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martedì 15 maggio 2018
giovedì 12 aprile 2018
1-2 aprile 2018 – PASQUA E PASQUETTA IN VERDON – secondo giorno
E' già chiaro quando Matteo
ed io torniamo allo stato cosciente, al trillo della sveglia. Mi
sembra di aver vissuto un'esperienza di morte temporanea: ho dormito
come un sasso. In altri tempi di fervore giovanile, mi sarei
imbestialita all'idea di aver già sprecato preziosissimi minuti di
luce: avrei già dovuto essere in marcia da un po'... Ma oggi ammetto
che tornerei volentieri a seppellirmi sotto il caldissimo piumone.
Eppure non si può: resta un allenamento da fare e tanta strada in
auto per tornare a casa, dalle belve.
La graziosissima padrona di casa ci fa trovare una
lauta colazione, sorvolando sul caffè: in questo caso, essere in
Francia è un elemento di svantaggio. Più che altro, ciò che a me
manca è la componente salata della colazione: abituata come sono a
considerare questo il pasto principale della giornata, sento la
mancanza di un piatto di pasta o di una bella fetta di formaggio. Mi
accontento del pane, del burro e del miele, più un paio di gustose
marmellate, ben sapendo che la colazione dolce cederà presto il
passo alla fame. Su uno dei tavoli della splendida sala da pranzo,
sfoglio l'album delle fotografie che ripercorrono i lavori di
ristrutturazione del casolare in cui ci troviamo: da fienile
diroccato a splendido edificio a destinazione abitativa e turistica.
Il programma della giornata prevede di spostarci in
auto a La Palud. Da lì, partiremo entrambi, Matteo ed io, per il
giro della Route des Cretes, lui in bici ed io a piedi. Poi Matteo,
completato il giro e tornato a La Palud, proseguirà in direzione di
Digne, mentre io recupererò il furgone e lo seguirò, per poi
tornare in Italia passando dal Colle della Maddalena. A tornare dalla
Valle Roja, vista la via crucis dell'andata, non pensiamo nemmeno per
un istante.
La luce sfavillante del sole inganna: il termometro
del furgone segna due gradi. Due. Cominciamo bene. La faccenda non
migliora molto nella mezz'oretta scarsa che impieghiamo per spostarci
verso La Palud. Bando alle incertezze, tanto si parte in salita. Io
scendo al bivio con la Route des Cretes, circa un km prima di La
Palud: Matteo prosegue con il furgone lungo la strada alternativa che
permette di oltrepassare il blocco dei lavori nel centro
dell'abitato. Così, parto a piedi con un po' di vantaggio. Saranno
solo 21 km, una mezza maratona, ma con un dislivello di tutto
rispetto. Di corsa per i primi km, poi la salita si fa più seria:
non è il caso di sfinire le gambe, che pure stanno molto meglio di
quanto io potessi immaginare. Intanto il sole fa il suo dovere e
l'aria si fa tiepida. I primi turisti, rari, fanno capolino in auto e
camper, mentre io procedo a passo svelto e concentrato lungo i
tornanti di questo tratto di strada che, fin quasi al punto più
alto, è a doppio senso di marcia per i veicoli. Raggiungo il primo
belvedere e mi affaccio sul baratro, ma solo per un attimo. Poi
riparto di buona lena.
Matteo mi arriva alle spalle dopo cinque o sei km
dal mio via. Giusto il tempo di rubargli un pezzetto di focaccia,
perché, come immaginavo, ho già fame. Poi ripartiamo entrambi. Ci
rivedremo lungo la strada per Digne o, alla peggio, proprio a Digne.
Settecento metri di salita passano, tutto sommato,
più in fretta di quanto pensassi: tra un belvedere e l'altro,
raggiungo il punto in cui, oltre uno slargo, la strada diventa più
stretta ed a senso unico. Da La Palud, infatti, il giro si può
percorrere solo in senso orario. Decifro per sommi capi il panegirico
scritto su un cartellone: qui siamo oltre quota 1.200 m,mentre il
Verdon è a quota 500 m circa. Quindi, la parete verticale su cui
potrei affacciarmi se solo osassi avvicinarmi al bordo sinistro della
strada è alta più di 700 m. Mi fido, preferisco non controllare,
nemmeno ad occhio. Proseguo attraversando un breve tratto boscoso,
fino a raggiungere il punto più alto, da cui si apre una vista da
brividi su tutto: il canyon sotto di me, il lago, il Mont Ventoux
innevato, l'altopiano. E la strada che corre sull'altro lato delle
Gorges, rieccola. Da qui in poi, alcuni km di picchiata con vista sul
vuoto e l'ombra inquietante degli enormi avvoltoi che hanno preso
residenza qui e volteggiano lenti pochi metri sopra la mia testa. C'è
chi ha piazzato il camper proprio qui, per ammirare l'alba in un
luogo da sogno, e riemerge appena adesso tra lenzuola e cuscini; io
riprendo a correre svelta e decisa, approfittando del lungo tratto di
discesa fino allo Chalet de la Maline ed oltre. Un tornante dietro
l'altro, alcune gallerie scavate nella roccia, la luce del sole
abbacinante. Oggi non c'è un alito di vento; l'asfalto e le pareti
rocciose bianchissime riflettono il calore. Scatto parecchie foto,
prima di arrivare allo Chalet, dove la strada torna ad allargarsi ed
a consentire il transito nei due sensi di marcia. Il piazzale è
affollato di veicoli d'ogni genere, dalle moto ai camper grossi come
pullman granturismo. Da qui partono anche alcuni sentieri. Qui, a
quota più bassa, la strada si incunea nuovamente nella gola ed
alterna tratti di lieve discesa a brevi risalite molto blande.
Stanchezza e sete si fanno sentire: in tutto il giro delle Cretes non
ci sono fontane. Ma non voglio smettere di correre: il giro è breve,
tutto sommato; lo sforzo è sopportabile. Mi rassegno a camminare
solo nel tratto finale, una risalita di circa duecento metri di
dislivello che mi allontana dalle Gorges per tornare al piano di La
Palud, passando, quasi in cima, accanto ad un recinto con alcuni
lama. L'abitato compare, finalmente direi, dopo ventun km dal mio
via: mi concedo il viale d'ingresso al passo, per non arrivare al
furgone e fermarmi di colpo, inchiodando le gambe.
Mi cambio, mi do una lavata artigianale con un
asciugamano e l'acqua di una bottiglia, faccio un po' di stretching.
Poi arriva la parte più inquietante dell'avventura: guidare il
furgone giù per le curve fino a Moustiers. E da lì fino a Digne, ma
dovrebbe essere più semplice. Secondo Matteo, il furgone è poco più
grande della mia Zafira, dove per “poco” si intende una decina di
cm in larghezza e ben quaranta in lunghezza. In verità, io adoro
guidare qualsiasi mezzo, ma sono molto in ansia quando il mezzo non è
mio...
Giro la chiave ed il furgone si avvia. Ottimo, chi
ben comincia è a metà dell'opera. Arrivo in paese e riesco,
all'incrocio, a far spegnere il motore, sotto gli sguardi perplessi
degli avventori del bar. Poi però fila tutto liscio, se si vuole
sorvolare sulla cosa spaventosa che creo dietro di me scendendo fino
a Moustiers alla velocità massima dei cinquanta all'ora. Da
Moustiers in poi, in qualche tratto oso addirittura i sessanta
all'ora: Puimoissons e poi via verso Digne.
Non mi stupisco di non raggiungere Matteo: in
effetti, io sono molto lenta sia a piedi che a motore, quindi è
perfettamente plausibile che a Digne arrivi lui prima di me. Mi
stupisco già un po' di più di non vederlo quando arrivo alla
periferia di Digne. “Sarà in centro, imboscato in qualche
boulangerie”, penso. Proseguo lentamente, scrutando le figure sui
marciapiedi: di lui nessuna traccia. Attraverso il centro di Digne in
direzione di Barcellonette: nulla. A questo punto, parcheggio e provo
a chiamarlo al telefono. Nessun segno di vita dall'altra parte: uno,
due, tre tentativi, nulla. Ok Gian, calma e sangue freddo, adesso
riparti e torni indietro per un po'. Con una certa ansia all'idea di
guidare il furgone nel traffico cittadino, con il mercato e l'isola
pedonale. Arrivo fino al confine della città: nulla. Torno indietro
ancora una volta e ancora nulla, nessuna traccia di Matteo. In
compenso, la Gendarmerie comincia a tenermi d'occhio. Un furgone in
luogo affollato, di questi tempi, è cosa poco rassicurante, ma io ho
intenti omicidi verso una sola persona in questo momento, sempre che
non gli sia già accaduto qualcosa.
In preda allo sconforto, mi fermo di nuovo. Non so
che fare: l'unica idea che mi viene in mente, con i brividi lungo la
schiena ed i peggiori pensieri foschi, è rivolgermi davvero alla
Gendarmerie e chiedere se per caso abbiano notizia di un incidente
occorso ad un ciclista italiano. Tento ancora una volta di mettermi
in contatto con Matteo per telefono. Incredibile dictu, stavolta il
suo cellulare suona. E lo sciagurato risponde: mi spiega, col
fiatone, che sta pedalando e si trova una decina di km oltre Digne,
verso Barcellonette. Ma non ha potuto avvisarmi perché il suo
cellulare non funziona. Certo. Ovvio. Ci siamo dati appuntamento qui,
tu hai il cellulare che non funziona, quindi qual è la decisione più
razionale da prendere? Proseguire, ovvio, chi non lo farebbe. Riparto
per l'ennesima volta, ma senza più avere misericordia alcuna
dell'acceleratore, mentre tra me e me medito se passargli sopra
oppure passargli accanto e tirare dritto verso casa, lasciando che i
trecento km rimanenti soddisfino la sua voglia insaziabile di
pedalare. Sì, ecco, sarebbe splendido, la giusta vendetta, sadismo
allo stato puro. Passano parecchi km prima che io lo raggiunga,
nonostante la guida in stile curve su due ruote. Quando finalmente ce
l'ho nel mirino, solo per un estremo sforzo di autocontrollo riesco a
seppellire, almeno un pochino, l'ascia di guerra e fermarmi su una
piazzola, permettendogli di salire a bordo, ma non senza fargli
presente quel che penso della sua brillante iniziativa. Ci vorranno
parecchi km ed un bel po' di curve su per la Maddalena, prima che il
mal d'auto intervenga a placare e sovrastare l'istinto omicida, ed un
bel bicchiere di Moscato a casa per riportare la pace. Ma la prossima
volta non mi becca più! Da oggi in poi, l'auto non si schioda più
se non con a bordo tutti i passeggeri, parola mia.
1-2 aprile 2018 – PASQUA E PASQUETTA IN VERDON - primo giorno
“Non
stai bene?”.
“Figurati.
Per me, che patisco qualunque mezzo in movimento da chiunque condotto, questa
meravigliosa sequenza di curve, su da Limone e Vernante e poi giù per la Valle
Roja, con un migliaio di dossi talmente alti che solo Messner potrebbe
superarli senza l'aiuto delle bombole di ossigeno, è una vera goduria”. Lo
penso, ma non lo dico, anche se temo che il mio colorito verdognolo, gli
sbadigli continui ed irrefrenabili, i ripetuti cedimenti ad un sonno breve
quanto profondo lascino intuire qualcosa circa il mio stato confusionale del
momento. Io adoro guidare, davvero, guiderei qualunque mezzo su qualunque
strada, è un piacere quasi fisico, ma non posso pretendere di imporre sempre e
comunque la mia volontà, soprattutto se il mezzo di trasporto in questione non
è il mio. E poi, io amo guidare con la massima flemma, quella del pensionato
col cappello e l'acceleratore fisso sui 30 km/h: ma il viaggio di oggi è già
lungo... Quindi, alla fin fine, è meglio che guidi Matteo. Mi sacrifico.
Un
breve tratto di autostrada mi concede di tornare temporaneamente allo stato di
coscienza. I gendarmi, schierati in forze al passaggio della frontiera, non
sembrano interessati al nostro furgone: probabilmente abbiamo la faccia di due
che vanno a farsi la vacanza pasquale. Per fortuna non ci fermano per chiederci
le nostre intenzioni: altrimenti, ci arresterebbero preventivamente, in attesa
di accertamenti, perché chi progetta un attentato terroristico è senza dubbio
un soggetto pericoloso, ma anche chi ha in animo di partire per il giro del
Verdon di corsa a piedi non scherza.
La
sosta all'autogrill è d'obbligo: scendere dal furgone è un'impresa per cui, in
questo stato, mi servirebbero una corda ed un imbrago. Toccare terra in
posizione eretta è un successo: ora tocca raggiungere le toilette. E qui, il
primo successo della giornata. Dal bagno sulla sinistra esce un omone che
biascica qualcosa facendo segno, sia a me che a Matteo, di entrare nel bagno di
destra. Quello degli uomini. Io rimugino a voce alta: “Quello delle donne non
funziona?”. E l'omone si illumina e ripete, in italiano molto stentato: “Non
funziona!”. E già qui, se io fossi nel pieno possesso delle mie facoltà
mentali, dovrei immaginare che, se un uomo sta uscendo dal bagno delle donne
per entrare in quello degli uomini, non è perché il bagno delle donne non
funziona: semplicemente, è lui che ha sbagliato porta. Ma io raramente sono nel
pieno possesso delle mie facoltà mentali, soprattutto dopo tre ore di viaggio
in dolce compagnia del mal d'auto. Il temutissimo “bergiabau”, come si chiama
dalle mie parti. Quindi, sia pur tra mille titubanze, vinta dall'urgenza della
vescica, entro furtiva come un ladro nella toilette degli uomini. Ma
immediatamente si materializza un inserviente, maschio, che mi cazzia in
francese e mi riconduce sulla retta via, nel bagno delle signore, perfettamente
funzionante. Il fatto che ci entri pure lui è un dettaglio...
Insomma:
espletate le formalità corporali, riprendiamo il viaggio. Purtroppo. E
purtroppo, di lì a poco, abbandoniamo l'autostrada in quel di Grasse, per poi
affrontare, dopo quindicimila rotonde e relativo sbatacchiamento della
passeggera, la Route Napoleon verso Castellane. Come se non bastasse, Matteo,
di norma pilota calmo, riflessivo ed attento a minimizzare il consumo di
carburante, oggi dev'essere stato colto dal sacro fuoco del pilota di Formula
Uno e prende sistematicamente le curve su due ruote, mentre io non ho nemmeno
più la forza di protestare. Avremmo dovuto impiegare cinque ore di viaggio, ne
impiegheremo sei, sempre che noi si arrivi interi: pazienza...
La
mia agonia si conclude una dozzina di km prima di La Palud, al punto in cui la
strada che arriva da Castellane si biforca e, a sinistra, va verso Trigance
oltrepassando il ponte sul Verdon, mentre, a destra, prosegue diretta per La
Palud. Abbandoniamo il furgone su una piazzola: la temperatura, ormai da
parecchi km, non supera i 2-3 gradi, nonostante il sole sfavillante. Optiamo
quindi entrambi, io che partirò a piedi e Matteo che si avvierà in bici, per
l'abbigliamento lungo; io aggiungo anche la giacca antivento, perché sì, spira
anche un vento discretamente gelido.
Il
programma di viaggio per la giornata prevede questo: io percorrerò il giro
delle Gorges correndo prima lungo la Rive Droite e poi risalendo per la Rive
Gauche. Matteo partirà per il giro al contrario; mi incontrerà in un certo
punto, presumibilmente intorno al giro di boa geografico del mio itinerario;
poi farà il giro del Lac de la Croix, sempre pedalando; mi raggiungerà una
seconda volta e infine tornerà all'auto. Per me saranno circa 80 km di corsa
con, in sostanza, due punti di assistenza.
Sono
ormai le dieci quando ci salutiamo e ci avviamo per i rispettivi allenamenti.
Parto con un certo timore: fa parecchio freddo, tanto per cominciare, ed il
vento s'infila nella giacca. Poi, ho pochi allenamenti lunghi nelle gambe.
L'ultimo, da 77 km la scorsa domenica, è andato davvero bene, ma lì era un
circuito, con assistenza ogni due km. Oggi qui è tutt'altra musica. Quasi quasi
invidio un po' i pescatori appostati sulle rive del Verdon, che scorre alla mia
sinistra. Verdon di nome e di fatto: l'acqua ha un colore incredibile, non
sembra nemmeno reale. Un po', devo ammettere, è anche merito degli occhiali
fotocromatici, mia recente scoperta che ha un ottimo influsso anche sull'umore.
I colori rosso e verde, infatti, con le lenti scure risultano nettamente
accentuati e fanno vedere il mondo a tinte più vivaci del reale, cosa che io
adoro. Supero il ponte che abbiamo passato poco fa in auto: un cartello mi
avvisa che sono sulla “Rive Droite”. Il primo tratto, tutto curve come l'intero
giro del canyon, è di pianura, ma funestato dalle raffiche di vento che, quando
arrivano di fronte, hanno l'effetto di una mano appoggiata sul petto per
fermarmi. Poi la strada prende a salire, impercettibilmente, ma quel tanto che
basta per abbattere il mio morale già sempre provato dai primi km di qualsiasi
percorso.
