domenica 6 agosto 2017

8-9 luglio 2017: GRANFONDO FAUSTO COPPI RUNNING (E LA BICI DOVE L'HAI LASCIATA?)

L'idea è nata all'alba di un lunedì mattina di fine maggio in autostrada, in viaggio da Cesenatico verso casa, con il sonno, la stanchezza e la soddisfazione della mia settima Nove Colli Running consecutiva portata a termine, sia pure per il rotto della cuffia. Mi si è accesa una lampadina, anzi, un faro da stadio: “Perché la Nove Colli Running sì e la Fausto Coppi Running no?”
A beneficio di chi non bazzica di ciclismo, o di podismo, o di entrambi, mi sembra doveroso spiegarmi meglio. La Nove Colli più conosciuta è senz'altro la corsa ciclistica, su un percorso di circa 200 km ed oltre 3.000 m di dislivello distribuiti su nove salite, con partenza ed arrivo a Cesenatico. Sullo stesso tracciato e nello stesso fine settimana, si corre anche, ormai da parecchi anni, l'omonima versione podistica, a cui mi presento fedelmente da otto anni. Il mio primo tentativo, nel 2010, si è arenato al km 150 circa, ma i successivi sono andati tutti a buon fine. Sommato tutto ciò alle mie due o tre presenze alla corsa ciclistica, negli anni precedenti, direi che posso ambire alla cittadinanza onoraria.
La Fausto Coppi è una manifestazione solo ciclistica, per ora; si snoda su un tracciato di 177 km con quattro salite di tutto rispetto, tra cui il Colle dei Morti, anche noto con il nome più “vendibile” di Colle Fauniera, ad oltre 2.400 m di quota. Si parte da Cuneo, a pochi km da casa mia. Da qui la domanda: “Perché la Nove Colli Running sì e la Fausto Coppi Running no?”.

L'idea mi è parsa subito talmente squinternata che la mia sola capoccia, pure squinternata assai, non sarebbe bastata. Sarebbe servito l'aiuto di un'altra capoccia ancor più scombinata della mia, con il primo vantaggio di qualche anno di esperienza in più nel ramo “follia e dintorni” ed il secondo, pesante, vantaggio di un filo diretto con gli organizzatori della granfondo ciclistica cuneese. “Senti Ivano... Ma secondo te a quelli della Coppi potrebbe interessare una versione podistica? Io sono disposta a far la prova, ben volentieri!”. E' stato più o meno come buttare un cerino in una bottiglia di alcool, ma non avevo dubbi. Ad Ivano invidio profondamente alcune doti di cui io, purtroppo, non sono provvista: la faccia tosta e l'incrollabile determinazione nel calpestare gli altrui attributi fino ad ottenere, per sfinimento, quello che vuole. Non oso neppure immaginare la persecuzione che abbia messo in atto nei confronti dei componenti degli organizzatori della granfondo, non certo per ottenere un impossibile riconoscimento “ufficiale” di una corsa a piedi di tanta portata nel giro di un mese e mezzo – la Nove Colli Running è a fine maggio, la Fausto Coppi nella prima metà di luglio) – ma per far sapere, diciamo così, che ci sarei stata anche io, senza bicicletta.

Sapevo inoltre che, lanciata la palla ad Ivano, il mio compito sarebbe finito lì, fino al giorno della gara. Avrebbe provveduto lui a tutto il resto. Così è stato. Ivano il Terribile si è immediatamente arruolato come uomo assistenza pre, durante e post corsa. Ha studiato il percorso per un'ipotetica futura gara ufficiale a piedi, che io avrei dovuto sperimentare con una sorta di edizione zero, sia sulla carta che di persona. Ha scovato stradine alternative nei tratti iniziale e finale di gara, per risparmiare ai podisti lo strazio ed il pericolo del passaggio sugli stradoni principali senza tuttavia aggiungere km. Ha elaborato un ipotetico programma orario dei passaggi nei punti chiave. Si è persino procurato il mezzo di trasporto più adatto alla situazione, un agile scooter estorto al legittimo proprietario, non voglio neanche sapere con quale minaccia. E due maglie ufficiali della granfondo...

Così, alle otto e mezza di sabato 8 luglio, eccomi in Piazza Galimberti a Cuneo, messa di fronte alle conseguenze della mia pensata e del tutto inconsapevole di ciò che andrò ad affrontare. Come sempre, del resto: se fossi consapevole, non ci proverei nemmeno. In piazza fervono i preparativi per la corsa ciclistica, che partirà domani mattina alle sette. Ci sono già i gazebo dove verranno distribuiti i numeri di gara, gli espositori di bici e materiale da bici, qualche ciclista ansioso che già si aggira a chiedere informazioni. Avrei in programma di partire alle 9, ma un quarto d'ora prima esaurisco la pazienza. Accendo il Garmin, saluto i presenti che mi guardano con aria interdetta e preoccupata per il mio stato mentale e parto.
Canotta e pantaloncini corti, null'altro. Mi attende, secondo le previsioni meteo, una giornata molto, molto calda. Del bagaglio non ho bisogno: tra poco mi raggiungerà lungo la strada Ivano, che sta finendo di sistemare il necessario per il viaggio, vestiario e cibo. Con passo cauto, mi allontano dalla bellissima piazza cuneese verso il Viadotto Soleri, in direzione di Cerialdo. Toh, guarda. Credo di aver percorso un centinaio di volte il viadotto in auto e parecchie volte in bici, ma a piedi mai. La vista è una meraviglia, peccato per le reti metalliche, come se bastasse una rete a scoraggiare chi ha deciso di buttarsi di sotto. Il traffico di auto è già intenso; per fortuna c'è il marciapiede. Alla fine del ponte, svolto a sinistra e poi subito a destra: comincia qui il lungo tratto di pianura, quasi rettilineo, fino a Busca, con lo sfondo della corona di montagne vicinissime, ma dai contorni sfocati per via della calura. Questo è il primo dei tratti alternativi rispetto al percorso della GF ciclistica. Le bici percorreranno domani la strada statale, che per il loro passaggio sarà chiusa alla circolazione delle auto. In previsione di una corsa a piedi, che per ora esiste solo nella mia immaginazione e nelle mie gambe, occorreva pensare ad una variante meno trafficata, onde evitare di passare dalla condizione di podista a quella di birillo, vista purtroppo la disposizione d'animo dell'automobilista medio nei confronti di qualsiasi altro occupante della strada, peggio che mai se non dotato di almeno quattro ruote.
Per il momento il caldo sembra tollerabile; si percepisce persino un alito di vento. Ben prima della località Passatore, arriva alle mie spalle il rumore di un motorino che rallenta. Eccola qua, la scorta. Mi ritrovo subito in mano una bottiglietta d'acqua e ne “ordino” un'altra di the, quando si arriverà alla prima fontana. Ho messo nel bagaglio alcune bustine di the solubile, alla pesca ed al limone, risorsa utilissima a cui non avevo mai pensato. Ivano riparte a caccia di acqua; speriamo bene... Ha indubbiamente un talento innato per la guida di qualsiasi mezzo a motore, ma sarà dai tempi ormai dimenticati della scuola che non guida un motorino. Meno male che ci attende un percorso con poco traffico.

Procediamo così, ad elastico, per tutto il lungo rettilineo fino a Bosco di Busca, mentre il sole si alza e comincia ad incattivire. Nei giardini delle case affacciate sulla mia strada è tutto un fervore di tosaerba, tagliasiepi e decespugliatori. Il rettilineo termina all'incrocio con la strada tra Busca e Caraglio, dove svolto a destra sbocconcellando il primo panino al formaggio della giornata, seguito da una minilattina di Coca Cola. La mia scorta ha uno spacciatore di fiducia di lattine che conterranno si e no un bicchiere di bibita.
Appena prima di Busca, ci separiamo, per via di un senso unico che la moto non può percorrere. E qui mi rendo conto che la mia disorganizzazione può diventare, per me stessa, davvero pericolosa. Benché io abbia percorso queste zone in lungo ed in largo, in auto ed in bici, chissà quante volte, non mi sono minimamente preoccupata di dare un'occhiata alla cartina della gara e mi sono fatta un'idea completamente distorta, nonché assurda, dell'itinerario da seguire per raggiungere l'imbocco della Valle Varaita. Attraverso Busca senza l'assistente, che ha deviato alla ricerca di una fontanella per riempire la borraccia, ma poi, anziché seguire la logica direzione per Costigliole Saluzzo, giro, non so neanche io perché, verso Dronero. Macino così almeno un paio di km, sempre più preoccupata perché non vedo arrivare la mia scorta. Fuori dal paese, però, mi rendo visivamente conto che qualcosa non quadra: mi ritrovo la montagna a destra, quindi dalla parte sbagliata. E' bene che torni sui miei passi. Ma dove sarà Ivano? Mi starà cercando. Non ho nemmeno il telefono, ho lasciato tutto a lui. Che fare? Beh, non è che ci sia molta scelta. Torno indietro, raggiungo la strada principale e rimango lì, sperando nel colpo di fortuna di incontrarci.
La sorte è dalla nostra. Proprio all'incrocio con la strada che va a Costigliole, ecco il motorino bianco. La mia scorta è nervosa ed arrabbiata: ammiro il suo sforzo per evitare di darmi della deficiente. Anzi, quasi si fa colpa del fuori programma. In effetti, lasciata a me stessa, io divento pericolosa... Decidiamo per una breve sosta, per calmare gli animi e le gambe. I primi venti km, più la deviazione, sono andati. Ivano è preoccupatissimo, teme che io abbia sprecato tempo ed energie che comprometteranno il resto della corsa. Io no, per nulla. 180 km o 185, cambia poco, alla fine. Si riparte in direzione di Costigliole, lungo una stradina in parte sterrata. Me lo raccomanda in ogni lingua: “Devi solo andare dritto, sempre dritto. Io ti aspetto all'incrocio”. Preferisce non cimentarsi sulla ghiaia con lo scooter. Obbedisco. Andar dritto dovrebbe essere facile. Corro su un tracciato parallelo alla strada statale, in mezzo ai frutteti; poi la strada torna asfaltata e risale la collina, lentamente, tra le prime case di Costigliole. Due cose catturano i nostri sguardi: per Ivano, una bella podista in due pezzi da corsa con cui fa una gran figura; per me, una Dacia Dokker parcheggiata. Ho la passione per le auto “da carico e da nanna” e quel modello lì mi fa svitare il collo. Se potessi comprare tutte le station wagon ed i furgoni che ammiro con cupidigia, guai, dovrei avere almeno un hangar per ricoverarli tutti!
Alcuni tratti su e giù per arrivare poi nel centro di Costigliole, tra i profumi dell'ora di pranzo. Da lì, mi immetto sulla strada principale verso Piasco, all'imbocco della Valle Varaita. Il caldo è ormai a livello di crudeltà e lo stradone con l'asfalto nero e rovente non aiuta. Non so quante borracce io abbia già vuotato. Sarà dura... La scorta non mi perde d'occhio, sempre un po' avanti ed un po' dietro di me.

