mercoledì 29 dicembre 2010

24 dicembre 2010 - Di corsa verso il mare

Il tabellone luminoso, in autostrada, avverte: "Attenzione: a Fossano allagamenti". Alè, ci risiamo, piove due giorni e succede il finimondo. Stamattina i tergicristallo lavorano, ma la velocità 2 è sufficiente.. Un briciolo di fiducia lo coltivo lo stesso: qui sembra venir giù un po' meno che a Carmagnola. In più, fino a ieri, le previsioni meteo lasciavano un po' di speranza: un miglioramento nel pomeriggio, nuvole ma senza goccia nel pomeriggio sul Piemonte meridionale e sulla Liguria. Quella minima parte razionale di me, rappresentata con orgoglio e disperata caparbietà dal neurone, non s'illude: è pioggia troppo regolare, continua, monotona, per lasciar presagire un cambiamento. Sul sedile passeggero ho tutto quel che serve per proteggermi, dalla giacca ai pantaloni impermeabili, ai guanti, persino il cappellino con visiera per tenere asciutti gli occhiali. Ho reclutato anche le scarpe in goretex, e pazienza se son quelle da sentiero, che non godranno certo di una lunga marcia sull'asfalto. Pazienza, meglio le scarpe un po' disfatte, che i miei piedi a mollo per tutto il giorno.

Ad essere sincera, oggi avrei dovuto restare in ufficio ancora al mattino. Invece, poco oltre le 7, sono a Ceva, nella ormai solita piazza nei pressi della stazione. E' ancora buio, ma già qualche losco figuro si aggira con il giornale sotto braccio, malamente riparato da un ombrello di solito troppo piccolo o sghembo. Due anziani chiacchierano all'angolo di un edificio, qualcuno accompagna a spasso un cagnone visibilmente poco entusiasta di essere stato strappato al caldo della cuccia. Le gocce formano lunghi rivoli sul parabrezza. Mi agghindo alla bell'e meglio nell'angusto spazio dell'abitacolo; un'ultima occhiata allo zaino: canotta, maglietta, giacca e berretto di ricambio, sigillati in una borsa di plastica; due barrette, mezza stecca di croccante alle mandorle ed un succo di frutta, soldini, telefono, macchina fotografica. E telo termico, che non si sa mai. Ahimè, è proprio ora di andare.

Abbandono la Opel nella piazza ancora buia e completamente deserta, tanto che mi sorge il dubbio: non è che qui oggi me la rimuovono? Bah... Facciano un po' quel che vogliono. Io butto nello stomaco l'ultima cosa calda che assaggerò per un bel po', un cappuccino in un vicino bar. Sconcertante: già di buon mattino, un nugolo di avventori assiepati intorno ad una macchinetta da gioco... E sentirli parlare di giocate da cento euro, come se nulla fosse! All'ultimo riparo del gazebo, stringo i cinghietti dello zaino. Le pozzanghere riflettono, deformi, le luci dei lampioni. Si parte.
Attraverso la piazza, poche centinaia di metri per arrivare all'imponente ponte in mattoni della ferrovia. Il Tanaro scorre grigio ed impetuoso, schiuma e s'arriccia contro le sponde in pietra del suo letto. Nel gabbiotto di un officina, già illuminato, un anziano indossa la tuta blu, lisa, da meccanico, e fuma un sigaro. "Paroldo, 8 km", recita il cartello. La prima meta ideale, intermedia. Il viaggio sarà lungo, fino a Genova. La strada pende già tra le ultime case di Ceva; in movimento, solo il trattore con la pala per la neve. Neve, oggi? Mah. Le luci della città sfumano alle spalle, ma il cielo è già un po' più chiaro; alla mia sinistra, ancora qualche edificio abbarbicato sulla montagna, alla mia destra campi coltivati e boscaglia. Poco oltre, la valle si stringe e la strada corre tra la parete di terra e sabbia ed un torrente dal corso tortuoso e dalla corrente furiosa. Ovunque, dalla parete, spuntano piccoli e piccolissimi rivoli che creano cascate e scavano solchi; l'acqua corre a bordo strada e sulla strada. Mi stupisce vedere, qua e là, cascatelle di ghiaccio; oggi fa freddo, ma il termometro è sopra zero. Tento qualche foto, ben sapendo che, presto, la macchina fotografica s'ammutinerà; desto così la curiosità di un paio di automobilisti, stupiti di vedere un essere umano fermo lungo una strada di una valletta sperduta e solitaria, grondante di pioggia. Acqua, acqua che scorre dappertutto, dal cielo, dalle radici degli alberi, nei canali, lungo i rami ed i tronchi. La salita è costante, molto dolce; poche curve appena accennate, poi la valle si apre. Prima traccia di presenza umana, la frazione di Bovine. Seguo con lo sguardo il camioncino che mi sorpassa, lo vedo tracciare uno zig zag, da cui intuisco che mi attendono due tornanti.
Le suole scivolano, di tanto in tanto. L'asfalto è ricoperto di una patina appena accennata di neve quasi sciolta. In effetti, se guardo in su, le colline tradiscono le tracce di una nevicata, chissà se della notte passata o ancora precedente. La terra è gonfia; dà l'idea di essere un vero pantano. L'erba a bordo strada è schiacciata e trascinata dall'impeto dell'acqua. Per fortuna, la pioggia continua ad essere dolce, costante. Il cielo è grigio, gonfio. L'unica flebile speranza è che, in Riviera, la situazione sia un po' migliore, ma ci arriverò solo tra molte ore.



Lo strato di neve, man mano che avanzo, si fa più spesso. Neve fradicia prima, poi più consistente. Quelle poche auto che passano la sollevano e me la catapultano addosso; va bene che scarpe e pantaloni sono impermeabili, ma l'acqua trova comunque un varco per infilarsi dal collo del piede. E così, neanche un'ora dopo la partenza, mi ritrovo già con i piedi a mollo. E al freddo.
Non si può certo dire che la giornata oggi sia luminosa... Raggiungo le prime case di Paroldo. Qui a pulir la strada non ha pensato proprio nessuno; corro nelle rotaie lasciate da quei pochi che hanno il coraggio di avventurarsi oggi quassù. Un labrador, infeltrito dall'umidità, mi accoglie abbaiando da dietro una rete. La bella piazzetta del paese è deserta, ma intravedo luci e movimento dentro un ufficio. Quattro salti ed è ancora solitudine; un paio di chilometri e dovrei raggiungere la strada alta di Langa. Ne vedo già in lontananza la traccia. La collina è bianca, di neve e di nuvole; il manto bianco sembra ricamato dalle linee ordinate dei filari delle viti.

