domenica 21 settembre 2008

Una strana mezza avventura intorno al Bianco

Me l'han detto tutti, che sto per fare una gran boiata. Chi in modo più diplomatico, chi più colorito ed esplicito, ma il senso è sempre quello: non è una gita in montagna, non è una prova di forza e di fatica, quella che ti sei inventata; è una boiata, punto e basta. E' insensato, è pericoloso, puoi farti male, patire il freddo e non ci sarà nessuno a soccorrerti. E pure, nell'ipotesi pressoché irrealizzabile che tu non abbia guai collaterali, non ce la farai mai. Beh, che dire: meno male che esistono gli amici, per farmi coraggio. Io però son fatta così, sono bastian contrario; qualsiasi tentativo di dissuadermi da un mio progetto non è altro che il più efficace degli incentivi a provarci; salvo poi sbattere, il più delle volte, una sonora nasata contro il muro ed ammettere – tra me e me, perché di fronte ad altri non cederei mai – che sì, effettivamente ho fatto una boiata.

Non era ancora passata mezz'ora dal momento in cui avevo tagliato il traguardo del trail Courmayeur – Champex – Chamonix (ma sarebbe meglio dire, avevo strisciato sulla linea del traguardo), che già nella mia testa confusa e provata dalla carenza di ossigeno si faceva strada un pensiero: “Ma quanto sarebbe bello poter provare il percorso intero dell'Ultra Trail...” Per i non addetti ai lavori, il percorso intero consiste in un giro da 166 km e 9.400 m di dislivello, da percorrere ovviamente tutti in una botta e, in gara, entro il tempo massimo di 40 ore. Ecco, quel pensiero lì s'è abbarbicato alle mie poche e malconce cellule grigie, a mo' di boa constrictor intorno alla preda: la macchina organizzativa, come dicono ai tiggì, s'è messa in moto. Subdola, come sempre, a lavorare nell'ombra, mentre la porzione razionale del mio cervello bada alle futili incombenze quotidiane, il lavoro, la pappatoria, gli spostamenti in auto, le pulizie. Quando provare, come provare, soprattutto, come reperire la cartina del percorso: questioni liquidate in fretta, una ad una, perché la pianificazione non è roba per me; di solito mi riduco ad affrontare i problemi nel momento in cui si presentano. Quando: il fine settimana del 20 e 21 settembre, uno dei pochi liberi da impegni ciclo-podistici già fissati. Come: probabilmente da sola, visto che trovare una compagnia per un giro del genere è più difficile che scovare un pozzo di petrolio nel giardino. La cartina: meno male che esiste Internet...
Chiunque venga a sapere di questa mia iniziativa mi mette sul chi va là. A quest'epoca fa già freddo, alle quote dell'UTMB e così vicino al Monte Bianco troverai temperature vicine allo zero, se non sotto, e magari anche neve; non sei abituata a girare per sentieri da sola, rischi di perderti, rischi di farti male e di non poter chiedere aiuto; la notte è una brutta bestia. Lascia perdere, allenati in altro modo, vai a pedalare, vai a camminare se vuoi, ma su strade note, su percorsi più brevi... Insomma, l'ottimismo è il sale della vita, recitava un'insopportabile spot pubblicitario di qualche tempo fa. Tutto vero, me ne rendo perfettamente conto; però, la voglia di provare è tanta, davvero tanta. Non so perché, proprio lì, proprio quel giro; insomma, in ventisette anni di esistenza non ho mai visto il Monte Bianco e quest'anno, invece, è stato amore a prima vista, non posso più farne a meno, anche se mi devo accontentare di guardarlo col naso all'insù. Difficile, anche per me stessa che ne sono la fonte, dare una spiegazione razionale a questi attacchi, quasi fossero crisi di astinenza da placare il più presto possibile, a pena di insoddisfazione, senso di incapacità e rinuncia.
Ci penso giorni e giorni, sempre più intensamente man mano che il giorno fatidico si avvicina. Ho provato a sondare il terreno, cercare qualcuno che fosse disposto a condividere con me l'avventura, ma tutti, per una ragione o per l'altra, mi han risposto picche. Anzi, qualcuno non mi ha risposto affatto. Pazienza, faccio spallucce, meglio soli che male accompagnati: vorrei con questo convincermi che basterò a me stessa, che ce la potrò fare comunque, ma non ci riesco, proprio no. Scrivo e racconto a mezzo mondo le mie intenzioni: lo so, rischio di farci una figuraccia, anzi sicuro ci farò una figuraccia, ma serve a me, per costringermi a provarci davvero, per non avere più possibilità di rinuncia, un po' come far saltare per aria il ponte appena attraversato. Chissà, se finissi nelle grinfie di uno psichiatra, sui percorsi della mia mente contorta ci si potrebbe scrivere un paio di tomi.
Due giorni prima, cioè giovedì scorso, mi rigiro tra le mani la cartina del percorso, stampata a sezioni su diciassette fogli che ho accuratamente messo in sequenza e numerato. Vista così, non pare troppo difficile orientarsi: i sentieri dovrebbero essere ben segnalati, ampi, facili da percorrere e da individuare. Ripeto come una litanìa i nomi dei luoghi che toccherò, dei rifugi accanto a cui dovrei passare – molti secondo me saranno già chiusi – e le quote a cui dovrei arrivare, cercando di immaginare un'improbabile tabella di marcia. Ma è tutto molto, troppo vago, perché è vero che ho una voglia incontrollabile di partire, ma è anche vero che stavolta vado incontro all'ignoto e lo so, e ne ho una paura dannata. Paura che cresce quando, venerdì a mezzogiorno, preparo lo zaino, mettendoci dentro tanta roba da mangiare ed ancor più roba per coprirmi, e medicinali e documenti e luci e batterie. Ma sei sicura, Gian? Sicura sicura? Oh insomma, è tutto pronto ormai. Non ci si tira più indietro.

Parto da casa poco dopo le cinque del pomeriggio. Guido come un automa, mi sorbisco la coda in tangenziale a Torino senza fiatare, con il chiodo più fisso che mai. Il cuore batte all'impazzata, anche ora che sono ferma e seduta. Ecco, diciamo che non mi sento proprio così convinta... Insomma, il sentiero dovrei riuscire ad imbroccarlo; le previsioni meteo sono buone; sono ben equipaggiata contro il freddo... Cosa manca allora? Semplice, anche se vorrei poter dire che non è vero; manca qualcuno che sia la mia forza quando la paura prenderà il sopravvento, che trovi una soluzione quando si presenterà un guaio che non saprò risolvere. Eh no Gian, non puoi sempre pretendere che altri si accollino la tua follia; devi assumerti onori ed oneri di queste tue mattane. Provaci, in fondo provare non costa niente, giusto?

Schiaccio l'acceleratore, ma quasi mi dispiace d'arrivare a destinazione. Ora sono io di fronte a qualcosa che è enormemente più grande di me. Un montanaro che si rispetti potrebbe solo ridere a queste paure, ma io non rido affatto, anzi. Gian, attenzione, cerca di concentrarti un attimo e non dimenticare qui qualcosa che ti sarà poi indispensabile. Il rito è sempre lo stesso; pasta di Fissan su tutto il piede, doppie calze, scarpe da trekking; macchina fotografica pronta all'uso, nel taschino; berrettone di lana in testa; chiave dell'auto agganciata allo zaino. Via, dovrebbe esserci tutto, si parte. Ormai è quasi buio; le nevi del Bianco si distinguono appena nella figura scura. Tento una foto, ma vien fuori una schifezza. Poco male, avrò tempo per rimediare.
Sento addosso una tensione insopportabile, una stanchezza nei muscoli già tesi come se fossi alla fine e non all'inizio del giro; mi sforzo di stare calma, mi ripeto che non ha senso angosciarsi prima che se ne presenti il motivo, ma sembra facile... Il ponte che conduce da Dolonne a Courmayeur, su quell'impetuoso corso d'acqua che in tre mesi non ho ancora appurato come si chiami; da lì, qualche km di asfalto tra le case di Courmeyeur prima, di Villair poi. Incrocio qualche viandante serale, che senza dubbio, vedendomi, penserà che io stia tornando da un'escursione in cui ho fatto un po' tardi. Rumore di stoviglie, profumi di cena, qualche camino già acceso: il freddo è pungente, già qui a quota 1.200. Chissà lassù!
La strada in centro paese va a morire in uno sterrato. E' lì, quando mi lascio alle spalle le luci del paese, che mi rendo davvero conto di cosa sia il buio. C'è solo la mia frontale, man mano che vado avanti; vedo solo quel che appare nel mio cerchiolino di luce, tutto il resto è ombra, nero su nero; è altri sensi, udito, tatto, olfatto, ma non più vista. Sento il rumore del torrente ed il fruscio del vento tra le foglie, e sento persino il battito del mio cuore, incontrollabilmente impazzito. Posso raccontare a me stessa tutte le balle che voglio, ma non posso sperare che ci creda lui...

A sinistra della strada, sterrata ma carrozzabile, ecco il sentiero per il Rifugio Bertone, prima tappa, se così si può dire, del mio itinerario. Meno male che i sentieri sono segnalati in modo eccellente! I cartelli si leggono benissimo alla luce della frontale. I bastoncini, il mio esperimento di questa gita, si rivelano subito utili e comodi, non appena riesco a coordinarli con il mio passo. Il sentiero è splendido per i miei gusti: sale regolare ed abbastanza ripido, in mezzo alla vegetazione. Mi concentro sul passo, sul respiro, sui miei piedi e sulle punte dei bastoncini; di tanto in tanto alzo lo sguardo alla miriade di stelle, poi lo riporto giù a guardare oltre il bordo del sentiero, le luci del fondovalle laggiù, sempre più lontane. Va tutto bene, Gian, sta andando tutto bene, anche se fa freddo e se ogni tanto qualche volatile notturno ti sfreccia sopra la testa facendoti prendere un coccolone, e se qualche volta incroci occhi gialli che spariscono velocissimi in mezzo alla vegetazione. Fa freddo, ma va tutto bene, le gambe stanno bene, anche se hai i muscoli contratti in modo assurdo, come se fossi appesa a qualche parete strapiombante con le unghie e con i denti. Quasi non mi accorgo d'essere già oltre il bosco; c'è un bivio, controllo la carta per scrupolo, ma “Rifugio Bertone” è scritto sul cartello, lì, che mi mangia. Dietro una curva mi ritrovo una luce, una casa, gente che ancora si muove lì intorno. “Ancora”: insomma, pare tardissimo, ma non saranno nemmeno le dieci. Chissà se il rifugio è una di queste costruzioni? Certo che io sono proprio speciale per dimenticare luoghi e direzioni. Al rifugio sono stata tre settimane fa; d'accordo che ero in gara e quindi avevo ben altro per la testa che ammirare il panorama; però, possibile che proprio non mi ricordi nulla? Sarà che di notte tutti i gatti sono bigi.