All'ingresso di Piasco, altra provvidenziale pausa alla casetta dell'acqua: mi siedo per qualche istante, con la schiena appoggiata alla parete di legno, come ordina Ivano perentorio. Una focaccina ed un paio di borracce di acqua frizzante fresca mi rimettono in condizioni quasi decenti. Mentre la scorta riempe un altro paio di bottiglie, io riparto, prima lungo la pista ciclabile e poi verso il centro del paese. Un lungo, sofferente rettilineo in leggera salita prima dell'incrocio per tornare sulla strada principale; da lì, un altro lungo tratto, sempre in salita appena accennata, fino a Venasca, tra auto, capannoni e col riverbero del calore rabbioso dell'asfalto. Non sarà facile... Avrò percorso una trentina di km e mi sento addosso tutta la stanchezza del mondo.
Ivano mi attende alla rotonda all'ingresso del paese. Superiamo il torrente e raggiungiamo la piazzetta centrale, dove c'è una fontana con un getto gelido ed abbondante. Altra pausa, all'ombra dell'ala del mercato. E' sempre Ivano ad ordinare lo stop. Se fosse per me, probabilmente proseguirei ad oltranza fino a sfinimento... E lo sfinimento arriverebbe ben prima della mia meta. Ma ormai ho imparato a fidarmi di quello che ho eletto come capobranco. Pur non avendo mai corso, ormai la mia scorta mi conosce anche troppo bene e sa organizzare la mia marcia molto meglio di quanto potrei fare io.
Sbocconcello un panino di Ivano, dal contenuto non identificabile: una salsa color arancio, un po' salata, un po' piccante, non capisco. “Stai tranquilla, è edibile, l'ho mangiato anch'io”, mi rassicura la scorta. Mah. Speriamo bene.

Prima di ripartire, tolgo la canottiera e la bagno per bene sotto il getto della fontana. Me la rimetto addosso con un urlo belluino per lo sbalzo di temperatura, sotto lo sguardo allibito e divertito di due passanti, e riparto di gran carriera lungo la via centrale, per non dire unica, di Venasca. Da qui, seguo la strada parallela alla principale di fondovalle, che corre dall'altra parte del torrente: c'è meno traffico, anzi, a quest'ora non passa anima viva. Altro rettilineo, altra leggera salita, altro caldo assassino. Brossasco, le botteghe per la lavorazione del legno e la produzione di mobili. Non dovrebbe più mancare molto al bivio per la prima salita, Valmala. Lo attendo con ansia, perché finalmente avrò un'ottima scusa per smettere di correre, almeno per un po'.
Qui, tra una curva e l'altra, il traffico è più intenso. I merenderos motorizzati, in questa stagione, in Valle Varaita non mancano mai. Mi preoccupano gli spostamenti a zig zag di Ivano con lo scooter... Ma non oso fiatare. “Oggi tu non devi preoccuparti per me. Devi pensare soltanto a correre. A tutto il resto provvedo io”. Sue testuali parole, a cui cerco di attenermi.

Sotto il sole rabbioso del primo pomeriggio, abbandono finalmente la strada di fondovalle. Recupero dalla scorta un paio di barrette, all'inizio della salita di Valmala. Circa nove km: a correre, qui, non penso nemmeno. Mi metto al passo, svelto sì', ma pur sempre passo. Una lattina di bibita energetica e via, un passo dopo l'altro, tagliando le curve come i maratoneti, con un po' di cautela. C'è un insolito traffico di ciclisti oggi, forse impegnati a provare il percorso della granfondo di domani. Tanto caldo e tanta stanchezza. Chissà se lo scooter patisce quanto me? Pur avendola percorsa più volte in bici, in questo momento non ricordo alcunché della salita che sto affrontando. Provvidenziale, però, il bagnetto pubblico in corrispondenza della borgata.

Curva dopo curva, la temperatura si fa un po' più sopportabile. Alzo lo sguardo per capire a che punto sono, ma tutt'intorno si vede solo verdissimo bosco fitto. Il cielo si sta velando, finalmente.
La presenza della scorta è vitale, ma se il mezzo di trsaporto è la moto, non c'è modo di fare un po' di conversazione. Chissà se avrò pensieri sufficienti a farmi compagnia da sola fino alla fine? Se ci arrivo, alla fine.

Ivano mi precede al bivio del Santuario: mette le borracce al fresco nella fontana. C'è parecchia gente quassù: anziani che chiacchierano sulla panchina di pietra, turisti, famiglie. Il tempo di bere qualcosa e riparto con la bottiglia fresca in mano. Di corsa, perché ormai la salita è alle spalle; rimane un paio di km o poco più di leggerissimo saliscendi fino al bivio per Lemma. Il GPS mi ha abbandonata, o meglio: si è rotto il cinturino... Lo lascio alla scorta e non ci penso più. Si va a sentimento, d'ora in poi.

Ivano mi precede al bivio, dove mi fa trovare un meraviglioso tomino sciolto dal caldo. Pura libidine, che però non so bene come affrontare... Lo mangio a ditate, ritrovandomi in men che non si dica il formaggio fin sulle orecchie. Lo finirò a Lemma: ora via, in discesa, approfittando dell'improvvisa frescura in cui non speravo più. La discesa è dolce, al fresco degli alberi. Qualche auto più del solito, ma credo che, anche qui, si tratti per lo più di perlustrazioni del percorso della granfondo. Le gambe vanno bene, sciolte, senza fatica; il morale per il momento è alle stelle. Lo nota anche Ivano: “Guardala lì com'è contenta”. E ci credo, che son contenta. Chi sta meglio di me?

Altra breve sosta a Lemma per finire il tomino, poi ancora in discesa. Certo, a piedi la discesa non è riposante come in bici, ma è comunque un bel sollievo. E poi, un improvviso “Ciao Giancarla!” alle mie spalle aggiunge un po' di allegria. E' Danilo, in bici, in perlustrazione su una parte del percorso della gara. Sapeva da Facebook del mio tentativo di oggi.Un bel tratto di discesa se ne va nella chiacchierata a tre. La cosa curiosa è che viaggiamo in tre, affiancati – non si scandalizzino i puristi del codice della strada, che quassù non passa anima viva oltre a noi – con tre mezzi di trasporto diversi: scooter, bici e piedi.

Il cielo si è fatto scuro, quasi minaccioso. Da un estremo all'altro. Potrebbe anche fa comodo un bel temporale... Purché si esaurisca prima della salita del Fauniera, perché salire a oltre 2.400 m di quota di notte e sotto il fortunale non sarebbe la strategia migliore per diventare vecchi. Pare quasi di sentire un bubbolio lontano. Danilo ci saluta e ci augura buona fortuna. Ne avremo bisogno, entrambi.

Verso la fine della discesa, un lungo rettilineo ci porta all'incrocio con la strada che sale alla Colletta di Rossana. Lo scooter ci arriva a motore spento, avendo finora sfruttato la pendenza. All'incrocio, svolto a destra. Non sento il rumore del riavvio, ma lì per lì non ci do peso: Ivano si sarà fermato a sistemare qualcosa nello zaino, penso. Di lì a poco, mi affianca un'auto con a bordo due giovani, un ragazzo ed una ragazza, bei visi puliti: “Signora, al suo amico si è fermato lo scooter”. Frastornata, ringrazio ed inverto la marcia: qualche centinaio di metri e trovo Ivano fermo, arenato, arrabbiatissimo. La moto non dà più segni di vita. Si è scaricata la batteria. Sul momento, non riesco a preoccuparmi: cerco invece di restare calma per non peggiorare lo stato d'animo della mia scorta. Chissà se anche per i motorini, come per le auto, funziona il trucco di ripartire in discesa?

Se c'è speranza di rimediare al guaio, la si può trovare a Rossana. Quindi, piano d'emergenza: io proseguo la corsa con un panino nella tasca, la borraccia ed il telefonino; Ivano si avvia verso Rossana a spinta. Riparto, appunto, un po' scombussolata e con mille pensieri scuri come il cielo sopra la mia testa. Sarebbe davvero triste dover rinunciare al giro per guasto meccanico. Ma, del resto, sarebbe impensabile completare il giro senza assistenza, senza uno zainetto in cui portare almeno l'essenziale, con la notte di mezzo. O meglio, sarebbe impensabile per me. Telefono a Matteo per avere un po' di conforto: “Ma secondo te c'è speranza che la moto riparta?”. Mi assicura di sì. Speriamo. Intanto, in leggera salita, raggiungo la colletta di Rossana ed inizio la discesa in direzione della strada principale tra Busca e Dronero. Ivano ha tentato di spiegarmi la strada da imboccare per evitare lo stradone, passando dalla località Morra, ma io preferisco seguire la via di cui sono certa, perché ho un'abilità tutta particolare nel perdermi.

Per il momento, sto bene. Mi sforzo di restare ottimista. Senza dubbio la mia scorta troverà una soluzione. Ne sa una più del diavolo... E soprattutto è provvisto di una dose inesauribile di faccia tosta. Il cielo, intanto, si fa sempre più scuro. Come il mio umore non appena vedo il cartello: “Dronero 10 km”. Così tanti? Ne ricordavo meno... 10 km di questa orrida piattissima strada trafficata? Per la miseria... Va bè, dai Gian. 10 sono tanti, ma sono pur sempre solo 10. Ma d'improvviso qualsiasi sciocchezza diventa un problema insormontabile. Il cibo che ho messo nelle tasche posteriori della maglia e che balla; la bottiglietta d'acqua vuota; il telefonino nell'altra mano. Tutto è fastidioso. E cominciano a cadere i primi goccioloni, senz'altro risultato che quello di aumentare a dismisura l'afa. E Ivano non chiama. Buon segno... O no? Gambe pesanti, morale a terra. Non ce la faccio più. Non ce la farò mai...

Il telefono è momentaneamente parcheggiato nel top. Non perché il contenuto del top sia tale da piazzarci in mezzo il cellulare, a mò di supporto, per carità... Solo perché l'indumento è molto stretto. Corro piano, male, con immensa fatica. Ho caldo e sete. Ho anche fame, ma non mi va di mangiare quel che ho con me. Ormai penso che tanto è inutile, non potrò continuare; la moto non ripartirà e quindi... Che senso ha patire così?
Il cellulare squilla. Rispondo con un nodo in gola. Lo scooter è ripartito! Una decina di minuti ed Ivano sarà qui. Una bella notizia... Il morale va un po' meglio, ma la stanchezza è davvero tanta. Quando finalmente la scorta mi raggiunge, sono al lumicino. Ci fermiamo ad un bivio. Io ho disperatamente bisogno di una fontana e di una sosta. Ormai sarà l'ora di cena... Ho perso il senso del tempo.

Abbandoniamo lo stradone per raggiungere, con una piccola deviazione rispetto al previsto, una frazione in cui troviamo una fontanella. Mi spiace perdere tempo, ma non ce la faccio proprio più. Sono svuotata. Mi abbatto su una panchina, mentre Ivano armeggia con le borracce e le cibarie. Ci resto per un buon quarto d'ora, fissando inebetita le finestre di una palazzina dall'altra parte della strada. Non devo avere fretta. Ma ripartire si deve, prima o poi... Ed è un vero strazio. Male alle gambe più rigide che mai, fiacca, spossatezza. Torniamo sullo stradone, approfittando però di alcuni tratti da correre sugli spiazzi davanti ai capannoni. La scorta si ingegna per tenere sveglia la mia attenzione, chiacchierando e scherzando alla sua maniera. Io sto marciando su un filo, in equilibrio precario. La pancia ogni tanto dà segni di insofferenza. Per fortuna, ha smesso di piovere... E siamo a Dronero. Un'altra piccola meta. Su istruzione di Ivano, passo in centro e scendo al Ponte del Diavolo, per poi risalire verso la rotonda del bivio per Montemale. Mi ci avvio di corsa... Ma la minima pendenza iniziale è sufficiente a ributtarmi addosso tutta la mia stanchezza. Proseguo al passo, più spedito possibile, ma faticosissimo. Così non ha senso... Non ho alcuna speranza di farcela.