Guadagno faticosamente l'incrocio, saltellando nella neve. Incrocio lo sguardo terrorizzato di un paio di automobilisti, imbacuccati dentro le loro scatole, alle prese con un veicolo che va più o meno dove piace a lui... Per fortuna, la strada alta è in condizioni migliori. Viscida, questo sì, ma ripulita dalla neve. Si domina dall'alto un paesaggio quasi spettrale. Ogni tanto butto l'occhio alle pozze, sperando di vedere uno specchio d'acqua immobile che annunci la fine della pioggia, ma ahimè, nulla di tutto ciò. Ogni goccia solleva per un istante una minuscola fontanella e poi disegna piccoli cerchi che s'allargano. Per fortuna, piedi a parte, la mia armatura mi protegge bene. L'importante è non fermarsi, per nessun motivo.

Stupenda solitudine. Ho già perso la nozione del tempo; potrebbe essere qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Non un rumore, né il verso di un animale, non un alito di vento. Non fa freddo. Il bivio per Sale Langhe e Sale San Giovanni; intravedo i tetti giù, tra la nebbia che si confonde con i fumi dei camini. Arbi, una signora anziana un ciabatte, senza calze, con un golf scuro e liso sulle spalle, spazza via la neve. L'umidità risale i muri delle case. Il generatore eolico, quasi mimetico, grigio contro il cielo grigio, immobile; la lieve risalita verso Montezemolo. I due minuscoli esercizi commerciali, la panetteria e la merceria, sono in fervida attività, con le vetrine appannate che invitano al caldo; secchi pieni di ciocchi di legna viaggiano a forza di braccia verso le case. Siamo a quota 750 m, più o meno; temo un po' la prossima lunga discesa.
Al portone in legno dello splendido, e purtroppo trascurato, castello di Montezemolo, è appesa una decorazione natalizia luminosa, tristissima e quanto mai inopportuna. L'unica traccia di vita in un luogo che dà il senso dell'abbandono. Il distributore di benzina e la rotonda, che brulicano di motociclisti nelle stagioni meno estreme, oggi sono deserti. Imbocco il lungo ponte della strada che scende a Millesimo; questa volta, però, anziché infilarmi in galleria, scelgo la strada di Strada: non un gioco di parole, ma il nome di una frazione di Roccavignale. Bella e solitaria, la stradina s'infila in mezzo ad un fitto bosco, passa accanto a poche sparute case e risale la montagna, una curva via l'altra, fino a spuntare dall'altro versante, parecchio più in alto dell'uscita della galleria. Sgranocchio la mezza stecca di croccante, mentre mi affaccio su un panorama mozzafiato di colline imbiancate e qua e là nascoste da fiocchi di nuvole. Uno schiaffo freddo in faccia appena la strada gira oltre il costone della montagna; si scende verso le case della borgata e la chiesa costruita su una base di roccia. Sembrano luoghi fuori dal tempo; le auto parcheggiate lungo la strada e nei cortili fanno un contrasto stridente. A proposito di auto; a giudicare dalla spessa coltre bianca su tettucci e cofani, direi che anche qui ha nevicato mica male.

Riconquisto la strada che da Montezemolo scende giù a Millesimo, ancora tormentata dai lavori in corso e dal senso unico alternato. Uno sguardo alle stradine che si staccano sulla destra, scendono in fondo alla valle, passano sotto l'imponente viadotto dell'autostrada e si perdono chissà dove. Prima o poi, dovrò partire in esplorazione, magari in bici, e magari in una stagione un po' meno repellente. A Millesimo, il traffico è già più caotico; meno male che c'è un po' di marciapiede, scalcinato ma sufficiente. Nel centro del paese, tanto per cambiare, c'è il mercato: ma possibile che ci sia il mercato ogni volta che io passo di qui? E' un mercato stabile? Per mia fortuna, benché siano ormai le undici, c'è ben poca gente in giro. Quei pochi sono stracarichi di borse: pacchi e pacchettini, ma soprattutto cibarie. In effetti, nell'aria si confondono profumi molto invitanti. Uno sguardo ai banchetti lo di anch'io, ma non c'è nulla di interessante; non l'hanno ancora inventato, il banchetto di Montura o La Sportiva... Non mi ferma nemmeno l'invitante vetrina della panetteria. Passo oltre, accanto alla passerella sul Bormida, accanto al castello, e poi al bivio a sinistra, verso Carcare. La strada qui torna a salire per un paio di km: so che soffrirò... Riabituare i garretti alla salita dopo una lunga, decisa discesa è arduo. Ci provo, pian piano, combatto contro il fiato che non c'è; il curvone, il distributore di benzina, i piloni del viadotto autostradale, grigio sul grigio della giornata. La tentazione di mettermi a camminare è forte, ma non devo cedere. La vetta, in località Montecala, è vicinissima. Prima o poi verrò da queste parti in bici, ad esplorare le stradine secondarie che si staccano dalla trafficatissima principale; oggi, però, meglio tirare dritto per la via nota, visto che il mezzo di trasporto a mia disposizione non è così rapido. Approfitto della discesa, dolce dolce, per una telefonata in ufficio, di già che, all'improvviso, m'è tornato in mente che io da qualche parte ho anche un'altra vita. E' tutto ok, perfetto.