Passo accanto alla prima casa illuminata, poi alla seconda. Qui si apre una porta; ne escono tre persone che saluto. Credo che per un attimo pensino agli effetti nefasti dell'alcool, perché, lì per lì, nessuno risponde. Pochi secondi dopo, uno di loro, timidamente, accenna un “Tutto ok?”. Mi fermo, mi volto, ne approfitto per chiedere: “E' giusto di qua per il Rifugio Bonatti?”. Perplessi, mi invitano ad entrare; guardiamo insieme la cartina che ho in mano. Sì, è giusto... Ma vuoi andare su a quest'ora? Ma perché? Sei sicura? Guarda, se vuoi qui un posto per dormire ce l'abbiamo... Sorrido tra me e me, pensando alla proverbiale durezza del carattere del montanaro: queste persone non solo non sono affatto dure, ma appaiono davvero preoccupate, sinceramente, per la mia sorte. Ma sei da sola? Sì, sono da sola, come vedete... Ma guarda che lassù fa freddo, tanto freddo; guarda che il Rifugio Bonatti lo trovi ancora aperto, ma l'Elena no, non più. Fai attenzionealle bestie, guarda che ci sono i lupi... A questa frase, un brivido giù per la schiena: mi torna in mente l'incontro notturno con il presunto lupo, quello che Matteo ed io avevamo avuto nottetempo mentre facevamo la prova del percorso del Trail Valdigne; presunto, ma comunque preoccupante, almeno per me che, per non saper né leggere né scrivere, mi ero terrorizzata. Ma non c'è santo che tenga, adesso. Manco mi dicessero che c'è l'abominevole uomo delle nevi, mi fermerei... Saluto, proseguo; sento nella schiena i loro sguardi perplessi, posso immaginare i loro commenti.

Pochi metri di salita ripida, poi il bivio di cui mi hanno parlato: devo prendere a sinistra, come conferma il classico cartello giallo. "Rifugio Bonatti, sentiero 1", da qui lo danno per 2h 30', secondo me un'esagerazione, conoscendo le stime di questi tempi. Imbocco un sentiero che arrivo ben presto ad odiare: non sale, non scende, va su e giù, un po' in mezzo alla vegetazione, un po' al nulla. Alzo finalmente lo sguardo da terra, cosa che mi ero dimenticata di fare: davanti a me si scorge chiaramente il profilo del Bianco, i ghiacci, le luci delle costruzioni che credo siano funivie e simili; giù in basso, invece, quelle della "civiltà". E' un attimo di conforto, anche questo del tutto irrazionale: mi sembra di non essere davvero sola in mezzo ai monti, anche se poi tra me e laggiù c'è almeno un'ora abbondante di cammino, visto che io in discesa non sono un fulmine. E poi, che senso ha, cercare il sollievo della presenza umana, quando sono io stessa che me ne sto volontariamente allontanando?
Di tanto in tanto, qualche pensiero mi allontana da qui e mi permette di procedere tranquilla per qualche minuto, ma poi, prepotente, ritorna l'inquietudine. Ma dove vuoi andare, Gian, in questo stato? Stai camminando sul filo del rasoio; credi di essere forte ma sei nient'altro che un pavido coniglio! Senza offesa per i conigli, povere bestiole. Il vento ulula in mezzo alle fronde dei pochi alberi e li scuote violentemente. Andiamo bene... Se dopo due ore sono in questo stato, due notti così e ne esco con un'ulcera!
Un bivio: e mò che faccio? Indicazioni, qui, zero... Prendo a sinistra, perché poco più in là c'è un cartello: nulla, però, che faccia al caso mio. Decido che la mia direzione è a destra, poi si vedrà. Attraverso un pianoro sferzato dal vento; in lontananza, alcune luci che credo siano alpeggi. Però... La mia frontale illumina due lucine molto più vicine, appena più in basso, in mezzo al prato. Mi fermo, le fisso: due lucine così vicine tra loro non possono essere che gli occhi di qualche animale. Ma sono enormi... Ed immobili! Continuo a fissarle: ritmicamente l'una o l'altra si "spengono" e lentamente si riaccendono, è evidentemente un battito di palpebre, ma chissà che razza di bestia è, per restare così immobile... E per avere occhi così grandi? Dubito che si tratti del Lupo Cattivo di Cappuccetto Rosso, che pure ha gli occhi grandi; mi viene da pensare che possa trattarsi di un gufo, anche se non so bene cosa ci stia a fare un gufo in mezzo al prato. Ricordo gli occhioni sbarrati di un gufo in mezzo alla strada, una notte di qualche anno fa in cui viaggiavo per le Langhe... Abbagliato dai fanali dell'auto, se ne stava lì, immobile, e s'era spostato, volando via nel bosco, solo quando io ero scesa dall'auto e m'ero avvicinata. Probabilmente questa bestia qui è qualcosa di simile. Peccato non riuscire a vederla meglio.

Tiro dritto, anche perché basta fermarsi un attimo perché il freddo mi arrivi fin nelle ossa. Radura, ancora bosco, ancora prato. D'un tratto attraverso un ponticello e giungo ad un alpeggio: Arminaz, c'è scritto su una bella tavola di legno. Quota 2000 e rotti. Beh, ogni tanto c'è segno di vita; tirem'innanz. Percorro circa un chilometro e... D'improvviso, altri occhi gialli. Due, anzi quattro; anzi, sei. Proprio sul sentiero. Ahi ahi, mi sa che qui marca male. Sono abbastanza vicina per intuire che si tratta di cani, almeno credo, anche se nessuno di loro accenna ad abbaiare. Mi fermo un attimo: mi fissano, tutti e tre. Senza troppa convinzione, provo ad avanzare un poco, con il cuore che mi scoppia in mezzo alle orecchie. Ringhiano, un ringhio sommesso ma perentorio. Mi fermo ancora. Che faccio adesso? Provo a battere tra loro i bastoncini; sembra che la cosa li spaventi, indietreggiano un po', ma poi tornano sui loro passi. Provo io a fare un passo indietro, altro ringhio. Oh porca paletta. Ma perché ce l'avete proprio con me, io che i cani li adoro? Indugio un po', non so proprio cosa fare; provare a passare, con il rischio di invadere un loro presunto territorio e farmi mordere? Restare lì ed aspettare che se ne vadano? Boh... Quel che è certo è che, se mi imbambolo qui così come sono, tempo trenta secondi e sono una statua di ghiaccio. No, questa è l'unica soluzione che di certo va scartata. Ritento un passo indietro, poi un altro: ringhiano ma non si muovono. Così, con somma cautela, mi allontano un po'; poi, quando mi par d'essere abbastanza al sicuro, mi volto e mi allontano. Bene Gian, adesso si tratta di decidere cosa fare. Abbandonare e tornare indietro? No, questo no, non se ne parla nemmeno. Il mio primo pensiero va all'alpeggio di Arminaz, che mi ero da poco lasciata alle spalle. Avevo notato, da una parte, un edificio abitato e, dall'altra, una catapecchia che potrebbe proprio fare al caso mio. Un problema per volta: potrei tornare lì, sistemarmi almeno un po' al riparo dal vento e meditare sul da farsi. Sperando che il margaro non si spaventi e non esca con la doppietta, che altrimenti casco dalla padella nella brace!

Raggiungo in fretta il luogo prescelto per la mia tappa forzata: non mi azzardo ad entrare nella costruzione che mi pare poco solida, ma mi siedo a terra contro la parete che offre riparo dal vento. Di fronte a me, una scena di una bellezza struggente: il Bianco, le stelle. E' vero, ho un problema, ma non riesco a rammaricarmi d'essere qui, nemmeno quando mi accorgo che il freddo è cattivo davvero, che i cinque strati che ho appena indossato sul torace non basteranno a risparmiarmi i brividi.
Forse dovrei sentirmi un po' pirla. Un po' tanto. Ma, in fondo, perché? Per un attimo, è come se mi dimenticassi il motivo per cui sono qui, il progetto folle, i cani, il sentiero. Sarà il freddo che intirizzisce anche il cervello, che già fa un po' fatica anche alle normali temperature di casa mia, ma è bellissimo questo posto, ed è bellissima questa situazione. Non riesco a staccare gli occhi dallo spettacolo che ho davanti. Mani e piedi sono andati, già irrigiditi dal freddo, ma di certo la temperatura qui non è tale da causare congelamenti, quindi non mi preoccupo. Sto tremando, sto battendo i denti, se ne sentirà l'eco dall'altra parte della valle, ma che importa?
Di tanto in tanto mi assopisco, poi mi risveglio ibernata, mi muovo un po'. Non so perché, ma dalla mia mente è completamente scomparso il proposito di provare a ripartire, adesso. Che ora sarà? Boh, potrebbero essere le undici, poco più; basterebbe che accendessi il cellulare per vederlo, ma in fondo non importa. Ormai ho raggiunto, con molta serenità, la consapevolezza che tutti coloro che hanno tentato di dissuadermi dall'impresa avevano ragione: non ce la farò mai. Ma non per il pericolo, per la fatica o chissà cosa: per carità, la fatica sarebbe arrivata comunque e mi avrebbe messa KO, molto più in là. No no, l'ostacolo unico e vero sono io me medesima, che vorrei esser leone e poi ho paura della mia stessa ombra. Persino adesso, di notte, quando l'ombra non si vede. S'è alzata una splendida luna, non piena ma che illumina la valle di una luce fredda, quasi azzurra, e che pian piano illumina i miei piedi e sale su lungo le gambe irrigidite. Potrei attendere la luce dell'alba e ripartire; mi resterebbero 17-18 ore del sabato e 24 della domenica, per poi essere almeno fisicamente in ufficio lunedì; sarebbero sufficienti. Già, ma chi mi assicura che la prossima notte non finirà come questa? Gian, parliamoci chiaro, non hai gli attributi per stare in giro la notte su sentiero. E' evidente. Se la prossima notte salta, è altrettanto evidente che due giorni, parlando delle sole ore di luce, non ti basteranno a fare tutto il giro. Ora che la dura realtà ce l'hai in faccia, la vuoi ammettere oppure no?
E' difficile decidere, così, di gettare tutto alle ortiche. Anche se ci ero preparata, anche se in fondo lo sapevo già, che sarebbe finita così, e che tutte le mie paure erano proprio rivolte a questo. Basta un niente e le mie certezze già traballanti rovinano in pezzi... Un po' come le scariche di pietre che rotolano a valle con un rombo sordo da qualche parte laggiù, dalle pareti di fronte a me. Dormicchio e sogno, mi risveglio ma non del tutto, tremo ancora: quant'è lunga la notte. Ogni tanto mi distendo, ma è freddo per terra; torno a sedermi. Dovrei muovermi, scrollarmi un po', ma è quasi come se il comando dal cervello non riuscisse ad arrivare agli arti; è come se fossi intontita, ipnotizzata.