Un
cartello, dal ponte, avvisa che la strada è interrotta da lì a 12 km. Più o
meno a La Palud, quindi. Non credo di dovermi preoccupare: penso che la
chiusura non impensierisca chi si sposta a piedi. Alcuni km di salita appena
più marcata, una breve discesa, poi ancora salita, su cui per ora mi sforzo di
correre: ma ci rinuncio ben presto. Passo svelto, più svelto possibile, ma non
sprechiamo inutilmente energie. Il traffico di auto e camper si fa intenso, per
quanto possibile da queste parti: ma la strada sarà poi davvero interrotta?
Dopo
l'Auberge du Pont Sublime, si comincia a salire, con ampie curve che fanno
guadagnare quota ma mi stroncano le gambe. Non ho ancora preso il ritmo, il
fiato, nulla. Cerco il lato della strada al sole, perché fa freddo anche in
salita. Non ricordo molto di questi chilometri che pure, in passato, ho già
percorso più e più volte in bici: e poi, in auto, in bici o a piedi, le strade
sono completamente diverse.
Al bivio
per la Route des Cretes, un cartello nella direzione di La Palud ribadisce il
concetto: “Route barrée”. Ma vedo che le auto passano lo stesso, quindi
proseguo la mia stanca corsa. Di lì a poco, appare La Palud, con la malefica
salitella che porta in paese. E qui si svela l'arcano: la strada è interrotta
perché, in centro paese, è stato completamente rimosso l'asfalto. Vedo un
furgone ed un'auto arrampicarsi su per una stradina sulla destra, con pendenza
al limite del ribaltamento: ci sarà un'alternativa... Ma io passo a piedi senza
alcun problema, dritta e determinata verso uno dei punti segnati con vernice
indelebile sulla mia personalissima mappa mentale dei bagni pubblici: la
toilette appena all'uscita dell'abitato, sulla destra, subito dopo la grande
vasca in pietra della fontana. Una delle cose che adoro, dei Paesi confinanti
con l'Italia – perché sono certa che in Francia, Svizzera ed Austria sia così –
è la densità di toilette pubbliche, tra l'altro quasi sempre molto pulite. Da
noi non esistono: si presuppone che le persone siano puro spirito, scevre da
volgari bisogni corporali. E, se esistono, sono in condizioni tali che una
contaminazione da Ebola è il minimo che possa capitare a chi ci mette piede.
Tappa
in bagno, con calma: ho macinato meno di 15 km, ma mi sento sfinita. Poi
riparto alternando corsa e passo svelto, perché la salita, sia pur blanda,
prosegue ancora per un po'. Nel frattempo, prendo nello zaino la mini-Colomba
pasquale che sbranerò non appena inizierà la discesa. Alla mia sinistra, il
canyon, profondissimo ed imponente, è sempre più vicino. Inizia, finalmente, la
picchiata verso Moustiers, quasi tutta a fianco del baratro, pareti
impressionanti di roccia che si stringono a picco sul fiume. E, all'orizzonte,
la vetta del Mont Ventoux, innevata. Una meraviglia da allargare il cuore.
Sbocconcello
la colomba a piccoli pezzi: credo siano tre etti abbondanti, con il cuore di
crema di cioccolato. Ho una fame che ne mangerei tre... Intanto, la discesa mi
dà l'illusione di star meglio e procedere spedita, anche se son sempre le gambe
a sostenermi. Gli occhi fissi sul fondo della gola rocciosa e, ogni tanto,
anche sulle vetture che mi arrivano di fronte. Breve pausa alla grossa fontana
in pietra sulla destra, per riempire la borraccia: anche se la temperatura non
è alta, il vento e la corsa seccano la gola. E poi, devo cercare di non patire
la sete, ancor meno che la fame.
Negli
ultimi km prima di Moustiers, la strada si allontana dal corso del fiume.
Guardando dall'alto, noto evidente un tratto di sentiero che si stacca, un po'
più avanti, dalla strada che sto percorrendo io e taglia drasticamente l'angolo
della rotonda di Moustiers, andando a scendere sulla strada di fondovalle,
proprio accanto al ponte sul Verdon, di fronte al verdissimo lago. Da quassù,
vedo nitidamente tutto il tracciato. Se lo imboccassi, mi risparmierei un bel
tratto di stradone: ma tra non molto dovrei incontrare Matteo che risale dal
fondovalle; rischierei di non trovarlo. Meglio non rischiare. Passo oltre il
bivio del sentiero, con un po' di rammarico.
La
parete di roccia lascia il posto al bosco, negli ultimi km prima di arrivare a
livello del lago. Proprio qui, intorno al mio 29° km di corsa, vedo comparire
Matteo che mi sale incontro, in bici. Approfitto per una pausa: da seduta, come
raccomanda sempre l'altra mia fida scorta ciclistica, Ivano. La pausa si fa da
seduti, a riposare le gambe mentre le ganasce lavorano. Uno yogurt, un po' di
focaccia, pane e maionese: e sì... Il tubetto di maionese mi fa compagnia nel
taschino dello zaino: anche se la sola idea fa inorridire quasi tutti i
podisti, io adoro questo alimento maialissimo, che leva la fame e la nausea,
almeno a me. Infatti ho già attinto durante la discesa, in verità. Sì, ho la
fortuna di uno stomaco che digerisce anche i sassi, nonostante lo sforzo.
Ancora
un po' di the dalla borraccia di Matteo: poi la pacchia finisce. Ci congediamo:
io scenderò giù fino al lago e poi, dopo un tratto di strada più o meno
pianeggiante, attaccherò la risalita verso Aiguines e la Rive Gauche del
canyon; lui farà invece il giro del lago. Ci reincontreremo, probabilmente,
quando io sarò ad Aiguines.
Ripartire
dopo una sosta è sempre una tragedia: scricchiola tutto... Per fortuna, c'è
ancora qualche tornante in discesa che mi aiuta a riprendere il ritmo. Alla
rotonda, giro a sinistra. E qui comincio a patire un po' il caldo: sono vestita
con maglia a maniche lunghe, pantaloni lunghi e calze al ginocchio della
Compress, un esperimento. Sono molto comode, in effetti, ma indossarle per una
corsa di una decina di ore forse è stato un azzardo. Amen, ormai è fatta.
Esaurisco in fretta l'acqua della borraccia: qui la quota è bassa e l'asfalto
dello stradone riverbera il sole limpidissimo del primo pomeriggio. Alla mia
destra, il lago, sulle cui sponde sono assiepati camper e tavolini da picnic.
Mi sforzo di tener duro, nonostante la fatica cattiva: è solo un breve tratto,
poi si tornerà a salire e quindi a riposare un po', camminando a passo spedito.
Raggiungo il ponte, sul Verdon, con uno splendido colpo d'occhio dal basso
sulla strettissima gola: ci sono alcune canoe. Ormai al bivio per Aiguines
dovrebbe mancare un chilometro o poco più.
Ci
sono, finalmente. Si svolta e si ricomincia a salire. E quindi, al passo. Su
questa pendenza, un occhio al Garmin, riesco a viaggiare intorno ai 5,5 km/h,
che tutto sommato non è neanche malaccio. Il dolore ai piedi che mi dà il
tormento da qualche mese è spuntato nel tratto di fondovalle ed ha tutta l'aria
di volermi far disperare: soprattutto il piede sinistro. Ogni appoggio è una
fitta sull'esterno: cerco di “storcere” il passo in modo da appoggiare la parte
interna del piede e, soprattutto, cerco di pensare ad altro. Fa ancora caldo e
la borraccia è ormai desolatamente vuota. Il punto critico del giro del Verdon
in effetti è l'acqua: ci sono pochissimi punti in cui è possibile riempire la
borraccia, soprattutto da questo lato del canyon. C'è una fontana ad Aiguines,
ce n'è un'altra prima del Col d'Illoire, ma le distanze a piedi sono lunghe.
Volendo percorrere il giro nella stagione calda, bisognerebbe trovare il modo
di portarsi dietro una bella scorta d'acqua, cosa che, per il podista, non è
facile.
Resto
a secco per i sei caldi km fino all'abitato. Ricordo che in paese la fontana c'è,
da qualche parte. Mi piacerebbe anche comprare una bottiglia di Coca Cola in un
negozio di alimentari: ma i negozietti sono chiusi. Sono aperti alcuni bar, ma
c'è troppa folla nei dehors. E' più forte di me: forse non è paura, ma certo il
mio è un profondo senso di disagio quando mi trovo in mezzo a tanta gente.
Preferisco, dopo qualche esitazione, tirare dritto, con la mia borraccia in
mano, a caccia della fontanella. Incrocio i passi di un omone dai tratti
marcatamente nordici, che mi chiede in inglese se io abbia bisogno d'acqua: in
tal caso, ne ha una scorta nell'auto parcheggiata proprio lì. Ringrazio, ma
vedo proprio in questo istante la fontana. L'omone mi chiede dove io sia
diretta: “Devo andare a Trigance”, gli rispondo. Vedo perplessità sul suo volto:
da qui a Trigance ci sono ancora 40 km...
Con
la borraccia piena, riparto. Per telefono ho sentito Matteo, che è in dirittura
d'arrivo. La salita qui si fa più ripida, ma ormai io ho il mio passo marziale
che mi porta su senza problemi, una volta placata la sete. Poche curve più su,
ecco Matteo alle spalle. Altra sosta, sempre da seduta, altro pasto caotico,
dal cioccolato al pane con la maionese, passando per gli amaretti ed il the. A
questo punto ho una tale fame che potrei incenerire qualsiasi cosa. 46 km ed un
bel po' di salita alle spalle. Ancora una volta, si riparte. Il programma, a
questo punto, prevede che Matteo raggiunga Trigance in bici entro le sei e
mezza, perché lì è il B&B prenotato per la notte; dovrà prendere le chiavi,
poi andare a recuperare il furgone, indi avvicinarsi con il furgone al B&B,
oppure venirmi incontro un pezzetto, visto che, a quell'ora, anche io non sarò
più molto lontana da Trigance. Programma complicatissimo e che presuppone una
velocità di crociera non indifferente per essere portato a termine, ma il bello
è che, in questo, Matteo è sempre una garanzia. E' sempre più veloce di
qualsiasi previsione.
Proseguo
a passo più veloce possibile, mentre, alle mie spalle, arriva una coppia di
ciclisti. Salgono a buon ritmo, ma si fermano ad ogni belvedere: del resto, da
quassù, lo spettacolo è impareggiabile. La strada che ho percorso prima,
dall'altro lato della gola, è talmente vicina che pare di poterla toccare
stendendo il braccio; le pareti rocciose sono impressionanti e paurosi sono i
salti di roccia verticali. Ho già percorso il Verdon più volte in bici, ma
girarlo a piedi è una scoperta, come non averlo mai visto.
La
temperatura è già scesa parecchio. Anzi, da questo lato delle Gorges, il sole
al pomeriggio su molti tratti di strada non arriva già più, lasciando il campo
libero al freddo portato dal vento: se non fosse che sono in salita e sto
cercando di menare i piedi il più in fretta possibile, in alcuni tratti avrei
quasi la tentazione di indossare la giacca. E' nettissimo il contrasto di luce
tra i tratti ancora al sole ed i tratti già in ombra. Il Verdon, là in fondo, è
un filo verdissimo, contorto.
Il
traffico è intenso, ma sempre cauto: pur con tante auto, tante moto e tanti
camper su una strada stretta e destinata a piloti arditi, oggi non ho corso il
benché minimo rischio. Ovvio: non è suolo italico, questo. Se fossimo in
Italia, avrei già fatto collezione di improperi e colpi di clacson.
Ormai
il Col d'Illoire è a poca distanza. Supero la grande fontana sulla mia destra,
ma questa volta non mi avvicino nemmeno, all'acqua: sono già abbastanza
intirizzita. Riprendo a correre, perché, oltre il colle, mi attende una lunga e
comoda discesa in cui sgranchire le gambe. Alla mia sinistra, davvero ad un
tiro di schioppo, abbarbicata sull'altro versante del canyon, la Route des
Cretes, la strada che compie un ampio e panoramicissimo giro partendo ed
arrivando a La Palud. Quello è il programma per domani. Adesso, la lunga
discesa mi porta ad allontanarmi pian piano dal tratto più aspro delle Gorges,
per raggiungere un bellissimo altopiano deserto, punteggiato da pochissime
costruzioni e da qualche gregge di pecore. Memorabile l'incontro con tre
meravigliosi pastori australiani ed un collie, di guardia ad un bell'edificio
in corso di ristrutturazione. I tratti di risalita sono brevi e molto dolci: mi
sforzo di correre comunque o, al limite, di alternare un tot di passi di
camminata ad un tot di passi di corsa. Il traffico è cessato all'improvviso, le
ombre si allungano. Sono io e solo io nel raggio di chissà quanti chilometri:
un silenzio quasi irreale, un paesaggio immobile, una meraviglia.
Raggiungo
il Pont de Soleils con le luci del tramonto: un gruppo di turisti si sporge a
guardare il vuoto sotto questa struttura eccezionale che congiunge due lembi di
terra separati da una profondissima crepa. Il corso d'acqua sul fondo non è più
il Verdon, rispetto a cui qui mi trovo parecchio spostata a destra, ma
l'Artuby. Scatto qualche foto, mi azzardo ad affacciarmi, ma per me, da sempre
terrorizzata dal vuoto e dalle altezze, non è spettacolo consentito. Ci sono
centinaia di metri di salto da qui al fondo: e pensare che, proprio da questo
parapetto, si pratica il bungee jumping. Esperienza che, nonostante la mia
paura, mi tenta moltissimo: ma tengo famiglia, madre e cani, non posso
rischiare così tanto per un capriccio.
Meglio
tirare dritto. Oltre il ponte, la strada riprende a salire dolcemente e, da qui
in poi, alterna tratti di lieve risalita a tratti più lunghi di marcata
discesa. Oltre una curva, una folata improvvisa ed inaspettata di vento mi
inchioda, come se avessi picchiato la faccia contro un muro. Subito dopo, due
brevi tratti di galleria buia, che non mi è facile affrontare: le lenti degli
occhiali sono scure per effetto della luce e, senza occhiali, io non vedo un
tubo... Cerco di sollevare bene i piedi per non inciampare e di superare in
fretta l'ostacolo. Di lì in poi, davvero viaggio nel nulla, un paesaggio forse
per certi versi sinistro, silenziosissimo, di bosco e prati senza fine. Ormai
sono le sei e mezza, circa; Matteo non dovrebbe più essere lontano, secondo i
miei calcoli. Faccio i conti con la fame ormai costante e le scorte alimentari
ridotte: trangugio, sempre correndo, una barretta al cioccolato e cocco,
seguita dall'ultimo residuo di maionese che estraggo a fatica spremendo il
tubetto. La strada torna a salire ancora: la pendenza è dolce, ma le gambe
cominciano a sentirne il peso. Forse, più che delle gambe, è colpa di un po' di
sconforto che mi assale a seguito della stanchezza. Venti passi di camminata,
cinquanta passi di corsa, venti di camminata, cinquanta di corsa; mi concentro
su questo e non penso ad altro. Ed ignoro i morsi della fame ed anche della
sete. Ormai sono a quota 65 km: ad onor del vero, i muscoli non sono così
provati come avrei immaginato, però... Insomma, diciamolo pure, ne avrei anche
abbastanza. Ecco. Mettiamola così: potrei correre ancora per un bel po', ma
dovrei prima fare una robusta cena e magari una doccia.
Coraggio,
Gian, tra non molto arriverà Matteo, con un mezzo o con l'altro. Tento di
capire fin dove la strada andrà a salire, mentre il sole si abbassa e le ombre
si allungano a dismisura. Qui siamo più ad ovest rispetto a casa, quindi il
buio dovrebbe concedermi un po' più di margine. E poi, mal che vada, ho la pila
frontale.
Mi
superano un paio di auto. In lontananza davanti a me, mi sembra di scorgere una
figura che scende. E' lui, è Matteo, finalmente. Anche se non è molto gentile,
da parte mia, ammetto che, in questo momento, sono felice di vederlo
soprattutto nella sua qualità di portatore di cibarie e conforto... Ha fatto
tutto quel che doveva fare e poi, siccome i 180 km percorsi durante la giornata
non gli parevano sufficienti, ha pensato bene di lasciare l'auto a Trigance e
pedalarmi incontro. Gli chiedo subito dell'acqua: ha di meglio, una
graditissima bottiglia di succo di frutta che ha il sapore di un miraggio.
Basta questo a farmi sentire già meglio, mentre si avvicinano la fine della
salita ed i 70 km percorsi. Sta per calare il buio: Matteo riparte per
recuperare l'auto e venirmi un pezzetto incontro, in modo da farmi lo “sconto”
di qualche km, mentre io proseguo a piedi. In discesa e con lo stomaco
momentaneamente tacitato, sto molto meglio e riprendo a correre di gran
carriera. Qualche km dopo il colle, imbocco il bivio a sinistra in direzione di
Trigance: do fondo a quel che resta delle energie per approfittare della
pendenza favorevole. E' ormai quasi buio quando scorgo i fari del furgone che
si avvicinano. 75 km esatti, neanche a farlo apposta: per oggi possono bastare.