La pioggia continua, imperterrita. Anche qui, un torrentello scorre impetuoso lungo la strada. Frazione Lidora, in corrispondenza dell'autogrill dell'autostrada, che corre proprio sopra la mia testa; da qui a Carcare, è un continuo di case, capannoni, centri commerciali, fino alla rotonda. A destra, per me, in direzione di Altare. La fame comincia a farsi sentire; gli ululati del pancino vuoto si avvertono persino in Riviera: ancora un po' di pazienza; quattro o cinque km e sarò ad Altare, dove ho già previsto, da un po', una tappa ristoratrice. Risalgo il viale, oltrepasso il bivio del cimitero, lungo la ferrovia. In vista del casello autostradale, mi sento già arrivata. Mi supera un'auto, una vecchia Opel Kadett bianca: si ferma poco più avanti, con le quattro frecce, in mezzo alla corsia; poi ingrana, lentissima, la retro. Arretra un po', abbassa il finestrino. Proseguo la mia corsa, gli passo accanto, senza nemmeno voltare lo sguardo: uno che fa un numero del genere non dev'essere tutto quadrato... Riparte anche lui, se ne va. Mah. Il mondo è bello perché è vario. Ma il mio unico pensiero, adesso, è mettere nel pancino qualcosa di caldo. Finalmente il bivio per Altare: il viale di platani, il cimitero militare con le sue innumerevoli croci tutte uguali; l'enorme area di cantiere, con il vecchio edificio in pietra e mattoni che, ai suoi tempi, doveva essere bellissimo. Ora è solo un triste cumulo di rovine, transenne, cartelli di divieto e mezzi da lavoro.

Raggiungo il bar proprio di fronte al bivio che dovrò imboccare. Un the bollente ed un pezzo di pizza rossa. Devo per forza sedermi al tavolino: ferma in piedi, al chiuso, dopo uno sforzo del genere, mi sento subito girare la testa e vedo tutto blu. Me la prendo comoda, dieci minuti di quiete, mentre un televisore sbraita i soliti servizi insulsi a tema natalizio: mi dà sui nervi all'istante. Non sarò mai abbastanza soddisfatta di aver bandito, ormai da anni, l'infernale apparecchio da casa mia. Alle mie spalle, s'infiamma una partita a carte. A malincuore, finisco il the e rendo la tazza alla gentilissima barista; tappa in bagno e poi... Via, si torna sotto la pioggia. I primi istanti sono terribili: gli abiti, comunque bagnati, appiccicati alla pelle mi fanno rabbrividire, battere i denti. Mamma mia...

Ci ho rimuginato su per un po', prima di arrivare qui: scendo direttamente giù in Riviera o tento la sorte? Da tempo ho scovato, sbirciando la mappa, una strada che, dalla frazione Montenotte di Cairo, permette di raggiungere direttamente Albisola. E' ovviamente più lunga della via diretta Cadibona - Savona, ma dev'essere bella e suggestiva. Il mio timore è solo di restare più a lungo lontano dal mare, in una giornata come oggi in cui la temperatura, pur non essendo glaciale, non è affatto confortevole. In più, è una via ignota... Il cartello "Montenotte", però, mi leva ogni esitazione. Coraggio, proviamoci. Si riparte in salita, lungo una bella strada ben asfaltata e quasi senza traffico; pian piano, lo sforzo dell'ascesa mi riscalda un po' i muscoli. Con il piccolo parco giochi, mi lascio alle spalle anche Altare. La strada scorre in un bell'alternarsi di boschi fitti e di prati gonfi d'acqua; qua e là si restringe, disegna curve tortuose, poi torna ad allargarsi, tra brevi salite secche e tratti in leggera discesa. La salita prevale, però. Il bosco rimanda il rumore ritmico delle gocce d'acqua che, accumulate sui rami, piombano giù nelle pozze già ampie. Un paio di belle ville: "Via San Bartolomeo del Bosco", leggo sulle eleganti targhe in ceramica che riportano il numero civico. Perfetto, per ora sono sulla retta via. Raggiungo un bivio che non mi aspettavo: è l'incrocio con la strada che arriva da Ferrania e va verso Pontinvrea. Anche qui, ci siamo. Mi accompagnano i segni rossi e bianchi dell'Alta via, così numerosi che proprio non ci si può sbagliare. Suona strano che l'Alta Via dei Monti Liguri coincida, per un lungo tratto, con una strada asfaltata. Alla mia destra, in lontananza, si scorge il mare, appena intuibile in una giornata così cupa, in cui il colore dell'acqua quasi non stacca da quello delle nubi. In realtà, intuisco il mare per via delle due ciminiere di Vado Ligure, non certo per il mio occhio di lince. Un centinaio di metri davanti a me, lungo la strada, cammina un losco figuro. Cammino anch'io, qui; la salita è un po' troppo lunga e ripida perché io mi intestardisca a correrla. La strada è ancora lunga. Secondo i miei calcoli, ad Altare avevo percorso all'incirca 45 km; qui saranno 50, più o meno. Meglio risparmiare le forze! M'impegno comunque in una marcia il più possibile rapida, sgranocchiando un boccone di barretta. Man mano che mi avvicino, il losco figuro si rivela in realtà una losca figura, una donna dall'età indefinibile, sepolta tra giubbone, berretto e sciarpa, ma dalla voce giovane. Però, tosta la ragazza! Anche lei qui, da sola, a spasso sotto la pioggia e senza ombrello...

La mia corsa, un po' marcia un po' corsa, prosegue in un ambiente e per un tempo che non riesco a definire. Tutt'intorno, bosco fitto e silenzio, solo il rumore monotono della pioggia; rami e tronchi lucidi e neri di pioggia, così uguali e fitti che, a fissarli, danno l'impressione di un'allucinazione, sembrano muoversi, intrecciarsi, sporgersi verso la strada. Non c'è un'anima, né umana né animale, qua intorno. E' stupendo, ma confesso che un po' di preoccupazione sale: dov'è questo benedetto paese? Una curva, un'altra curva; alcuni alberi enormi, dalla corteccia liscia, cresciuti con i rami protesi verso il mare, nel senso del soffio del vento, che oggi per fortuna, almeno lui, mi risparmia. Se solo avessi una macchina fotografica impermeabile! Sono meravigliosi, questi monumenti naturali. E' tutto meraviglioso, qui intorno, nonostante la pioggia.