Poi, il sonno ha il sopravvento; me ne rendo conto quando apro un occhio e vedo che il profilo delle montagne comincia appena a scorgersi contro un cielo un po' meno nero. Arriva l'alba. A fatica, mi rimetto in piedi: ho male dappertutto, alla schiena, alle spalle, alle gambe. I piedi ci sono, ancora gelati ma pare mi reggano; la gola che quasi brucia, le dita che devo scuotere ben bene perché riprendano sensibilità. Quasi non ricordo d'averci pensato, eppure ho già deciso cosa farò oggi: in primis, andrò al Gran Col Ferret. E farò tante foto a lui, Sua Maestà, che pian piano si sta delineando contro un cielo meravigliosamente blu. Peccato che io abbia appena comprato questa macchinetta fotografica e non sia ancora troppo pratica; le foto senza luce vengono obbrobriose! Pazienza. Tanto, la luce non tarda a farsi più chiara, più limpida; colpisce prima la vetta, poi giù giù lungo il ghiacciaio, mentre la parte della valle dove sono io, opposta, vedrà il sole ben più tardi nella mattinata.



Filo di buon passo, un po' per scaldarmi, un po' perché ho deciso che questa giornata non va comunque sprecata: le gambe rispondono bene. Incontro, di lì a poco, un pastore con due tenerissimi cani che non manco di accarezzare: chissà, magari sono proprio loro che mi hanno sbarrato la via stanotte. Qualche parola: dove vai, sei da sola? Chissà perché il fatto di essere da sola deve destare così tanta curiosità... Sono partita da Courmayeur – sorvolo sul fatto che sono partita ieri sera – vado al Col Ferret, buon viaggio, si riparte. Di tanto in tanto, una foto alla montagna, al sentiero. Sì, confermo l'impressione che ho avuto ieri sera: questo tratto è davvero odioso. Mi rincuora la salita che passa accanto al Rifugio Bonatti, ma è un attimo; poi si ripiomba nel su e giù, mangia e bevi come direbbe un ciclista. Tira un vento maledetto, lo stesso che stanotte soffiava ininterrotto; fa davvero freddo. Per fortuna, il movimento mi fa stare un po' meglio; l'unico inconveniente è che lo stomaco per ora rifiuta di ricevere alcunché per colazione: sarà un problema, questo, più avanti. Per ora non c'è un'anima, km e km senza incontrare nessuno, se non mucche, qualche ragno, qualche lucertola. Sono certa di essere nello stesso posto dove sono passata durante il CCC: solo che il percorso UTMB, quello che ho seguito io adesso, "taglia" la prima cima, che non ricordo come si chiami. E non sono riuscita a capire dov'è che i due itinerari si ricongiungano. Probabilmente al Rifugio Bonatti.



Vabbuò, poco importa; alle nove, poco più, sono allo Chalet Val Ferret, all'attacco della salita del colle. Sì, proprio qui al CCC c'era il tendone del ristoro; ricordo che avevo riempito il mio bicchiere di ogni bene, e poi m'ero messa a mangiare proprio nel punto ripido iniziale della salita! Qui qualcuno c'è già: due coppie di escursionisti si avvicinano con me all'imbocco del sentiero. E qui scatta la voglia di sfida... Nelle cronoscalate non valgo una cippa, ma adesso che ho già un po' di km e dislivello nelle gambe, posso tentare di vendere cara la pelle. Parto per prima, sforzandomi di fare passi brevi e veloci, coordinando il movimento dei bastoncini e quello dei piedi; i miei avversari restano appena indietro, ma non mollano. Il primo salto di roccia, poi la vista splendida sulla testa della valle; breve tratto in piano, dove quasi corro per non farmi riprendere, poi il ponticello ed un altro strappo. Il vento è sempre più violento ed ovviamente contrario: mi sposta i bastoncini prima che io possa conficcarli nel terreno! In un attimo sono al rifugio; i miei avversari sono rimasti un po' indietro... Meglio che rallenti un po' anch'io, altrimenti scoppio. Certo che è una bella guerra tra poveri!

Avevano ragione i margari ieri sera: il Rifugio Elena è chiuso, sprangato. Da lì a su, il cartello dice 1h 10': no no, troppo, ci devo mettere di meno. Entusiasmo un po' esagerato, forse per fugare la delusione del mio sogno andato a monte; la pagherò! Anche perché la fatica non è affatto finita, anzi. Ricordo che, al CCC, proprio qui ho preso la prima cotta. E non posso dire di stare benissimo, nemmeno adesso: ho un po' di debolezza addosso, colpa della fame, del fatto che da ieri sera ho mangiato una sola barretta e basta, ma proprio la roba non va giù! Procedo a passo regolare, inveisco un po' contro il vento; mi distraggo, mi incasino, perdo il sentiero e risalgo in verticale il corso di un rivolo d'acqua... Poi mi fermo un attimo, guardo in giù, vedo il sentiero un po' più a destra e faticosamente ci ritorno. E' il tratto più duro, ma tra pochi tornanti si vedrà il colle. Infatti... Laggiù, contro il cielo. Ancora poco meno di un km di marcia, reso eterno dal fondo fangosissimo che incolla i piedi a terra. No, speriamo di non scivolare, che altrimenti mi ritrovo peggio di una statua di creta! Ma gli avversari sono ormai lontani; posso permettermi di cercare con calma la strada sull'erba, guadagnare la vetta, scattare una foto veloce e filare giù prima che il vento mi porti via!



Sono all'incirca le undici; poco più di un'ora dopo sono di ritorno allo Chalet, dove, al volo, mi godo una cioccolata calda e me ne esco con un enorme panino con fontina, da sbocconcellare durante la salita. Il pancino s'è sbloccato solo adesso.



In un attimo, supero la salitella sopra lo chalet e riprendo, a ritroso, l'interminabile sentiero verso il Rifugio Bonatt.i. Adesso, di gente ce n'è, anche troppa: ripiombo in fretta nella mia misantropia... Sarà che questo tratto è particolarmente facile e ben si adatta agli escursionisti di tutte le età e di tutti i gradi di allenamento. Però io friggo, le mie gambe non amano questi su e giù, per niente. E poi c'è il sonno che la fa da padrone... Però, però, a ben pensarci: c'è un prato stupendo esposto al sole, qui; un po' di vento ma non violentissimo; e se mi mettessi a nanna qualche minuto? Solo un po'?
Vigliaccamente cedo alla tentazione: punto la sveglia del cellulare un quarto d'ora dopo e mi stendo al sole, perdendo immediatamente conoscenza. Ovviamente il trillo arriva troppo presto; mi risveglio con un gran mal di testa, come se avessi dormito profondamente per ore. Bando agli indugi, si riparte, la marcia è ancora lunga. Non ne ho abbastanza: c'è tempo e gamba ancora per una salita. Scelgo una meta già nota, il Colle Licony: un po' perché lo conosco già e quindi non avrò problemi di sentiero, un po' perché è bellissimo e vorrei rivederlo con la luce del tramonto, un po' perché ne ho uno splendido ricordo, anzi due.

Mi pare d'impiegare un'eternità a raggiungere il Rifugio Bonatti, adesso brulicante di gente; riempo la borraccia alla fontana e mi rimetto in cammino. Un'altra eternità, anche più lunga, per arrivare al Bertone, ritrovando ad ogni passo i posti attraversati in mattinata e soprattutto il mio precario giaciglio della notte precedente. Cavoli, ma davvero ho dormito lì? Il torrente, la risalita, le mucche, il bivio e poco sotto la borgata. Proprio qui ritrovo due dei tre personaggi che avevo incontrato la sera precedente: "Allora, com'è andato il giro?". A dire la verità, ho poca voglia di parlarne; me la cavo con un generico "Non sono stata bene", che è una bugia, ma davvero non ho voglia di attaccare bottone. Maleducata che non sono altro, anche perché uno di loro mi rincuora: "Dai, ci riproverai, l'anno prossimo fai la gara!". Che bestiaccia ignobile che sono... Saluto e proseguo verso la discesa più ripida su Courmayeur. Laggiù in fondo, lontanissima. Certo che, tra foto, soste per la nanna, choacchierate qua e là, me la son presa davvero comoda, anche troppo: arrivo giù che sono passate le quattro del pomeriggio, anche se la luce è già quella fioca del tardo pomeriggio autunnale. Vabbè, pazienza, ho tutto il tempo ed ho anche le luci; il Licony non me lo leva nessuno. Ripercorro il tratto di strada asfaltata che va poi a morire nel bosco, in mezzo ad un gran traffico di auto e turisti; ricordo che i tornanti si potevano in qualche modo tagliare attraverso la pineta, ma non ho più idea di quali siano le scorciatoie, così rinuncio e resto sull'asfalto finché c'è. Poi il bosco e, a sinistra, il sentiero che si inerpica su, bello ripido: finalmente. Ricordavo che il tratto iniziale è abbastanza cattivo; lo affronto piano, con calma, tanto oggi non c'è nessuna gara, non più. Ne approfitto anche per raccogliere la solita pigna da aggiungere al mio mucchietto, a casa: ne ho di tutte le dimensioni... Questa però è piccolina; son più belle quelle grosse e legnose che ho raccolto non so più dove, forse nella zona del Marguareis, o forse ai Tre Comuni l'anno scorso... Boh. Finché il sentiero sale così, regolare, sto bene. Sono sola, solissima: si vede che il grosso degli escursionisti è già in dirittura d'arrivo verso la cena... Il lungo traverso a sinistra mi porta fuori dal bosco, in mezzo ai prati, finalmente ancora una volta di fronte al ghiacciaio, ormai con la luce della sera, dolce, attenuata. Anche il vento sembra volersi calmare, ma il freddo è dinuovo pungente. Mi rimetto il berretto di lana, tiro su la fascia di pile davanti al naso; ormai non manca molto. Ancora un po' di saliscendi, poi il canale finale: la cima è lassù. Soffro ed inveisco scivolando mille volte sulle pietre... E d'improvviso faccio una orrenda scoperta: già, Gian, è vero che quassù sei già arrivata... Ma le altre volte sei scesa giù dall'altra parte! Adesso invece ti tocca ridiscendere di qua, te ne rendi conto??? Cavoli, è vero, porcaccia miseria... Ma che ci posso fare? Sono ad un centinaio di metri sotto la meta, sarà già che rinuncio qui! Faticosamente arranco fino al colle e mi siedo un attimo a godermi lo spettacolo. Mi affaccio di là, sul lago, già in veste notturna, tutto in ombra, mentre la cima del massiccio del Bianco è ancora illuminata. E qui, altra scoperta dell'acqua calda: avrei dovuto sapere che, quando si compra un apparecchio elettronico, le batterie che ci son già dentro bastano appena per farlo accendere e spegnere in prova... Infatti, provo a premere il bottoncino, on/off, ma non c'è reazione. Muta & silente. Maledetto aggeggio, mi verrebbe già voglia di farlo arrivare a Courmayeur con traiettoria parabolica... Provo con il cellulare, ma le foto con questa luce sono una chiazza di colore incomprensibile e, chissà perché, con le tonalità invertite, scuri al posto dei chiari e viceversa. Dò colpa al telefono, ma probabilmente sono io che non ci capisco una fava.