Ivano scatta foto, corre sullo spiazzo del Santuario a fare il pieno di acqua fresca. Io arranco in preda allo sconforto. Le forze sono davvero al lumicino. Al bivio a destra per La Piatta, ancora una volta mi abbatto a sedere. Sto perdendo troppo troppo tempo. E non mi riesce nemmeno di piangere. Come ho potuto pensare di riuscirci? Non sono ancora neppure arrivata al centesimo km, che secondo i miei calcoli dovrebbe essere più o meno a Pradleves.
Riparto ancora una volta. Gli strappi in salita sono un'agonia. Ivano non mi molla un attimo. “Dai”, mi incoraggia, “fino alla Liretta è dura, ma lo sai, poi spiana”. Lo so. Poi spiana. Ma io non ce la faccio più...
Con la luce della sera, in un modo o nell'altro mi trascino su per la salita, fino al fatidico bivio per l'agriturismo Liretta. Poi spiana. Ed è vero. Provo, timidamente, a riprendere la corsa. Passo dopo passo, le gambe legnosissime sembrano sciogliersi un poco. Il panino al gorgonzola fa il resto. Alcuni tratti in piano, altri in leggera discesa. Si riparte, con l'animo finalmente un po' più leggero. A La Piatta sono già stati montati i gazebo del rifornimento per i ciclisti. Ci sono una fontana ed una panchina; si impone una pausa seria, ristoratrice. Mangio ancora, bevo, faccio i conti, con un filo di speranza in più. Anzi, con un'esplosione di entusiasmo. Non conosco le mezze misure. Mi attende il Colle di Fauniera: se ci arrivo, poi è fatta...

Mi avvio in discesa, lungo i tornanti ripidi di questa stradina sconnessa in mezzo ai boschi. Di lì a poco, mi raggiunge Ivano, con il motorino che dà segni di sofferenza. Uno dei freni non funziona... “Ha i freni a disco?”, domando, nella mia suprema ignoranza. “Sì”. “Allora può darsi che siano surriscaldati. Succede anche sulla mia MTB”. La scorta si rassegna a procedere in discesa fino al bivio, senza aspettarmi. Un'altra nuvola scura passa nel mio cielo: “Speriamo che la diagnosi sia giusta... Altrimenti, come se la caverà giù per il Vallone dell'Arma?

Non è solo l'illusione della discesa. Le gambe trottano bene anche nel breve tratto in piano prima del bivio per immettersi sulla strada tra Caraglio e Pradleves. Trovo Ivano che mi rassicura: il mezzo meccanico è tornato in piena efficienza. Indosso il giacchino rifrangente e riparto, ricordandomi dopo pochi metri che avrei dovuto prendere anche la pila frontale... Pazienza, non mi va di fermarmi ancora. C'è luce, per adesso, anche se ormai è la luce della sera. Raggiungo Monterosso Grana, popolato così come non l'ho mai visto nelle ore diurne. Supero camminando di buon passo la breve salita successiva, godendomi anche un brano del coro di canti di montagna nel cortile di un ristorante. Poi, l'ultimo tratto di corsa prima di Pradleves. E' quasi buio. Ivano propone una sosta caffé ed ultimo ristoro a Pradleves, prima di affrontare il mostro. Va benissimo, ma... Troveremo un locale che ci faccia un caffé alle dieci di sera in quel di Pradleves? Sono scettica.

La scorta mi precede in paese, in perlustrazione. Io cerco di allungare il passo, perché qui non si vede più un tubo e passano più auto di quanto potessi immaginare, il sabato sera in Valle Grana. D'un tratto, il fanale dello scooter si muove verso di me. Ivano ha trovato un locale ancora aperto, appena prima di Pradleves. Al bar annesso al caseificio “La Poiana” ci sono ancora alcuni avventori ai tavolini. Ammetto che la sosta mi è di conforto. Il doppio caffé e la lattina di Lemonsoda, pure. Ricaccio indietro la fretta e la smania di dover ripartire subito. La mia scorta si veste per la notte: immagino che il freddo, in moto, si percepisca ben più di quanto lo senta io, che per ora me la cavo con le maniche corte. Riparto con l'incoraggiamento della signora al banco del bar. Ora non c'è più santo che tenga: comincia la salita del Fauniera.

Procedo al trotto finché sono in paese. Con mia grande sorpresa, la serata ferve: addirittura una cena di matrimonio in un piccolo ristorante del centro. Ma, oltre il ponte, proprio dove un minaccioso cartello annuncia l'inizio ufficiale dell'ascesa... Il buio. O meglio: il buio, ma con la luce fioca della luna, più che sufficiente a permettermi di vedere dove metto i piedi. Di qui in poi, vado al passo: passo spedito, il più possibile, ma passo. Correre sarebbe un suicidio. La salita è lieve, fino a Campomolino, ma c'è e lima i muscoli già provati.

Intorno a me è un meraviglioso tripudio di lucciole. Tantissime, dappertutto. Per la vista, le lucciole; per l'udito, lo scroscio continuo ed impetuoso dell'acqua del torrente, di cui la strada più volte interseca il corso. Riflessi e bagliori tra le piccole cascate e le rocce. Mi sforzo di reggere un passo molto rapido: alla fin fine, il mio timore è sempre per la mia scorta, che immagino si stia annoiando a morte. Non che, correndo, io possa abbreviare molto i tempi... Ma camminare sembra sempre un po' una resa. Eppure, qui, devo essere prudente. Ho passato i 100 km; me ne restano circa ottanta, pesanti. Ivano non mi perde d'occhio, si porta un po' avanti e poi mi aspetta; a volte mi chiede se io abbia voglia di mangiare o bere, a volte me lo impone. Curva dopo curva, i paravalanghe, gli strappi, le pareti di roccia. Le luci di Campomolino e Castello, gialle, suggestive nella notte: sembra di essere in mezzo ad un presepio...
Tra i due tornanti ripidi appena prima dell'abitato, la stanchezza mi crolla addosso tutta d'un colpo. Mi abbatto a sedere su un muretto in pietra, subito accudita dalla mia fedele scorta, che non lascia trapelare nemmeno una virgola del suo scetticismo circa le mie probabilità di successo. Mangiare, bere. Testa e schiena appoggiate. Sconforto profondo. Sfinimento... Non ce la farò mai.

Indosso la maglietta a maniche lunghe. Sopra, metto la maglia ufficiale della GF Fausto Coppi. Si era detto di indossarla al mattino... Ma in fondo, chi mai potrebbe vederla stanotte? Non c'è anima umana viva!

Con enorme fatica, mi rialzo in piedi e riparto. Sempre al passo, consapevole che da qui, per i prossimi sei km circa, mi toccheranno le rampe più dure, fino al Santuario. Con la testa che pulsa e sembra sul punto di scoppiare, con le gambe molli. Se arrivo in cima è fatta, si era detto. Sì, ma... Arrivarci! La strada fin lassù è infinita. La meta si allontana man mano che la stanchezza mi assale.

Pensieri cupi e lacrime che premono per uscire. Passi stanchi e rampe. Non ce la faccio, ma ancora un passo ce la faccio. San Bernardo da Mentone, la rampa più dura. Le case ed i campanili di Borgata Chiotti. Il silenzio, le stelle. Nel tornante successivo, ancora una sosta. Mi siedo, mi sdraio per qualche minuto. Riparto ancora, quasi fosse una condanna. Del resto, in cima devo arrivare. Non posso mica fermarmi qua! Sullo scooter non salirei mai e poi mai, visto il mio terrore per i mezzi motorizzati a due ruote.

Un brevissimo tratto di respiro, poi l'ultimo abitato, appena sotto il Santuario. Si sentono i campanacci delle mucche al pascolo. Il cielo è di una bellezza struggente. Un'infinità di lucciole...
Mi sembra che le forze debbano sparire da un attimo all'altro. Non so nemmeno cosa sia che mi porta ancora avanti. Ormai sono certa che non ce la farò mai. Dal Santuario mancano otto km. Solo otto km... Ma ancora otto km. Ennesima sosta. Mi accascio a bordo strada. Ivano, la scorta perfetta, si siede accanto e mi offre una spalla su cui piangere. Ma sono troppo stanca: invece di piangere, mi ci addormento. Qualche minuto, ma potrebbero essere ore, non lo so. Mi sveglio irrigidita ed intirizzita. Qualche boccone, qualche sorso di the. Ancora, dinuovo in marcia. Qui si potrebbe correre, ma le gambe non ne hanno più. E questo mal di testa feroce. Conosco ogni centimetro di questa strada. Non posso illudermi che manchi meno di quel che so che manca. Non ce la faccio. Sonno, sfinimento. Ivano spesso mi affianca, mi spinge a parlare. Mi fa coraggio. Ma non bastano neppure le stelle e la luce della luna che inonda i pascoli. Crollo, letteralmente, a terra ancora due volte prima di arrivare al Colle Esischie. Da lì manca poco più di un km. E solo da lì posso cominciare a sperare un poco. Il vento rinforza, freddo. Siamo a quota 2.400 in piena notte. Povera scorta, spero non iberni. Ultimi passi quasi in piano, spediti, in un luogo meraviglioso, dove l'unica nota stonata ma necessaria è il rumore del motore dello scooter. Ultima curva, la statua di Marco Pantani, il colle. La gioia incontenibile che caccia via la stanchezza. Mi abbatto ai piedi della statua e mangio con un appetito che non immaginavo di avere: panino al formaggio e dolci, senza ritegno. Ivano si siede a fianco, in modo da ripararmi dal vento. Credo di essere parecchio debilitata... Il freddo mi entra subito nelle ossa.
Indosso la mia giacca Gore Tex, più quella di Ivano. Mi addormento, anche qui, per qualche minuto, ma il vento soffia teso e gelido. Meglio andare, non prima, però, di una foto con la luna piena sullo sfondo. Parto al trotto: il morale alle stelle mi permette di ignorare, o quasi, il dolore intenso alle gambe irrigidite. E di non pensare ai venticinque lunghissimi km di discesa da qui a Demonte.



Basta perdere poche decine di metri di quota perché la seconda giacca diventi già superflua. Vedo le luci della moto al colle Valcavera: ci arrivo, sempre al trotto, e consegno l'indumento. Poi giù, curva dopo curva. La luna si nasconde dietro ai monti: qui, sì, in effetti la frontale un po' servirebbe... Ma mi accorgo, solo adesso, che, nonostante le ore di carica, le batterie rendono immediatamente lo spirito. Pazienza. Verrà chiaro, prima o poi. Nel frattempo, cerco di sollevare i piedi un po' più di quanto mi sentirei di fare. Ivano si porta avanti un po', volta per volta: poi parcheggia lo scooter ed accende una lucina a led, lampeggiante, verso di me che ho ancora i bracciali rossi con le luci intermittenti accese. Non ci perdiamo di vista. Procedo di buon trotto, con il favore della discesa e del morale altissimo. Mi stupisco io stessa di come mi sia possibile precipitare nel baratro dello sconforto con tanta facilità... E con altrettanta facilità uscirne.

Di lì a poco, levo anche la seconda giacca. Tutto si può dire, ma non che faccia freddo. A qualche km dal colle, il buio del cielo si attenua. Primissime luci dell'alba. E prima auto che sale verso il colle. Al Rifugio Carbonetto è giorno fatto, anche se non c'è traccia di movimento umano. Solo le mandrie al pascolo e due animali selvatici che ci attraversano la strada d'improvviso e che, dalle corna, parrebbero addirittura stambecchi... Possibile? Siamo al di sotto dei duemila metri di quota... Mi sembra strano. Ma chissà, forse è l'effetto del sonno.