Sarà un pensiero banale il mio, ma non posso fare a meno, anche qui, di rivedere e riascoltare certe scene, certe telefonate, certi incontri di pugilato verbale – solo verbale, anche se talvolta un'armatura mi infonderebbe più tranquillità – con certi condòmini, per così dire, turbolenti. Un conoscente, solo qualche giorno fa, ha sentenziato: "Certa gente si sveglia al mattino e, ancora prima di aprire gli occhi, si domanda: oggi come posso rompere i c... e a chi?". Ecco, nella mia talvolta infausta veste di amministratore condominiale, non posso che manifestare il mio assenso. Ci penso con distacco, da qui, e quasi con una sorta di compassione per certi individui che non fanno altro che masticare nervoso e vomitare veleno. Se di fronte a simili episodi riesco a restare più o meno insensibile, è solo perché nella mia cassaforte conservo giornate come oggi, quelle che per me davvero rendono la vita meravigliosa. Le scarpe, lo zaino, le gambe in spalla, non serve altro, è molto semplice la mia ricetta per la felicità. Tutto il resto, arrabbiature, diverbi, guai materiali, conteranno ben poco, finché avrò le gambe buone per rifugiarmi quassù.

Toh... Case. Vuoi vedere che ci sono? Oltre una curva, tra il fitto dei rami, s'intravedono sagome di case. Troppe, per non essere finalmente l'abitato di Montenotte. Case, luci natalizie, qualche camino che fuma, qua e là. Ora, se mi capita a vista un essere umano, chiederò lumi sulla strada per Albisola. Già, hai detto niente: un essere umano... Questo è un paese fantasma, non c'è anima viva per la strada. E nemmeno nei giardini, sui balconi, alle finestre. Nulla e nessuno si muove. Le imposte chiuse, le porte sprangate e protette dagli spruzzi della strada con lastre di plastica. Forse i Montenottesi sono particolarmente riservati... Raggiungo un incrocio con una strada ampia, che si stacca verso destra. I cartelli indicano, di lì, Savona e Santuario. Uhm. E adesso? Ricordo che, su Googlemaps, la via da seguire aveva nome "San Bartolomeo del Bosco" fin quasi alla riviera. Ma non è possibile che la strada mantenga lo stesso nome se qui c'è un incrocio e se la via che sto percorrendo continua come strada principale. Che il bivio giusto sia più avanti? Mannaggia a me ed alla mia idiosincrasia per le carte stradali. Tiro dritto; la strada tende a scendere, sembra, in modo più deciso. Se almeno ci fosse una targa con il nome della via. Macché, non se ne parla. Esco dal paese, proseguo per qualche centinaio di metri, ma il dubbio mi tormenta: no, di qui secondo me non va mica bene... Rischio di andare a finire a Pontinvrea e di dover poi davvero fare il giro del mondo per arrivare al mare. Meglio tornare indietro: pazienza, alla peggio andrò a finire a Savona. Risalgo di buon passo fino al bivio, in paese, e prendo la strada a sinistra. Anche qui, di targhe con il nome della via nemmeno l'ombra. Solo un bel cagnone fulvo, con evidenti tracce di antenati labrador, mi corre incontro con aria amichevole: peccato non poter domandare a lui... Salgo a passo svelto, lungo una strada anonima, deserta. Acqua ed ancora acqua; minacciosi avvisi di possibile inondazione. Inondazione, quassù? Un tornante, una palina segnavia accanto ad un sentiero che si stacca da qui. "Le Meugge", indica. Via sterrato, da una parte, via asfalto, dall'altra. Dunque è quella la località a cui approderò? Boh. Sono in balia degli eventi e del bitume. Oltre il tornante, la strada spiana e mi permette di tornare a correre. Poi la pendenza, una volta per tutte, s'inverte. Si va giù, verso il mare: eccolo là, davanti a me, sembra così vicino, e non ho nemmeno idea di quanto tempo ancora impiegherò a raggiungerlo...

La strada, bella, ampia e con buon asfalto, scende dolce verso la riviera. Da quassù, la vista spazia su morbidi rilievi di bosco, ornati qua e là da solitari sbuffi di camini. Tentar di intuire la direzione della mia via è impresa ardua. Lascio andar le gambe, approfittando della forza di gravità che qui mi aiuta; conviene che acceleri un po', altrimenti il freddo mi si aggrappa alle ossa. 16, se non ricordo male, il numero che ho letto sulla prima palina oltre il bivio, a Montenotte. Immagino significhi 16 km da qui al mare, più o meno. 15, 14, pian piano le paline scorrono e mi avvicinano alla riviera, a quella enorme nave mercantile che vedo già da quassù, alle case che si allargano a ventaglio in quello che sembra lo sbocco di una valle. Però, le ciminiere... Mi sembrano un po' troppo vicine. Se davvero questa strada andasse a sbucare ad Albisola, le ciminiere di Vado dovrebbero essere più distanti. Mah. Ormai sono qui, non ho alternative, se non scendere. La pioggia non vuol proprio saperne di prendersi un attimo di tregua; a tratti addirittura rinforza. Taglio le curve, come fanno i maratoneti provetti; è vero, la discesa aiuta, ma la corsa non è come la bici... Le gambe faticano lo stesso; bisogna pur sempre mettere un piede davanti all'altro. Anzi, se da una parte si risparmia un po' di fatica, dall'altra si spende in dolore ai muscoli. Poche auto, sia verso valle che verso monte; un cagnotto nero, di pura razza indefinibile, sfugge al giardino di una casa in ristrutturazione e si lancia all'inseguimento: mi giro, gli tendo la mano, ma il quattrozampe si tiene a rispettosa distanza. M'inveisce contro a lungo, finché il suo latrare si spegne oltre la curva.