Amen, qui è meglio che mi muova, fa un freddo boia adesso. In effetti, intorno a me c'è già un po' di neve, un anticipo d'inverno; del resto siamo più o meno a quota 2.600, se non ricordo male. Prendo il coraggio a quattro mani e torno giù per il canalino, inciampandomi ed incespicando ad ogni passo; sarà anche la fretta, ho voglia di arrivare giù. In fondo è così: se sono costretta a marciare per ore ed ore, costretta nel senso che ho, ad esempio, un percorso da portare a termine in un trail, allora tiro avanti senza protestare finché ce n'è, ma se devo seguire un percorso "di ripiego", improvvisato, come oggi, allora la mia volontà vacilla. Vorrei essere già giù all'auto, e invece ho ancora un migliaio di metri di discesa, forse un po' meno.
Incappo nella seconda marmotta della giornata, decisamente ritardataria direi: che belle, le marmottone ciccione alla fine dell'estate! Ma che ci fai ancora in giro a quest'ora? La domanda potrebbe essere reciproca...

Continuo la discesa un po' in trance, in preda alla fame, sbranando il mio pacchetto di frutta secca e domandandomi da che frutto possano arrivare i pezzetti rossi: forse anguria rinsecchita? Uhm, la vedo dura! Voio la macchina, basta...
Arrivo a Courmayeur che è ormai notte, in mezzo al passeggio serale dei turisti e dei locals. Ancora una volta sono al parcheggio del centro sportivo di Dolonne: butto tutto in auto, via. Non è ancora detta l'ultima parola, però: ho già altre idee per il futuro!

lunedì 1 settembre 2008

29-30 agosto 2008: Trail Courmayeur - Champex - Chamonix

"Non possiamo darti il numero di gara senza controllare lo zaino!". Oh cavoli, cominciamo bene... Siamo appena arrivati e già abbiamo un problema. Gli addetti alla distribuzione dei pacchi gara sono inflessibili: non si parte senza aver superato il controllo del materiale obbligatorio. E noi abbiamo lasciato gli zaini in auto e l'auto ad un km buono da qui, a Dolonne, nel parcheggio di fronte al centro sportivo: già, perché a Courmayeur non c'è un buco dove poter piazzare la quattro ruote senza dover accendere un mutuo per il pedaggio; anzi, oggi non c'è un buco e basta; anche i parcheggi a pagamento e gli pseudoparcheggi abusivi sono pieni!
Pazienza, s'ha da fare. Mi giro verso Matteo, bisogna tornare giù a prender gli zaini: anche lui strabuzza gli occhi, non è troppo contento dell'idea, ma qui non si discute. E poi, in fondo, è ancora presto: sono le otto e mezza; la distribuzione pacchi è attiva fino alle dieci e mezza.
Il centro di Courmayeur brulica già di gente: corridori, accompagnatori, turisti e semplici curiosi. Il brusio ed il movimento crescono con il passare dei minuti: son già tantissimi gli atleti pronti e scattanti per la partenza, che pure è fissata per le 11. Matteo ed io siamo un po' disorientati: forse è anche colpa nostra, forse sarebbe bastata un po' di attenzione in più al sito Internet della corsa ed ai dettagli di regolamento; forse è la nostra convinzione, tutta italiana, che le norme teoriche siano una cosa e la pratica sia tutt'altra... Torniamo a Dolonne viaggiando in senso contrario alla fiumana di gente che si sposta verso Courmayeur, in mezzo ai tavolini dei bar affollati di persone che fanno la prima, la seconda, l'ennesima colazione: un po' per immagazzinare calorie, un po' per ammazzare la tensione, scambiarsi impressioni e sorrisi un po' forzati, di quelli che servono più che altro a rassicurare se stessi.
E' strano: nonostante l'atmosfera da imminente evento sia palpabile, per adesso non sono minimamente agitata. Probabilmente è anche merito del fatto che, negli ultimi due mesi, sono già stata qui due volte prima d'ora; ormai questo paesello lo conosco abbastanza da potermi muovere senza dover perdere tempo a girare, chiedere informazioni, consultare cartine per orientarmi. Ancor più strano il fatto che invece sia più nervoso Matteo, lui che di solito è l'imperturbabilità fatta persona. Che in fondo sia umano anche lui? O forse è proprio lui, la ragione della mia tranquillità. Ha deciso che farà la corsa insieme a me: da una parte, mi dispiace, perché è evidente che avrebbe la possibilità di conquistare un risultato molto migliore del mio, se viaggiasse al ritmo che le sue doti fisiche, il suo allenamento e la sua esperienza gli consentono; dall'altra, però, so che, insieme a lui, tutto quel che dovrò fare io sarà la fatica, e quella non mi spaventa; per qualsiasi altro problema, so che Matteo avrà la soluzione.

Butto l'occhio alle vetrine della via centrale e proprio non posso fare a meno di avvertire un certo fastidio per quel che vedo: è tutto così sfarzoso, così impomatato, così finto, sembra un parco dei divertimenti, non una città. Tutto fatto per quel tipo di turismo che proprio non mi va giù... Il turismo dei souvenir e delle marmotte di pelouche che fischiano, per intenderci. Ma tant'è, meno male che non siamo tutti uguali. Ben altri pensieri, meno filosofici e più gastrici, mi suscita invece la vista del bancone di una panetteria, ove fanno bella mostra di sé ettari interi di pizze e focacce di tutti i generi! Meno male che non c'è tempo di fermarsi... Bisogna tornare giù alla Opel!

Dai bus scendono altre ondate di corridori: son duemila le persone che prenderanno il via oggi, mica poche! Ma chissà che faranno, lò schierati sotto l'arco di partenza, che non sono nemmeno le nove?
Matteo ed io torniamo a passo svelto alla Opel, rammaricandoci del fatto che questi sono tutti km e metri di dislivello che si aggiungeranno al tracciato della corsa: come se già non bastassero i 98 km e 5.600 m di salita ufficiali!
Ci dedichiamo con calma alle operazioni di preparazione. Io ho solo più da cospargere i piedi di pasta di Fissan, indossare le canoniche doppie calze e mettere le scarpe da montagna, visto che son già partita da casa in tenuta da corsa: pantalone lungo aderente, maglietta da ciclismo, manicotti, guantini senza dita per riparare un po' le mani dalle botte delle inevitabili scivolate che pianterò in discesa, gilet antivento. Matteo invece è arrivato qui in borghese, ma è velocissimo a cambiar pelle. Il nostro piano: decidiamo di tornare su, in piazza alla distribuzione dei numeri, portandoci gli zaini, la borsa degli abiti e dell'occorrente per la doccia, da mandare all'arrivo, e la colazione; una volta là, nell'attesa, spazzoleremo i rispettivi contenitori della pasta e metteremo i vuoti dentro la borsa degli indumenti da spedire all'arrivo. Dopo aver partorito questa complessa strategia d'azione, non ci resta che sperare che la consegna delle borse sia da fare lì sul posto e non a casa del diavolo... Ultimi dubbi: la maglia pesante, la porto o no? Ho già una giacca Windstopper, una in Gore-Tex ed un paio di pantaloni impermeabili; il meteo annuncia bel tempo per entrambi i giorni... Memore dell'errore commesso al Grand Trail Valdigne, dove mi sono scarrozzata uno zaino troppo pesante ed ho patito un po' quei kg, decido questa volta di eliminare un po' di peso: anche se è solo una maglia, tutto fa brodo.

Sperando d'aver preso tutto, ci rimettiamo mestamente in cammino verso il centro di Courmayeur, in mezzo a tanti che, come noi, viaggiano su e giù a piedi per ingannare l'attesa. Chiacchieriamo di tutto e di più; soprattutto, scherziamo e sghignazziamo prendendo di mira, di volta in volta, questo o quello dei personaggi che incontriamo lungo la strada, quello con lo zaino troppo grande, quello con lo zaino troppo piccolo, quello vestito così o pettinato cosà... Insomma, sembriamo due vecchie zitellacce inacidite, due comari assetate di cavoli altrui! In realtà non è cattiveria la nostra... E' solo un modo per esorcizzare la tensione.