Il
B&B è una struttura semplicissima e meravigliosa, così come la camera,
anche se ci vorrebbe una laurea in fisica nucleare per capire come far scendere
acqua calda dalla doccia. E poi la cena, come ai bei vecchi tempi: due belve
affamate all'assalto delle scorte portate da casa, sul tavolino della camera.
Pane, formaggio, crema di cioccolato, insalata di riso in rigoroso ordine
sparso; opera di accurata pulizia delle briciole e perdita immediata di
conoscenza sotto al piumone. Il programma di domani sarà un po' più leggero, ma
si dovrà comunque correre.
lunedì 12 febbraio 2018
11 febbraio 2018 – SI TORNA A PEDALARE
Era da parecchio tempo
che non caricavo più la bici in auto e me stessa in sella alla bici.
Ho pedalato l'ultima volta ben sei mesi fa, proprio il giorno di
Ferragosto, peraltro con esito penoso per me stessa e per i due
tapini che quel giorno mi accompagnavano. Poi, la corsa ha assorbito
tutte le mie energie, anche perché, per la prima volta nella mia
vita, ho deciso di provare ad allenarmi con un po' più di metodo,
affidandomi ai consigli di chi, in materia, ne sa più di me. Non
l'avessi mai fatto: prima, l'euforia del miglioramento e poi, ahimè,
la dura sorpresa del primo, serio infortunio da quando ho coscienza
di esistere. Non certo per colpa dell'allenamento finalmente sensato,
ma della jella che, si dice, al contrario della fortuna, ci vede
benissimo. Ormai da due mesi trascino un fastidioso problema che, a
giudicare da quanto ho letto qua e là su internet, potrebbe
vagamente somigliare alla metatarsalgia: ho provato un po' di tutto,
anche a stringere i denti e continuare a correre, ma ultimamente il
dolore è davvero pungente e le uscite per gli allenamenti sono
diventate una pena. Da una parte, sono quasi sollevata: da che mondo
e mondo, un podista che si rispetti ha almeno un acciacco in corso,
sempre, di cui parlare con malcelato compiacimento e da brandire come
scusa per qualsiasi prestazione al di sotto delle aspettative. Io non
avevo mai avuto nulla, fino ad ora. Mi sentivo quasi un po'
discriminata, diversa. Ora che ho anche io il mio malanno sono
finalmente a posto con la coscienza. Però non riesco più a
correre... Tra qualche giorno andrò a farmi dare un'occhiata da
qualcuno che dovrebbe saperne un po' più di me. Nel frattempo, ho
pensato di sostituire la corsa con l'antico e forse unico vero amore,
la bici.
In realtà, pedalare è
ciò che avrei continuato a fare con vera passione, se nel mio
percorso di vita e di sport non mi fossi imbattuta in alcuni
incidenti, l'ultimo dei quali avrebbe potuto lasciare conseguenze
molto peggiori di un trauma cranico e della rottura degli incisivi.
Sono passati ormai parecchi anni, ma la paura non è più guarita.
Soprattutto se si tratta di pedalare su strade con un certo traffico.
Oggi, però, potrebbe essere una buona occasione per un ritorno in
sella ovattato: lungo l'itinerario che ho programmato, se ne vedranno
ben pochi, di veicoli a motore.
Il parcheggio di
Campetto, accanto al ponte sul Belbo, a metà tra Borgomale e
Castino, alle otto e mezza è deserto. Temperatura, zero gradi, tondi
tondi. Non è che io sia proprio convintissima, intendiamoci, ma
ormai son qui... Tre strati tra maglie e giacca invernale, pantaloni
Assos lunghi e spessi, guanti, calze spesse, plantari morbidi per
l'avampiede, nella speranza che le sollecitazioni dei pedali non
facciano ulteriori danni. Eh, brutta bestia, la vecchiaia. Acciacchi
che spuntano come i funghi in un piovoso autunno. A stento mi ricordo
come si salti in sella, non parliamo poi di ricordare come si
manovrino i rapporti. Ma intanto sono partita. Prima salita in
direzione di Bosia. Poche centinaia di metri bastano a ricordarmi il
motivo per cui, negli ultimi tempi, io mi sia sempre rifiutata di
pedalare in inverno: piedi gelati, irrigiditi e dolenti; mani, idem.
Comincio spasmodicamente a staccare dal manubrio una mano per volta,
aprendo e chiudendo le dita per riportare un'idea di circolazione
nelle falangi; nel contempo, cerco di muovere le dita dei piedi, che
però non hanno proprio più sensibilità. La salita è tutta in
ombra; la luce lambisce appena le cime delle colline dall'altro lato
della valle. Qui in basso è tutto bianco di brina, immobile, cupo.
Pedalo il più agilmente
possibile: l'itinerario di oggi sarà impegnativo e non posso
permettermi di irrigidire le gambe già adesso. Ma i piedi e le mani
fanno sempre più male. Quanto a circolazione periferica, io sono un
vero disastro: le dita non si limitano a diventare fredde, ma
gonfiano e si irrigidiscono, soprattutto quelle dei piedi. E sì che
non indosso più da tempo le scarpe che si agganciano al pedale: ho
un paio di scarpe da corsa, molto morbide sia sulla suola che sulla
tomaia. Con le estremità inferiori conciate male come in questo
periodo, non potrei sopportare nulla di vagamente più rigido.
La salita scalda il resto
del corpo, ma è una pena. Mi maledico mille volte per la mia
sciagurata idea: ma chi me l'ha fatto fare di venire a soffrire così?
Ma come facevo, tanti anni fa, ad uscire in bici in qualsiasi
condizione di temperatura, con ostinazione furiosa?
Mi superano in tutto tre
auto, prima di raggiungere l'incrocio con la strada che scende a
Torre Bormida. Prima, agghiacciante discesa, che affronto come se le
ruote viaggiassero su un tappeto di uova. Il mio terrore della
discesa ha ormai raggiunto il punto di non ritorno, soprattutto
adesso che, con mani e piedi insensibili, non ho sicurezza né
nell'appoggio sui pedali, né nella frenata. Nel dubbio, appena
riesco, afferro i freni e li tengo tirati. Scendo pianino, ma il
freddo penetra immediatamente nel collo, nel tronco, nelle gambe. Qui
un po' di sole arriva, ma è ancora troppo presto. Per ora non riesco
ad ammirare la bellezza della Valle Bormida che si apre qui sotto.
Anzi: un paio di volte mi fermo per scuotere con violenza i piedi, se
non altro per capire se sono ancora attaccati alle caviglie. Di
muovere le dita non c'è modo. E il ghiaietto e l'umidità
sull'asfalto mi incutono una gran paura.
L'arrivo a Torre Bormida,
fine della discesa, è una liberazione. Mi immetto sulla strada di
fondovalle, tenendo la destra: pochi km e ci sarà il bivio per
Levice, sulla sinistra. Uno dei pochi tratti di pianura di questa
giornata. Al bivio, svolto ed attraverso il ponte sul torrente
Bormida: finalmente, si ricomincia a salire. Lentamente, con molta
fatica e ancora per lunghi tratti in ombra. Mi fermo ancora una volta
per riattivare la circolazione nelle mani e nei piedi. Il sole inonda
la vallata, man mano che si alza, ma il freddo è ancora pungente.
Breve e dolce la strada che, con alcuni ampi tornanti, sale a Levice:
uno dei pochissimi posti dotati di bagni pubblici puliti ed aperti.
Sarà che qui non c'è proprio mai anima viva... Sono tappe
strategiche, essenziali, soprattutto adesso che la salopette lunga
invernale costringe ad un mezzo strip tease per assecondare le
esigenze “interiori”.
Da Levice, conclusa la
tappa e l'ennesima sessione di massaggio e scuotimento dei piedi,
riparto in direzione di Bergolo. Si sale ancora, ma lievemente, per
alcuni km, in cui approfitto per mangiare la prima barretta della
giornata. Da Bergolo scendo verso Cortemilia, altro momento di gelido
dolore: ad un paio di km dal fondovalle, incrocio Matteo che, partito
da tutt'altra parte, mi pedala incontro. Carico come un mulo di ogni
sorta di mercanzia, tra cui tubo e telefono della doccia da cambiare
a casa mia ed un paio di scarpe da corsa per me, che chissà se e
quando potrò tornare ad usare. Ma lui non fatica, soprattutto se si
tratta di pedalare al mio ritmo. Mi accoglie con un entusiasta “Che
bello rivederti in bici”, a cui io rispondo con un ringhio:
“Tralasciando il freddo porco, il male alle mani ed ai piedi, il
dolore al culo, è bellissimo, senza dubbio”.
Da Cortemilia, inizia un
giro che ho provato domenica scorsa a piedi e che sono curiosa di
mostrare oggi al mio compagno di viaggio. Sperando di ricordarmi i
mille bivi. Superato il ponte sul torrente Uzzone, svoltiamo quasi
subito a sinistra, in direzione di Monte Oliveto. La salita è aspra,
sale con alcuni ripidi tornanti: in un punto, il Garmin di Matteo
segna addirittura il 16%. Breve tratto di requie prima di Perletto e
poi ancora rampe, in salita sulla via Piazze. Guai a tardare a
mettere il rapportino... Si va su per i boschi, con il sole basso che
abbaglia tra i rami degli alberi. Una stradina minuscola, con
pendenza irregolare, tra pochissime case abitate, cappellette e
costruzioni in pietra purtroppo diroccate. Un secco bivio a sinistra,
con direzione Serole, mostra le prime tracce di neve sulla strada:
già, non ricordavo più che in settimana ha nevicato...
Da qui in poi, molti
tratti di strada sono ingombri di neve. Non per intero: ci si
passerebbe, volendo, comodamente in sella. Infatti, Matteo lo fa. Io
preferisco, in molti casi, scendere e spingere: soprattutto nel
tratto di pianoro più in alto, dove la strada diventa per un tratto
sterrata ed è coperta di neve per intero. Neve, per fortuna, gelata,
che sostiene quasi ovunque il mio peso. Tutto intorno, una distesa
bianca; lingue di bianco a segnare i rilievi dei muretti a secco sui
pendii. Perdo un bel po' di tempo a portare la bici a fianco, mentre
Matteo, alla fine del tratto nevoso, pazientemente attende. Però,
camminare mi aiuta a riportare un po' di sangue fino in fondo alle
dita dei piedi.
L'asfalto riprende in
condizioni migliori, anche se qui, in discesa, bisogna prestare
attenzione al ghiaccio formato sulla strada dallo scioglimento della
neve. Raggiungiamo la strada principale che da Cortemilia sale a
Serole, per due o tre km, non di più: ne approfitto per mangiare un
avanzo di panettone ormai secco. Imbocchiamo poi il bivio a sinistra
per Puschere, dove accumuliamo ancora un po' di dislivello in salita,
un paio di tornanti fino ad un gruppo di cascine. Altro tratto di
discesa: qui la strada, una poderale su cui tra l'altro potrebbero
passare solo gli aventi diritto, è in pessime condizioni. Alcuni
punti sono sterrati, altri hanno visto l'ultima riasfaltatura ai
tempi delle Guerre Puniche. Io, per non saper né leggere né
scrivere, faccio su e giù dalla bici. La strada arriva sul fondo dei
calanchi, sempre in condizioni precarie, ma migliora subito dopo il
ponticello in curva, quando si torna a salire, gradualmente, a
strappi. Soprattutto, si torna al sole. Olmo Gentile è ormai ad un
tiro di schioppo: superiamo alcuni gruppi di cascine e case in
pietra, dove si percepisce traccia di presenza umana – auto
parcheggiate, camini che fumano – ma non si vede né si sente anima
viva.
Attraversiamo il
minuscolo paese di Olmo Gentile, per poi imboccare l'ultimo bivio a
sinistra prima della salita che porta alla torre. Discesa abbastanza
lunga e ripida, con fondo umido ed ingombro di ghiaietto, tanto che
persino Matteo la affronta a freni tirati. Scendiamo per alcuni km e
ci sembra di essere lontani da tutto, come se stessimo andando giù
in un pozzo. Finché la strada asfaltata finisce, ma lo sapevo già.
Due cagnetti bianchi ci tendono un agguato poco convinto. Da qui, un
km e mezzo di sentiero che, ovviamente, è anch'esso ricoperto di
neve. Affrontiamo il primo tratto, per forza, con le bici per mano:
le scarpette da corsa, per me, e le scarpe da bici di Matteo non sono
le calzature più idonee all'uopo... Speriamo di non scivolare. Anche
qui la neve è ancora in parte gelata. Attraversiamo un frutteto,
superiamo un guado: da qui, nella neve e su una pendenza non
trascurabile, è passata un'auto, ci sono le tracce degli pneumatici.
Complimenti per il coraggio e l'abilità di guida: l'avessi fatto io,
mi avrebbero ritrovata al disgelo...
Dal guado, il sentiero
diventa strada sterrata e quasi sgombra dalla neve, perché più
esposta al sole. Si risale ancora qualche centinaio di metri, Matteo
in sella, io sempre prudentemente a piedi con la bici per mano. Fino
all'asfalto. A sinistra, si raggiungerebbe Perletto per via diretta.
A destra, ancora una sequenza di rampe secche, impegnative, che
passano accanto ad alcune case in pietra, ristrutturate, una più
bella dell'altra. La torre di Perletto, sulla sinistra, è molto
vicina e ci dà l'idea dell'orientamento. Ma noi, salendo ancora un
po', arriviamo proprio sotto San Giorgio Scarampi, sulla strada che
da Roccaverano scende a Vesime. Ne percorriamo non più di duecento
metri, per imboccare immediatamente un bivio a sinistra. Lunga e
ripida discesa tutta a tornantini, insidiosa per il fondo stradale.
Qualche tratto decisamente ripido risveglia in me il terrore: lo
affronto a velocità appena sufficiente a tenere la bici in piedi:
anzi, in un punto, addirittura scendo di sella. Ho sempre avuto una
paura invincibile della discesa, sempre; però, andando avanti con
gli anni, la cosa è peggiorata. Oltre ad una certa pendenza, mi
sembra di percepire il ribaltamento in avanti: razionalmente è
impossibile, ma non ce la faccio. Ho davvero paura. Così, finisco
regolarmente per impiegare più tempo a scendere che a salire.
Infatti, per ora, la media del giro di oggi si aggira sui 10 km/h o
poco più...
Ancora una volta siamo
sulla strada principale. Destinazione, Vesime, per la tappa
cioccolata calda. Nella speranza ardente che il bar sull'angolo sia
aperto... Matteo mi precede: quando lo vedo fermo davanti alla
vetrina, mi rincuoro. Una cioccolata densa e buonissima: peccato che,
anziché una tazza, ce ne vorrebbe una vasca da bagno colma...
Ritemprate un pochino le
forze – io cominciavo ad avvertire furiosi i morsi della fame –
ci avviamo per l'ultima fatica, mentre il cielo, fino ad ora di un
azzurro prepotente, comincia a velarsi di grigio. Direzione
Cortemilia per un km, più o meno, e poi bivio a destra per Scorrone.
Salita ormai nota, assai cattiva, con rampe molto impegnative e pochi
tratti di recupero. La collina, con questa luce cupa, mostra il suo
aspetto più severo; nemmeno più il conforto di un raggio di sole...
Il lupone meraviglioso, a
guardia del cortile di un'azienda agricola, mi accompagna con i suoi
latrati verso l'ultimo tornante in salita della giornata. Si
scollina, si svolta a sinistra, direzione Castino. Per arrivarci,
ancora qualche km di odiosa leggerissima salita: sarà che, per oggi,
ne ho proprio abbastanza... Ultimi tre o quattro km di discesa
decisa, su strada ampia ma per me un po' più angosciante perché,
qui, qualche auto passa. Stoicamente non ho più voluto fermarmi per
indossare la giacca antivento: arrivo giù che sono rigida come uno
stoccafisso. Circa 72 km e 1.800 m di dislivello: per oggi può
bastare. Non mi resta che portare la temperatura dell'abitacolo della
Zafirona al calor bianco e pazienza se Matteo ben presto comincia a
mostrare segni di disagio: chi osa protestare sarà scaricato ed
abbandonato lungo la via. Uomo avvisato...
domenica 4 febbraio 2018
4 febbraio 2018 - DI CORSA TRA CORTEMILIA, PERLETTO, OLMO GENTILE
Era già da qualche tempo
che, a furia di percorrere il giro Cortemilia – Serole –
Roccaverano – San Giorgio Scarampi – Vesime – Cortemilia, in
bici ed a piedi, scrutavo con curiosità i bivi con le stradine
laterali che si inerpicano su per la collina e spariscono nel fitto
dei boschi. Più volte mi sono ripromessa di andare a piantare il
naso nel misterioso interno del quadrilatero di strade.