Una discesa che sembra infinita: anche qui, dovrei portare le mie ruote, prima o poi. In salita, però, prima. Scorgo da lontano un cartello: non riesco a leggere, ma reca un nome lungo... Pian piano le letterone bianche prendono forma dallo sfondo azzurro. "San Bartolomeo del Bosco". Ma allora... Vuoi vedere che sono sulla strada giusta? Già, pia illusione: ancora non so, lo scoprirò domani scrutando la mappa, che qui intorno c'è un dedalo di strade che portano tutte lo stesso nome, "Via San Bartolomeo del Bosco" appunto. Mannaggia, 'sti Liguri: capisco essere tirchi, ma arrivare a riciclare lo stesso nome per più strade... Nemmeno Paperon de'Paperoni avrebbe potuto tanto!
La discesa mi porta in vista del ponte della ferrovia, enorme, imponente, in mattoni. Ci passo proprio sotto: tento una foto, ma la macchinetta ha già deciso che, quando è troppo, è troppo. L'obiettivo rimane ostinatamente chiuso in sé. Amen... Tiriamo avanti. Da qui in poi, addio pace. Si torna alla civiltà, o almeno alle sue prime propaggini, le costruzioni più audaci, pizzicate tra la sponda del torrente ed il pendio della montagna. Da qui, la strada costeggia un impetuoso corso d'acqua. Il nome che leggo su un cartello – ora che non mi servono più, vedo cartelli dappertutto – confonde le mie già esigue nozioni della geografia del luogo... Il Letimbro non è il torrente che passa a Savona, accanto al Tribunale? Ma allora sto andando a Savona o ad Albisola? In effetti, Santuario dovrebbe essere una frazione di Savona, o comunque nei paraggi... Osservo questi edifici con l'occhio ormai deforme del mestiere. Cavoli: io vado matta a star dietro a tutte le norme, certificazioni di impianti elettrici, termici e chi più ne ha più ne metta, certificazioni energetiche, consumi, impermeabilizzazioni... E qui vedo grovigli di cavi e tubi che seguono i percorsi più fantasiosi, umidità che si mangia i muri e gli intonaci, elementi pericolanti. Per carità, non è che questi fenomeni di "anomalia" si possano osservare solo qui, ci mancherebbe; è che oggi posso prendermi tutto il tempo necessario a buttar l'occhio. Del resto, gli autoctoni hanno soluzioni estremamente pragmatiche a tutti i problemi. Un esempio? Un bel cartello sotto un balcone; "Vietato parcheggiare. Caduta calcinacci". Come dire: io ti avviso, qui va tutto a ramengo. Se poi ti casca un ciocco sulla carrozzeria, o sulla capoccia, non hai diritto di recriminare... Che poi, se devo essere sincera, è ciò che più rispecchia il mio intimo pensiero.

Il fragore del torrente mi accompagna finché arrivo, quasi di sorpresa, proprio in località Santuario. Il santuario c'è, niente da dire, ben visibile. Dovrei esserci già stata, da queste parti, ma tanti tanti anni fa, e di certo non a piedi. Non ricordo nulla. Scovo però una provvidenziale fontanella: l'ultima, ed unica, volta di oggi in cui ho bevuto è stata al bar. Non mi sono portata la borraccia; tanto so già che, con questo clima, è un peso inutile. Vero, si dovrebbe bere comunque e sempre, ma rimedierò stasera, a cena.
Da Santuario, la strada verso il mare è ancora lunga. L'abitato è ormai un continuo, scandito dalle enormi ed orribili cappelle della Via Crucis: mannaggia, almeno sapessi quante sono le stazioni... Avrei una vaga idea di quanto manca alla riviera. A Savona, direi, a questo punto. Se c'era un bivio per Albisola, da qualche parte, mi pare ormai evidente che me lo sono giocato.

Un anziano esce da un piccolo orto, un fazzoletto di terra strappato alla strada ed al fiume, con un cesto pieno di uova, e mi rivolge, con fare divertito, un'espressione che non capisco, ma che, a giudicare dal tono, non dev'essere di ammirazione. Del resto, si sa che i Liguri sono un po' caustici. La luce del giorno, quella poca e fioca che mi è stata concessa, pian piano se ne va. I fanali delle auto sono sempre più definiti. All'imbrunire, arrivo a Savona. Mi sembra chiaro, ormai, che non riuscirò a raggiungere Matteo a Genova per l'orario di chiusura del negozio: sono le quattro e mezza passate, devo ancora attraversare Savona. Neanche fossi Baldini. L'ho già avvisato, infatti. Poco male: il programma prevede che entrambi stasera si vada a casa mia; ergo, il tapino mi raccatterà lungo l'Aurelia. "Riesco a partire alle sette", mi dice. Quindi, so già che farà i salti mortali e partirà come minimo alle sei e mezza. "Ma se hai bisogno di qualcosa, chiama, che mollo tutto e arrivo". Mi strappa un sorriso: cuore d'oro... Non ti chiamerei neanche se mi abbattessi moribonda sul ciglio della strada: è la vigilia di Natale, il negozio sarà senz'altro preso d'assalto; ti causerei una perdita secca di proporzioni enormi!

