare ancora pazienza, perché gli
ultimi km saranno anche i più penosi. In paese seguo il percorso dei
ciclisti: Ivano aveva pensato un tragitto diverso, possibile a piedi,
per abbreviare il tracciato che conduce alla strada di fondovalle, ma
io preferisco evitare il rischio di sbagliare strada. E poi i
ciclisti, adesso, sono la mia compagnia ed il mio sprone.
Quando mi immetto sulla
strada statale, con l'incrocio ben presidiato da Carabinieri e
volontari, un militare mi chiede esterrefatto: “Non dirmi che hai
fatto tutto il giro”. Eccome, sono partita ieri...
Da qui, mi resta la lunga
galoppata finale. Dovrò attingere alle forze che non ho più ed alla
pazienza che ormai sta svanendo. Di Ivano nemmeno l'ombra, ma so di
essere sulla strada giusta. Arriverà...
Mi ferma una persona a
bordo strada. Dice che il mio amico sullo scooter è già andato
avanti. Ok... Non so cos'abbia in mente, ma va bene. Quanto mancherà,
da qui? Da dodici a quattordici km, secondo i miei calcoli. Pianura,
leggera salita, leggera discesa. Calma, Gian, calma. Ormai è fatta,
prima o poi arrivi, anche se di qua in poi sarà puro supplizio.
Anche perché il sole ha fatto capolino ed ha tutta l'aria di voler
scaldare dinuovo.
Vedo Ivano che arriva
nella corsia opposta. Trafelato: gli avevano dato un'informazione
sbagliata, pensava che io fossi più avanti. Ha rischiato la sanzione
per aver invertito la marcia: in teoria, la strada sarebbe chiusa
alle auto... Anche se a me non sembra proprio, visto che, ad ondate,
le auto circolano in entrambi i sensi di marcia. Ma in questo
momento, nemmeno un colpo di fucile potrebbe fermarlo. E' quasi più
entusiasta lui di me...
Appena oltre Andonno, ci
sorpassano i primi ciclisti del percorso lungo, almeno così mi
sembra di capire. Intanto arrivano ancora concorrenti del percorso
breve, con andatura ed equipaggiamento via via più turistici. Quasi
tutti hanno una parola per me, che sia di incoraggiamento o
canzonatoria poco importa. Va bene tutto.
Ancora una breve sosta su
un'ampia piazzola. Le forze sono, davvero, al lumicino. Solo qualche
minuto per sedermi e rifiatare, ma con ben altro spirito rispetto
alle soste agonizzanti della notte. Mi rialzo con un po' di fatica,
più che mai inchiodata. Riparto, ancora una volta.
A Borgo San Dalmazzo, la
scorta mi conduce per un breve tratto fuori dal percorso della gara,
che segue un anello per evitare l'abitato, effettivamente poco
sensato per chi si muove a piedi. Ma si tratta di un km o poco più.
Ricomincia a piovere, goccioloni sparsi, che a me fanno solo piacere.
Ancora cinque o sei km: un'eternità... Devo tenere duro, perché
davvero non ne posso più. Sbotto: “Io ne avrei quasi le palle
piene...”. E Ivano non può che approvare. Insomma: la compagnia
dei ciclisti è preziosissima, ma se qualcuno mi chiede ancora dove
io abbia lasciato la bici, giuro che lo disarciono e lo butto nel
fosso... Un po' di fantasia, che diamine!
Il percorso devia su una
stradina secondaria in mezzo ai campi coltivati. Si vedono le prime
propaggini di Cuneo. Non credo d'esser mai stata tanto felice di
scorgere il profilo del palazzone dell'Agenzia delle Entrate... Anche
se so che, dal centro, è ancora parecchio distante.
Quando ormai manca poco
all'imbocco del Viale degli Angeli, una voce nota alle mie spalle:
“Gian!”. E' Matteo, che sta per concludere il percorso lungo in
bici. “Ci vediamo al traguardo”, faccio in tempo a dire, mentre
lo sento spiegare al suo incredulo compagno di viaggio che io ho
seguito il loro stesso tragitto, ma a piedi. Ormai è gioia allo
stato puro, ma non so se ridere o piangere. Propendo nettamente per
la prima opzione quando Ivano mi raggiunge e mi racconta il dialogo
surreale con una madama seduta al fresco degli alberi del viale. La
madama sì è stupita di vedermi passare a piedi con la stessa maglia
dei ciclisti; la mia scorta, da buon filibustiere, le ha spiegato che
la mia bici era stata rubata... E che quindi io ero stata costretta a
far la gara a piedi. Accorata e sincera l'indignazione dell'anziana
signora: “Ma che ladri... Ma in che tempi viviamo!”.
La passerella del Viale
degli Angeli, per l'occasione chiuso alle auto, non me la leva
nessuno. Anche se ormai sono talmente sfinita che arrivo persino ad
odiare questo meraviglioso viale alberato ed a desiderarne, solo per
un momento, l'abbattimento totale... Ivano avverte per telefono gli
organizzatori del mio imminente arrivo. Intanto Matteo, che nel
frattempo ha tagliato il traguardo, torna indietro in bici. Così,
per l'ultimo chilometro agognato, il centoottantesimo o giù di lì,
di scorte ne ho ben due... E con entrambe arrivo, incredula, in
Piazza Galimberti. Passo sotto l'arco quasi con imbarazzo, come se
fossi un'intrusa... Ma la festa finale è anche per me, con tanto di
palco e di ricchissimo premio, quasi fossi un po' vincitrice anche
io. Infatti lo sono, anzi lo siamo, in due, visto che nulla di tutto
ciò sarebbe stato possibile senza l'aiuto di Ivano. Io ci ho messo
le gambe, ma la testa e tutto il resto ce li ha messi lui. Se si
proponesse in affitto come uomo scorta per le corse podistiche,
avrebbe prospettive di luminosissima carriera! Insomma: sono, anzi
siamo, ecco, siamo la prima persona ad aver percorso la granfondo
ciclistica Fausto Coppi, percorso lungo, senza bicicletta. Detta
così, sì, fa un certo effetto!
Il Fauniera di notte... bellissima avventura, complimenti. Roberto
RispondiEliminaComplimenti ancora. Oltre l'impresa un bellissimo racconto. Enzo
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