L'occasione è arrivata
per vie traverse. A gennaio ho tentato, con poca convinzione,
l'Ipertrail della Bora: gara di corsa in montagna che prevedeva, tra
le altre cose, di seguire il tracciato esclusivamente per mezzo
della traccia GPS. Non che fosse un obbligo di regolamento, ma era
una scelta obbligata, a fronte dell'assoluta inutilità pratica delle
cartine fornite per il percorso. Tralasciando il triste epilogo del
mio trail, mi è rimasta l'esperienza – molto traumatica sul
momento, per me completamente digiuna di navigatori da escursionismo,
ma decisamente interessante una volta elaborato il lutto – della
navigazione con GPS cartografico. Matteo mi aveva prestato il suo
Garmin 800 da bici, per l'occasione: beh, il giocattolino mi è
piaciuto così tanto che ho deciso di tenermelo, immaginando subito
una buona quantità di interessanti usi. Primo tra tutti, proprio
l'itinerario con partenza da Cortemilia ed esplorazione solitaria dei
meandri delle stradine più nascoste.
Elaboro il percorso, in
formato idoneo ad essere trasferito al GPS, sul sito Openrunner. Un
itinerario quasi circolare che prevede il passaggio a Perletto, da
lì alla frazione Cuniola di Serole, poi ad Olmo Gentile, fino al
confine con San Giorgio Scarampi, indi ritorno a Perletto e
Cortemilia, ma in modo da viaggiare sulle stradine che Google Maps
traccia come minuscoli spaghettini bianchi. Un azzardo, se vogliamo:
non so neppure se si tratti di strade asfaltate o sterrate, se siano
effettivamente percorribili o magari per qualche ragione sbarrate. Ma
non sarebbe un gran danno, in ogni caso: non sarò mai così lontana
dall'auto da non poter serenamente tornare indietro ed avrei comunque
sempre il riferimento del quadrilatero di strade principali. Il mio
giro dovrebbe prevedere 41 km per circa 1.100 m di dislivello, nei
limiti della precisione del sito internet.
Così, domenica mattina,
sempre più tardi di quanto vorrei, causa organizzazione, nutrimento
e sistemazione di tutta la caninità di casa, mi metto in viaggio per
Cortemilia. Eh sì, a casa ho il mio paradiso, in senso sia
paesaggistico che sentimentale, ma a meno di un'ora di auto ne ho un
altro, diverso ma altrettanto suggestivo. Il termometro segna 4 gradi
sotto zero mentre, da Alba, salgo verso Benevello, poi giù verso il
freddo pungente del fondovalle Belbo, ancora in ombra alle otto del
mattino, in questa stagione. Altra salita verso Castino ed ultima
discesa verso Cortemilia, mentre la radio passa una canzone che mi fa
drizzare le orecchie. Scoprirò poi che si intitola “Io voglio
vivere”, dei Nomadi: un ritornello che mi si incide subito in mente
e mi farà compagnia per tutto il viaggio.
A Cortemilia, mi sforzo
di non dimenticare, come mio solito, qualcosa di fondamentale in
auto, con il risultato che chiudo la Zafirona, ripongo la chiave
nello zaino, poi la riprendo, riapro l'auto, ripetendo la litania per
ben quattro volte. Ora dovrei avere tutto: giacca, riserva alimentare
(panettone, fontina e cioccolatini assortiti), borraccia, batteria di
ricambio per il GPS, cavo per la batteria, guanti. E, al polso,
l'altro GPS Garmin, quello per rilevare il percorso fatto e creare la
traccia ex novo. Mai stata tanto tecnologica in vita mia! Parto con
la giacca Goretex sopra la tuta, che pure è già pesante: la
temperatura è gelida, sarò in ombra per un po' e tira una leggera
aria pungente. Traccia GPS avviata, si parte.
Supero il ponte sul
torrente Uzzone, poi imbocco la seconda via a sinistra. Breve tratto
in piano in mezzo alle palazzine, poi la salita comincia subito sotto
la Pieve di Monteoliveto, sede dell'Ecomuseo regionale dei
terrazzamenti e della vite. La stradina, via Perletto, prende quota
tra i muretti a secco su cui crescono gli ulivi: un'immagine più
ligure che piemontese, non fosse per la temperatura, anche se le
cascate gialle di forsizie fiorite fanno ben sperare per
l'avvicinarsi della primavera. La pendenza è significativa ed io,
l'ho già capito, non sono al massimo della forma, che poi, anche
quando è al massimo, è ben misera. Depongo subito le armi: in
salita, oggi, si cammina, sia pure di passo più svelto possibile.
Le abitazioni si diradano
man mano che sale la quota. La vista spazia sull'altro versante della
valle, dove riconosco la strada da cui sono scesa, quella che va a
Castino, ed anche la temibilissima salita di Castel Martino. Il sole
illumina già il mio percorso, ma è ancora pallido e freddo. Il GPS,
che tengo d'occhio, per ora mi conforta sulla direzione da prendere.
Poco più di tre km di
salita impegnativa mi portano a Perletto, che per la via principale
di fondovalle sembra molto più lontana. La sua torre a pianta
quadrata è già in vista, sul cocuzzolo della collina. Ma non entro
in paese: la traccia sullo schermo del GPS indica una brusca svolta a
destra, ad angolo retto, subito dopo un paio di meravigliose case in
pietra. Via Piazze: il cartello si vede solo una volta imboccata la
strada, che comincia subito con una ripida strada in salita.
La pendenza rimane
significativa per un buon tratto, mentre la stradina si fa largo tra
querce e faggi. I primi raggi del sole che si alza creano suggestivi
giochi di luce. Io continuo a camminare più che altro: percorro di
corsa i brevi tratti a pendenza minore o pianeggianti, ma il fiato
manca ed il petto duole. Non c'è verso. Godiamoci la giornata. Qua e
là, abitazioni e ciabot in pietra, purtroppo spesso abbandonati ed
in parte crollati, ed una vista splendida sulla vallata che sale a
Serole, in cui il colore dominante, in questa stagione, è il marrone
delle foglie secche. Bellezza aspra, severa, tutto intorno il
silenzio. Molti sosterrebbero con disprezzo che in questi posti non
c'è nulla: è vero ed è uno dei motivi più forti per cui li amo.
La strada prosegue
seguendo le curve delle vallette, a volte ancora immersa nell'ombra e
ricoperta di brina, a volte già al sole. Fa un freddo che taglia la
faccia, al punto che, più volte, mi viene il dubbio di dover
indossare la giacca. Ma resisto: tra non molto, andrà meglio...
In alto, i boschi
lasciano il posto a pendii coltivati. Intorno all'ottavo km,
l'asfalto finisce. Rimane una bella strada sterrata, molto agevole,
in perfette condizioni di fondo, almeno per ora, con il terreno
gelato. Pozze di ghiaccio qua e là. Ma sono cinquecento metri, non
di più: oltre lo scollinamento, ricomincia l'asfalto. Si scende, si
attraversa una minuscola frazione in pietra, si percorre un lungo
tratto a mezza costa che porta sulla strada principale tra Cortemilia
e Serole. Pochi km di leggera salita, che mette a dura prova la mia
fiacca e soprattutto i miei piedi, da un paio di mesi doloranti nella
parte anteriore in modo parecchio penoso. Ogni passo, soprattutto in
salita, è una staffilata, anche se ormai mi ci sto quasi abituando,
non avendo trovato rimedio. Ho acquisito un'andatura in salita a
piede piatto che dev'essere orrenda a vedersi, ma più o meno mi
consente di procedere e limita un pochino la spinta sull'avampiede.
Appena prima dell'abitato
di Cuniola, un bivio sulla sinistra e l'indicazione per Puschere. Si
ricomincia a salire seriamente e, quindi, a camminare. Un paio di
tornanti, un gruppo di edifici, cascine. Nel cortile, c'è un uomo
che lavora. La seconda persona che incontro in una dozzina di km
abbondanti. Sulla mia destra, una cima costellata di antenne: sarà
quello il Monte Puschere? Controllerò sulla carta. Proseguo oltre le
cascine. Qui, la traccia GPS giunge utilissima: io avrei proseguito
dritto, mentre il marchingegno mi intima di girare a sinistra, in
discesa. E' una strada poderale con divieto di transito, esclusi soci
e residenti: pazienza, non credo di arrecare danni o fastidi passando
a piedi. Ora che sono in quota, davanti a me vedo la torre di Olmo
Gentile ed anche quella di Roccaverano. Sembrano entrambe molto
vicine, in effetti lo sono, in linea d'aria.
Anche qui, piccoli gruppi
di case e cascine, tutte rigorosamente con muri in pietra su cui si
inerpicano edera e glicini. Qualche traccia di presenza umana c'è:
finestre aperte, auto in cortile, camini che fumano. Ma non muove
nulla, non si sentono voci. Solo qualche latrato di cane. Rapidi
tornantini in successione, poi la strada piega verso destra , fa una
curva stretta su un ponticello: siamo sul fondo di una sorta di
canalone, con pareti quasi verticali. Il primo tratto, finora, in cui
ci si sente effettivamente lontani dal mondo ed un po' sperduti. Ma
qui si impone una sosta: ho bisogno di bere, visto che non ho ancora
toccato la borraccia, e di mangiare qualcosa. Un pezzo di panettone,
per esempio. Ma lo zainetto va riorganizzato, perché così non ci
siamo. Tiro fuori tutto e rimetto sul fondo la giacca, più in alto i
generi di conforto alimentare. Così, rinvengo anche una banana che
avevo dimenticato di avere nella scorta. Vada per banana e panettone.
Perdo un po' di tempo: purtroppo, con le dita intirizzite ed
irrigidite, anche le mosse più semplici diventano un'impresa.
C'è una pace infinita
quassù. Quiete e silenzio. Mi risuona ancora in mente la canzone di
questa mattina: “Io voglio vivere / ma sulla pelle mia/ io voglio
amare e farmi male...”. Ecco, tutto questo per me è vivere. Ed
anche farmi male, senza dubbio. Non me ne andrei più.
Oltre il ponticello, con
l'asfalto un po' sconnesso, si torna a salire leggermente. Alterno
tratti di corsa e passo, maledicendo ogni tanto i piedi. Si risale
dolcemente tra bosco e rare abitazioni, sempre affascinanti, tutte
con lo stesso stampo, pietra, archi e muri severi. E muretti a secco
ovunque a sostenere le viti ed i noccioleti. Il cielo si sta
coprendo; il grigio avvolge tutto il panorama di boschi punteggiati
di piccole frazioni.
Un altro bivio che
azzecco grazie allo strumento. Vedo sulla sinistra un sentiero un po'
nascosto, che potrebbe essere utile per una sosta tecnica. Ma sì,
perché no? Qui non c'è anima viva, finora ho incrociato quattro
auto in quasi venti km... Abbandono la strada e mi sposto un po' nel
bosco. Improvvisamente, un suono di allarme: ossignur... Che succede?
Avrò mica invaso una segretissima base militare? Mi guardo intorno
cercando di capire cosa possa aver prodotto quel sibilo: ma è il
GPS... Sullo schermo campeggia la scritta perentoria: “Fuori
percorso”. Mamma mia, ragazzo... Sei utilissimo, credimi, mi piaci,
ma non cominciare a rompere le palle perché, parola mia, ti
catapulto nel Bormida, chiaro?
Dicevo, appunto: fin qui,
ho incontrato quattro auto. La quinta, naturalmente, arriva proprio
mentre io sono lì con la parte migliore di me in esposizione. Va bé
che il fitto del bosco probabilmente mi nasconde ed il nero della
tuta mi mimetizza, ma... Provo un certo disagio, ecco. Quindi,
accelero le operazioni e mi rimetto in marcia.
Olmo Gentile è ormai ad
un tiro di schioppo. Un paio di rampe tra le case del minuscolo paese
e ci arrivo, proprio mentre sul sagrato della chiesa si riversa,
all'uscita della messa, credo l'intera popolazione: quindici persone,
ad occhio. Mi voglio rovinare, venti.
Rapido passaggio in
centro paese; imbocco subito il bivio a sinistra che picchia giù
verso il fondovalle, come ordina la mia guida elettronica. La
stradina è ripida ma con ottimo fondo: dovrebbe essere quella che
Matteo aveva tentato di percorrere in bici, salvo poi dover risalire
non potendo proseguire sullo sterrato. Ancora muri in pietra,
cappellette, archi, poche abitazioni. Quanche cane è l'unica traccia
di vita.
L'asfalto, in effetti,
finisce all'interno del cortile di una casa. Ma la traccia GPS
prosegue su un tratto sterrato in mezzo ai noccioleti, sconnesso,
ghiaioso, poco più di un sentiero. Km 23,5. Vediamo quanto è lungo
questo pezzo.
Il fondo migliora dopo
circa cinquecento metri, diventando una bella strada sterrata fino ad
un guado in cemento. In questo pianoro sul fondo dell'imbuto, dove il
sole non arriva neppure adesso che è alla massima altezza, c'è una
splendida abitazione in pietra, a due piani, con un giardino molto
curato, ma al momento apparentemente deserta.
Oltre il guado, si
risale, ancora su sterrato, con un paio di rampe in mezzo al bosco.
Vedo tracce di pneumatici: probabilmente, più avanti si andrà a
sbucare su qualche strada. Infatti, così è: dopo poco più di un km
e mezzo di strada sterrata, mi reimmetto sull'asfalto, prendendo a
destra in salita. Si torna su, con alcuni tratti ripidi che percorro
al passo, prima tra le cascine e poi solo più tra noccioleti e
boschi, con qualche tornante, fino a superare una spalla di collina.
Sono un po' giù di morale, molto stanca, troppo per lo sforzo finora
affrontato, e tormentata dal male acuto ai piedi. Ma la vista di San
Giorgio Scarampi mi rincuora.
Non arrivo alla strada
principale tra Roccaverano e Vesime, che pure è lì a poche decine
di metri. Proseguo, oltre un bivio a sinistra, come raccomandato dal
GPS. Cinquecento metri quasi in piano e poi giù per una lunga e
sinuosa discesa, molto veloce, con la torre di Perletto in bella
vista sulla sinistra. Sono quasi al km 28. A questo punto, dovrebbe
finire la prima delle due tracce GPS. Ho dovuto suddividere il
percorso in due tracce perché, sul sito di Openrunner, la versione
gratuita del programma consente di utilizzare un numero limitato di
punti con cui tracciare il percorso... Ed un itinerario così
frastagliato ne richiede parecchi. Così, seleziono la seconda
traccia e riparto. O almeno, credo di seguirla... Il GPS mi chiede se
io voglia raggiungere il punto di partenza di questa traccia, che
secondo i miei calcoli dovrebbe essere proprio alla fine della
precedente. Ingenuamente, rispondo di sì e mi fido della freccia
bianca che compare lungo la strada, anche se avrei dovuto immaginare
che quella freccia bianca, assente nel precedente tratto di strada,
probabilmente non era lì per indicarmi la retta via.
Fino ad un certo punto,
la strada è giusta per forza: c'è solo questa... Scendo giù giù
fino a fondovalle, dove vedo un bivio che però ignoro, perché la
freccia mi guida altrove. In effetti, Perletto è così vicina sulla
sinistra ed io me ne sto allontanando... Qui so dove sono, strada
nota: percorro un paio di curve della strada principale tra
Roccaverano e Vesime e poi devio a sinistra, lungo la stradina che
corre a fianco del Bormida. Quanta acqua! L'ultima volta che sono
passata di qui era il periodo della grave siccità della scorsa
estate; il letto del torrente era asciutto.
Quando arrivo nei pressi
della strada che porta a Perletto, la freccia bianca mi intima di
girare a destra ed oltrepassare il ponte. E qui casca l'asino. Se
facessi così, andrei a finire sulla noiosissima strada principale
tra Vesime e Cortemilia: l'ultima cosa che ho intenzione di fare. Io
credevo soltanto di aver caricato la seconda traccia: in realtà, il
GPS mi sta portando alla partenza dell'unica traccia che “sente”,
cioè la prima, quella del percorso già completato, che partiva da
Cortemilia. Mi sta conducendo a Cortemilia dalla via principale.
Poco male. A sinistra si
va a Perletto. Probabilmente, avrei dovuto arrivarci da una strada
diagonale, ma non importa. Mi arrampico su per la via Ponte,
l'accesso primario al paese, con tanta fatica e pena nonostante la
pendenza davvero minima. Le gambe sono dure, pesanti, ed il fiato è
sempre più corto. Il cielo ormai plumbeo, minaccioso di pioggia, non
aiuta. Però, nell'angolino in alto a destra dello schermino, vedo la
traccia di questa mattina, che da Perletto dovrò ripercorrere a
ritroso fino a Cortemilia. E vedo la freccia che mi dice via via dove
sono io. Comodissimo. Anche in paese non incrocio più di un paio di
anime.
Il nome di Perletto mi è
noto da molto prima che cominciassi a frequentare questi luoghi per
ragioni sportive. Ci abita una collega, o meglio una ex collega di
mia mamma di cui sentivo spesso parlare, da ragazzina. Erano
particolarmente in simpatia reciproca. Chissà dove abita di preciso.
Una rotonda, la bella
torre imponente alla mia destra e poi il cartello per Via Piazze.
Ecco, ci siamo. Mi allontano dall'abitato fino a raggiungere
l'incrocio in cui stamattina, giungendo da Cortemilia, ho svoltato a
destra in salita. Ormai manca poco a Cortemilia, quattro km scarsi.
Meno male, ammetto mestamente.