La mia strada va a confluire con quella che scende a Savona dal Cadibona. Mi ritrovo proprio là dove non avrei voluto passare. Il caos totale ed assoluto. Traffico, gas di scarico, luci abbacinanti, gente, troppa gente, ombrelli borse semafori voci petardi e schiamazzi. Eccomi precipitata al fondo dell'inferno, ancor più insofferente per la stanchezza che si fa sentire. Stanchezza, uhm... In realtà, noto con piacere che mi sento meno stanca oggi, rispetto ad altre volte in cui, proprio qui, sono arrivata per la via più breve. O sarà solo la voglia di levarmi da qui il prima possibile. Corro lungo la pista ciclabile; alla mia sinistra, si allarga il letto del corso d'acqua, che qui sembra quasi vuoto e, al di là, sorgono orrendi casermoni, uno peggio dell'altro, con la selva di antenne e parabole a mo' di ciliegina su una torta già raccapricciante. Più che mai temeraria, sfido il rosso dei semafori e le fiamme negli occhi degli automobilisti. Slalom tra i passeggini ed i branchi di pedoni, solo con la voglia di vederli sparire tutti, dal primo all'ultimo. Tranne quelli che portano a spasso i cagnotti, s'intende; per loro, faccio volentieri un'eccezione.
Oltrepasso il ponte, seguendo la direzione per Genova. Probabilmente, esiste una via più breve per tagliare via la città, ma valla a scovare. La fortezza, il porto, dai Gian che ne sei fuori. E' ormai buio quando raggiungo la fontanella, sotto il faro. Breve sosta e via, il delirio è alle spalle; corro lungo il mare, verso Albissola. Appena un alito di vento; il mare quasi calmo, la schiuma che a quest'ora appare di un colore azzurro fioco. E piove, ancora. Supero la prima galleria e proseguo lungo la Passeggiata degli Artisti, ormai quasi deserta; a sinistra, luci intermittenti, musica, vetrine illuminate, ristoranti che si preparano all'attività; a destra, una distesa nera. Più che vedersi, il mare si sente, nel profumo e nel rumore delle onde. Le gambe sono, in effetti, un po' indolenzite. A stima, a Savona potrei aver raggiunto la boa dei 70 km; è anche normale. Per evitare l'Aurelia, passo nel centro storico del paese. "Scion! Scion, fermati!", uno strillo alle mie spalle: mi volto e scopro d'essere inseguita da un botolino bianco a chiazze, un cucciolo di Jack Russell di quattro mesi, mi spiega orgogliosa la giovane padrona, che ha al guinzaglio anche un paciosissimo Bulldog. Il piccolino è un vero demonietto: mi addenta il dito indice, nel furioso tentativo di strappare via il guanto, con un'insospettabile forza nelle mascelle; non contento, schizza letteralmente in testa al paziente compagno a quattro zampe, poi torna all'assalto del dito. A fatica mi libero del piacevole contrattempo e riprendo la marcia, in direzione di Celle. Un tratto di Aurelia completamente buio: e qui sì, che sento la mancanza della pila frontale. E' pur vero, basta proseguire lungo la ringhiera, ma ben ricordo che il marciapiede spesso ha degli scalini o degli avvallamenti... Sfrutto il fascio di luce dei fari che mi arrivano alle spalle per scrutare quanto possibile davanti a me, ma corro comunque sulle uova. Le auto che vengono in senso contrario mi abbagliano e mi accecano del tutto. Vuoi vedere che da un attimo all'altro mi mancherà la terra sotto i piedi? In qualche breve tratto, mi rassegno a camminare, con cautela e tenendo la mano appoggiata alla ringhiera, onde limitare eventuali danni. Ma quanto manca a Celle? Il mare picchia contro gli scogli, in qualche punto con un tonfo sordo. Peccato non potersi fermare ad osservare; quel poco che le gambe riescono ancora a dare, devo sfruttarlo senza soste, altrimenti son panata. Oltre la risalita, a sinistra, la strada piega finalmente verso Celle. Torno a veder la luce: nemmeno uno sguardo alla pur amata vetrina del negozio Olmo; qui conviene prestare attenzione alla pellaccia. Anche a Celle, oltre la strettoia, guadagno la passeggiata e poi il centro vecchio dell'abitato. Un panzuto personaggio, non proprio nel fiore dei suoi anni, mi biascica alle spalle: "Alzarle, quelle gambe, bisogna alzarle!". Com'è ovvio, non spreco fiato per rispondergli; dovrebbe piuttosto pensare, il genio della lampada, ad alzare più spesso il deretano dal divano, a giudicare dal tonnellaggio. Ancora una volta, via dalla pazza folla; un breve tratto di Aurelia al buio, poi le luci del casello autostradale e del breve trato di passeggiata giù in basso, sul mare, attrezzato di panche e lampioni. E' bellissimo qui. La fatica si fa sentire, ma quasi mi dispiace sapere che è quasi finita. Non so che ora sia, non ho voglia di estrarre il telefonino dalla tasca e dalla borsina di plastica in cui l'ho avvolto per proteggerlo dall'acqua, ma non credo manchi molto alle sette. Varazze: lo slargo tra il supermercato ed il porto, il magazzino di abbigliamento, la passeggiata, ancora un po' più affollata. Da qualche parte, qui, si dovrebbe poter imboccare la vecchia ferrovia, ora pista ciclabile e pedonale: mannaggia a me se mi ricordo dove... Scruto il lungomare, ma non vedo nulla del genere. Eppure sono sicura... Proseguo ancora e ancora; sono certa che quella benedetta pista cominci qua, ma non riesco a capire dove. Boh, sarà la stanchezza. Trillo del cellulare: è Matteo, annuncia che è appena partito dal negozio; in anticipo, come immaginavo. "Sono quasi all'uscita di Varazze – lo informo – proseguo restando lungo l'Aurelia". "Attenzione che quello è un tratto pericoloso, non mi posso fermare", ammonisce lui. In effetti è vero: sarò passata di qui mille volte, ma ancora non ho messo ben a fuoco la sequenza dei luoghi. Dev'essere il tratto di Piani d'Invrea, dove mi ritroverei a correre lungo la statale senza neanche un tratto di marciapiede. Vero che ho i rifrangenti sia sullo zaino che sulle gambe, ma non ho luci; meglio non rischiare. Sarebbe un peccato farsi stirare dopo tutta questa fatica, senza nemmeno aver cacciato in pancia una sostanziosa cena. Torno sui miei passi: aspetterò Matteo sul lungomare di Varazze, passeggiando un po' avanti e indietro per sciogliere le gambe. Così faccio, quattro o cinque volte su e giù per lo stesso tratto di poche centinaia di metri, a guardare il mare ancora per un po'. Mi piacerebbe raggiungere il molo, ma rischio poi che Matteo passi e non mi veda. Nove gradi, segna un termometro: temperatura gradevolissima, non fosse per gli abiti fradici che non possono proprio tener caldo, neanche volendo. Le luci della costa si scorgono fin lontano, da una parte e dall'altra.