Tornanti e tornanti, l'aria frizzante del mattino, il tratto in piano. Le gambe sono stanche e rigide. E la discesa, lo so bene, è lunghissima. In un tratto quasi piano e rettilineo, vedo Ivano fermo a rassettare il bagaglio. Anche per lui, anzi, soprattutto per lui il sonno è ormai una compagnia scomoda ma fissa. Ed è pericolosa se si guida una moto. Indugio forse un po' troppo, ma sono davvero stanca. Nuovi dubbi mi assillano. A Demonte mancano ancora più di dieci chilometri ed io sto procedendo così piano... Passo dopo passo, sempre più fiacca. Arriviamo alla centrale idroelettrica ed alle frazioni abitate. La prima, ancora deserta se non per il latrato di qualche cane. Nella seconda, trovo Ivano impegnato, guarda caso, in conversazione con una signora: se ce n'è una nel raggio di mille miglia, a quest'ora dell'alba, lui la scova di sicuro... L'incontro con un trattore che traina un rimorchio carico di cani, più un paio di cani anche nell'abitacolo, mi mette di ottimo umore: un chiasso che non finisce più, ma è musica per le mie orecchie.

Il cielo del mattino è nuvoloso. Cade persino qualche goccia di pioggia. La partenza della granfondo in bici è prevista per le sette: mi lancio in ipotetici calcoli per capire quanto impiegheranno i primi ciclisti a raggiungermi. Quelli del percorso corto, prima, e quelli del lungo, che dovranno percorrere tutta la mia strada.

Più ci avviciniamo a Demonte, più la strada mi sembra ancora lunga. Le gambe sono a pezzi, tutto il resto è dolorante e vuoto. Il traffico si fa più intenso: penso che buona parte dei veicoli che stanno salendo verso il colle sia legata all'organizzazione della gara. Ricordo di aver visto stanotte, al Colle Esischie, un camioncino parcheggiato: probabilmente è già lì per i rifornimenti.

Ivano, ad un paio di km dal fondovalle, parte e mi precede a Demonte. Con una mossa che definire geniale è davvero riduttivo, nei giorni scorsi, ha pensato bene di portare la sua auto sulla piazza del paese e lasciarla lì. Il programma di viaggio, adesso, prevede di arrivare all'auto, dormire un'ora e poi decidere il da farsi: proseguire, oppure smettere.
Le brevi ma secche rampe che accompagnano la fine della discesa mi lasciano perplessa e demolita. Quando arrivo a Demonte, alla piazza, ho male dappertutto. Trovo l'auto. Ivano è già addormentato sul sedile passeggero. Io m'infilo nello spaziosissimo bagagliaio della Volvo Station Wagon. E' tardi, speravo di arrivare qui un po' prima. Sono le otto. Ma non ce la faccio più nemmeno a preoccuparmi. Sono distrutta, lurida, puzzolente e sfinita. Voglio solo crollare... Poi si vedrà.

Galleggio per un tempo indefinito tra il sonno ed una specie di veglia, sufficiente a farmi percepire il male ed i crampi alle gambe. Cambio posizione di continuo, ma serve a poco, visto che ogni virgola del mio corpo è pesta e dolorante. Poi la sveglia pone fine all'agonia. Le nove. Sono sveglia. Ora s'ha da decidere. Continuo o abbandono? “Quanti chilometri mancano da qui?”, domando perentoria ad Ivano. E lui comincia ad abbozzare conteggi parziali, con una flemma che mi precipita in un'ansia senza fine. Poi, con la solennità di un oracolo: “Trenta, forse trentadue”. Ok. Allora si fa. Ce la faccio, si riparte. In realtà l'avevo già deciso... Ma mi serviva un motivo per dare un senso alla mia risoluzione. Scendo, ignorando di proposito il dolore a tutto. Faccio schifo anche a me stessa, ma non è il momento di preoccuparsi di certe sottigliezze. Mi vien da ridere al pensiero di certe fanciulle che corrono con trucco e parrucco impeccabili: io sembro la sorella brutta di Maga Magò, in questo momento... Ma vorrei vedere loro, in questa circostanza!

Una rapida tappa al bagno pubblico sulla piazza. Poi afferro un paio di barrette, incurante, questa volta, delle raccomandazioni di Ivano a mangiare. La fida scorta mi spiega dove andare per raggiungere la strada militare oltre il fiume, ma ormai non lo ascolto neanche più. Ci arriverò, in qualche modo. In effetti, mentre lui risistema il bagaglio e si riorganizza, io mi perdo un paio di volte tra le viuzze del paese. Ma poi, grazie all'unico essere umano incontrato per caso accanto ad una fontana ed alla mia conoscenza dell'idioma locale, trovo la retta via. Mi raccomanda, l'anziano passante, di fare attenzione, perché è in arrivo una gara... Già!

Rieccomi sul tracciato ufficiale della gara: neanche a farlo apposta, cinque minuti dopo mi raggiungono i primi corridori del percorso corto. Sono le nove e mezza, più o meno... Significa che questi missili hanno impiegato due ore e mezza ad andare da Cuneo a Pradleves, salire al Fauniera, scendere ed arrivare qui. Inimmaginabile.
Non pensavo davvero che le gambe potessero ancora correre così. Tutto, o quasi, merito dell'entusiasmo. Ora che i ciclisti mi arrivano alle spalle, ora che la presenza di una maglia della gara ciclistica indosso ad una podista comincia a suscitare curiosità, ora che sento il traguardo, è tutta un'altra cosa. Anche se in mezzo c'è ancora la Madonna del Colletto, circa nove km di salita che non perdona.
Ivano mi raggiunge, anche lui con la maglia della gara. Anche questo, accorgimento quanto mai strategico per consentire il passaggio senza problemi allo scooter anche nei tratti in cui il traffico è bloccato per il passaggio della corsa. Chi potrebbe dire che la moto non fa parte della carovana della gara ciclistica?

Ancora qualche centinaio di metri in piano, prima del bivio per l'ultima salita. Ho il terrore, in verità, che lo scooter possa causare impiccio o, peggio, cadute ai ciclisti che ci arrivano a frotte alle spalle: soprattutto ai primi, che viaggiano spediti senza badare troppo ai possibili ostacoli. Dovrei fidarmi un po' di più... Mangio ancora qualche barretta, prendo la borraccia piena. Per adesso non fa caldo: il cielo è velato e spero rimanga tale. Un caldo pari a quello di ieri sarebbe letale.
Al bivio mi precede Ivano, che ha già sparso la voce tra gli spettatori presenti: un applauso di incoraggiamento è quel che mi ci vuole. C'è davvero tanta gente, lungo la salita. Alterno passo e corsa, schivo gli spettatori che invadono la strada, cerco di stare il più possibile di lato per non dare fastidio ai ciclisti. Poi, quando le rampe si fanno decise, mi rassegno a camminare, ma con tutt'altra andatura rispetto a quella della scorsa notte. Molti ciclisti notano la maglia: si sprecano le domande del tipo “Dove hai lasciato la bici”, a cui di norma rispondo con “L'ho dimenticata” oppure “Me l'hanno rubata”. Ma c'è anche qualcuno che, con mia grande sorpresa, conosce il motivo per cui io sono lì. E poi ci sono i compagni di squadra del Team Nordovest e gli amici di Facebook: insomma, l'incoraggiamento non mi manca. Per tacere di chi, più che la maglia color ciclamino, si fa distrarre dal pantaloncino molto, molto sgambato. Mi ribalto dalle risate quando un ciclista mi chiede di poter toccare con mano: “Se porta fortuna, fai pure”, rispondo. “Se porta fortuna non lo so, ma è tanto bello...”. Che volete farci, dalla vanità non sono certo immune.

Le rampe secche si alternano a tratti quasi in piano. Il frastuono della musica al ristoro sul colle si sente molto prima di arrivarci: mancano ancora almeno un paio di km... Ed ' un coro di ciclisti che domandano, estenuati, quanto manchi ancora alla cima. Io stessa, pur avendo percorso più volte questa salita in bici, in questo momento non ne ricordo quasi nulla. Ma ormai non può mancare molto. E comunque non mi interessa, in cima io ci arrivo, a qualsiasi costo!

Ultimo rettilineo prima del colle. Musica a tutto volume. Io tirerei dritto senza fermarmi... Ma Ivano mi intima l'alt, almeno per qualche minuto. Un panino, qualche fragola e diversi bicchieri di Coca Cola. Mi sento una ladra ad approfittare del ristoro, io che non sono nemmeno iscritta. Mentre rifiato, seduta sul muretto di fronte alla chiesetta, presto orecchio alle notizie che giungono dalla radio del punto di soccorso: pare che più di un ciclista abbia avuto la sciagurata idea di schiantarsi in discesa. Vuoi per la pioggia, vuoi per l'incoscienza. Più per la seconda, a mio parere. Infatti, i sei km di discesa successivi sono da brivido: mi tengo il più possibile di lato, addirittura fuori dall'asfalto se c'è spazio, ma i proiettili che mi sfrecciano accanto fanno paura. Ma che senso ha? Ormai i primi sono passati da un'ora e mezza almeno... Ma perché rischiare così tanto? Perché lanciare invettive se qualcuno osa scendere con un po' più di cautela? Non posso che associarmi al rimprovero canzonatorio diretto da un ciclista “normale” ad uno di questi pazzi: “Ma dove caxxo vuoi andare?”.

Sei km di discesa sono lunghi, soprattutto se le pendenze sono severe come in questo tratto. E' una coltellata nelle gambe ad ogni passo. Ho raccomandato ad Ivano di scendere direttamente a Valdieri, senza fare soste intermedie, per limitare i rischi di incidenti. Mi aspetto di trovarlo là.
A fondovalle arrivo dopo un tragitto che mi sembra eterno: ormai Cuneo è vicina, ma non ancora così vicina. Tocca portare ancora pazienza, perché gli ultimi km saranno anche i più penosi. In paese seguo il percorso dei ciclisti: Ivano aveva pensato un tragitto diverso, possibile a piedi, per abbreviare il tracciato che conduce alla strada di fondovalle, ma io preferisco evitare il rischio di sbagliare strada. E poi i ciclisti, adesso, sono la mia compagnia ed il mio sprone.
Quando mi immetto sulla strada statale, con l'incrocio ben presidiato da Carabinieri e volontari, un militare mi chiede esterrefatto: “Non dirmi che hai fatto tutto il giro”. Eccome, sono partita ieri...

Da qui, mi resta la lunga galoppata finale. Dovrò attingere alle forze che non ho più ed alla pazienza che ormai sta svanendo. Di Ivano nemmeno l'ombra, ma so di essere sulla strada giusta. Arriverà...

Mi ferma una persona a bordo strada. Dice che il mio amico sullo scooter è già andato avanti. Ok... Non so cos'abbia in mente, ma va bene. Quanto mancherà, da qui? Da dodici a quattordici km, secondo i miei calcoli. Pianura, leggera salita, leggera discesa. Calma, Gian, calma. Ormai è fatta, prima o poi arrivi, anche se di qua in poi sarà puro supplizio. Anche perché il sole ha fatto capolino ed ha tutta l'aria di voler scaldare dinuovo.

Vedo Ivano che arriva nella corsia opposta. Trafelato: gli avevano dato un'informazione sbagliata, pensava che io fossi più avanti. Ha rischiato la sanzione per aver invertito la marcia: in teoria, la strada sarebbe chiusa alle auto... Anche se a me non sembra proprio, visto che, ad ondate, le auto circolano in entrambi i sensi di marcia. Ma in questo momento, nemmeno un colpo di fucile potrebbe fermarlo. E' quasi più entusiasta lui di me...

Appena oltre Andonno, ci sorpassano i primi ciclisti del percorso lungo, almeno così mi sembra di capire. Intanto arrivano ancora concorrenti del percorso breve, con andatura ed equipaggiamento via via più turistici. Quasi tutti hanno una parola per me, che sia di incoraggiamento o canzonatoria poco importa. Va bene tutto.