Ancora una brevissima
risalita, poi giù, con pendenza decisa e passo molto meno. Incrocio
una signora in compagnia di una ragazzina e di un cagnetto: come mio
solito, non posso fare a meno di fermarmi ed accarezzare il cagnetto,
a cui faccio due complimenti. Riparto, niente più soste: rivedo
l'agriturismo sulla sinistra, il B&B poco più avanti, ricompongo
mentalmente tutti i dettagli notati all'andata, anche se ora non ho
più necessità di rassicurazioni. Anzi, posso anche spegnere il
marchingegno. Arrivo di corsa fiacca fin sotto Monte Oliveto e poi
fino al ponte sul torrente Uzzone. Basta, direi, per oggi. La
Zafirona è sempre lì in paziente attesa: si torna a casa, cinque
ore e mezza di marcia per 41 km e circa 1.100 m di dislivello totale.
A casa, appena entro,
superato l'assalto in massa dei cani, mia mamma esordisce: “Ti
ricordi quella mia ex collega, la Michela? Quella che adesso abita a
Perletto? Mi ha telefonato poco più di un'ora fa. Ha detto di averti
incontrata mentre era a passeggio con la nipote ed il cane, ma ti ha
riconosciuta solo dopo che sei ripartita”. Ecco, per la serie, come
è piccolo il mondo. Ma soprattutto: meno male che oggi non ero
impegnata in una missione segretissima...
domenica 21 gennaio 2018
21 gennaio 2018 - DI CORSA TRA LE VALLI UZZONE E BORMIDA
Inutile nasconderlo: lo
sanno anche i sassi, che io non ho mai avuto un buon rapporto con la
discesa. La temo. In bici, soprattutto, ma anche a piedi e talvolta
persino in auto. Quel che è strano è che la temo a volte più, a
volte meno, dipende dai giorni. Non tanto dalla condizione del
sentiero o della strada, dal meteo o da altri fattori che sarebbe
anche logico considerare, no, dipende proprio da me. Ci sono giorni
in cui non ci faccio quasi caso e giorni, come oggi, in cui una sorta
di ansia inspiegabile mi fa fare le curve, giù da Borgomale prima e
da Castino verso Cortemilia poi, ai quaranta all'ora, con le unghie
conficcate nel volante. Il fatto che la temperatura sia sotto zero
non giustifica la mia scarsissima fiducia nella stabilità della
Zafirona. Mi sembra di viaggiare sul sapone: la sento proprio, l'auto
che scivola, anche se in realtà non c'è un tubo che scivola. Come
potrebbe? Sono quasi ferma... Per fortuna, a quest'ora della domenica
mattina, da queste parti c'è ben poco traffico. Non c'è nessuno che
mi mandi al diavolo.
A Cortemilia, parcheggio
nella piazza principale del paese. Zero gradi, precisi.
Ciononostante, alle otto e mezza, c'è un discreto viavai dal vicino
supermercato: sono sorpresa, come se poi fosse normale partire, alla
stessa ora, per un giro di corsa da cinquanta km. A ciascuno il suo.
Indosso già in partenza
la giacca in goretex, perché fa davvero freddo. Ed io invecchio,
divento pigra e lamentosa, soffro il freddo ed il caldo come non mai.
Guanti, bandana, zainetto con le vettovaglie: tutto pronto. Si parte,
in leggera salita, lungo la strada della Valle Uzzone. Un bellissimo
cielo azzurro promette bene, nonostante qua in fondo il sole non sia
destinato ad arrivare presto. I primi venti km del giro, circa, mi
sono chiari: devo risalire la valle, sempre sulla strada principale,
in direzione di Cairo Montenotte, fino a scollinare al bivio per
Dego. Il resto sarà un'avventura. E' Matteo che mi ha proposto e
preparato l'itinerario: peccato che questa mattina, con il solito
tempismo, la stampante abbia rifiutato di collaborare. Così, tutto
quel che ho è un foglietto di carta su cui ho scarabocchiato, più o
meno, la traccia, i bivi da imboccare e quelli da evitare. Speriamo
basti.
I primi chilometri sono
un'agonia. La leggera pendenza in salita non aiuta il morale né il
fisico. Mi porto dietro, da alcuni giorni, un senso di fiacca
imbattibile, che stamattina più che mai si fa sentire. Mi distraggo
con i panorami che, per me, sono di una bellezza struggente: boschi,
poderi coltivati, muretti a secco; il sole, proprio davanti a me,
basso e violentissimo. Ma le gambe sono pesanti e rigide, il fiato
manca. E ben presto si affaccia la fame. In effetti, né la cena di
ieri sera, né la colazione di questa mattina sono state all'altezza
delle mie pantagrueliche abitudini. Fame, di quelle serie. Ma ho
l'arma segreta, sperimentata solo di recente e subito promossa ad
alimento prediletto per le lunghe distanze. Continuo a correre e
sfodero dalla taschina sullo spallaccio un goduriosissimo tubetto di
maionese, come se fosse un gel: qualche ciucciata e lo stomaco, per
il momento, è fuori combattimento, con gran soddisfazione del
palato. Pezzolo Valle Uzzone, primo paese; Castelletto Uzzone, il
secondo. C'è purtroppo un gran viavai di cacciatori: speravo che la
caccia fosse già chiusa, invece pare di stare a Beirut. Non posso
evitare una sosta tecnica, ma mi apparto con circospezione e
rapidissimamente.
I km scorrono e la fame
torna prepotente a farsi sentire. Il morale, nel frattempo, è
scivolato sotto i tacchi: faccio una tale fatica a portare avanti il
mio corpaccione, che più volte medito di tornare indietro e lasciar
perdere, per oggi. Mi incoraggio con un proposito: comprare un pezzo
di focaccia o un po' di pane, qualcosa di concreto e voluminoso, non
appena troverò una panetteria. Già: fosse facile. Un cartellone mi
appare, quasi per magia, con la pubblicità di un fornaio: peccato
che sia a Castelletto, cioè già alle mie spalle. Mestamente
proseguo, passi brevi e faticosi, corro per modo di dire. Pochissime
auto, quiete, silenzio, solo qualche abbaio qua e là dai cortili.
Alle prime case di
Scaletta Uzzone, mi fermo per togliere la giacca: il sole finalmente
è salito abbastanza da illuminare direttamente anche la strada; si
sta un po' meglio. Intanto, un anziano si avvicina alla recinzione di
un piccolo cortiletto ed allunga la mano verso due cagnolini, che
abbaiano festosi: ritiro la giacca, rimetto lo zainetto in spalla,
passo e li saluto, tutti e tre. Provo a deviare verso l'interno del
paese, casomai ci fosse una panetteria. Il mio stomaco incrocia le
dita. Macché: vedo solo una sorta di locanda, con alcuni avventori
che, al mio passaggio, battono le mani sui vetri e salutano: in
effetti, non credo si vedano molte podiste da queste parti, in una
gelida mattina di gennaio... Proseguo: all'uscita del paese, trovo un
piccolo negozio di alimentari, davanti a cui campeggia un cartello di
cartone con una scritta a pennarello nero: “Chiuso il 21/01
mattino”. Ma che fortuna. Pazienza. Mi terrò la fame. E poi, è
evidente che si tratta solo di una sensazione: non è possibile aver
fame, trangugiando maionese.
Al bivio, mi reimmetto
sulla strada principale, che comincia a salire più decisa. Per un
breve tratto, mi metto a camminare, per riprendermi un po' e mangiare
senza soffocare una chicca di altro genere: uno Snickers, barrettona
di cioccolato suino, caramello ed arachidi. Poi riprendo a correre,
per una questione di principio: piano, pianissimo, ma non posso
mollare già adesso...
Man mano che prendo
quota, la temperatura diventa più confortevole, anche se i tratti di
strada in ombra sono ricoperti da uno strato di brina. Alcuni
tornanti mi fanno guadagnare rapidamente quota. Nelle poche case
sparse nei paraggi della strada, ora fervono le attività,
soprattutto di potatura. Rumori di motosega e falò accesi.
Arrivo al bivio:
proseguendo per questa strada, andrei a finire a Cairo Montenotte.
Invece, devo girare a sinistra, direzione Dego e Santa Giulia. Il
panorama che si apre allo scollinamento è spettacolare: una vista
ampia e limpidissima sulle montagne della Liguria, con le pale
eoliche sui crinali in piena attività. A vederle di qua, sono
tantissime.
Finalmente la strada
concede un po' di tregua. La salita, lunga e faticosa, mi ha
inchiodato le gambe, soprattutto perché, ultimamente, combatto con
un dolore ai piedi che mi costringe a correre, anche in salita, con
il piede piatto, per limitare al massimo lo sforzo sulla punta. E' un
movimento innaturale, goffo e faticoso, ma tant'è. In un tratto in
leggera discesa, supero un'auto parcheggiata, con una coppia ferma
vicino all'imbocco di un sentiero. Pochi passi e la signora esclama:
“Non le fa niente, eh!”. Non mi fa niente, cosa? Mi fermo, mi
giro: un meraviglioso lupone cecoslovacco sta correndo amichevolmente
verso di me. Mi basta fargli un cenno per vedermelo letteralmente
volare addosso: baci, coccole, un turbinio di peli. I suoi padroni
sono molto sorpresi: di solito, il loro cane incute timore... Può
darsi, ma non certo a me! Né il lupone, né il piccoletto che lo
accompagna, un botolo vagamente simile ad un Jack Russell. Mi stacco
a fatica e malvolentieri dall'abbraccio peloso: devo proseguire... Ho
percorso venti km o poco più; non sono nemmeno a metà. E chissà
che ora è. Il Garmin, volendo, me lo potrebbe rivelare, ma...
Preferisco non saperlo. Immagino di essere in clamoroso ritardo sulla
tabella di marcia, anche se una tabella di marcia non esiste. Mi
raggiungerà Matteo, partito in bici da Genova, più avanti, ma sa
Santa Giulia in poi saremo comunque sulla stessa strada; mi troverà
per forza.
Qui la strada alterna
parecchi saliscendi, correndo in mezzo a vallate di boschi fittissimi
e poche, sperdute, meravigliose cascine. Le gambe mal tollerano le
risalite. Sono sempre tra i cinquecento ed i seicento metri di quota,
con uno splendido panorama di cocuzzoli e torri in cima ai cocuzzoli.
Ora, quassù, fa decisamente caldo, persino troppo per lo spessore
della tuta che indosso, con maniche e pantaloni lunghi. Tra l'altro,
ho bell'e finito l'acqua, già da qualche km. Non sarà facile
trovare, in pieno inverno, qualche fontanella aperta.
Supero l'abitato di Santa
Giulia e proseguo. Almeno, mi sembra la cosa più sensata da fare,
per quel poco che posso capire dal mio geroglifico. Non ci sono molte
alternative. Certo, se avessi la cartina, saprei orientarmi un po'
meglio con i punti di riferimento nei dintorni, ma pazienza, speriamo
bene. Tengo la sinistra; attraverso la frazione Gorra e continuo a
salire. I muscoli delle gambe sono proprio stufi: induriti,
affaticati dal dislivello e dalla fiacca pregressa. La strada
prosegue deserta, bellissima, sempre in quota. Prendo nota,
mentalmente, di due bivi con stradine che scendono a Scaletta Uzzone
ed a Castelletto Uzzone, due paesi in cui sono passata prima: saranno
per forza strade che “tagliano” la collina, da andare ad
esplorare. Anche perché qui è bellissimo, non c'è un'anima.
Qualche rara cascina qua e là, ma non si percepisce segno di
presenza umana. E il sole, quassù, scalda anche in pieno inverno.
Arriva un messaggio di
Matteo: “Dove sei? Io sono a Dego”. Dove sono. Buona domanda. Mi
guardo intorno: sono nel nulla eterno, in questo momento. Ho passato
da poco la frazione Gorra, ecco, tutto quel che gli so dire. Nessuna
risposta. Avrà capito: del resto, se mi ha proposto questo
itinerario, significa che lo conosce, presumo. Ingenuamente presumo.
La stradina d'un tratto
finisce, immettendosi su una strada appena più grande. Nessun
cartello che indichi alcuna località, né a destra né a sinistra. E
la mia cartina non è di grande aiuto. A sinistra si sale, a destra
mi sembra si scenda leggermente; il panorama, da qui, non mi aiuta a
capire dove mi trovo. Anche se so di non essere molto distante dalla
strada che scende verso Cortemilia con ampi tornanti. Che fare?
Proviamo a sentire Matteo; magari ha qualche dritta. Lo chiamo: non è
che ci si capisca molto, però, perché la strada da cui provengo, da
lui suggerita nell'itinerario, gli è ignota. Da qui la mia
ingenuità: avrei dovuto presumerlo... Beh, a questo punto tiriamo la
monetina. Vada per la sinistra. Mi incammino, un po' di corsa stanca,
un po' di passo. La strada sale ed io sono abbastanza fiacca, per non
dire cotta. Ho anche molta sete: non c'è stato verso di trovare
acqua.
Un tornante e qualche
curva più avanti, ecco svelato il mistero. Sono al Todocco. Però,
per quel che mi ricordo dalla cartina che non ho potuto stampare, e
per quel che mi ero segnata sugli appunti, al Todocco non avrei
dovuto arrivare. Richiamo Matteo: ora so dove sono, ma devo capire
dove andare per evitare che lui finisca in Valle Bormida ed io in
Valle Uzzone o viceversa. Responso: torno indietro al bivio, un paio
di km. Si doveva andare a destra. Ma la deviazione non è stata vana:
qui c'è una fontanella e c'è pure l'acqua. Riempo la borraccia,
mentre un morbidissimo micio fiducioso mi si struscia tra le caviglie
e va a bere nella vaschetta ai piedi della fontana. Tracanno un bel
po' d'acqua: come mio solito, ho dimenticato in auto la bustina di
sali e mi devo accontentare. Poi riparto, stavolta in discesa. Lungo
tratto prima in leggera discesa, poi in piano, fino all'incrocio con
la strada che, a sinistra, scende a Cortemilia. Ancora un incontro
sgradito con le squadre dei cacciatori, riunite a fine battuta:
passo, li ignoro. Proseguo in direzione Cortemilia per qualche
centinaio di metri: poi, l'itinerario prevede di imboccare un bivio a
destra, per Serole. Una stradina piccola, con una grata in metallo
all'inizio. Eccola, è senz'altro questa. Passo accanto ad alcune
cascine e proseguo, in leggera discesa, finché squilla il cellulare:
è Matteo che mi chiede dove sia. Arriverà tra pochissimo. Ripongo
il telefono nella tasca dello zaino e, come al solito, faccio
inavvertitamente partire un tot di altre chiamate, oltre a cambiare
la lingua del dispositivo da italiano a tedesco. La tentazione di
catapultare l'aggeggio in fondo a qualche burrone è fortissima.
Matteo arriva, in
effetti, dopo pochi minuti, in bici, carico come un mulo. Proseguiamo
insieme per qualche km di questa meravigliosa stradina ancor più
nascosta e sconosciuta, con vista a perdita d'occhio sulle colline,
finché si arriva ad un incrocio che già conosco: a sinistra si va a
Serole e poi Cortemilia, dritti si va a Roccaverano. Ecco svelato
l'arcano.
Breve pausa, da seduta,
mangiando un pezzo di focaccia ed uno di pandolce genovese che Matteo
rinviene nei bassifondi dei suoi bagagli. All'orizzonte si vedono le
pale eoliche, sul crinale. Poi si riparte ancora: dovrebbero mancare
circa dieci km alla conclusione del giro. Ci sarebbe stata, per la
verità, ancora una deviazione al Monte Puschere, ma direi che, per
oggi, ne ho abbastanza.
Scendiamo ancora insieme
a Serole, minuscolo grumo di case, un gioiellino, dove so che c'è
una fontanella. La scommessa è se sia aperta o meno. Attraversiamo
la piazzetta deserta: in una nicchia nel muro in pietra, eccola lì.
Matteo è scettico, ma la fontanella butta acqua. Provvidenziale.
Fatto entrambi il pieno,
torniamo sulla strada principale. Leggera salita, fino alla frazione
di Cuniola: mamma mia, mi sembra l'Everest... Va bene essere stanchi,
ma qui si esagera! A questo punto, Matteo prosegue: scenderà fino a
Cortemilia, risalirà a Castino, da lì giù fino al ponte sul Belbo
e ancora in salita fino a Benevello. Mi attenderà lì, dove io
arriverò comodamente in auto. Per me, a piedi, la discesa su
Cortemilia è ancora lunga. Però è dolce, accompagna il passo
piacevolmente e mi lascia godere ancora un po' del sole primaverile e
del paesaggio collinare. Mi intrigano le stradine che si staccano
sulla mia destra: mi riprometto di andare in esplorazione, prima o
poi, perché sono certa che conducano da qualche parte, non solo alle
frazioni sperdute su per i boschi.
La pendenza della discesa
si accentua negli ultimi km prima di Cortemilia. Incontro poche
persone a piedi, due passi per smaltire i pranzi domenicali: gli
ultimi tornanti, fino al ponte ed alla piazza centrale. Cinquanta km
tondi, neanche a farlo apposta. E, sulla piazza, il distributore di
carburante più economico che abbia visto nei paraggi. Come non
approfittarne?
domenica 6 agosto 2017
8-9 luglio 2017: GRANFONDO FAUSTO COPPI RUNNING (E LA BICI DOVE L'HAI LASCIATA?)