Alle sette e mezza, mi ritrovo contenta e soddisfatta sul sedile del furgone, nel mio stato d'animo di grazia assoluta che segue di solito questo genere di prove. La più bella vigilia di Natale possibile, 85 km, più o meno: certo meno faticosi e nervosi dei venti e più giorni di lavoro continuo in negozio per il povero Matteo. Lui ha dalla sua, per fortuna, un carattere molto tranquillo ed equilibrato, che sa dare il giusto peso alle cose; credo che, al suo posto, una dose così ostinata e prolungata di contatto con tanti esemplari del genere umano mi porterebbe a dare di matto nel giro di una settimana, forse prima. Si torna a Ceva, a recuperare la Opel; qui Matteo abbandona il furgone e si trasferisce sulla mia fida quattroruote. Domattina tornerà a Ceva in bici, temo sotto un identico diluvio: dovrà rientrare a Genova in tempo per cucinare il pranzo natalizio; non potrebbe esserci, per lui, forza motrice più efficace. Quanto a me, niente pranzi né convivi. Quel che è certo, piaccia o no alle gambe, è che andrò a correre.

giovedì 9 dicembre 2010

9 dicembre 2010 - "E a casa come torni? Beh che domande... A piedi!"

L'esistenza degli Ordini professionali è un concetto che non riesco a digerire, benché io stessa, obtorto collo, sia iscritta ad uno di tali enti: non lo digerisco né nel suo presunto ruolo di sorveglianza sulla professionalità degli iscritti – sarà perché ho ben presente l'esperienza dell'Esame di Stato – né nella veste di organo che tutela i suoi stessi componenti. Soprattutto nel caso del mio mestiere, che, ben lungi dall'essere materia esclusiva, è libero appannaggio di "esperti contabili", "centri di elaborazione dati", controfigure e praticoni vari, che esercitano senza alcun controllo, con buona pace dei dottori commercialisti che si sono sciroppati tre anni di tirocinio più un esame di abilitazione e che pagano ogni anno un consistente obolo al suddetto Ordine. Come se non bastasse, oltre al danno, la beffa; ai DottComm tocca anche l'ingrato obbligo di ciò che pomposamente, con il solito orrendo neologismo da piazzista in carriera, è stato battezzato "formazione continua": pare chissà che cosa, ma altro non è che il vincolo a seguire un tot di ore di convegni e corsi di aggiornamento, a cui corrisponde un punteggio. Tapini, dobbiamo collezionare un minimo di punti l'anno e, alla fine, non conquistiamo neanche un orsetto di pelouche. Sarà che ho sempre detestato, di tutto cuore, ciò che somiglia anche solo vagamente ad una lezione scolastica o universitaria: per quanto la materia fosse interessante, non sono mai riuscita a prestare attenzione per più di dieci minuti senza dover ingaggiare una lotta selvaggia contro il sonno. Risultando, tra l'altro, sempre soccombente. Ora, dico io: in un mestiere come questo, l'aggiornamento è vitale; se non ti tieni al passo con i tempi e le norme, puoi proprio chiudere bottega, hic et nunc. Se dovessi contare su corsi e convegni per adeguare la mia preparazione, apriti cielo. Proprio per questo, ritengo la "formazione continua" il più inutile ed odioso tra gli obblighi. A me fa solo perdere del tempo; in compenso, ne è contento il mio benzinaio, visto che, come minimo, per inseguire i punti mi tocca spostarmi a Bra o ad Alba, quando non a Cuneo.

Ma stavolta il benzinaio rimarrà a bocca asciutta. Ed io potrò lenire almeno un po' la seccatura. Sola nel deserto, davanti al binario 2, attendo il treno delle 14.05 per Alba. Felpa, giacca da bici, pantaloni ¾, scarpe da ginnastica; sulle spalle uno zaino, forse troppo pesante. Non viaggio in treno da una mezza eternità: è ben difficile trovare un motivo abbastanza valido per lasciare l'amata Opel in garage. Il convegno, per mia fortuna l'ultimo del 2010, inizia alle 15, a pochi passi dalla stazione di Alba; ci arriverò con i dieci minuti di ritardo accademico; tre ore, ma spero in un po' di sconto, di supplizio e poi via: guanti, berretto, giacchino e fasce rifrangenti, pila frontale. Si tornerà a casa, per la via delle colline, di corsa, a piedi.

Dal finestrino, osservo la campagna in una splendida giornata di sole. Guai, se oggi non avessi escogitato il mio diabolico piano d'azione: avrei avuto un diavolo per capello, a buttar via una giornata così luminosa, senza nemmeno poter sfruttare la pausa pranzo per una corsa, e tutto per andarmi a rintanare al piano seminterrato di un albergo, a fissare con sguardo perso nel vuoto un televisore che trasmette, oltretutto, un filmato registrato, a sentire quella voce noiosa, monotona, piatta, che scandisce parole che ben presto non riesci più a distinguere. Il peggio del peggio, oggi, il convegno sulla deontologia professionale... Vero, il sole non lo verdò comunque; sarà già buio quando riemergerò dall'abisso. Ma si annuncia una stellata fantastica, che mi sarà di adeguata ricompensa.
Cambio di treno a Bra: per poco, non salgo sul convoglio sbagliato... Non sono più abituata alla vita del pendolare sui mezzi pubblici. Acciuffo per la coda la coincidenza per Alba, che mi scodella nella piccola stazione invasa da un penetrante, inebriante profumo di cioccolato. Benedetta Ferrero!

Pochi minuti ed eccomi all'entrata dell'Hotel Savona, che ha messo a disposizione la sala per le torture. Lo sguardo perplesso degli elegantissimi inservienti mi conferma che, così conciata, faccio davvero la mia porca figura, tra giacche, cravatte, cappotti lunghi, tailleur, tacchi alti e nauseabonde scie di profumo. La casacca Windstopper da bici, azzurra con la fascia giallo canarino, spicca anche nella penombra del seminterrato. Per fortuna, la trasmissione è già iniziata e più d'uno, noto con la coda dell'occhio fingendo noncuranza, ha il capo appoggiato alla spalla, le mani incrociate sul ventre, le palpebre beatamente abbassate. Scommetto che, se mi avvicinassi, potrei percepire un sommesso "ron-ron", delicato come le fusa di un gatto. Anche se la maggior parte, fuori di qui, non l'ammetterebbe mai. Ma guarda un po' cosa ci tocca fare... La cosa mi consola e mi rafforza nella mia convinzione dell'inutilità assoluta di questa messa in scena: convinzione non solo mia, che in fondo sono novellina del mestiere ed ho soltanto da imparare, ma anche di più d'un professionista affermatio indubbiamente capace e stimato. Mah.