Giungiamo in piazza per la seconda volta. Mi fiondo al controllo dello zaino: gli addetti sono meticolosissimi; hanno in mano l'elenco del materiale obbligatorio e non c'è santo che tenga, vogliono proprio vederlo! Indumenti impermeabili, due luci, pile di ricambio, rotolo di benda elastica adesiva, riserva d'acqua, fascia per la testa o berretto o bandana, telo termico, fischietto, riserva alimentare. Estraggo le cose una ad una con una certa agitazione: mamma mia, 'sta a vedere che adesso, per qualche stupidaggine, non mi permettono di partire... Conoscendo la mia distrazione, che dà il meglio di sé nel momento in cui devo preparare il necessario per qualche appuntamento importante, di certo avrò lasciato sul tavolo di casa qualcosa di fondamentale. Invece no, per fortuna. Supero indenne il fossato con i coccodrilli ed arrivo finalmente al tavolo della consegna del numero: più difficile che giocare a Campo Minato! Ricevo non uno ma ben due chip, uno dei quali mi viene fissato al polso con un cinghietto pinzato: sono esterrefatta! Adesso ho il braccialetto elettronico come i carcerati; il Grande Fratello mi guarda! Chissà perché, due chip, per giunta diversi l'uno dall'altro. Vabbuò, non poniamoci domande oziose; l'importante è uscire di qui con il preziosissimo numero di gara. Ricevo anche una grossa borsa di plastica che dovrà contenere gli effetti personali da inviare a Chamonix... Sperando poi che io riesca a raggiungerli.
Abbandono la bolgia infernale e trovo, con sorpresa, Matteo già fuori: "Com'è possibile che tu abbia fatto più in fretta di me, se eri dietro in coda?". Semplice... A lui han contestato la mancanza delle pile di ricambio per le luci e della benda elastica, nel senso che una benda ce l'ha, ma non è elastica. Mi cascano le braccia. Ok che il regolamento è regolamento... Ma proprio ad uno come lui devono andare a fare simili contestazioni? Persone messe lì a fare il controllo e che, ci scommetto, un trail non hanno nemmeno idea di cosa sia, muovono obiezioni simili ad una persona che mastica pane e montagna fin dal primo giorno in cui ha messo fuori i denti. Sì, lo so, è giusto che l'organizzazione imponga un equipaggiamento minimo, per limitare al massimo la possibilità che si creino situazioni di pericolo evitabili con un minimo di dotazione di materiale: vedi i casi di ipotermia nell'atleta che parte in maglietta e pantaloncini e viene colto dal temporale in alta quota, per esempio. E' giusto anche perché, in teoria, a queste corse dovrebbero presentarsi persone adulte, responsabili e coscienti dei rischi a cui vanno incontro, ma in pratica partecipano spesso anche pericolosi soggetti che si credono Superman invincibili... Insomma: è giusto, ma "Lei non sa chi sono io", anzi, "Lei non sa chi è Repetto Matteo da Genova"!!! Così, altra seccatura, il povero Matteo deve procurarsi quel che manca e poi rituffarsi nella mischia e sperare, questa volta, di passarla liscia. Qui lo dico e qui lo nego, se non lo lasciano partire, io li stermino tutti quanti! Per fortuna, non è necessario ricorrere alle maniere forti: dopo qualche peripezia, anche lui se ne arriva con il preziosissimo numero di gara, anche lui con il chip. Finalmente, ce l'abbiamo fatta, abbiamo il nulla osta, si può partire!



Ci accomodiamo sugli scalini della piazza e diamo fondo ai contenitori della colazione: pasta per Matteo, riso con olio e piselli per me. Il tutto, ovviamente, freddo, scotto ed appiccicoso: tanto, i nostri stomaci sono foderati di ghisa; tollerano qualsiasi cosa!
Tempo di scambiare due parole con Isacco, il ciclopodista cuneese conosciuto al Gran Trail Valdigne, e poi ce ne andiamo a compiere l'ultima, fondamentale operazione di preparazione: la visita alle toilettes pubbliche.
Anche la coda per il bagno è un'occasione per guardarsi intorno; ne approfitto per scrutare i miei rivali-compagni di viaggio: c'è chi mostra un fisico perfetto, asciutto, muscoloso e scolpito, messo in risalto da abiti fascianti, e chi sembra cascato lì da Marte o arrivato direttamente da una spiaggia di Rimini; chi si scarrozza uno zaino che sembra contenere un'intera porchetta e chi viaggia con una sacca che conterrà si e no qualche barretta ed un gilet; chi ciarla e ride, chi si chiude in un preoccupato silenzio. Si parla italiano, francese, spagnolo e chissà quale altra lingua incomprensibile. Davanti a me, due signore che attirano la mia attenzione: gemelle, minutissime, sui 65 anni, dall'aspetto assolutamente identico: maglia rossa, pantaloni aderenti neri, capelli corti biondo platino, pelle bruciata dal sole; queste due qua, penso, devono avere attributi cubici! E poi qualche maschietto davvero notevole... Sarà che queste occasioni esaltano la forma fisica di chi ce l'ha (e, per contro, mettono impietosamente in rilievo i difetti), ma a me tutte queste spalle nude e ben tornite, queste gambe forti, questi fisici massicci intorno fanno venire i crampi alle pupille a furia di roteare!
Meno male che il mio turno arriva in fretta... Poco dopo, sono fuori di qui, e pure Matteo. Non ci resta che avviarci verso la linea di partenza: lì dovremo lasciare i sacchi destinati a Courmayeur.
Abbiamo ancora tre quarti d'ora buoni, da occupare con un po' di stretching e l'ultima rifinitura... Della colazione. Ci prendiamo un angolino di prato con un po' d'ombra e cominciamo qui a gustarci il panorama che ci terrà compagnia per tutto il viaggio: il Monte Bianco, proprio sopra le nostre teste, illuminato dal sole ed impreziosito da un cielo meravigliosamente blu. Così vicino che sembra di poterlo toccare allungando una mano.
Butto giù due pastiglie di antiinfiammatorio per zittire subito il fastidio alla gamba che mi accompagna da qualche tempo e che s'è già fatto sentire stamattina, durante i vari trasferimenti: speriamo bene, questa è una cosa che mi preoccupa non poco. Speriamo che la chimica basti!

Il bello è che siamo a pochi minuti dalla partenza e non abbiamo idea di quel che ci toccherà tra poco. Anzi, io non ho nemmeno guardato la mappa né l'altimetria, come sempre: gli unici due numeri che conosco sono il dislivello e la distanza totale, basta; non so dove siano e quanti siano i ristori, non so quali siano i colli da superare, i paesi che attraverseremo, non so niente di niente. Almeno Matteo ha un abbozzo di cartina da cui si evince che raggiungeremo nel pomeriggio le due cime più alte: bene; significa che di notte resteremo a quote più basse e non dovremmo avere troppi problemi con il freddo.
Lo speaker sta sbraitando nel microfono già da un po' di tempo, ma io non recepisco: più che altro, sento solo rumore. Drizzo le orecchie solo quando sento parlare dell'UTMB, la versione lunga di questa corsa: in fondo in fondo, è lì che sogno di arrivare, prima o poi, in uno slancio di megalomania che supera qualsiasi limite della decenza.
E' la musica, quella sì, che crea un'atmosfera particolare, soprattutto per me che adoro i ritmi da discoteca degli anni '90! E dire che stavolta ho lasciato a casa il lettore Mp3: tanto, viaggiare con Matteo è più o meno come aver sempre la radio accesa! A lui piace chiacchierare, a me piace ascoltare ed intervenire ogni tanto con qualche saggio del mio cinismo, quindi ci compensiamo alla perfezione.
Ci buttiamo nella mischia pochi minuti prima delle 11. Il clima generale è molto rilassato; intorno al gruppone di matti c'è tantissima gente che applaude, incita, scatta fotografie, dai marciapiedi, dalle finestre. Neppure qui mi riesce d'essere nervosa. Matteo è visibilmente teso; lo ammette lui stesso, di sentirsi emozionato. Lo capisco: lui sì, ha un obiettivo ben preciso, quello di finire la corsa; del resto, se lo può permettere. Io no, non ho obiettivi, se non quello di vedere fino a che punto riesco ad arrivare. Ovvio, quindi, che non mi preoccupi di fallire. Non ho certo l'allenamento adatto per ambire a concludere un ultra trail di questa portata: tantissimi km in bici, ma non abbastanza a piedi, su sentiero. La bici abitua allo sforzo molto intenso e prolungato; insegna, per così dire, a stringere i denti e soffrire; però, camminare in montagna, per giunta con il passo svelto imposto dal limite orario, è distruttivo per i muscoli delle gambe, che spesso arrivano a far male al punto da non poter più andare avanti. Almeno, questo vale per me che appunto non ci sono abituata. Su 98 km, chissà a quale apice di distruzione arriverò, e, soprattutto, quando ci arriverò. Sarebbe presuntuoso e stupido illudermi di farcela: soprattutto perché, se si viaggia sulle nuvole, l'atterraggio può essere molto ma molto traumatico!



Cinque minuti, quattro, tre: lo speaker scandisce il tempo; quando finalmente si arriva all'ora X, l'avvio è indolore: partiamo a passo lento, chiacchierando, in mezzo agli applausi, agli schiamazzi, al fracasso dei campanacci da mucca che tanti spettatori agitano forsennatamente al nostro passaggio. Qualcuno accenna a correre: vedo Matteo che, già innervosito, guarda loro, guarda me, guarda l'orologio, e poi ricomincia il giro... Sorrido tra me e me; mi spiace vederlo friggere così, ma sono irremovibile: un passo di corsa non lo muoverò nemmeno dietro lauto compenso. E' già pressoché impossibile che le mie gambe mi sostengano fino a Chamonix; in ogni caso, se ho una microscopica possibilità, è vitale che io viaggi sempre e comunque con il minimo sforzo possibile. La corsa in salita, per chi, come me, è poco allenato e troppo pesante, logora moltissimo i muscoli in cambio di un vantaggio di tempo irrisorio. Cerco di affrettare il passo, ma nemmeno troppo: non è proprio il caso di sprecare energie qui, adesso. Lasciamo pure che gli altri vadano via... Sono pronta a scommettere che la prima salita farà giustizia.
Siamo ancora tutti freschi e riposati, abbastanza da chiacchierare, ricambiare i saluti, scherzare e schiamazzare. Per un attimo, incrocio lo sguardo di una ragazza che, dalla terrazza di un albergo, sbadiglia annoiata: non nascondo un moto di disprezzo... Anche se poi, pensandoci bene, anch'io sbadiglierei senza sosta se dovessi assistere, che so, ad una partita di basket oppure ad un concerto jazz. Però, come sono distanti i nostri mondi, bella mia.

I primi quattro o cinque km sono quasi pianeggianti: qualche saliscendi qua e là, ma nulla di serio; un po' di asfalto in mezzo alle borgate, un po' di sentiero, un po' di strada carrozzabile. Ancora gente che applaude: incitazioni persino da parte degli occupanti delle auto fermate apposta per il passaggio della corsa! Incredibile... Di solito, in questi casi, si rimediano degli insulti!
Come in ogni partenza di ogni corsa, in bici o a piedi, mi ci vuole la prima salita per lasciarmi alle spalle il fiatone incontrollabile, l'affanno, la sensazione di fatica esagerata. Arranco un po' a star dietro alla massa: mi spiace rotolare subito al fondo, ma non è che possa farci molto; il rischio è di rovinarsi le gambe troppo presto, e poi addio! Matteo continua a voltarsi indietro ed a commentare che "qualcuno c'è ancora", nonché a guardare l'orologio ogni dieci secondi. Confesso che avrei una voglia matta di strapparglielo, quell'orologio, e farglielo mangiare! Tanto, non ha certo problemi di digestione, è peggio di un inceneritore! Avevo coniato per lui la definizione di "tubo digerente sui pedali", che, in questa occasione, potrei convertire in "tubo digerente escursionista"... Non è possibile, siamo appena partiti ed è già lì che rumina! E guarda l'ora... Io viaggio senza orologio e senza alcuna nozione delle barriere orarie, proprio perché non me ne importa un fico secco; ovvio, non posso fare a meno di sapere almeno vagamente che ora è, perché la luce della sera e le stelle della notte non potrò certo fare a meno di vederle, ma, per il resto, è inutile che mi assilli con lo scorrere dei minuti. Tanto, se anche mi accorgessi di essere in ritardo rispetto alla tabella di marcia, non potrei farci assolutamente nulla; finirei per angosciarmi e perdere la motivazione per andare avanti, e basta. Povero Matteo... Lui è qui accanto per dare una mano a me, ed io dopo pochi km manifesto già propositi omicidi! Meno male che lassù c'è il mio custode di pietra... Chissà poi perché mi sono fissata su quella splendida guglia che è il Dente del Gigante? Non so, ma il mio sguardo va su a cercarlo ogni volta che alzo gli occhi.