L'idea è nata all'alba
di un lunedì mattina di fine maggio in autostrada, in viaggio da
Cesenatico verso casa, con il sonno, la stanchezza e la soddisfazione
della mia settima Nove Colli Running consecutiva portata a termine,
sia pure per il rotto della cuffia. Mi si è accesa una lampadina,
anzi, un faro da stadio: “Perché la Nove Colli Running sì e la
Fausto Coppi Running no?”
A beneficio di chi non
bazzica di ciclismo, o di podismo, o di entrambi, mi sembra doveroso
spiegarmi meglio. La Nove Colli più conosciuta è senz'altro la
corsa ciclistica, su un percorso di circa 200 km ed oltre 3.000 m di
dislivello distribuiti su nove salite, con partenza ed arrivo a
Cesenatico. Sullo stesso tracciato e nello stesso fine settimana, si
corre anche, ormai da parecchi anni, l'omonima versione podistica, a
cui mi presento fedelmente da otto anni. Il mio primo tentativo, nel
2010, si è arenato al km 150 circa, ma i successivi sono andati
tutti a buon fine. Sommato tutto ciò alle mie due o tre presenze
alla corsa ciclistica, negli anni precedenti, direi che posso ambire
alla cittadinanza onoraria.
La Fausto Coppi è una
manifestazione solo ciclistica, per ora; si snoda su un tracciato di
177 km con quattro salite di tutto rispetto, tra cui il Colle dei
Morti, anche noto con il nome più “vendibile” di Colle Fauniera,
ad oltre 2.400 m di quota. Si parte da Cuneo, a pochi km da casa mia.
Da qui la domanda: “Perché la Nove Colli Running sì e la Fausto
Coppi Running no?”.
L'idea mi è parsa subito
talmente squinternata che la mia sola capoccia, pure squinternata
assai, non sarebbe bastata. Sarebbe servito l'aiuto di un'altra
capoccia ancor più scombinata della mia, con il primo vantaggio di
qualche anno di esperienza in più nel ramo “follia e dintorni”
ed il secondo, pesante, vantaggio di un filo diretto con gli
organizzatori della granfondo ciclistica cuneese. “Senti Ivano...
Ma secondo te a quelli della Coppi potrebbe interessare una versione
podistica? Io sono disposta a far la prova, ben volentieri!”. E'
stato più o meno come buttare un cerino in una bottiglia di alcool,
ma non avevo dubbi. Ad Ivano invidio profondamente alcune doti di cui
io, purtroppo, non sono provvista: la faccia tosta e l'incrollabile
determinazione nel calpestare gli altrui attributi fino ad ottenere,
per sfinimento, quello che vuole. Non oso neppure immaginare la
persecuzione che abbia messo in atto nei confronti dei componenti
degli organizzatori della granfondo, non certo per ottenere un
impossibile riconoscimento “ufficiale” di una corsa a piedi di
tanta portata nel giro di un mese e mezzo – la Nove Colli Running è
a fine maggio, la Fausto Coppi nella prima metà di luglio) – ma
per far sapere, diciamo così, che ci sarei stata anche io, senza
bicicletta.
Sapevo inoltre che,
lanciata la palla ad Ivano, il mio compito sarebbe finito lì, fino
al giorno della gara. Avrebbe provveduto lui a tutto il resto. Così
è stato. Ivano il Terribile si è immediatamente arruolato come uomo
assistenza pre, durante e post corsa. Ha studiato il percorso per
un'ipotetica futura gara ufficiale a piedi, che io avrei dovuto
sperimentare con una sorta di edizione zero, sia sulla carta che di
persona. Ha scovato stradine alternative nei tratti iniziale e finale
di gara, per risparmiare ai podisti lo strazio ed il pericolo del
passaggio sugli stradoni principali senza tuttavia aggiungere km. Ha
elaborato un ipotetico programma orario dei passaggi nei punti
chiave. Si è persino procurato il mezzo di trasporto più adatto
alla situazione, un agile scooter estorto al legittimo proprietario,
non voglio neanche sapere con quale minaccia. E due maglie ufficiali
della granfondo...
Così, alle otto e mezza
di sabato 8 luglio, eccomi in Piazza Galimberti a Cuneo, messa di
fronte alle conseguenze della mia pensata e del tutto inconsapevole
di ciò che andrò ad affrontare. Come sempre, del resto: se fossi
consapevole, non ci proverei nemmeno. In piazza fervono i preparativi
per la corsa ciclistica, che partirà domani mattina alle sette. Ci
sono già i gazebo dove verranno distribuiti i numeri di gara, gli
espositori di bici e materiale da bici, qualche ciclista ansioso che
già si aggira a chiedere informazioni. Avrei in programma di partire
alle 9, ma un quarto d'ora prima esaurisco la pazienza. Accendo il
Garmin, saluto i presenti che mi guardano con aria interdetta e
preoccupata per il mio stato mentale e parto.
Canotta e pantaloncini
corti, null'altro. Mi attende, secondo le previsioni meteo, una
giornata molto, molto calda. Del bagaglio non ho bisogno: tra poco mi
raggiungerà lungo la strada Ivano, che sta finendo di sistemare il
necessario per il viaggio, vestiario e cibo. Con passo cauto, mi
allontano dalla bellissima piazza cuneese verso il Viadotto Soleri,
in direzione di Cerialdo. Toh, guarda. Credo di aver percorso un
centinaio di volte il viadotto in auto e parecchie volte in bici, ma
a piedi mai. La vista è una meraviglia, peccato per le reti
metalliche, come se bastasse una rete a scoraggiare chi ha deciso di
buttarsi di sotto. Il traffico di auto è già intenso; per fortuna
c'è il marciapiede. Alla fine del ponte, svolto a sinistra e poi
subito a destra: comincia qui il lungo tratto di pianura, quasi
rettilineo, fino a Busca, con lo sfondo della corona di montagne
vicinissime, ma dai contorni sfocati per via della calura. Questo è
il primo dei tratti alternativi rispetto al percorso della GF
ciclistica. Le bici percorreranno domani la strada statale, che per
il loro passaggio sarà chiusa alla circolazione delle auto. In
previsione di una corsa a piedi, che per ora esiste solo nella mia
immaginazione e nelle mie gambe, occorreva pensare ad una variante
meno trafficata, onde evitare di passare dalla condizione di podista
a quella di birillo, vista purtroppo la disposizione d'animo
dell'automobilista medio nei confronti di qualsiasi altro occupante
della strada, peggio che mai se non dotato di almeno quattro ruote.
Per il momento il caldo
sembra tollerabile; si percepisce persino un alito di vento. Ben
prima della località Passatore, arriva alle mie spalle il rumore di
un motorino che rallenta. Eccola qua, la scorta. Mi ritrovo subito in
mano una bottiglietta d'acqua e ne “ordino” un'altra di the,
quando si arriverà alla prima fontana. Ho messo nel bagaglio alcune
bustine di the solubile, alla pesca ed al limone, risorsa utilissima
a cui non avevo mai pensato. Ivano riparte a caccia di acqua;
speriamo bene... Ha indubbiamente un talento innato per la guida di
qualsiasi mezzo a motore, ma sarà dai tempi ormai dimenticati della
scuola che non guida un motorino. Meno male che ci attende un
percorso con poco traffico.
Procediamo così, ad
elastico, per tutto il lungo rettilineo fino a Bosco di Busca, mentre
il sole si alza e comincia ad incattivire. Nei giardini delle case
affacciate sulla mia strada è tutto un fervore di tosaerba,
tagliasiepi e decespugliatori. Il rettilineo termina all'incrocio con
la strada tra Busca e Caraglio, dove svolto a destra sbocconcellando
il primo panino al formaggio della giornata, seguito da una
minilattina di Coca Cola. La mia scorta ha uno spacciatore di fiducia
di lattine che conterranno si e no un bicchiere di bibita.
Appena prima di Busca, ci
separiamo, per via di un senso unico che la moto non può percorrere.
E qui mi rendo conto che la mia disorganizzazione può diventare, per
me stessa, davvero pericolosa. Benché io abbia percorso queste zone
in lungo ed in largo, in auto ed in bici, chissà quante volte, non
mi sono minimamente preoccupata di dare un'occhiata alla cartina
della gara e mi sono fatta un'idea completamente distorta, nonché
assurda, dell'itinerario da seguire per raggiungere l'imbocco della
Valle Varaita. Attraverso Busca senza l'assistente, che ha deviato
alla ricerca di una fontanella per riempire la borraccia, ma poi,
anziché seguire la logica direzione per Costigliole Saluzzo, giro,
non so neanche io perché, verso Dronero. Macino così almeno un paio
di km, sempre più preoccupata perché non vedo arrivare la mia
scorta. Fuori dal paese, però, mi rendo visivamente conto che
qualcosa non quadra: mi ritrovo la montagna a destra, quindi dalla
parte sbagliata. E' bene che torni sui miei passi. Ma dove sarà
Ivano? Mi starà cercando. Non ho nemmeno il telefono, ho lasciato
tutto a lui. Che fare? Beh, non è che ci sia molta scelta. Torno
indietro, raggiungo la strada principale e rimango lì, sperando nel
colpo di fortuna di incontrarci.
La sorte è dalla nostra.
Proprio all'incrocio con la strada che va a Costigliole, ecco il
motorino bianco. La mia scorta è nervosa ed arrabbiata: ammiro il
suo sforzo per evitare di darmi della deficiente. Anzi, quasi si fa
colpa del fuori programma. In effetti, lasciata a me stessa, io
divento pericolosa... Decidiamo per una breve sosta, per calmare gli
animi e le gambe. I primi venti km, più la deviazione, sono andati.
Ivano è preoccupatissimo, teme che io abbia sprecato tempo ed
energie che comprometteranno il resto della corsa. Io no, per nulla.
180 km o 185, cambia poco, alla fine. Si riparte in direzione di
Costigliole, lungo una stradina in parte sterrata. Me lo raccomanda
in ogni lingua: “Devi solo andare dritto, sempre dritto. Io ti
aspetto all'incrocio”. Preferisce non cimentarsi sulla ghiaia con
lo scooter. Obbedisco. Andar dritto dovrebbe essere facile. Corro su
un tracciato parallelo alla strada statale, in mezzo ai frutteti; poi
la strada torna asfaltata e risale la collina, lentamente, tra le
prime case di Costigliole. Due cose catturano i nostri sguardi: per
Ivano, una bella podista in due pezzi da corsa con cui fa una gran
figura; per me, una Dacia Dokker parcheggiata. Ho la passione per le
auto “da carico e da nanna” e quel modello lì mi fa svitare il
collo. Se potessi comprare tutte le station wagon ed i furgoni che
ammiro con cupidigia, guai, dovrei avere almeno un hangar per
ricoverarli tutti!
Alcuni tratti su e giù
per arrivare poi nel centro di Costigliole, tra i profumi dell'ora di
pranzo. Da lì, mi immetto sulla strada principale verso Piasco,
all'imbocco della Valle Varaita. Il caldo è ormai a livello di
crudeltà e lo stradone con l'asfalto nero e rovente non aiuta. Non
so quante borracce io abbia già vuotato. Sarà dura... La scorta non
mi perde d'occhio, sempre un po' avanti ed un po' dietro di me.
All'ingresso di Piasco,
altra provvidenziale pausa alla casetta dell'acqua: mi siedo per
qualche istante, con la schiena appoggiata alla parete di legno, come
ordina Ivano perentorio. Una focaccina ed un paio di borracce di
acqua frizzante fresca mi rimettono in condizioni quasi decenti.
Mentre la scorta riempe un altro paio di bottiglie, io riparto, prima
lungo la pista ciclabile e poi verso il centro del paese. Un lungo,
sofferente rettilineo in leggera salita prima dell'incrocio per
tornare sulla strada principale; da lì, un altro lungo tratto,
sempre in salita appena accennata, fino a Venasca, tra auto,
capannoni e col riverbero del calore rabbioso dell'asfalto. Non sarà
facile... Avrò percorso una trentina di km e mi sento addosso tutta
la stanchezza del mondo.
Ivano mi attende alla
rotonda all'ingresso del paese. Superiamo il torrente e raggiungiamo
la piazzetta centrale, dove c'è una fontana con un getto gelido ed
abbondante. Altra pausa, all'ombra dell'ala del mercato. E' sempre
Ivano ad ordinare lo stop. Se fosse per me, probabilmente proseguirei
ad oltranza fino a sfinimento... E lo sfinimento arriverebbe ben
prima della mia meta. Ma ormai ho imparato a fidarmi di quello che ho
eletto come capobranco. Pur non avendo mai corso, ormai la mia scorta
mi conosce anche troppo bene e sa organizzare la mia marcia molto
meglio di quanto potrei fare io.
Sbocconcello un panino di
Ivano, dal contenuto non identificabile: una salsa color arancio, un
po' salata, un po' piccante, non capisco. “Stai tranquilla, è
edibile, l'ho mangiato anch'io”, mi rassicura la scorta. Mah.
Speriamo bene.
Prima di ripartire, tolgo
la canottiera e la bagno per bene sotto il getto della fontana. Me la
rimetto addosso con un urlo belluino per lo sbalzo di temperatura,
sotto lo sguardo allibito e divertito di due passanti, e riparto di
gran carriera lungo la via centrale, per non dire unica, di Venasca.
Da qui, seguo la strada parallela alla principale di fondovalle, che
corre dall'altra parte del torrente: c'è meno traffico, anzi, a
quest'ora non passa anima viva. Altro rettilineo, altra leggera
salita, altro caldo assassino. Brossasco, le botteghe per la
lavorazione del legno e la produzione di mobili. Non dovrebbe più
mancare molto al bivio per la prima salita, Valmala. Lo attendo con
ansia, perché finalmente avrò un'ottima scusa per smettere di
correre, almeno per un po'.
Qui, tra una curva e
l'altra, il traffico è più intenso. I merenderos motorizzati, in
questa stagione, in Valle Varaita non mancano mai. Mi preoccupano gli
spostamenti a zig zag di Ivano con lo scooter... Ma non oso fiatare.
“Oggi tu non devi preoccuparti per me. Devi pensare soltanto a
correre. A tutto il resto provvedo io”. Sue testuali parole, a cui
cerco di attenermi.
Sotto il sole rabbioso
del primo pomeriggio, abbandono finalmente la strada di fondovalle.
Recupero dalla scorta un paio di barrette, all'inizio della salita di
Valmala. Circa nove km: a correre, qui, non penso nemmeno. Mi metto
al passo, svelto sì', ma pur sempre passo. Una lattina di bibita
energetica e via, un passo dopo l'altro, tagliando le curve come i
maratoneti, con un po' di cautela. C'è un insolito traffico di
ciclisti oggi, forse impegnati a provare il percorso della granfondo
di domani. Tanto caldo e tanta stanchezza. Chissà se lo scooter
patisce quanto me? Pur avendola percorsa più volte in bici, in
questo momento non ricordo alcunché della salita che sto
affrontando. Provvidenziale, però, il bagnetto pubblico in
corrispondenza della borgata.
Curva dopo curva, la
temperatura si fa un po' più sopportabile. Alzo lo sguardo per
capire a che punto sono, ma tutt'intorno si vede solo verdissimo
bosco fitto. Il cielo si sta velando, finalmente.
La presenza della scorta
è vitale, ma se il mezzo di trsaporto è la moto, non c'è modo di
fare un po' di conversazione. Chissà se avrò pensieri sufficienti a
farmi compagnia da sola fino alla fine? Se ci arrivo, alla fine.
Ivano mi precede al bivio
del Santuario: mette le borracce al fresco nella fontana. C'è
parecchia gente quassù: anziani che chiacchierano sulla panchina di
pietra, turisti, famiglie. Il tempo di bere qualcosa e riparto con la
bottiglia fresca in mano. Di corsa, perché ormai la salita è alle
spalle; rimane un paio di km o poco più di leggerissimo saliscendi
fino al bivio per Lemma. Il GPS mi ha abbandonata, o meglio: si è
rotto il cinturino... Lo lascio alla scorta e non ci penso più. Si
va a sentimento, d'ora in poi.
Ivano mi precede al
bivio, dove mi fa trovare un meraviglioso tomino sciolto dal caldo.
Pura libidine, che però non so bene come affrontare... Lo mangio a
ditate, ritrovandomi in men che non si dica il formaggio fin sulle
orecchie. Lo finirò a Lemma: ora via, in discesa, approfittando
dell'improvvisa frescura in cui non speravo più. La discesa è
dolce, al fresco degli alberi. Qualche auto più del solito, ma credo
che, anche qui, si tratti per lo più di perlustrazioni del percorso
della granfondo. Le gambe vanno bene, sciolte, senza fatica; il
morale per il momento è alle stelle. Lo nota anche Ivano: “Guardala
lì com'è contenta”. E ci credo, che son contenta. Chi sta meglio
di me?