Ancora una breve sosta su un'ampia piazzola. Le forze sono, davvero, al lumicino. Solo qualche minuto per sedermi e rifiatare, ma con ben altro spirito rispetto alle soste agonizzanti della notte. Mi rialzo con un po' di fatica, più che mai inchiodata. Riparto, ancora una volta.

A Borgo San Dalmazzo, la scorta mi conduce per un breve tratto fuori dal percorso della gara, che segue un anello per evitare l'abitato, effettivamente poco sensato per chi si muove a piedi. Ma si tratta di un km o poco più. Ricomincia a piovere, goccioloni sparsi, che a me fanno solo piacere. Ancora cinque o sei km: un'eternità... Devo tenere duro, perché davvero non ne posso più. Sbotto: “Io ne avrei quasi le palle piene...”. E Ivano non può che approvare. Insomma: la compagnia dei ciclisti è preziosissima, ma se qualcuno mi chiede ancora dove io abbia lasciato la bici, giuro che lo disarciono e lo butto nel fosso... Un po' di fantasia, che diamine!

Il percorso devia su una stradina secondaria in mezzo ai campi coltivati. Si vedono le prime propaggini di Cuneo. Non credo d'esser mai stata tanto felice di scorgere il profilo del palazzone dell'Agenzia delle Entrate... Anche se so che, dal centro, è ancora parecchio distante.

Quando ormai manca poco all'imbocco del Viale degli Angeli, una voce nota alle mie spalle: “Gian!”. E' Matteo, che sta per concludere il percorso lungo in bici. “Ci vediamo al traguardo”, faccio in tempo a dire, mentre lo sento spiegare al suo incredulo compagno di viaggio che io ho seguito il loro stesso tragitto, ma a piedi. Ormai è gioia allo stato puro, ma non so se ridere o piangere. Propendo nettamente per la prima opzione quando Ivano mi raggiunge e mi racconta il dialogo surreale con una madama seduta al fresco degli alberi del viale. La madama sì è stupita di vedermi passare a piedi con la stessa maglia dei ciclisti; la mia scorta, da buon filibustiere, le ha spiegato che la mia bici era stata rubata... E che quindi io ero stata costretta a far la gara a piedi. Accorata e sincera l'indignazione dell'anziana signora: “Ma che ladri... Ma in che tempi viviamo!”.


La passerella del Viale degli Angeli, per l'occasione chiuso alle auto, non me la leva nessuno. Anche se ormai sono talmente sfinita che arrivo persino ad odiare questo meraviglioso viale alberato ed a desiderarne, solo per un momento, l'abbattimento totale... Ivano avverte per telefono gli organizzatori del mio imminente arrivo. Intanto Matteo, che nel frattempo ha tagliato il traguardo, torna indietro in bici. Così, per l'ultimo chilometro agognato, il centoottantesimo o giù di lì, di scorte ne ho ben due... E con entrambe arrivo, incredula, in Piazza Galimberti. Passo sotto l'arco quasi con imbarazzo, come se fossi un'intrusa... Ma la festa finale è anche per me, con tanto di palco e di ricchissimo premio, quasi fossi un po' vincitrice anche io. Infatti lo sono, anzi lo siamo, in due, visto che nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l'aiuto di Ivano. Io ci ho messo le gambe, ma la testa e tutto il resto ce li ha messi lui. Se si proponesse in affitto come uomo scorta per le corse podistiche, avrebbe prospettive di luminosissima carriera! Insomma: sono, anzi siamo, ecco, siamo la prima persona ad aver percorso la granfondo ciclistica Fausto Coppi, percorso lungo, senza bicicletta. Detta così, sì, fa un certo effetto!


sabato 5 agosto 2017

20-21 maggio 2017 - NOVE COLLI RUNNING

 Preparatori atletici e nutrizionisti, fatevi da parte... Non avete speranza di competere con la MADRE, che alle cinque e mezza del pomeriggio, al mio rientro anticipato per l'occasione dall'ufficio, mi fa trovare una ciotolona colma di fonduta in cui galleggiano gli gnocchi. “Devi fare il pieno di energie”, sentenzia. E chi sono io per disobbedire alla mamma? Ammetto però che l'impresa è ardua: ingollo metà del lauto pasto subito e metà qualche ora dopo. Come sempre, la preparazione dei bagagli è avventura dell'ultimo minuto; in più, prima di partire, devo preoccuparmi di organizzare tutto affinché la genitrice ed i tredici cagnoni possano sopravvivere due giorni e mezzo in mia assenza. Morale della favola, accendo il motore della Zafira quando sono già passate le dieci di sera.

Il viaggio non comincia sotto i migliori auspici. Sono parecchi mesi che non mi allontano da casa per ben tre notti: mi assale un senso di angoscia e di disgrazia imminente. Ma forse è solo colpa della stanchezza: sono in piedi da prima dell'alba e non posso certo far finta di ignorare il sonno, nonostante il caffé tracannato a litri. I riflessi fanno quel che possono e la trasferta è, per forza, molto lenta e carica di tensione. Il programma prevede di arrivare oltre Bologna, per evitare il rischio di intasamenti il sabato mattina, e fermarmi in autogrill a dormire, con il sacco a pelo. Ma getto la spugna poco dopo Modena: è l'una e non riesco più a tener gli occhi aperti. Area di servizio: giusto il tempo di puntare la sveglia alle otto del mattino e crollo in un profondissimo sonno, da cui mi risveglio alle prime luci dell'alba. Guardo l'ora e mi riaddormento, ma di lì a poco il trillo imperioso del cellulare mi ricorda che la MADRE non dorme mai... E già reclama mie notizie. Ok, ci rinuncio, tantovale che mi rimetta in marcia.

Un incidente, segnalato alla radio, mi costringe ad un tratto fuori autostrada. Raggiungo Cesenatico ben prima delle nove, sotto un cielo che definire plumbeo è ottimistico. La partenza della corsa è a mezzogiorno: meglio provare a dormire ancora un po'... Ho la fortuna di poter quasi dormire a comando. Mi risveglia, a tratti, il rumore degli scrosci di pioggia sulla carrozzeria, ma riprendo piena conoscenza solo dopo le dieci.
Pazienza, se non altro non si patirà il caldo. E' ora che mi cambi e mi prepari per il via. Soprattutto, è il momento di dare l'ultima occhiata alle sacche per i cambi d'abito, da lasciare ai rifornimenti. Ho intenzione di mandare l'abbigliamento per la notte al punto di ristoro del km 70 circa, al Ciola, e quello per il mattino, come gli anni scorsi, al Pugliano, al km 130 circa. Nello zainetto che porterò sempre con me infilo i documenti, la chiave dell'auto, la giacca impermeabile, un tubetto di pasta di Fissan e qualche barretta. Dopodiché, con aria da funerale e passo adeguato, mi avvio verso il Municipio.

Ormai mi sento quasi a casa, qui a Cesenatico. Sono almeno dieci anni, tra granfondo in bici e corsa a piedi, che mi ci presento puntuale a maggio. Potrei quasi avanzare richiesta di asilo. Vero, non sarei il tipo da vita in una cittadina turistica di mare; ho un livello di sopportazione dei miei simili prossimo allo zero. Però, c'è anche da dire che i Romagnoli sono, per la mia esperienza, persone con cui si sta bene... La gentilezza proverbiale e la risata sempre pronta sono due fattori non trascurabili per la qualità della vita.

Il punto della partenza brulica già di corridori, assistenti e spettatori. Qualche saluto e poi ritiro il mio pettorale, numero 7: infatti, se ce la dovessi fare anche stavolta, si tratterebbe della settima Nove Colli Running conclusa. Se. Ma è troppo presto per pensare all'arrivo.
Il pacco gara contiene una bellissima felpa ed una bandana, entrambi col marchio della gara. Torno all'auto e deposito tutto nel bagagliaio. Per ora non piove...

Il solito, interminabile appello dei partecipanti, uno per uno. Momento di curiosità e di ansia insieme. Si parte dal numero più alto... Quindi posso godermi la sfilata di quasi tutti i partenti, visto che ho il numero 7. Intanto, i primi goccioloni piombano sui crani. Ecco... Tempismo perfetto. Le ultime raccomandazioni e la vana ricerca dell'unico iscritto che non ha risposto all'appello: non si trova da nessuna parte... Probabilmente avrà avuto un attacco di saggezza e se ne sarà rimasto a casa.

Poi, quasi puntuale, il via. Sotto uno scroscio di pioggia, si parte. Ed il pensiero è sempre lo stesso: fino a domani pomeriggio, sarà lunghissima... L'anno scorso, con me, c'era il buon Ivano, impegnato in un'impeccabile ed assidua scorta ciclistica. Anche oggi avrebbe dovuto essere qui, se un incidente in bici e conseguente frattura del bacino non l'avesse immobilizzato a letto. E, ne sono certa, non esserci gli rincresce quasi più che essersi sinistrato. Ecco un ottimo motivo per cui ce la devo fare: non voglio causargli sensi di colpa.

La pioggia ci accompagna per i primi chilometri, poi cessa. Ho fatto bene a tener duro e non indossare subito la giacca impermeabile: sarei già alle prese con un irritante metti giacca – togli giacca. Non si può certo dire che faccia caldo, adesso, con gli abiti umidicci, ma si corre e ci si scalda.
Per i primi chilometri, come sempre, mordo il freno ed inganno la fatica chiacchierando. Ormai qui ci sono i fedelissimi della corsa; ogni anno è quasi un raduno di compagni di scuola. E qualche nuovo arrivo a cui vengo additata come quella da seguire per arrivare senza dubbio alla fine. Vorrei averla io, questa certezza... Quattro ciance con Popof, con Alina in bici al seguito della fortissima Brenda candidata alla vittoria assoluta, con ABS alias Andrea. Quest'ultimo è ormai il mio portafortuna; il gesto scaramantico di appioppargli un ceffone su una chiappa è ciò che garantisce il successo della mia corsa. Anche per questo, ero molto preoccupata di non aver visto il suo nome nell'elenco iscritti: per fortuna c'è, anche se in versione ciclista assistente. Speriamo che il palpeggio sortisca lo stesso l'effetto sperato.

Il cielo nuvoloso ci regala, per ora, una temperatura più che sopportabile, rispetto al caldo assassino degli anni scorsi in questo primo tratto pianeggiante. Corriamo lungo un tratto di pista ciclabile sterrata, tenendo a destra il letto di un torrente. Ad un tratto, lungo la strada asfaltata dall'altra parte del corso d'acqua, da una moto due persone si sbracciano verso di noi e suonano a tutto volume: che cari, quanto entusiasmo, fanno il tifo... Macché: tempo qualche istante e realizziamo che i due figuri non ci stanno salutando: stanno cercando di farci capire che siamo sulla strada sbagliata! All'ultimo bivio, il vigile di guardia all'incrocio ci ha fatti proseguire anziché farci attraversare il ponte... Bisogna tornare indietro! Beh, nel mio gruppetto non si manifesta grave irritazione: in fondo, si tratta di recuperare poche centinaia di metri. Ma chissà dove sono già arrivati i primi... Ululati di giubilo dai miei compagni di viaggio, appena invertiamo la marcia: “Ragazzi che culo... Siamo quasi i primi!”. E poi, suvvia... Se saremo in grado di arrivare alla fine di 202 km di corsa, ce la faremo anche a farne 203! O no?

Recuperata la retta via, alla spicciolata veniamo raggiunti e superati da chi, già prima, era parecchio avanti rispetto a noi, ma per qualche istante ci godiamo la gloria della testa della corsa.