Finalmente, dopo tanto mangia e bevi, passiamo un ponticello ed attacchiamo la prima salita, un sentiero che si vede, su, dritto, tagliare il bosco e sparire lungo il fianco della montagna. In men che non si dica, siamo in coda: troppa gente per un sentiero così stretto; per quanto io mi ostini a cercare il mio ritmo sorpassando a destra ed a manca, non c'è verso, prima o poi devo fermarmi come tutti, con il naso all'insù, a guardare il serpentone di gente sopra la mia testa. Dall'altra parte della vallata, sempre il Bianco, maestoso: raccomando a Matteo di fare qualche foto! Al Bianco ed anche ad altro tipo di panorama, dicesi un gran bel pezzo di gnoccolone a torso nudo che segue la gara dal prato.
Si procede lenti, con la capoccia surriscaldata dal sole cocente; ci si ferma di tanto in tanto: devo ammettere che a me queste pause forzate non dispiacciono, anzi! Ne approfitto per rifiatare, visto che fin qui ho già tirato anche troppo per le mie possibilità. Poco avanti a me, il classico personaggio "sotuttoio" che si lamenta, che critica, che banfa. Ci annuncia che le prime due salite sono mostruosamente dure, poi sentenzia che la cima più alta è a 2.900 m: Matteo ed io ci guardiamo e scuotiamo la testa; sappiamo che la Cima Coppi è 400 m più in basso! Il brontolone continua, si arrabbia per la coda... Ma cosa strepiti, sant'uomo? Così è se ti pare; non è che, arrabbiandoti, potrai cambiare la situazione!

Il sentiero ci porta ad un apparente colletto e ad una breve discesa verso il primo ristoro, al Rifugio Bertone, cinquanta metri più giù: ci arriviamo lentissimamente, in coda, con molto ordine, senza che nessuno si sogni di voler passare avanti a tutti i costi. Io sogno la mia Coca Cola: me l'han promessa... Matteo, invece, continua a friggere per la lentezza della processione; mi raccomanda di lasciare a lui le borracce ed abbandonare il ristoro dopo aver preso la Coca, così "risparmiamo cinque minuti". Infatti, la coda per il pieno alle borracce se la sciroppa lui, che poi non ha difficoltà a raggiungermi. Eccezionale: nelle gare in bici sono una delle pochissime donne a non avere un gregario; qui, invece, sono una delle pochissime fortunate che ce l'ha! E che gregario...



Il sentiero, dal rifugio in poi, si impenna e prende una pendenza di tutto rispetto, che rende difficile, per me che sono molto instabile, camminare solo con le gambe. Adotto subito la tecnica delle quattro zampe e mi sforzo di liberarmi dal ritmo imposto dalla coda: tagliando il sentiero qua e là, prendendo scorciatoie forse non troppo ortodosse, lasciandomi trascinare dall'entusiasmo, guadagno un bel po' di posizioni. Matteo è sempre dietro; lascia che sia io a decidere il ritmo. Nei pochi tratti in cui il sentiero spiana, abbiamo il fiato per chiacchierare; davanti a noi, il sentiero è evidenziato da una lunghissima fila di omini multicolori, di cui non si vede la fine. In fondo alla vallata, Courmayeur ormai molto lontana. Il sentiero è tutto polvere che si solleva e si infila ovunque sotto gli abiti e negli occhi: rabbrividisco pensando a come potrebbe essere se piovesse! Questo sarebbe un pantano impercorribile.
Abbiamo un gran da fare a ripararci dai maldestri portatori di bastoncini: il rischio di essere infilzati è alto; ci son quelli che li tengono sollevati e tesi all'indietro, quelli che te li infilano tra la scarpa ed il tallone... Che nervoso!



Continuo la mia marcia a buon ritmo fino a guadagnare la cima, Tête de la Tronche, quota 2.584 m; poi, via lungo una discesa che tento di affrontare con una certa decisione: provo a lanciarmi giù un una pseudo-corsa su sentiero ripido e polverosissimo, riesco persino a superare qualcuno, ma tra me e me ho la sensazione che sto tirando troppo la corda. E rischio di finire la benzina ben prima del tempo.
Dopo il primo tratto ripido, raggiungiamo un tratto più agevole, dove riposare un po'i muscoli; proprio qui, ritrovo le due gemelle che avevo visto a Chamonix. Una delle due è chiaramente più forte, l'altra incespica un po', ma entrambe sembrano decise e determinate verso la meta.
Al Rifugio Bonatti, altro ristoro, sempre e soltanto idrico; altro bicchiere di Coca Cola e via, mentre Matteo si mette in coda un'altra volta per l'acqua. Ci sarebbe anche il brodo, ma non mi ispira per nulla. Mi piacerebbe, sì, riempire la borraccia di qualcosa di diverso dall'acqua, ma... Non si può, è proibitissimo. Quindi, giù per un'interminabile discesa dove mi sforzo, ancora una volta, di fare del mio meglio. Matteo mi raggiunge dopo aver corso a perdifiato; mi racconta, divertito, un dialogo con un italiano che gli ha chiesto dove diavolo volesse andare, correndo così, come un pazzo: "Non la faccio tutta così, devo solo raggiungere una mia amica"... "E chi è, la Madonna?".
Al Bonatti eravamo a quota 22 km e circa 1.600 m di dislivello già messi in saccoccia; mi vien da pensare che ne mancano... “Solo” 76! Mamma mia, 76... E già le gambe avvertono un po' la discesa, ma non ci devo pensare. Passo svelto, a fondovalle si vede già il prossimo ristoro, quello del km 26, dove poi inizia la seconda salita. Anzi, a guardar bene, si vede già anche il culmine della seconda salita: lassù, lontano lontano, tra la montagna ed il cielo, si scorge una specie di globo giallo, che da qui non riesco proprio a capire cosa sia; quella roba lì, sento dire da altri corridori alle mie spalle, è la meta della nostra prossima ascesa, il Grand Col Ferret, quota 2.537 m.
Però, meglio pensare ad una cosa per volta. Adesso ho una gran fame e poca voglia di attaccare le mie barrette: quello che c'è là sotto sembra un ristoro più consistente dei precedenti; è vicino ad una strada, quindi sarà probabilmente fornito anche di cibi solidi, oltre che di sole bevande. Anche qui, coda per entrare nel tendone, dove peraltro è obbligatorio passare: ci vuole tanta pazienza. Un corridore francese accanto a me spiega le caratteristiche della prossima salita, aiutandosi con un foglietto scarabocchiato di suo pugno che ricalca l'altimetria della gara; mannaggia a lui, mostra anche l'orologio, che avrei fatto volentieri a meno di guardare: sono quasi le sei. In effetti, era immaginabile; le ombre sono molto lunghe, ormai. Si fa sera e ci vorranno un paio d'ore, poco meno, per guadagnare la cima che abbiamo visto poc'anzi.
Raggiunto il tendone, Matteo ed io facciamo il pieno di viveri, un po' alla rinfusa: c'è della frutta secca, ci sono biscotti, patatine fritte, pezzi di formaggio, pane, salame, barrette di cereali e strani grissini corti ricoperti di zucchero. Nel grosso bicchiere di plastica che fa parte della dotazione consegnata alla partenza, metto un po' di tutto: mangerò con calma in salita. Per ora sto bene, voglio ripartire subito, in modo da non dare tempo alle gambe di raffreddarsi. Matteo, instancabile, mi raggiunge di lì a poco con le borracce.
Il sentiero supera un ponte e si inerpica ripido nel primo tratto; quasi quasi rischio di soffocarmi, mangiando qui! Riprendo la mia marcia fatta di passi brevissimi e frequenti; c'è ancora la coda – incredibile, dopo 26 km – ma, per fortuna, il sentiero offre tante possibilità di sorpasso. Ecco, l'unica cosa che mi dà fastidio, di quest'assembramento, è il fatto di non poter prendere il mio ritmo; mi tocca andar su a strappi, sforzando troppo in certi punti, rallentando troppo in altri. E, siccome ogni passo sbagliato lascia sui muscoli un segno, seppur piccolo, so già che pagherò queste intemperanze. Ma ho voglia di arrivare in cima, troppa. Ecco, diciamo che sto ragionando per obiettivi intermedi: adesso, l'obiettivo è arrivare a capire cos'è quel globo giallo che ho visto un'ora fa. Matteo mi segue come sempre, premuroso ed attento a non passare avanti per non tirarmi il collo: ovvio che, mentre io arranco e fatico, lui può permettersi di canticchiare. Intanto, nei tratti in cui la pendenza si addolcisce un po', mangio quel che ho raccattato al ristoro, in rigoroso ordine sparso: barretta, formaggio, cioccolato amaro... Ho fame, e parecchia, anche.
Nonostante la pappatoria, però, ad un certo punto sento che la fatica sta pesando un po' troppo: male, ho appena riflettuto sul fatto che questa salita non è affatto terribile... Ben mi sta! Sono un po' preoccupata, il fiatone è troppo per una pendenza di questo genere. E la cima, chissà dov'è la cima! Da qui non la vedo... Ma, con mia grande meraviglia, la trovo poco dopo, oltre un apparente scollinamento, poco più in su di dove mi trovo io adesso: ecco là la sella ed il globo giallo che altro non è che una tenda. Anzi, man mano che mi avvicino, mi accorgo che le tende sono due, più una struttura di plastica che sembra una cuccia gigante: il tutto, rigorosamente a marchio The North Face. Ci siamo, Gian... La seconda cima è conquistata! Siamo al confine con la Svizzera. Alle spalle, 30 km e circa 2.400 m di salita. La prima, piccola crisi è superata: tocca ora una lunga, interminabile discesa, ma non prima d'aver levato la scarpa destra ed aggiunto un po' di pasta di Fissan sul tallone, dove mi sembrava di sentire un piccolo sfregamento.