Altra breve sosta a Lemma
per finire il tomino, poi ancora in discesa. Certo, a piedi la
discesa non è riposante come in bici, ma è comunque un bel
sollievo. E poi, un improvviso “Ciao Giancarla!” alle mie spalle
aggiunge un po' di allegria. E' Danilo, in bici, in perlustrazione su
una parte del percorso della gara. Sapeva da Facebook del mio
tentativo di oggi.Un bel tratto di discesa se ne va nella
chiacchierata a tre. La cosa curiosa è che viaggiamo in tre,
affiancati – non si scandalizzino i puristi del codice della
strada, che quassù non passa anima viva oltre a noi – con tre
mezzi di trasporto diversi: scooter, bici e piedi.
Il cielo si è fatto
scuro, quasi minaccioso. Da un estremo all'altro. Potrebbe anche fa
comodo un bel temporale... Purché si esaurisca prima della salita
del Fauniera, perché salire a oltre 2.400 m di quota di notte e
sotto il fortunale non sarebbe la strategia migliore per diventare
vecchi. Pare quasi di sentire un bubbolio lontano. Danilo ci saluta e
ci augura buona fortuna. Ne avremo bisogno, entrambi.
Verso la fine della
discesa, un lungo rettilineo ci porta all'incrocio con la strada che
sale alla Colletta di Rossana. Lo scooter ci arriva a motore spento,
avendo finora sfruttato la pendenza. All'incrocio, svolto a destra.
Non sento il rumore del riavvio, ma lì per lì non ci do peso: Ivano
si sarà fermato a sistemare qualcosa nello zaino, penso. Di lì a
poco, mi affianca un'auto con a bordo due giovani, un ragazzo ed una
ragazza, bei visi puliti: “Signora, al suo amico si è fermato lo
scooter”. Frastornata, ringrazio ed inverto la marcia: qualche
centinaio di metri e trovo Ivano fermo, arenato, arrabbiatissimo. La
moto non dà più segni di vita. Si è scaricata la batteria. Sul
momento, non riesco a preoccuparmi: cerco invece di restare calma per
non peggiorare lo stato d'animo della mia scorta. Chissà se anche
per i motorini, come per le auto, funziona il trucco di ripartire in
discesa?
Se c'è speranza di
rimediare al guaio, la si può trovare a Rossana. Quindi, piano
d'emergenza: io proseguo la corsa con un panino nella tasca, la
borraccia ed il telefonino; Ivano si avvia verso Rossana a spinta.
Riparto, appunto, un po' scombussolata e con mille pensieri scuri
come il cielo sopra la mia testa. Sarebbe davvero triste dover
rinunciare al giro per guasto meccanico. Ma, del resto, sarebbe
impensabile completare il giro senza assistenza, senza uno zainetto
in cui portare almeno l'essenziale, con la notte di mezzo. O meglio,
sarebbe impensabile per me. Telefono a Matteo per avere un po' di
conforto: “Ma secondo te c'è speranza che la moto riparta?”. Mi
assicura di sì. Speriamo. Intanto, in leggera salita, raggiungo la
colletta di Rossana ed inizio la discesa in direzione della strada
principale tra Busca e Dronero. Ivano ha tentato di spiegarmi la
strada da imboccare per evitare lo stradone, passando dalla località
Morra, ma io preferisco seguire la via di cui sono certa, perché ho
un'abilità tutta particolare nel perdermi.
Per il momento, sto bene.
Mi sforzo di restare ottimista. Senza dubbio la mia scorta troverà
una soluzione. Ne sa una più del diavolo... E soprattutto è
provvisto di una dose inesauribile di faccia tosta. Il cielo,
intanto, si fa sempre più scuro. Come il mio umore non appena vedo
il cartello: “Dronero 10 km”. Così tanti? Ne ricordavo meno...
10 km di questa orrida piattissima strada trafficata? Per la
miseria... Va bè, dai Gian. 10 sono tanti, ma sono pur sempre solo
10. Ma d'improvviso qualsiasi sciocchezza diventa un problema
insormontabile. Il cibo che ho messo nelle tasche posteriori della
maglia e che balla; la bottiglietta d'acqua vuota; il telefonino
nell'altra mano. Tutto è fastidioso. E cominciano a cadere i primi
goccioloni, senz'altro risultato che quello di aumentare a dismisura
l'afa. E Ivano non chiama. Buon segno... O no? Gambe pesanti, morale
a terra. Non ce la faccio più. Non ce la farò mai...
Il telefono è
momentaneamente parcheggiato nel top. Non perché il contenuto del
top sia tale da piazzarci in mezzo il cellulare, a mò di supporto,
per carità... Solo perché l'indumento è molto stretto. Corro
piano, male, con immensa fatica. Ho caldo e sete. Ho anche fame, ma
non mi va di mangiare quel che ho con me. Ormai penso che tanto è
inutile, non potrò continuare; la moto non ripartirà e quindi...
Che senso ha patire così?
Il cellulare squilla.
Rispondo con un nodo in gola. Lo scooter è ripartito! Una decina di
minuti ed Ivano sarà qui. Una bella notizia... Il morale va un po'
meglio, ma la stanchezza è davvero tanta. Quando finalmente la
scorta mi raggiunge, sono al lumicino. Ci fermiamo ad un bivio. Io ho
disperatamente bisogno di una fontana e di una sosta. Ormai sarà
l'ora di cena... Ho perso il senso del tempo.
Abbandoniamo lo stradone
per raggiungere, con una piccola deviazione rispetto al previsto, una
frazione in cui troviamo una fontanella. Mi spiace perdere tempo, ma
non ce la faccio proprio più. Sono svuotata. Mi abbatto su una
panchina, mentre Ivano armeggia con le borracce e le cibarie. Ci
resto per un buon quarto d'ora, fissando inebetita le finestre di una
palazzina dall'altra parte della strada. Non devo avere fretta. Ma
ripartire si deve, prima o poi... Ed è un vero strazio. Male alle
gambe più rigide che mai, fiacca, spossatezza. Torniamo sullo
stradone, approfittando però di alcuni tratti da correre sugli
spiazzi davanti ai capannoni. La scorta si ingegna per tenere sveglia
la mia attenzione, chiacchierando e scherzando alla sua maniera. Io
sto marciando su un filo, in equilibrio precario. La pancia ogni
tanto dà segni di insofferenza. Per fortuna, ha smesso di piovere...
E siamo a Dronero. Un'altra piccola meta. Su istruzione di Ivano,
passo in centro e scendo al Ponte del Diavolo, per poi risalire verso
la rotonda del bivio per Montemale. Mi ci avvio di corsa... Ma la
minima pendenza iniziale è sufficiente a ributtarmi addosso tutta la
mia stanchezza. Proseguo al passo, più spedito possibile, ma
faticosissimo. Così non ha senso... Non ho alcuna speranza di
farcela.
Ivano scatta foto, corre
sullo spiazzo del Santuario a fare il pieno di acqua fresca. Io
arranco in preda allo sconforto. Le forze sono davvero al lumicino.
Al bivio a destra per La Piatta, ancora una volta mi abbatto a
sedere. Sto perdendo troppo troppo tempo. E non mi riesce nemmeno di
piangere. Come ho potuto pensare di riuscirci? Non sono ancora
neppure arrivata al centesimo km, che secondo i miei calcoli dovrebbe
essere più o meno a Pradleves.
Riparto ancora una volta.
Gli strappi in salita sono un'agonia. Ivano non mi molla un attimo.
“Dai”, mi incoraggia, “fino alla Liretta è dura, ma lo sai,
poi spiana”. Lo so. Poi spiana. Ma io non ce la faccio più...
Con la luce della sera,
in un modo o nell'altro mi trascino su per la salita, fino al
fatidico bivio per l'agriturismo Liretta. Poi spiana. Ed è vero.
Provo, timidamente, a riprendere la corsa. Passo dopo passo, le gambe
legnosissime sembrano sciogliersi un poco. Il panino al gorgonzola fa
il resto. Alcuni tratti in piano, altri in leggera discesa. Si
riparte, con l'animo finalmente un po' più leggero. A La Piatta sono
già stati montati i gazebo del rifornimento per i ciclisti. Ci sono
una fontana ed una panchina; si impone una pausa seria, ristoratrice.
Mangio ancora, bevo, faccio i conti, con un filo di speranza in più.
Anzi, con un'esplosione di entusiasmo. Non conosco le mezze misure.
Mi attende il Colle di Fauniera: se ci arrivo, poi è fatta...
Mi avvio in discesa,
lungo i tornanti ripidi di questa stradina sconnessa in mezzo ai
boschi. Di lì a poco, mi raggiunge Ivano, con il motorino che dà
segni di sofferenza. Uno dei freni non funziona... “Ha i freni a
disco?”, domando, nella mia suprema ignoranza. “Sì”. “Allora
può darsi che siano surriscaldati. Succede anche sulla mia MTB”.
La scorta si rassegna a procedere in discesa fino al bivio, senza
aspettarmi. Un'altra nuvola scura passa nel mio cielo: “Speriamo
che la diagnosi sia giusta... Altrimenti, come se la caverà giù per
il Vallone dell'Arma?
Non è solo l'illusione
della discesa. Le gambe trottano bene anche nel breve tratto in piano
prima del bivio per immettersi sulla strada tra Caraglio e Pradleves.
Trovo Ivano che mi rassicura: il mezzo meccanico è tornato in piena
efficienza. Indosso il giacchino rifrangente e riparto, ricordandomi
dopo pochi metri che avrei dovuto prendere anche la pila frontale...
Pazienza, non mi va di fermarmi ancora. C'è luce, per adesso, anche
se ormai è la luce della sera. Raggiungo Monterosso Grana, popolato
così come non l'ho mai visto nelle ore diurne. Supero camminando di
buon passo la breve salita successiva, godendomi anche un brano del
coro di canti di montagna nel cortile di un ristorante. Poi, l'ultimo
tratto di corsa prima di Pradleves. E' quasi buio. Ivano propone una
sosta caffé ed ultimo ristoro a Pradleves, prima di affrontare il
mostro. Va benissimo, ma... Troveremo un locale che ci faccia un
caffé alle dieci di sera in quel di Pradleves? Sono scettica.
La scorta mi precede in
paese, in perlustrazione. Io cerco di allungare il passo, perché qui
non si vede più un tubo e passano più auto di quanto potessi
immaginare, il sabato sera in Valle Grana. D'un tratto, il fanale
dello scooter si muove verso di me. Ivano ha trovato un locale ancora
aperto, appena prima di Pradleves. Al bar annesso al caseificio “La
Poiana” ci sono ancora alcuni avventori ai tavolini. Ammetto che la
sosta mi è di conforto. Il doppio caffé e la lattina di Lemonsoda,
pure. Ricaccio indietro la fretta e la smania di dover ripartire
subito. La mia scorta si veste per la notte: immagino che il freddo,
in moto, si percepisca ben più di quanto lo senta io, che per ora me
la cavo con le maniche corte. Riparto con l'incoraggiamento della
signora al banco del bar. Ora non c'è più santo che tenga: comincia
la salita del Fauniera.
Procedo al trotto finché
sono in paese. Con mia grande sorpresa, la serata ferve: addirittura
una cena di matrimonio in un piccolo ristorante del centro. Ma, oltre
il ponte, proprio dove un minaccioso cartello annuncia l'inizio
ufficiale dell'ascesa... Il buio. O meglio: il buio, ma con la luce
fioca della luna, più che sufficiente a permettermi di vedere dove
metto i piedi. Di qui in poi, vado al passo: passo spedito, il più
possibile, ma passo. Correre sarebbe un suicidio. La salita è lieve,
fino a Campomolino, ma c'è e lima i muscoli già provati.
Intorno a me è un
meraviglioso tripudio di lucciole. Tantissime, dappertutto. Per la
vista, le lucciole; per l'udito, lo scroscio continuo ed impetuoso
dell'acqua del torrente, di cui la strada più volte interseca il
corso. Riflessi e bagliori tra le piccole cascate e le rocce. Mi
sforzo di reggere un passo molto rapido: alla fin fine, il mio timore
è sempre per la mia scorta, che immagino si stia annoiando a morte.
Non che, correndo, io possa abbreviare molto i tempi... Ma camminare
sembra sempre un po' una resa. Eppure, qui, devo essere prudente. Ho
passato i 100 km; me ne restano circa ottanta, pesanti. Ivano non mi
perde d'occhio, si porta un po' avanti e poi mi aspetta; a volte mi
chiede se io abbia voglia di mangiare o bere, a volte me lo impone.
Curva dopo curva, i paravalanghe, gli strappi, le pareti di roccia.
Le luci di Campomolino e Castello, gialle, suggestive nella notte:
sembra di essere in mezzo ad un presepio...
Tra i due tornanti ripidi
appena prima dell'abitato, la stanchezza mi crolla addosso tutta d'un
colpo. Mi abbatto a sedere su un muretto in pietra, subito accudita
dalla mia fedele scorta, che non lascia trapelare nemmeno una virgola
del suo scetticismo circa le mie probabilità di successo. Mangiare,
bere. Testa e schiena appoggiate. Sconforto profondo. Sfinimento...
Non ce la farò mai.
Indosso la maglietta a
maniche lunghe. Sopra, metto la maglia ufficiale della GF Fausto
Coppi. Si era detto di indossarla al mattino... Ma in fondo, chi mai
potrebbe vederla stanotte? Non c'è anima umana viva!
Con enorme fatica, mi
rialzo in piedi e riparto. Sempre al passo, consapevole che da qui,
per i prossimi sei km circa, mi toccheranno le rampe più dure, fino
al Santuario. Con la testa che pulsa e sembra sul punto di scoppiare,
con le gambe molli. Se arrivo in cima è fatta, si era detto. Sì,
ma... Arrivarci! La strada fin lassù è infinita. La meta si
allontana man mano che la stanchezza mi assale.
Pensieri cupi e lacrime
che premono per uscire. Passi stanchi e rampe. Non ce la faccio, ma
ancora un passo ce la faccio. San Bernardo da Mentone, la rampa più
dura. Le case ed i campanili di Borgata Chiotti. Il silenzio, le
stelle. Nel tornante successivo, ancora una sosta. Mi siedo, mi
sdraio per qualche minuto. Riparto ancora, quasi fosse una condanna.
Del resto, in cima devo arrivare. Non posso mica fermarmi qua! Sullo
scooter non salirei mai e poi mai, visto il mio terrore per i mezzi
motorizzati a due ruote.
Un brevissimo tratto di
respiro, poi l'ultimo abitato, appena sotto il Santuario. Si sentono
i campanacci delle mucche al pascolo. Il cielo è di una bellezza
struggente. Un'infinità di lucciole...
Mi sembra che le forze
debbano sparire da un attimo all'altro. Non so nemmeno cosa sia che
mi porta ancora avanti. Ormai sono certa che non ce la farò mai. Dal
Santuario mancano otto km. Solo otto km... Ma ancora otto km.
Ennesima sosta. Mi accascio a bordo strada. Ivano, la scorta
perfetta, si siede accanto e mi offre una spalla su cui piangere. Ma
sono troppo stanca: invece di piangere, mi ci addormento. Qualche
minuto, ma potrebbero essere ore, non lo so. Mi sveglio irrigidita ed
intirizzita. Qualche boccone, qualche sorso di the. Ancora, dinuovo
in marcia. Qui si potrebbe correre, ma le gambe non ne hanno più. E
questo mal di testa feroce. Conosco ogni centimetro di questa strada.
Non posso illudermi che manchi meno di quel che so che manca. Non ce
la faccio. Sonno, sfinimento. Ivano spesso mi affianca, mi spinge a
parlare. Mi fa coraggio. Ma non bastano neppure le stelle e la luce
della luna che inonda i pascoli. Crollo, letteralmente, a terra
ancora due volte prima di arrivare al Colle Esischie. Da lì manca
poco più di un km. E solo da lì posso cominciare a sperare un poco.
Il vento rinforza, freddo. Siamo a quota 2.400 in piena notte. Povera
scorta, spero non iberni. Ultimi passi quasi in piano, spediti, in un
luogo meraviglioso, dove l'unica nota stonata ma necessaria è il
rumore del motore dello scooter. Ultima curva, la statua di Marco
Pantani, il colle. La gioia incontenibile che caccia via la
stanchezza. Mi abbatto ai piedi della statua e mangio con un appetito
che non immaginavo di avere: panino al formaggio e dolci, senza
ritegno. Ivano si siede a fianco, in modo da ripararmi dal vento.
Credo di essere parecchio debilitata... Il freddo mi entra subito
nelle ossa.
Indosso la mia giacca
Gore Tex, più quella di Ivano. Mi addormento, anche qui, per qualche
minuto, ma il vento soffia teso e gelido. Meglio andare, non prima,
però, di una foto con la luna piena sullo sfondo. Parto al trotto:
il morale alle stelle mi permette di ignorare, o quasi, il dolore
intenso alle gambe irrigidite. E di non pensare ai venticinque
lunghissimi km di discesa da qui a Demonte.
Basta perdere poche
decine di metri di quota perché la seconda giacca diventi già
superflua. Vedo le luci della moto al colle Valcavera: ci arrivo,
sempre al trotto, e consegno l'indumento. Poi giù, curva dopo curva.
La luna si nasconde dietro ai monti: qui, sì, in effetti la frontale
un po' servirebbe... Ma mi accorgo, solo adesso, che, nonostante le
ore di carica, le batterie rendono immediatamente lo spirito.