A Cesena il primo bel ristoro ricco, con tanto di fragole e ciliegie. Merita una breve sosta, anche per riempire la bottiglietta di plastica che quest'anno ho deciso di portare con me. Non sopporto le borracce nello zaino e fatico a tollerare la sacca per l'acqua... Senza contare il fatto che, se nello zainetto avessi messo la sacca, non avrei potuto mettere altro o quasi. Ho comprato al supermercato una bottiglietta di bibita lunga e stretta, che si potesse portare comodamente in mano; spero di sopportarla per tutto il giro.

Attraversata la città, rimane l'ultimo tratto in piano prima dell'attacco della salita del Polenta: anch'esso, per fortuna, in ombra. Fino a poco tempo fa amavo molto il caldo. Ma ora, sarà l'età, lo tollero sempre meno. Vorrei solo smettere di pensare alle mie gambe ed alla mia condizione. Se non stessi bene, mi preoccuperei. Invece sto bene e mi preoccupo anche di più. Forse ho esagerato fin qui? Vorrei non sapere che ora è, ma naturalmente c'è l'inopportuno di turno che, ad alta voce, fa sapere a tutti che i primi 21 km sono stati coperti in 2h e 10'. Un po' troppo svelti, contando che siamo ad un decimo del percorso.

Rapida sosta al punto di ristoro. L'errore di percorso ha fatto sì che l'affollamento, quando arrivo io, sia maggiore del solito. Tempo di riempire la bottiglietta ed afferrare al volo qualcosa da mangiare e riparto: non voglio perdere tempo, non ancora.
La prima salita inizia appena oltre il semaforo. Alla fontanina, due anziani giunti con tanta buona volontà e la Panda carica di taniche da riempire d'acqua sono costretti, loro malgrado, a cedere il posto ai corridori accaldati, ma fanno buon viso a cattivo gioco.

Il Polenta è insidioso: alterna strappi severi a tratti in piano ed addirittura in lieve discesa, in cui si può correre. In salita non si può, o meglio, io non può. Sono troppo pesante, dovrei perdere almeno dieci chili; ma l'unica tecnica con cui potrei riuscirci sarebbe l'amputazione di una gamba. Controproducente, direi. Cammino di buon passo ed osservo, invidiosa, un podista che va su camminando, con i bastoncini da montagna. Ero fermamente decisa anch'io a portarli: in salita, anche su asfalto, sono di enorme aiuto. Il problema è che in quel caso, sì, avrei avuto bisogno dell'assistente per scarrozzarli nei tratti in cui a me non fossero serviti. Portarmeli dietro da sola per tutto il percorso sarebbe stato gravoso: è noto che, oltre ad un certo livello di stanchezza, ciò che prima era fastidio poi diventa un macigno.

Scruto il cielo. Per il momento, le nuvole non destano grande preoccupazione. Il meteo, tuttavia, annuncia temporali nella notte: la peggiore delle circostanze possibili. Va bè... Godiamoci questo spettacolo di colline nella luce bigia del tardo pomeriggio. Poi si vedrà.
Tra corridori ed assistenti al seguito, chi in bici e chi in auto, siamo una bella folla su questa strada che immagino, diversamente, quasi deserta. L'allegria, per ora, regna sovrana. Al punto di ristoro, in cima alla salita, birra e patatine: cosa si potrebbe chiedere di più dalla vita? Ottimi antidoti contro la nausea da barrette e dolciumi in genere; gradisco molto.

La prima discesa, piuttosto ripida, va via veloce. Mi sforzo di lasciar andare le gambe, di frenare il meno possibile. Il prossimo tratto, lunghi km di falsopiano in salita, sarà un'ottima prova per capire come sto. Intanto, Fratta Terme: punto di ristoro. Questa volta, patatine, birra ed anche un paio di spicchi di limone, per tenere sotto controllo l'attività della pancia, che per ora – prima volta dopo anni ed anni di tribolazioni – non ha ancora dato segni di alcun problema. Ottimo incoraggiamento.

Il tratto che segue, fino all'attacco della seconda salita, è lungo ed insidioso. E noioso. E faticoso, perché non è considerato una salita, ma costringe ad un sacco di salita. Le gambe, per ora, vogliono correre... Ma con cautela e senza mai vergognarsi a percorrere tratti al passo. Al prossimo colle, Pieve di Rivoschio, km 57, è fissato il cancello orario: vero, non ho mai avuto alcun problema a superarlo in tempo, ma non si sa mai. Intanto, gli assistenti degli altri corridori fanno la spola e non lesinano mai parole di incoraggiamento. Non ho la mia scorta personale, ma è quasi come se l'avessi... C'è chi segue i corridori in auto, con tanto di numero di gara e cartello “scorta tecnica” appeso ai finestrini; chi preferisce la moto e addirittura chi si è dotato di bici elettrica.

Proprio quando i primi, subdoli segni di stanchezza cominciano a fare capolino tra le fibre dei muscoli e soprattutto tra i pochi neuroni, ecco che si materializza, provvidenziale come non mai, il fascinoso Andrea ABS, il Mel Gibson di Sant'Ilario d'Enza, in tutta la sua ciclistica beltà. Il vile, che fino all'anno scorso si è presentato a Cesenatico in veste di podista, oggi si è saggiamente convertito al ruolo di assistente in bici: non di qualcuno in particolare, però. Assistente, in generale. Così, in questo noioso tratto, mi degna della sua assistenza psicologica. Bene: mi farò quattro risate e mi rifarò gli occhi. Mi chiede del mio viaggio da casa: non si stupisce del fatto che io abbia dormito in auto la notte prima della gara... Ma si scandalizza oltremodo, quando ammetto vergognosamente di aver prenotato una stanza d'albergo per la sera e notte dopo la corsa. E' vero, ha dannatamente ragione: sto invecchiando. Una volta non l'avrei mai fatto. A fine gara, mi sarei tristemente trascinata fino all'auto, mi sarei messa alla guida in condizioni, sia fisiche che igieniche, disperate e mi sarei avviata verso casa combattendo una battaglia impari contro il sonno. Ma si sa che, invecchiando, si diventa saggi, o fifoni. Quindi, questa volta, mi concederò una doccia e qualche ora di sonno civile, prima di ripartire.

Attacco, si fa per dire, la seconda salita con l'occhio fisso ai nuvoloni che incombono. Per ora, il cielo è ancora in parte sgombro, ma i cumuli bianchi non promettono nulla di buono. Si va su al passo. ABS ancora presente, ma per poco: deve tornare a casa. Lo ammetto, un po' mi dispiace. Chiacchierare tiene lontana la stanchezza, almeno finché possibile. Ma me lo devo mettere in testa: quest'anno me la devo cavare da sola.
Un punto di ristoro a circa metà salita: mangio qualcosa di dolce, anche se avrei piacere, al contrario, di cibo salato. Quando la fame si fa brutta, il dolce non basta più, anzi; nausea... Anche il corridore che arriva appena dopo di me nota la mancanza di cibo salato. Brontolando sull'argomento, ripartiamo insieme. Non avrei potuto essere più fortunata: sono incappata in un corridore veneto, anzi, proprio veneziano, io che adoro ascoltare il suono della parlata di quella regione. Anche se a Venezia sono stata di passaggio solo un paio di volte, all'arrivo della Maratona, e non amando né il caos né le città, non tornerei. Mi faccio raccontare qualche aneddoto della vita in un posto così particolare: molti aspetti che chi vive sulla terraferma dà per scontati, laggiù, non lo sono affatto...

Così, tra una chiacchiera e l'altra, raggiungiamo la cima della salita ed il punto di ristoro, dove troviamo il boss Castagnoli con il suo inesauribile entusiasmo. Mi sforzo di mangiare un po' più di quel che avrei voglia, in ordine sparso, dal pane con la marmellata alle arachidi tostate, ai pomodori con il sale, alla frutta secca. E naturalmente l'immancabile goccio di birra. Primo cancello orario comodamente superato: si riparte. Il mio compagno di viaggio veneziano si attarda ancora un po', ma io ho una missione da compiere. So che, non molto lontano dal punto di ristoro, prima che la strada cominci a scendere decisa, sono piazzati i wc chimici destinati a chi correrà domani in bici. Ne approfitto, di già che la pancia mi ha fatto la grazia di non reclamare soste, fino qui.

Il cielo è suggestivo e minaccioso: si va verso la sera; la luce è di un giallo intenso che dà al panorama di colline a perdifiato un aspetto quasi sinistro. Le gambe, in discesa, reagiscono ancora bene. Appena prima del bivio, alla fine della discesa, mi raggiunge il venessian. Ci attendono pochi ma insidiosissimi km fino all'attacco della salita del Ciola: due o tre, ma lungo una strada un po' più trafficata delle precedenti e, soprattutto, in leggera logorante salita. Non dovrei correre, ma mi sento quasi vergognosa a non farlo... Il rischio di stancare troppo le gambe è altissimo.

D'un tratto, si leva nell'aria una mitragliata di irripetibili bestemmie a volume inaudito: nientemeno che un automobilista infastidito da una delle auto scorta, che viaggia lentamente affiancata, per un attimo, ad un corridore. Un pazzo furioso. Non mi viene neppure da ridere: al di là del fatto che lo tirerei fuori dall'abitacolo e gli spianerei la dentiera a calci, mi viene spontaneo pensare che magari un energumeno del genere a casa ha una famiglia costretta a subire le sue intemperanze... Chissà, spero di no.

Sono ben lieta di raggiungere l'inizio della salita del Ciola. Mi sento autorizzata a non correre più, almeno per qualche km. Continuo a viaggiare in compagnia, condividendo, come spesso succede, un tratto di strada e qualche pezzo di vita. Ma poi, tanto temuta, la pioggia arriva a guastare tutto. Poche gocce, all'inizio: spero di riuscire a raggiungere il punto di ristoro prima di essere costretta ad indossare la giacca impermeabile... Non ho voglia di levare ed aprire lo zaino, vestirmi ora, per poi giungere al colle, svestirmi nuovamente e prepararmi per la notte. Così azzardo e proseguo, sotto l'acqua che adesso vien giù a scrosci. La canotta è presto fradicia; il vento che s'è alzato è gelido. Per quanto possibile, cerco di accelerare. Ma dove diavolo è finito il ristoro? Quanto manca? Ecco, ora sì, sono fradicia ed ho freddo, ma non ha più senso indossare la giacca a questo punto...

Per la miseria. E' il diluvio. Cominciamo bene... La notte si presenta sotto i migliori auspici. Raggiungo il punto di ristoro, per accorgermi, con una certa incredulità, che non c'è altro riparo che il gazebo del ristoro stesso, sotto cui però sono già ricoverati i volontari ed i tavolini con le derrate alimentari. Un rapido sguardo nei dintorni mi fa capire che c'è poco da fare: se mi voglio cambiare, mi tocca cambiarmi alla pioggia. Ed è qui che ho spedito lo zaino con l'abbigliamento per la notte. Ok Gian. Questa è la situazione. O molli e ti ritiri, oppure ti adatti, muovi le chiappe ed affronti la dura – ed umida – realtà.
Mi ricavo un angolino di gazebo, in modo da avere la testa al coperto e le chiappe alla pioggia mentre rovisto nello zaino. Così, la goccia che piomba pesante dal bordo del gazebo mi coglie esattamente a metà schiena, con precisione da cecchino sadico. Reprimo un improperio. Tiro fuori la maglia con le maniche corte, i manicotti, i guanti, i pantaloni 3/4... Tutto drammaticamente umidiccio, per usare un eufemismo. Bene. Via la canotta, mi rassegno ad indossare quel che c'è: sarà anche bagnato, ma forse – spero – sarà comunque uno strato un po' più spesso di quel che ho addosso fino adesso. E poi, suvvia... Sarei comunque destinata a bagnarmi.