Ormai è sera fatta, credo siano circa le otto. In fondo, all'ora di tanto in tanto ci penso anch'io... E mi vien quasi da ridere se ripenso al momento in cui, poco fa, ho zittito malamente il povero Matteo, che ha osato chiedere, in mia presenza, informazioni circa il cancello orario di Champex e la nostra possibilità di passarci in tempo o meno... Sono già un po' pentita, ma, sul momento, m'è salita su una rabbia furibonda! Non ce l'ho più fatta a tenere a freno la lingua; anzi, a stento ho evitato di dire qualcosa di peggio di quel che poi ho espresso, limitandomi a qualcosa del tipo “Piantala, ma che biiiip te ne frega di sapere a che ora è il cancello, tanto non ci possiamo fare niente, e io non lo voglio sapere! Almeno, se mi fermeranno, mi incavolerò solo quando mi fermeranno, e non prima”... Poverello, ci ha pensato lui a metter giudizio e pazienza ed a non replicare. Dal canto mio, prima di tornare a proferire verbo, ho atteso un po' che la fatica della salita facesse scemare la furia: insomma, non potevo dare già in escandescenze dopo meno di un terzo di gara! In queste prove, mantenere i nervi saldi è essenziale.
Ora che sono in cima, la rabbia è solo un pallido ricordo. Riprendiamo a scendere; il sole sta calando, ma per ora non fa freddo: mi limito ad indossare il gilet antivento ed a tirare su i manicotti. Ed attendere con ansia il prossimo ristoro di La Fouly. E' ora di estrarre le lampade frontali e tenerle pronte: tra poco serviranno!

Ed è qui che Matteo ed io viviamo la parte della corsa che, credo, ricorderò con più affetto e piacere dell'intera gara. Non so perché, non so come, non so nemmeno a chi dei due sia frullata prima in testa l'idea; fatto sta che, di punto in bianco, approfittando della discesa che assorbe poche energie e poco fiato, ci mettiamo a cantare. Sì, proprio a cantare: ci lanciamo nel repertorio di De Andrè, da Bocca di Rosa a Il Gorilla a Geordie a La Guerra di Piero a Marinella a Via del Campo a Don Raffaé, di cui Matteo conosce a memoria quasi tutti i testi, molto meglio di me, per poi passare a vari altri autori ed altri generi, Quattro Amici al Bar, Hanno Ucciso L'Uomo Ragno, Sei Un Mito, addirittura qualche slancio su testi inglesi. Matteo è molto intonato, ha una bella voce, fa piacere ascoltarlo, mette allegria; io, beh, so da sempre di essere stonata come una campana rotta, ma non importa, in questa occasione posso anche mettere da parte il pudore. Intorno a noi, mutismo & rassegnazione: mi sa che abbiamo seminato il terrore; chi ci sta accanto ha paura di avere a che fare con due squilibrati! Incoscienti, noi continuiamo a ridere, fino al ristoro, dove facciamo il pieno di un po' di tutto. Il menù è lo stesso del ristoro grande precedente: formaggio, dolci vari e frutta secca, banane, cioccolato. Breve sosta in bagno per me, poi via verso la salita di Champex-Lac. In realtà, prima della salita, tocca scendere ancora un po', circa 400 m, fino all'abitato di Praz de Fort: benissimo, altra strada buona per cantare!
Poi, da lì, poco meno di 400 m di salita abbastanza ripida in mezzo al bosco per giungere a Champex Lac, al 55° km ed al 3.000° m di dislivello. Affronto ancora questa salita con un certo brio, ma a questo punto comincio a sentire la necessità di un pasto più serio di quelli che ho frettolosamente consumato fino ad ora. La debolezza si fa sentire, ma Matteo mi rassicura, annunciando che al ristoro ormai manca poco. Ecco, sono proprio incomprensibile io! Non voglio sapere che ora sia, ma mi fa piacere essere informata su quanto manca; soprattutto, chiedo spesso quanti km mancano, o quanti ne mancheranno dal prossimo punto di controllo, o quanti ne abbiamo percorsi dal precedente. Il mio gregario, per fortuna, ha la pazienza di Giobbe!

Non mi par vero di scorgere le luci di Champex... A quest'ora, c'è ancora gente che ci aspetta e ci applaude! Addirittura, poco fa, lungo il sentiero, siamo stati “vittime” dell'euforia esagerata di alcuni ragazzi muniti di trombetta da stadio, che facevano un fracasso infernale! Quando poi arriviamo al tendone, ecco che ci accoglie un vero e proprio tifo da stadio! Sono le undici ormai, eppure siamo sommersi di urla, applausi, complimenti, manco fossimo all'arrivo. Nel tendone fa caldo, troppo caldo: quando usciremo da qui, ci sembrerà di ibernare; sarà meglio vestirsi bene!
Fatichiamo un attimo ad orientarci in questo scenario da bolgia infernale. Ci accodiamo ad una fila e cominciamo ad afferrare alla rinfusa ogni sorta di alimento a disposizione: nel mio piatto metto due vasetti di yogurt, una di passato di frutta, qualche pezzo di formaggio; poi, in equilibrio estremamente precario, prendo anche un bel piattone di pasta con il formaggio; Matteo idem, a ruota. Trovare un posticino in uno dei tavoli è un'impresa: questo è un carnaio, ovunque c'è gente che sbrana come se non mangiasse da anni, oppure gente che riempe i piatti e poi avanza il cibo per metà e lo abbandona lì senza curarsene... Chi si lamenta piegato in due dai dolori, chi si massaggia i piedi e si cura le vesciche, chi sta seduto immobile con sguardo fisso nel vuoto; tutto questo è impressionante... A che punto di bestialità può ridursi un essere umano dopo 55 km di marcia in montagna! Ed io non faccio certo eccezione: mangio un po' di pasta, con fatica nonostante la fame, poi la polpa di pesca, poi torno alla pasta, poi il formaggio, lo yogurt, senza alcun ordine, solo per riempire lo stomaco il più possibile, ed anche il più in fretta possibile: guai a dar tempo alle gambe di raffreddarsi; è pericolosissimo, si rischia di non partire più. Poi mi guardo intorno ed arraffo qualche resto lasciato da chi mi ha preceduta al tavolo: cose confezionate, ovviamente... Sono allo stato di animale selvatico ormai, ma non così tanto! Afferro uno yogurt ed un vasetto di polpa di frutta, spazzolo anche quelli; intanto Matteo arriva con una tazza di caffè che, pur disgustoso, almeno è caldo. Indossiamo qualcosa di più pesante per la notte e ripartiamo: per fortuna, mi accorgo solo dopo pochi metri di aver dimenticato la frontale nel tendone. Mi precipito dentro, con Matteo che urla “Non correre!”, inutilmente: mi prende una rabbia tremenda per la mia stupida distrazione; travolgo un buon numero di persone, raggiungo la panchetta dov'ero seduta, ritrovo, con solllievo, la mia frontale, e finalmente si riparte sul serio.

E' un momento no per Matteo, che lamenta di aver male alle gambe. Faccio finta di nulla, ma confesso che la cosa mi spaventa, e molto: Matteo non è certo uno che si lagna a vanvera; se dice d'aver male, è una cosa seria, davvero. Spero che l'antiinfiammatorio che ha preso al ristoro faccia presto effetto. Ebbene sì, anche lui, nemico inflessibile dei medicinali, questa volta ha dovuto cedere; ma non è che la cosa mi dia soddisfazione, anzi! Anch'io, a Champex, ho preso un'altra pastiglia, per me la terza.

Attraversiamo il paese costeggiando il lago, poi procediamo lungo un sentiero, ancora in leggera discesa. A questo punto, ci attendono tre salite da circa 600 m di dislivello l'una. La prima, verso Bovine, passa ancora abbastanza in fretta; è ripida, ma non particolarmente cattiva, e l'affronto con il pensiero di Matteo, che è diventato silenzioso, troppo silenzioso perché la cosa sia normale. Cerco di tenere un'andatura molto regolare; gli chiedo, di tanto in tanto, come vanno le gambe: “Non preoccuparti – risponde – fai il tuo passo e vai”. Sì, certo, come no, ma per chi mi hai presa? Mi hai fatto da balia fin qua e credi che adesso, in caso tu fossi in difficoltà, io deciderei di andarmene e mollarti qui? Sei matto, caro mio! Per fortuna, però, mi sembra che non abbia difficoltà a tenere il passo, anzi; evidentemente, le sue risorse sono ancora ben abbondanti. Al contrario delle mie... E' notte ormai da un po'; in cielo c'è una distesa di stelle di indescrivibile bellezza, nemmeno una nuvola, solo lo scintillio di centinaia di migliaia di puntini. Intorno non si vede null'altro se non ciò che viene illuminato dal cerchio di luce della lampada frontale; il sentiero, i sassi, i tronchi degli alberi.
Il culmine della salita arriva senza troppo sforzo... Ma la discesa segna il mio tracollo. Non so se sia la stanchezza, la notte lunga e fonda, ma le gambe fanno male, ormai, troppo male, e questa discesa non finisce mai, e tutti quelli che ho sorpassato in salita mi superano saltando come camosci, mentre io inciampo, inciampo ed ancora inciampo, procedo sempre più lenta e pesante, senza riuscire a gettare i piedi dove voglio io... E l'ansia si trasforma presto in rabbia, silenzio, groppo in gola e lacrime agli occhi da ricacciare giù in fondo, perché non è proprio il caso di comportarsi da bambina capricciosa, perché non si può mollare adesso che se i km che mancano sono poco più di trenta, anche se trenta km, per le mie gambe, sono ancora un abisso. Inciampo l'ennesima volta ed impreco ad alta voce, attirandomi il rimprovero di Matteo che giustamente suggerisce di darmi una calmata; già, una calmata, facile a dirsi... Questa discesa non finisce proprio mai. Chiedo a Matteo se a fine discesa si arrivi o meno ad un paese; sì, si arriverà a Trient; ma le luci che vedo adesso non sono quelle di Trient: è solo una borgata, minuscola, dove comunque c'è ancora gente ad aspettarci, ad applaudirci, anche noi, ultime ruote del carro. Persone infagottate in abiti pesanti ed improbabili coperte, lì proprio per noi! E poi si scende ancora a lungo, giù per un sentiero impervio, e penso a quanto sia lontana adesso l'allegria di poche ore prima, quando cantavamo a squarciagola come due ubriachi. Ora di cantare non ho più voglia...

A Trient, altro ristoro, dove mi fermo qualche minuto in più, per fare il pieno e per una sosta in bagno, nel locale della scuola elementare messo a disposizione per la corsa. Che montanara assurda che sono: con distese immense di boschi incontaminati, io se non ho un civilissimo bagno sono rovinata...
Quando esco, trovo Matteo seduto su una panca, con uno sguardo preoccupato che mai gli avevo visto negli occhi: per la prima volta, ho davvero paura per lui. Non voglio che si faccia del male per andare avanti a tutti i costi. Si rammarica di non essere adatto a fare il gregario... E mi fa tenerezza: se solo sapesse che probabilmente non sarei mai arrivata neanche fino a qui, senza il suo aiuto e, più importante di tutto il resto, senza la sua presenza, che è molto più del trasporto di una borraccia. E' sapere che, se capita qualcosa, c'è qualcuno accanto, qualcuno di cui ci si può fidare.