Pazienza. Verrà chiaro, prima o poi. Nel frattempo, cerco di
sollevare i piedi un po' più di quanto mi sentirei di fare. Ivano si
porta avanti un po', volta per volta: poi parcheggia lo scooter ed
accende una lucina a led, lampeggiante, verso di me che ho ancora i
bracciali rossi con le luci intermittenti accese. Non ci perdiamo di
vista. Procedo di buon trotto, con il favore della discesa e del
morale altissimo. Mi stupisco io stessa di come mi sia possibile
precipitare nel baratro dello sconforto con tanta facilità... E con
altrettanta facilità uscirne.
Di lì a poco, levo anche
la seconda giacca. Tutto si può dire, ma non che faccia freddo. A
qualche km dal colle, il buio del cielo si attenua. Primissime luci
dell'alba. E prima auto che sale verso il colle. Al Rifugio
Carbonetto è giorno fatto, anche se non c'è traccia di movimento
umano. Solo le mandrie al pascolo e due animali selvatici che ci
attraversano la strada d'improvviso e che, dalle corna, parrebbero
addirittura stambecchi... Possibile? Siamo al di sotto dei duemila
metri di quota... Mi sembra strano. Ma chissà, forse è l'effetto
del sonno.
Tornanti e tornanti,
l'aria frizzante del mattino, il tratto in piano. Le gambe sono
stanche e rigide. E la discesa, lo so bene, è lunghissima. In un
tratto quasi piano e rettilineo, vedo Ivano fermo a rassettare il
bagaglio. Anche per lui, anzi, soprattutto per lui il sonno è ormai
una compagnia scomoda ma fissa. Ed è pericolosa se si guida una
moto. Indugio forse un po' troppo, ma sono davvero stanca. Nuovi
dubbi mi assillano. A Demonte mancano ancora più di dieci chilometri
ed io sto procedendo così piano... Passo dopo passo, sempre più
fiacca. Arriviamo alla centrale idroelettrica ed alle frazioni
abitate. La prima, ancora deserta se non per il latrato di qualche
cane. Nella seconda, trovo Ivano impegnato, guarda caso, in
conversazione con una signora: se ce n'è una nel raggio di mille
miglia, a quest'ora dell'alba, lui la scova di sicuro... L'incontro
con un trattore che traina un rimorchio carico di cani, più un paio
di cani anche nell'abitacolo, mi mette di ottimo umore: un chiasso
che non finisce più, ma è musica per le mie orecchie.
Il cielo del mattino è
nuvoloso. Cade persino qualche goccia di pioggia. La partenza della
granfondo in bici è prevista per le sette: mi lancio in ipotetici
calcoli per capire quanto impiegheranno i primi ciclisti a
raggiungermi. Quelli del percorso corto, prima, e quelli del lungo,
che dovranno percorrere tutta la mia strada.
Più ci avviciniamo a
Demonte, più la strada mi sembra ancora lunga. Le gambe sono a
pezzi, tutto il resto è dolorante e vuoto. Il traffico si fa più
intenso: penso che buona parte dei veicoli che stanno salendo verso
il colle sia legata all'organizzazione della gara. Ricordo di aver
visto stanotte, al Colle Esischie, un camioncino parcheggiato:
probabilmente è già lì per i rifornimenti.
Ivano, ad un paio di km
dal fondovalle, parte e mi precede a Demonte. Con una mossa che
definire geniale è davvero riduttivo, nei giorni scorsi, ha pensato
bene di portare la sua auto sulla piazza del paese e lasciarla lì.
Il programma di viaggio, adesso, prevede di arrivare all'auto,
dormire un'ora e poi decidere il da farsi: proseguire, oppure
smettere.
Le brevi ma secche rampe
che accompagnano la fine della discesa mi lasciano perplessa e
demolita. Quando arrivo a Demonte, alla piazza, ho male dappertutto.
Trovo l'auto. Ivano è già addormentato sul sedile passeggero. Io
m'infilo nello spaziosissimo bagagliaio della Volvo Station Wagon. E'
tardi, speravo di arrivare qui un po' prima. Sono le otto. Ma non ce
la faccio più nemmeno a preoccuparmi. Sono distrutta, lurida,
puzzolente e sfinita. Voglio solo crollare... Poi si vedrà.
Galleggio per un tempo
indefinito tra il sonno ed una specie di veglia, sufficiente a farmi
percepire il male ed i crampi alle gambe. Cambio posizione di
continuo, ma serve a poco, visto che ogni virgola del mio corpo è
pesta e dolorante. Poi la sveglia pone fine all'agonia. Le nove. Sono
sveglia. Ora s'ha da decidere. Continuo o abbandono? “Quanti
chilometri mancano da qui?”, domando perentoria ad Ivano. E lui
comincia ad abbozzare conteggi parziali, con una flemma che mi
precipita in un'ansia senza fine. Poi, con la solennità di un
oracolo: “Trenta, forse trentadue”. Ok. Allora si fa. Ce la
faccio, si riparte. In realtà l'avevo già deciso... Ma mi serviva
un motivo per dare un senso alla mia risoluzione. Scendo, ignorando
di proposito il dolore a tutto. Faccio schifo anche a me stessa, ma
non è il momento di preoccuparsi di certe sottigliezze. Mi vien da
ridere al pensiero di certe fanciulle che corrono con trucco e
parrucco impeccabili: io sembro la sorella brutta di Maga Magò, in
questo momento... Ma vorrei vedere loro, in questa circostanza!
Una rapida tappa al bagno
pubblico sulla piazza. Poi afferro un paio di barrette, incurante,
questa volta, delle raccomandazioni di Ivano a mangiare. La fida
scorta mi spiega dove andare per raggiungere la strada militare oltre
il fiume, ma ormai non lo ascolto neanche più. Ci arriverò, in
qualche modo. In effetti, mentre lui risistema il bagaglio e si
riorganizza, io mi perdo un paio di volte tra le viuzze del paese. Ma
poi, grazie all'unico essere umano incontrato per caso accanto ad una
fontana ed alla mia conoscenza dell'idioma locale, trovo la retta
via. Mi raccomanda, l'anziano passante, di fare attenzione, perché è
in arrivo una gara... Già!
Rieccomi sul tracciato
ufficiale della gara: neanche a farlo apposta, cinque minuti dopo mi
raggiungono i primi corridori del percorso corto. Sono le nove e
mezza, più o meno... Significa che questi missili hanno impiegato
due ore e mezza ad andare da Cuneo a Pradleves, salire al Fauniera,
scendere ed arrivare qui. Inimmaginabile.
Non pensavo davvero che
le gambe potessero ancora correre così. Tutto, o quasi, merito
dell'entusiasmo. Ora che i ciclisti mi arrivano alle spalle, ora che
la presenza di una maglia della gara ciclistica indosso ad una
podista comincia a suscitare curiosità, ora che sento il traguardo,
è tutta un'altra cosa. Anche se in mezzo c'è ancora la Madonna del
Colletto, circa nove km di salita che non perdona.
Ivano mi raggiunge, anche
lui con la maglia della gara. Anche questo, accorgimento quanto mai
strategico per consentire il passaggio senza problemi allo scooter
anche nei tratti in cui il traffico è bloccato per il passaggio
della corsa. Chi potrebbe dire che la moto non fa parte della
carovana della gara ciclistica?
Ancora qualche centinaio
di metri in piano, prima del bivio per l'ultima salita. Ho il
terrore, in verità, che lo scooter possa causare impiccio o, peggio,
cadute ai ciclisti che ci arrivano a frotte alle spalle: soprattutto
ai primi, che viaggiano spediti senza badare troppo ai possibili
ostacoli. Dovrei fidarmi un po' di più... Mangio ancora qualche
barretta, prendo la borraccia piena. Per adesso non fa caldo: il
cielo è velato e spero rimanga tale. Un caldo pari a quello di ieri
sarebbe letale.
Al bivio mi precede
Ivano, che ha già sparso la voce tra gli spettatori presenti: un
applauso di incoraggiamento è quel che mi ci vuole. C'è davvero
tanta gente, lungo la salita. Alterno passo e corsa, schivo gli
spettatori che invadono la strada, cerco di stare il più possibile
di lato per non dare fastidio ai ciclisti. Poi, quando le rampe si
fanno decise, mi rassegno a camminare, ma con tutt'altra andatura
rispetto a quella della scorsa notte. Molti ciclisti notano la
maglia: si sprecano le domande del tipo “Dove hai lasciato la
bici”, a cui di norma rispondo con “L'ho dimenticata” oppure
“Me l'hanno rubata”. Ma c'è anche qualcuno che, con mia grande
sorpresa, conosce il motivo per cui io sono lì. E poi ci sono i
compagni di squadra del Team Nordovest e gli amici di Facebook:
insomma, l'incoraggiamento non mi manca. Per tacere di chi, più che
la maglia color ciclamino, si fa distrarre dal pantaloncino molto,
molto sgambato. Mi ribalto dalle risate quando un ciclista mi chiede
di poter toccare con mano: “Se porta fortuna, fai pure”,
rispondo. “Se porta fortuna non lo so, ma è tanto bello...”. Che
volete farci, dalla vanità non sono certo immune.
Le rampe secche si
alternano a tratti quasi in piano. Il frastuono della musica al
ristoro sul colle si sente molto prima di arrivarci: mancano ancora
almeno un paio di km... Ed ' un coro di ciclisti che domandano,
estenuati, quanto manchi ancora alla cima. Io stessa, pur avendo
percorso più volte questa salita in bici, in questo momento non ne
ricordo quasi nulla. Ma ormai non può mancare molto. E comunque non
mi interessa, in cima io ci arrivo, a qualsiasi costo!
Ultimo rettilineo prima
del colle. Musica a tutto volume. Io tirerei dritto senza fermarmi...
Ma Ivano mi intima l'alt, almeno per qualche minuto. Un panino,
qualche fragola e diversi bicchieri di Coca Cola. Mi sento una ladra
ad approfittare del ristoro, io che non sono nemmeno iscritta. Mentre
rifiato, seduta sul muretto di fronte alla chiesetta, presto orecchio
alle notizie che giungono dalla radio del punto di soccorso: pare che
più di un ciclista abbia avuto la sciagurata idea di schiantarsi in
discesa. Vuoi per la pioggia, vuoi per l'incoscienza. Più per la
seconda, a mio parere. Infatti, i sei km di discesa successivi sono
da brivido: mi tengo il più possibile di lato, addirittura fuori
dall'asfalto se c'è spazio, ma i proiettili che mi sfrecciano
accanto fanno paura. Ma che senso ha? Ormai i primi sono passati da
un'ora e mezza almeno... Ma perché rischiare così tanto? Perché
lanciare invettive se qualcuno osa scendere con un po' più di
cautela? Non posso che associarmi al rimprovero canzonatorio diretto
da un ciclista “normale” ad uno di questi pazzi: “Ma dove caxxo
vuoi andare?”.
Sei km di discesa sono
lunghi, soprattutto se le pendenze sono severe come in questo tratto.
E' una coltellata nelle gambe ad ogni passo. Ho raccomandato ad Ivano
di scendere direttamente a Valdieri, senza fare soste intermedie, per
limitare i rischi di incidenti. Mi aspetto di trovarlo là.
A fondovalle arrivo dopo
un tragitto che mi sembra eterno: ormai Cuneo è vicina, ma non
ancora così vicina. Tocca portare ancora pazienza, perché gli
ultimi km saranno anche i più penosi. In paese seguo il percorso dei
ciclisti: Ivano aveva pensato un tragitto diverso, possibile a piedi,
per abbreviare il tracciato che conduce alla strada di fondovalle, ma
io preferisco evitare il rischio di sbagliare strada. E poi i
ciclisti, adesso, sono la mia compagnia ed il mio sprone.
Quando mi immetto sulla
strada statale, con l'incrocio ben presidiato da Carabinieri e
volontari, un militare mi chiede esterrefatto: “Non dirmi che hai
fatto tutto il giro”. Eccome, sono partita ieri...
Da qui, mi resta la lunga
galoppata finale. Dovrò attingere alle forze che non ho più ed alla
pazienza che ormai sta svanendo. Di Ivano nemmeno l'ombra, ma so di
essere sulla strada giusta. Arriverà...
Mi ferma una persona a
bordo strada. Dice che il mio amico sullo scooter è già andato
avanti. Ok... Non so cos'abbia in mente, ma va bene. Quanto mancherà,
da qui? Da dodici a quattordici km, secondo i miei calcoli. Pianura,
leggera salita, leggera discesa. Calma, Gian, calma. Ormai è fatta,
prima o poi arrivi, anche se di qua in poi sarà puro supplizio.
Anche perché il sole ha fatto capolino ed ha tutta l'aria di voler
scaldare dinuovo.
Vedo Ivano che arriva
nella corsia opposta. Trafelato: gli avevano dato un'informazione
sbagliata, pensava che io fossi più avanti. Ha rischiato la sanzione
per aver invertito la marcia: in teoria, la strada sarebbe chiusa
alle auto... Anche se a me non sembra proprio, visto che, ad ondate,
le auto circolano in entrambi i sensi di marcia. Ma in questo
momento, nemmeno un colpo di fucile potrebbe fermarlo. E' quasi più
entusiasta lui di me...
Appena oltre Andonno, ci
sorpassano i primi ciclisti del percorso lungo, almeno così mi
sembra di capire. Intanto arrivano ancora concorrenti del percorso
breve, con andatura ed equipaggiamento via via più turistici. Quasi
tutti hanno una parola per me, che sia di incoraggiamento o
canzonatoria poco importa. Va bene tutto.
Ancora una breve sosta su
un'ampia piazzola. Le forze sono, davvero, al lumicino. Solo qualche
minuto per sedermi e rifiatare, ma con ben altro spirito rispetto
alle soste agonizzanti della notte. Mi rialzo con un po' di fatica,
più che mai inchiodata. Riparto, ancora una volta.
A Borgo San Dalmazzo, la
scorta mi conduce per un breve tratto fuori dal percorso della gara,
che segue un anello per evitare l'abitato, effettivamente poco
sensato per chi si muove a piedi. Ma si tratta di un km o poco più.
Ricomincia a piovere, goccioloni sparsi, che a me fanno solo piacere.
Ancora cinque o sei km: un'eternità... Devo tenere duro, perché
davvero non ne posso più. Sbotto: “Io ne avrei quasi le palle
piene...”. E Ivano non può che approvare. Insomma: la compagnia
dei ciclisti è preziosissima, ma se qualcuno mi chiede ancora dove
io abbia lasciato la bici, giuro che lo disarciono e lo butto nel
fosso... Un po' di fantasia, che diamine!
Il percorso devia su una
stradina secondaria in mezzo ai campi coltivati. Si vedono le prime
propaggini di Cuneo. Non credo d'esser mai stata tanto felice di
scorgere il profilo del palazzone dell'Agenzia delle Entrate... Anche
se so che, dal centro, è ancora parecchio distante.
Quando ormai manca poco
all'imbocco del Viale degli Angeli, una voce nota alle mie spalle:
“Gian!”. E' Matteo, che sta per concludere il percorso lungo in
bici. “Ci vediamo al traguardo”, faccio in tempo a dire, mentre
lo sento spiegare al suo incredulo compagno di viaggio che io ho
seguito il loro stesso tragitto, ma a piedi. Ormai è gioia allo
stato puro, ma non so se ridere o piangere. Propendo nettamente per
la prima opzione quando Ivano mi raggiunge e mi racconta il dialogo
surreale con una madama seduta al fresco degli alberi del viale. La
madama sì è stupita di vedermi passare a piedi con la stessa maglia
dei ciclisti; la mia scorta, da buon filibustiere, le ha spiegato che
la mia bici era stata rubata... E che quindi io ero stata costretta a
far la gara a piedi. Accorata e sincera l'indignazione dell'anziana
signora: “Ma che ladri... Ma in che tempi viviamo!”.
La passerella del Viale
degli Angeli, per l'occasione chiuso alle auto, non me la leva
nessuno. Anche se ormai sono talmente sfinita che arrivo persino ad
odiare questo meraviglioso viale alberato ed a desiderarne, solo per
un momento, l'abbattimento totale... Ivano avverte per telefono gli
organizzatori del mio imminente arrivo. Intanto Matteo, che nel
frattempo ha tagliato il traguardo, torna indietro in bici. Così,
per l'ultimo chilometro agognato, il centoottantesimo o giù di lì,
di scorte ne ho ben due... E con entrambe arrivo, incredula, in
Piazza Galimberti. Passo sotto l'arco quasi con imbarazzo, come se
fossi un'intrusa... Ma la festa finale è anche per me, con tanto di
palco e di ricchissimo premio, quasi fossi un po' vincitrice anche
io. Infatti lo sono, anzi lo siamo, in due, visto che nulla di tutto
ciò sarebbe stato possibile senza l'aiuto di Ivano. Io ci ho messo
le gambe, ma la testa e tutto il resto ce li ha messi lui. Se si
proponesse in affitto come uomo scorta per le corse podistiche,
avrebbe prospettive di luminosissima carriera! Insomma: sono, anzi
siamo, ecco, siamo la prima persona ad aver percorso la granfondo
ciclistica Fausto Coppi, percorso lungo, senza bicicletta. Detta
così, sì, fa un certo effetto!
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