Semi ignuda alla pioggia, rincaro la dose di pasta di Fissan nei punti critici. Le scorticature nei punti critici di sfregamento, con la pelle bagnata, sono quasi una certezza; meglio prevenire. Mi rivesto ed infilo, sopra a tutto, la giacca impermeabile Gore Tex, con tanto di provvidenziale cappuccio. Metto su la pila frontale ed il giacchino rifrangente: tra poco sarà buio del tutto. Mi concedo, anche qui, una raccapricciante accozzaglia di sapori che fanno a pugni l'uno con l'altro e bevo, stavolta per dimenticare. Poi via di corsa sotto la pioggia battente.

Per fortuna, di lì a poco, lo scroscio si attenua. Sta calando il buio. Delle lucciole che di solito fanno compagnia in questo tratto, ovviamente, neanche l'ombra. In compenso, arrivano i primi ciclisti della prova notturna, incuranti del buio e della pioggia. Molti, a dire la verità, sono dotati di luminaria anteriore e posteriore da far invidia ad un camion, ma qualcuno è davvero invisibile, soprattutto per un automobilista alle prese con il parabrezza bagnato. Speriamo bene. Sono meravigliose le luci applicate ai raggi delle ruote o addirittura ai cerchi; creano effetti molto suggestivi.

La situazione è critica, almeno dal punto di vista della temperatura. La strada non scende ancora, anzi, a tratti risale; piove, ma la giacca impermeabile tiene caldo più del necessario. Toglierla, però, significherebbe raffreddarsi troppo. La vita del podista notturno umido è tutta un dilemma...
Il mio collega veneziano si lancia giù con una foga che non tento nemmeno di imitare. E' pur vero che si scende, ma, a piedi, la discesa non costituisce né un vantaggio né un'occasione di riposo. Calma e gesso. La pila frontale mi aiuta un po' ad evitare le buche, anche se le lenti degli occhiali bagnate sono una vera iattura. Curva dopo curva, sembrano interminabili i km che portano a Mercato Saraceno. Mi distraggono un po' gli scambi di saluti con i ciclisti, che sfrecciano via come se l'asfalto fosse perfettamente asciutto. Chissà quanti di loro parteciperanno anche alla granfondo, domani?

In paese, c'è vita, tutta concentrata nei due bar sulla piazza. Il punto di ristoro degli anni scorsi non c'è più... Trovo solo un tavolino con alcune bevande. Poco male. L'ascesa al Barbotto è dura, ma è breve. Supero il ponte, attacco la prima rampa. Un trio di ciclisti scatta foto con il telefonino: “Ma tra noi – domando – chi è più malato?”. E' una bella lotta. Salgo al passo, più rapido possibile. Ogni tanto immagino qualche variazione sul tema: meglio passi brevi o molto rapidi, oppure passi lunghi per fare più strada? La tecnica perfetta non credo ci sia. La tecnica perfetta sarebbe perdere peso, ma nel mio caso è più facile che un cammello obeso passi per la cruna di un ago piccolo...

La fame si fa sentire, prepotente. Mi tornano in mente le raccomandazioni di Ivano: fermati, riposati, mangia da seduta ed appoggia la schiena”. Ha ragione da vendere, pur non essendo podista. E' incredibile il beneficio che può derivare per le gambe, in termini di recupero, sedendosi qualche minuto. Peccato solo che io non abbia molti minuti da dedicare al riposo.

Cade qualche goccia mentre affronto l'ultima rampa. Niente lumini quest'anno: sarebbe dura tenerli accesi. Il grande punto di ristoro si è spostato: è piazzato sulla destra, all'ingresso di un locale pubblico. Chiedo subito un piatto di pasta: non mi pare ci sia coda, ergo non avrò molto da aspettare. Detto, fatto; eccomi col piatto in mano, alla conquista di una sedia.
Inforchetto le penne una ad una, cercando di non ingozzarmi, mentre mi guardo intorno. Provo un tale senso di calma che quasi, paradossalmente, mi preoccupa. La bolgia dantesca di corridori infreddoliti e stanchi ed assistenti volenterosi si agita frenetica, ma io son qui, seduta, gambe distese in posizione tutt'altro che elegante e femminile, fiero cipiglio e mascella in movimento. Nel frattempo, riprende seriamente a piovere. Mi avvicino al banchetto, bevo e mangio ancora un po' di tutto in ordine sparso, senza mai dimenticare birra ed arachidi salatissime, poi riparto, sotto la pioggia.

Non ricordo mai con precisione quanti km separino il Barbotto da Sogliano al Rubicone. Quindici, forse. Tuttavia, so bene che sono km odiosi di perenne saliscendi, che induce a correre e poi a pentirsene amaramente. Non c'è panorama. Cielo coperto e leggera pioggia; tratto monotono ed angoscioso, se non fosse per qualche ciclista che ancora ci accompagna. Ma le auto dell'assistenza sono una presenza costante e di conforto, anche se nessuna di loro è qui per assistere me. In verità, non sopporterei l'assistenza motorizzata: non servirebbe per tenermi compagnia e mi darebbe il patema d'animo di sapere che i passeggeri si annoiano a morte... Ben altra cosa è la scorta in bici; ovviamente, per una corsa come questa, deve essere affidata ad un ciclista di tutto rispetto, che deve sì pedalare alla velocità di una persona a piedi, ma per duecento km, con tutte le salite e con il carico di bagagli.
Ogni tanto, qualche stella fa capolino tra le nubi, ma è una pia illusione. Per adesso, pioviggina, ma per fortuna non fa freddo, nonostante gli abiti umidi. Per ora.

Al ristoro di Sogliano, un'abbondanza di scelta inaudita: tra le altre cose, anche alcune barrette di cioccolato, che per adesso posso anche prendere, contando sul fatto che non si scioglieranno. Ho voglia di mangiare qualcosa di dolce, ma poi il dolce mi nausea subito. Breve visita di cortesia ad uno dei miei adoratissimi Sebach, piazzati lì per la granfondo di domani, e poi via, in discesa. Meglio non pensare che qui sono circa a metà gara. Altri 100 km... Le gambe sono stanche, sentono il bisogno di soste frequenti che però non mi posso permettere. Il tempo massimo incombe.

A Ponte Uso, in fondo alla discesa, ultimo punto di ristoro prima di un lungo tratto di solitudine. Ancora un po' di the, un po' di Coca Cola. Puntualmente, prima di arrivare al banchetto, mi riprometto di mangiare questo e quello e fare il pieno... E poi, quando sono lì, è quasi un senso di rifiuto. Ivano, se sapessi quanto mi mancano i tuoi panini al gorgonzola! Ne spazzolerei un paio volentieri.

Torno ad immergermi nella notte. Poche parole con altri viandanti: menare la lingua è un ottimo palliativo per la stanchezza e per il sonno, ma mi costringe ad adattarmi al passo altrui, cosa che può rivelarsi molto pericolosa. Quindi, in breve, sono costretta a lasciar allontanare i miei occasionali compagni di viaggio. Alterno passo e corsa in questo odiosissimo tratto che mi sembra sempre interminabile. E quando finalmente attacco la salita di Monte Tiffi... Comincia a piovere sul serio. Salita abbastanza breve, circa 4 km, buia e cupa. Le auto delle scorte continuano a fare su e giù, podisti mi precedono e mi seguono, ma su tutti è calata una cappa pesante di preoccupazione e silenzio. Mamma mia... Se continua così, è ben difficile che io ce la faccia, ad arrivare a Cesenatico.

La pioggia cade abbondante; in pochi attimi, rivoli d'acqua corrono lungo la strada. Con gli occhiali bagnati, vederci comincia a diventare un problema. Beh, finché si sale, più o meno ci vedo... L'ascesa è breve, ma su questo colle non ci sono punti di ristoro. Tocca arrivare fino al Perticara. In cima, a bordo strada, si affollano ferme le auto delle scorte, in cui si infilano podisti intirizziti alla ricerca di un momento di sosta e riparo. Non so quanto sia di conforto, in realtà. Credo che, se mi fermassi qui al riparo, difficilmente poi sarei in grado di ripartire. Meglio non pensarci e tirare dritto. Il cappuccio della giacca, sfregando contro le orecchie con il movimento, mi fa sentire un brusio confuso dai goccioloni di pioggia che picchiano insistenti sul tessuto. Che idea provvidenziale è stata mettere nello zaino del ricambio i pantaloni ¾. Vero che si sono infradiciati in pochi secondi; tuttavia, la sensazione sulla pelle è meno penosa rispetto all'acqua diretta.

La discesa è un pianto. Dovrei e vorrei correre, ma come faccio, senza veder nulla? Al buio ed alle lenti bagnate si aggiunge la nebbia, contro cui la pila frontale può poco o nulla. Provo a levarla dalla fronte ed a tenerla in mano, ma la situazione non migliora di molto. Letteralmente, non vedo dove metto i piedi. Conoscendomi, è una condizione pericolosissima; io riesco ad inciamparmi spesso e volentieri anche con la migliore visibilità... Se non corro, perdo tempo; se non corro, mi congelo. Non vorrei lasciarmi prendere dall'ansia, ma non ho difesa. Buche e crepe nell'asfalto sono un'insidia. Quanto manca alla prossima salita? Almeno, lì, ci si scalda un poco e si cammina...

Quando ormai sono certa di essere lontana anni luce da tutto e da tutti, galleggiante nella nebbia, ecco una voce. Allucinazione? No no, è proprio una voce umana e persino conosciuta. Il buon Paolo mi raggiunge poco prima dell'attacco del colle successivo. Devo dire che mi capita di rado, molto di rado, di accogliere la vicinanza di un essere umano con tanta gioia. Paolo sembra molto più tranquillo di me, come se per lui la situazione non rappresentasse un problema. Per me, un po' di calore, anche se solo psicologico. Se qualcuno ce la fa, allora si può fare. Forse. E poi, con le lenti bagnate combatte anche lui... In salita, ci distraiamo a vicenda a suon di chiacchiere, mentre la pioggia ci sferza senza misericordia. La giacca Gore Tex ha fatto quel che ha potuto, ma per i miracoli, come si suol dire, ci stiamo attrezzando... Sono fradicia in ogni dove. Man mano che prendiamo quota, si aggiunge il vento: è l'unico particolare da cui capiamo di essere ormai vicini al colle. Rimangono un paio di km di strada in falsopiano, oltre il bivio, prima di giungere al punto di ristoro di Perticara. Coperto, per fortuna, ma ovviamente non riscaldato, considerata la stagione.
Paolo ha saggiamente mandato qui una borsa con abiti di ricambio, che, fortunatamente, sono persino asciutti. E' molto più attivo e razionale di me: si cambia, si sistema, organizza le sue cose con calma. Io non riesco a far di meglio che inchiodarmi su una sedia a tremare. Tolgo la giacca impermeabile, cerco di scuoterla per asciugarla un poco, se possibile, ma lo sforzo è quasi vano. Intorno a me, un girone infernale di podisti mezzi ibernati ed assistenti che si affannano a portare in giro abiti asciutti e piatti caldi di pasta. Molti hanno già comunicato di voler abbandonare la corsa. Io stessa sono in dubbio. Come faccio a buttarmi fuori di qui in queste condizioni meteo? E con il freddo che mi è già entrato nelle ossa da un po'? Provvidenziale e salvifica è la maglia con le maniche lunghe che mi offre Paolo. Calda e morbida, soprattutto asciutta. Quel che ho addosso adesso, potrei strizzarlo. Mi cambio con gran fatica; mangio un piatto di pasta. Mollare? Sto perdendo tempo, mi sembra di essere qui ferma da un'eternità. Sarà bene che mi decida alla svelta. Un piatto di pasta. Continuo a tremare; mi chiedono se voglia una coperta o un the caldo. No... Devo ripartire a tutti i costi, subito. Rimetto addosso la giacca, purtroppo bagnata. La maglia si inumidisce subito... Ma almeno è spessa e mi aiuterà a scaldarmi un poco. Via, di corsa, un gelido trauma. Non ci pensare, Gian, tra poco sarà l'alba. Qualche km di stradone in discesa e la pioggia che sembra voler cedere il passo. Qualche podista in più. Ho timore di aver perso troppo tempo al ristoro, ma non avrei potuto fare altrimenti.