Ripartiamo, entrambi pesti nel fisico e nell'animo. Lui con la compagnia del mal di gambe, io con uno strano senso di oppressione che cresce man mano che procediamo verso l'alto. Mancano 28 km secondo la tabellina: pochi rispetto a quelli che abbiamo già percorso, ma tantissimi per le ore che ancora ci attendono di marcia, per la stanchezza, per il sonno. Procedo per chissà quale senso di inevitabilità, perché s'ha da fare e non c'è altra scelta, perché non è che ci si possa fermare ed attendere il pullman scopa come nelle corse in bici; però il groppo in gola è sempre lì, alleato della debolezza che mi sta assalendo. Penso che non ho più voglia, sì, è proprio questo che mi gira in testa: non ho più voglia di fare fatica, non ce la posso più fare a marciare ancora per sette, otto ore, chissà quante. Mi sento sfinita, anche se è più la convinzione che la realtà delle cose. Non ho più voglia, davvero. La notte è troppo troppo lunga, non sopporto più questo buio che schiaccia, non riesco più a tollerare il cerchio di luce della frontale, la mancanza di orientamento, il fatto di non potermi guardare intorno, di non vedere altro che nero, nero, nero. Laggiù in fondo, la piana di Martigny con la miriade di lucine: ricordo d'esserci passata nell'estate 2004, in una tappa della mitica XXAlps che andava a concludersi proprio a Chamonix, come la CCC. Di tanto in tanto alzo la testa a guardare in su, se per caso da qualche parte si possa intravedere qualche barlume di alba, ma niente, solo nero. Chiedo a Matteo dove sia l'est, ma nemmeno lui riesce ad orientarsi... Poco prima della cima, altra breve sosta: Matteo mi chiede un'altra dose di Fastum; già che ci sono, prendo una pastiglia anche io, e così arriviamo a quota 2 per lui e 4 per me. Poi ripartiamo; in preda ad un attacco di sonno feroce, provo a mangiare una barretta senza averne voglia. Mi si chiudono gli occhi: rischio seriamente di rotolare per terra!

Finalmente... Alzo lo sguardo e, questa volta, mi pare di distinguere il profilo delle cime da quello del cielo. Vuoi vedere che... Sì, minuto dopo minuto l'impressione è più nitida; senza ombra di dubbio, sta arrivando l'alba. Non appena realizzo che è proprio così, è come se qualcuno mi avesse tolto un macigno che schiacciava il cuore; è l'effetto di una frustata, ma un effetto buono, benefico, ristoratore. Arrivo in cima, mi butto in discesa per quanto possibile, lascio che un'assurda incontrollabile euforia si impossessi di me: Matteo mi prenderà per pazza, ma pazienza, io sono sicura, sicurissima che la luce del sole sarà la soluzione di tutti i miei problemi. E, anche se continuo in cuor mio a respingere con fermezza l'illusione, si insinua timidamente una piccolissima speranza di arrivare a Chamonix... Riprendo a canticchiare, da De Andrè a Ligabue, io ci metto la musica e Matteo segue con il testo: ok, buon segno, ci siamo. Intorno a noi, i primi raggi del sole infiammano il cielo e le cime.

La discesa su Vallorcine è molto lunga, ma me la mangio senza troppi problemi: è mattina, c'è il sole, questo è quel che conta. Anche Matteo sembra stare un po' meglio. Alcuni tratti di strada carrozzabile ci permettono di rifiatare un po' anche in discesa; di fronte a noi spunta improvvisamente una diga.

A Vallorcine, siamo a quota 81 km e poco più di 4.500 m di dislivello accumulato. Altra breve sosta, pochi minuti per l'imperdibile Coca Cola e per riempire il bicchierone di alimenti vari da portar via, e si riparte, destinazione La Flégère. Non voglio ammetterlo nemmeno a me stessa, ma ormai è fatta, non c'è ragione per pensare di mollare adesso. Manca solo l'ultima salita. Qualche km di leggera salita, mangia e bevi, ci porta al Col de Montets, dove attraversiamo la strada asfaltata. Poi, naso all'insù: il serpentone dei compagni di viaggio disegna il profilo del sentiero lungo il costone della montagna... E, a vederla così, questa non sembra affatto una passeggiata!
Per me, terza sosta ad un provvidenziale bagno pubblico proprio lì, messo quasi apposta... E poi via, quasi di corsa lungo quest'ultima salita che affronto con tutta l'allegria e l'ottimismo di cui sono capace, forse per reazione alla profondissima tristezza in cui ero sprofondata solo poche ore prima. Sono da poco passate le otto, la luce dell'alba sta scendendo giù lungo le cime, lungo i fianchi della montagna; tra pochissimo sarà ora di togliere la giacca, o sarà sauna sicura.
Parto anche qui con la solita andatura, sforzandomi di frenare l'euforia che mi spingerebbe ad andar su a grandi falcate. Piano Gian, piano, passi corti e veloci. Pare incredibile, ma c'è ancora un sacco di gente intorno. Tanti che, ormai vicini alla conclusione, non si preoccupano di perdere un po' di tempo e fermarsi qua e là a riposare un attimo: no, non sia mai, ora il comandamento è uno solo, andare avanti, a testa bassa, arrivare alla cima. Le caratteristiche di questa salita sono ideali per me: ripida ma non eccessivamente e, soprattutto, molto costante. Noto con piacere che, tutto sommato, in salita, sono meno disastrata della maggioranza dei miei colleghi qui intorno
La strada asfaltata è sempre più lontana, laggiù in fondo; la sella che credo sia la fine dell'ascesa, al contrario, sempre più vicina. Ormai abbiamo anche il conforto del sole; le nostre crisi sono ormai un ricordo sbiadito, tanto che raggiungiamo la cima e non ci fermiamo nemmeno un'istante: giù, via, un tratto di discesa, poi un centinaio di metri di dislivello in risalita, in cui ancora una volta mi lancio in qualche sorpasso, e infine giù, destinazione Chamonix. Qui, al cospetto del Monte Bianco che si vede ora da un'altra prospettiva, si apre il toto-”Quanti km mancano alla fine?”. Chi dice otto, sette, sei, insomma, le idee sono poche ma confuse. Al rifugio di La Flégère, ultimo ristoro, dopo un lungo tratto di sentiero: tocca ancora salire; saranno cinquanta metri, ma a questo punto fanno male... Chamonix si vede, è là sotto, ma ancora troppo sotto, almeno ottocento metri di salto. La freccia nei pressi del rifugio indica due ore di marcia: lì per lì sembrano troppe, ma... La misura non sarà sbagliata di molto.
La discesa inizia lungo un'ampia strada carrozzabile: una benedizione per le gambe, ma non per la testa, perché è evidente che scendere lungo una strada del genere richiederebbe cent'anni di cammino! Per fortuna, presto pieghiamo a sinistra lungo un sentiero che sembra scendere più spedito. Già, sembra... Anche qui, gente che risale in senso contrario a noi, gente che aspetta ed applaude, “Bravo, bon courage”, ed io non so dire altro che “Merci” ma credo vada bene! Poi, all'improvviso, una visione credo dovuta alla fatica... Incrociamo una meraviglia in forma d'uomo, un gran pezzo di gnoccolone alto, slanciato, con la pelle abbronzata, gli occhiali scuri ed un sorriso da favola: la lingua mi si srotola fino a strisciare a terra... E mi rammarico per essere, in questo momento, dopo oltre 24 ore di marcia, in uno stato tale che lo spazzolone del water è indubbiamente più sexy di me. Peccato...

Ci pensa il sentiero ad uccidere qualsiasi barlume di euforia: la discesa diventa, ad un certo punto, un interminabile traverso quasi piano, che costringe a macinare strada senza perdere quota, ancora ed ancora, mentre i tetti di Chamonix sono sempre allo stesso punto: troppo lontani! Forse, come osserva Matteo, la nostra percezione del tempo e delle distanze è ormai talmente alterata da dilatare tutto in modo esagerato; fatto sta che ben presto entrambi perdiamo la pazienza. Colpa nostra, abbiamo cantato vittoria troppo presto; stiamo scontando le conseguenze di un errore di valutazione... Soprattutto io sono in uno stato di sfinimento tale che mi vien voglia, adesso, di strozzare chi applaude ed incita; però, mi consola il fatto che anche Matteo mediti propositi omicidi contro un gruppo di marmocchi muniti di campanacci da mucca... Quel fracasso dà in testa e noi, dopo quasi 100 km di cammino, ci sentiamo autorizzati ad essete intolleranti, insofferenti e scorbutici quanto basta. E questo sentiero che non finisce mai... Passiamo tra i tavolini di un bar, poi finalmente torniamo a perdere quota; raggiungiamo una strada asfaltata, incredibile, è il paese! Ma non è finita; ancora curve e controcurve ed incroci e svolte, ed applausi ed incoraggiamenti... Finché, incredibile a dirsi, ecco lo striscione dell'arrivo. Ci eravamo ormai convinti che non esistesse, che un sortilegio ci avesse condannati a vagare per sempre dentro Chamonix calzando scarpe da trail... Possiamo sciogliere la tensione, buttarci negli ultimi metri di corsa con le gambe che paiono improvvisamente rinate, tagliare il traguardo tenendoci per mano con le braccia alte. 24h 52' 52'' il tempo ufficiale, poco più di un'ora al di sotto del limite massimo consentito, 26 h.

Il resto è recupero delle sacche con l'occorrente per la doccia, una lavata veloce al palazzetto dello sport, il rientro in pullman a Courmayeur attraverso il Tunnel del Monte Bianco, che intravedo appena, in un istante di risveglio nel sonno profondo in cui sono piombata; è una difficilissima discesa dal bus, con le gambe completamente inchiodate, è un dirigersi verso la macchina a passo lentissimo, incerto e condito dai lamenti più strazianti... Ma è anche ridere di tutti gli altri che, proprio come noi, camminano come se avessero un bastone conficcato in luogo innominabile; è tornare a casa in auto alternandoci alla guida perché non sappiamo bene chi dei due sia meno addormentato... Non è ancora tempo di realizzare davvero quel che siamo riusciti a fare, anche se sul sedile posteriore ci sono due splendidi gilet di pile con scritto “Finisher CCC”. Per questo, ci sarà tempo domani, dopo una bella, meritata dormita.