Il primo chiarore illumina il bivio alla fine della discesa. Un odioso tratto di brevi strappi in salita tra le cascine, dove non posso fare altro che camminare, e poi qualche km su uno stradone, con il traffico di qualche automobilista molto mattiniero. Le gambe, irrigidite dai km e soprattutto dal freddo, stentano a rimettersi in moto, ma qui bisogna correre, a tutti i costi. Almeno fino all'agognato punto di ristoro all'attacco della salita numero sette, il Pugliano. Qui si mangia, purtroppo poco perché a questo punto, nonostante la fame, trovo nauseabonda qualsiasi cosa. Ma soprattutto si beve, perché il goccio di birra all'alba non me lo leva nessuno.
Ogni anno mi sforzo di fare un confronto con l'anno precedente. E' più presto dell'anno scorso? E' più tardi? Impossibile dirlo, soprattutto per una come me che viaggia senza orologio e con il cellulare spento imboscato in fondo allo zainetto. Non pensarci, Gian, sali e vai. Passo svelto, anche qui, almeno ci si scalda. Prima sui km di salita e poi sul lungo, lunghissimo, interminabile tratto in piano, che ad ogni edizione sembra più lungo. Provo a correrne qualche centinaio di metri, ma le gambe non rispondono. Dopotutto, non sono l'unica tapina che si trascina camminando stancamente. Il fatto è che, ad ogni curva, il colle sembra lì... Ma non è lì, affatto.

Finalmente ci si arriva. Purtroppo, come sempre, questo punto di ristoro è un po', per così dire, approssimativo. Non c'è un minimo di riparo per potersi cambiare completamente: va bene essere disinibiti, ma a tutto c'è un limite... In più, questa volta, le borse devono aver preso parecchia pioggia. Il contenuto è fradicio. Ma da queste constatazioni mi distrae il dialogo tra un corridore ed un operatore dell'ambulanza: pare che più avanti, a bordo strada, ci sia un capriolo ferito. Per fortuna si è già provveduto a chiamare il servizio veterinario. In effetti, riparto e, di lì a poco, vedo la povera bestiola adagiata tra i cespugli. Vorrei fermarmi, ma non saprei cosa fare e rischierei di spaventarlo ancor di più... Consapevole però che qualche anima buona ha già provveduto, riprendo la mia marcia.

Siamo ormai al cospetto della Rocca di San Leo. Il cielo continua ad essere nuvoloso; la temperatura, fresca e confortevole. Nel lungo tratto di discesa, piuttosto sconnesso, inganno la fatica guardando quel che resta dell'imponente e terrificante frana che si è staccata qualche anno fa, non ricordo esattamente quando. La lunga discesa è un calvario per le gambe che fanno male, anche se per ora riesco ancora a correre. Corro anche il tratto finale, sul ponte, e la breve risalita verso l'abitato. Confido nel punto di ristoro, dove mi fermo per qualche minuto. Seduta.

Passo delle Siepi. Salita breve, ma non è quella a spaventarmi. E' la discesa successiva, ottimo termometro di quel che accadrà poi nei lunghi km finali. Con mia sorpresa, e solenne botta di fiducia, mi accorgo di riuscire a correrla, sia pure con cautela. Intanto, la strada si affolla di auto, moto, ciclisti e persone a piedi, tutti in attesa del passaggio della granfondo. Infatti, nell'ultimo tratto della discesa, vedo di fronte a me il serpentone multicolore delle bici che scendono dal Barbotto. Ne incrocerò il tracciato, per un breve tratto, giù a Ponte Uso. Poche centinaia di metri in cui tuttavia, neanche ci fossimo dati appuntamento, incontro alcuni amici che mi salutano e mi incitano con tutto il fiato che hanno in gola.

Da qui... Ancora 45 km. Poco più di una maratona, da percorrere con le gambe stanchissime. Il fatto che di mezzo ci sia un Gorolo è un dettaglio trascurabile. Forse...
Il lunghissimo tratto di pianura e leggera salita è micidiale, anche oggi che il clima sembra restare benevolo. Mi ci lancio al trotto, con grande entusiasmo... Ma, ad un paio di km dal Gorolo, si spegne la luce. Niente più fiato, niente più forze. Niente di niente. Il buio. Ahia... Questa è la volta buona, anzi, la volta cattiva. E' la volta che a Cesenatico non arrivo. Gli incoraggiamenti di ciclisti e spettatori non servono più, anzi: ottengono l'effetto opposto. Non ce la faccio più...

...la salita del Gorolo s'ha da fare, comunque. Mi arrampico su per le rampe con passo stanco e sfiduciato, masticando rabbia e lacrime, braccia e gambe vuote come sacchi ed un mal di testa senza fine. Sfilano a frotte i ciclisti della granfondo... A me pare di essere ferma, inchiodata all'asfalto. Distrutta, sfinita, senza alcuna possibilità di giungere al traguardo.
Nel brevissimo tratto in piano che precede la staffilata finale, vorrei abbozzare qualche passo di corsa, ma le gambe non reggono proprio. Lascia perdere, Gian. Cerca di trascinarti fin su in qualche modo. Poi ti fermi lì, ti ritiri, basta.

Così faccio, o almeno, credo di poter fare. Arrivo al ristoro con i lacrimoni e comunico di volermi fermare. Caso vuole che lì, al ristoro, ci sia in quel momento un concorrente che prende la cosa come se fosse un'offesa personale. Ritirarsi, qua, non è neanche da pensare, è proibito, anzi, è un reato da punire con l'immediata crocifissione. Ma io non sento ragioni. So di non avere speranza alcuna di arrivare in tempo a Cesenatico. Da qui ci sono trenta km, circa, ma sono trenta km agghiaccianti. Ed affogo il dispiacere nella birra. Il podista, Luca, però, non ammette di essere contraddetto. E quasi quasi, sarà perché il soggetto in questione è anche quel che si dice un bel manzo, mi viene la tentazione di credere che abbia ragione lui. Provo ad alzarmi, faccio una tappa ai bagni e poi torno al ristoro: convinta di voler ripartire, ma le gambe non mi tengono su. Mi abbatto seduta per terra, con la testa appoggiata al bagagliaio di un auto. L'aguzzino, però, è ancora lì e non mi molla. Tanto fa e tanto dice che, alla fine, in un modo o nell'altro mi rimetto in piedi e riparto.

Scopro, nel giro di pochissimi metri, di non essere l'unica vittima delle sue angherie. C'è anche un altro povero tapino, che non è solo stanco, ma deve avere dolori alle gambe ed ai piedi tali da emettere lamenti strazianti. Ma il Cerbero non ha pietà: si può dire che ci sospinga fisicamente avanti con lo spostamento d'aria causato da potentissime tonanti irripetibili bestemmie che, credo, si sentano già anche a Cesenatico. Così, il mio tristissimo umore è scacciato, almeno per il momento, da un accesso di risate che per poco non mi soffoca allo stesso modo. Che dire: un motivatore sui generis, ma senza dubbio efficace!

Corro per qualche chilometro, con prudenza e sempre con difficoltà. Ma la stanchezza presto torna ad avere il sopravvento. Purtroppo o per fortuna, avevo assicurato a Luca che stavolta non mi sarei più fermata... Così, mi tocca cavarmela da sola. E, siccome da sola non me la cavo, impiego ben poco a sprofondare nuovamente nell'abisso del “non ce la farò mai”. Tanto da percorrere gli ultimi km di discesa camminando e convincermi, senza che la matematica me ne desse ragione, che il tempo massimo non mi basterà per giungere al traguardo. Ancora fatica, crampi e lacrime. Provo ancora a ritirarmi, ma dai punti di ristoro mi cacciano via. E il caldo, alla fine, è scoppiato.

I venti km finali della Nove Colli sono un'esperienza mistica, sia per chi sceglie la gara in bici, sia per chi li affronta a piedi. Sono generalmente torridi e comunque lunghissimi, molto molto più lunghi di qualsiasi altra ventina di km al mondo. Mi trascino senza forze e senza senso fino a quando ne mancano circa dieci. Poi decido di prendermi a schiaffi da sola. Allora, Gian. O muovi le tue grosse chiappe e ci provi, almeno ci provi... Oppure butti tutto via da idiota e ti mangerai le mani per il resto della tua esistenza. L'anno scorso, qui, c'era Ivano a buttarmi in corpo la rabbia giusta per finire. Questa volta sono sola. La decisione è nelle mie mani.

Chiamo a raccolta tutto quel che resta delle mie forze e delle forze di qualcun altro, credo. Riprendo a correre, piano, tribolando, ma corro. Km dopo km, incrocio dopo incrocio, maledicendo me stessa perché credevo di essere più avanti e invece sono ancora qui. Poi raggiungo qualche altro concorrente e mi sembra di stare un pochino meglio. Quel maledetto grattacielo sempre troppo lontano. Il traffico, l'asfalto, il caldo, la sete maledetta. Rasente ai muri a cercare un po' d'ombra, la pelle che brucia. E poi il viale. Gli ultimi due cavalcavia, dove i ciclisti lanciano improperi in ogni lingua per l'inattesa fatica. Il curvone finale, il tratto lungo la pista ciclabile. Il rettilineo finale, dove la gente oltre le transenne ti fa un sacco di festa e le gambe d'improvviso sembrano quelle di Varenne. Incredibile ma vero, a quaranta minuti dalla fine del tempo massimo, per la settima volta, l'abbraccio di Mario Castagnoli e la pesantissima medaglia da finisher.

Ormai veleggio verso i 36 anni: invecchio. Infatti, questa volta, ammetto di aver commesso un grave atto di debolezza. Ho prenotato, per la notte successiva alla gara, una stanza presso l'Hotel Anthos, convenzionato con l'organizzazione. Ci arrivo con la navetta, ritiro i bagagli e, dopo una birra in compagnia, con le ultimissime forze residue, mi butto sotto la doccia e quindi sul materasso. Per mia fortuna, ho ancora la lucidità necessaria per puntare la sveglia alle quattro del mattino successivo, perché per l'ora di pranzo dovrò essere in ufficio. Per fortuna: perché l'idea è di riposarmi un poco prima di andare a cena in albergo. In realtà, piombo in un coma profondo da cui mi sveglia appunto il cellulare, puntuale, alle quattro del mattino. Ritorno faticosamente al mondo dei vivi, ricompongo zaini e borsoni, me li carico in spalle, esco. Giusto per avere un'idea, controllo sul navigatore la distanza tra qui e l'auto, parcheggiata nei pressi della partenza della corsa. Quattro km e mezzo. A piedi, con le borse, praticamente un'altra Nove Colli Running. Ma non importa, respiro il profumo del mare e mi godo l'alba all'orizzonte. Inizia il nuovo conto alla rovescia per la Nove Colli Running 2018.