Mi domando cosa posso aver fatto di orribile, in una vita precedente, per meritare questa croce. La penombra, il freddo dell'immobilità in un locale non riscaldato, la voce del relatore sempre uguale, monotona, piatta. Sfido chiunque a non cadere tra le braccia di Morfeo. Ormai ho acquisito un perfetto equilibrio: testa china, mento appoggiato al petto, posso assopirmi senza rischiare l'improvviso ed imbarazzante crollo laterale. Ma il dramma è far passare tutto il tempo. Quanto possono essere tremendamente lunghe, le ore... Di tanto in tanto, capto qualche spezzone, ma è più forte di me, non sono mai riuscita a seguire una lezione. La mente parte e va...

I ringraziamenti conclusivi, però, li catturo al volo. Rapida occhiata intorno a me: ho capito bene? E' proprio finita? Libera nos, domine... Raccatto lo zaino, appongo l'autografo sul registro presenze... "Ed uscimmo a riveder le stelle". Respiro... Accanto all'albergo c'è un parco: bene, una panchina è tutto ciò che mi serve per sistemarmi. Un capannello di loschi figuri mi tiene d'occhio: indosso il giacchino rifrangente, sistemo le bande rifrangenti sulle ginocchia; bevo un succo di frutta, trangugio un boccone di cioccolato e via, si parte. Al buio, ma non è buio affatto, tra le luci dei lampioni ed i fari delle auto: il colmo del traffico del rientro da uffici, fabbriche et similia. Sono le sei, in effetti. Il caos mi mette a disagio: attraverso subito la strada principale, in direzione della stazione ferroviaria, e poi via, lungo il marciapiede, verso il Tribunale, di corsa con il mio zaino ingombrante, ma ben fissato, in modo che non muova e non mi dia fastidio a collo, spalle, schiena. Via dalla pazza folla. Clacson, rumori, luci che si sfumano e s'allargano attraverso i fumi di scarico delle altre auto: probabilmente, almeno per i primi km da Alba, spostarsi a piedi conviene di gran lunga, rispetto all'auto. Osservo con commiserazione la fila di vetture immobili. I volti di chi guida non riesco a vederli, ma me li immagino tutt'altro che sereni e sorridenti. Sfido ancora una volta la sorte, attraversando la strada di fronte al Tribunale: conquisto così il ponte sul Tanaro, che offre al podista un comodo marciapiede. Sarà pur vero che correre è salute, ma qui mi pare di respirare in una camera a gas, a un metro dalle auto in coda. Coraggio Gian, è per poco... In questi casi, non si sa bene se conviene accelerare e levarsi dal marasma, respirando però a pieni polmoni, oppure andar pianino ed evitare di inspirare troppe schifezze, ove possibile. Alla rotonda, terzo ed ultimo attraversamento temerario, almeno per il momento: imbocco la direzione verso la Asti-Cuneo e poi, alla successiva rotonda, che taglio senza vergogna, svolto a sinistra, lungo una strada che attraversa la zona industriale degli stabilimenti Miroglio. Deserto, finalmente. Cubi di cemento freddi, vuoti e silenziosi. Davanti a me, le luci della collina. E' una serata limpida che più non si può; le stelle e le luci artificiali spiccano, quasi tremule. Passo dietro i capannoni, accanto ai parcheggi deserti, poi a sinistra in direzione di Castelrotto, in mezzo ai filari di frutteti, ora spogli. Silenzio e non un'anima in giro; sembra notte fonda, eppure non sono certo ancora le sette di sera. Il Castello di Guarene è il mio primo traguardo volante; spicca lassù, leggermente sulla destra; raggiungerlo mi costerà un bello sforzo. Chissà se ce la faccio a correre fin lassù, anche solo a passettini brevi?

Incrocio un paio di auto, che rallentano vistosamente. Alla rotonda, la guerra comincia, sotto forma di ripida rampa. Parto fiduciosa, passettini brevi, fiato sotto controllo: però... Chi l'avrebbe mai detto? Continuo di buona lena, scatenando l'insofferenza degli innumerevoli cagnetti e cagnoni a guardia dei giardini delle ville. Supero il punto più ripido, le due curve, e poi la rampa che riporta alla strada principale in direzione di Guarene. Per ora, la pila frontale non serve; basta ed avanza la luce generosamente omaggiata dagli indigeni. Un tratto di pendenza meno disumana, fino al bivio per la frazione Vaccheria. Il cielo stellato è uno spettacolo impagabile; da quassù la vista spazia sulla collina. La temperatura dev'essere molto rigida; il ghiaccio sull'erba luccica, ma lo sforzo della salita ben compensa. Il passo si fa ancora breve e faticoso, anche se non voglio cedere alle lusinghe della camminata. Tre "scalini " per arrivare al punto più alto di Guarene: il primo qui, per arrivare alla cappelletta; il secondo più avanti, in paese; il terzo che inizia accanto alla casa di riposo, dove campeggia un inquietante cartello "18%". Pian piano, me li lascio alle spalle. L'attenzione, basta distrarla, meditando sull'itinerario da seguire. Meglio andare a Castagnito, scendere giù a Vezza bassa, poi San Rocco e Montaldo, o meglio scendere a Piobesi? E' vero, l'intento è macinare km, ma non ho troppa voglia di rientrare a casa a mezzanotte; tengo famiglia, ho un cagnone che mi aspetta!

Il tratto di strada tra Guarene ed il cimitero è una splendida balconata sulla collina: il pendio coltivato, le luci, il castello ora alle spalle, squadrato ed imponente. Si vede Vezza, si scorgono le luci di chissà quanti paesi. Mi sorprendo a sorridere da sola, da un orecchio all'altro; felice di essere quassù, come se non esistesse nient'altro al mondo. Più che mai blasfema, guardo con un certo interesse il piccolo cimitero; se non ricordo male, c'è un sentiero che passa dietro al muro posteriore. Riservato ed accogliente luogo, ideale per una sosta "tecnica": solo quando sono lì, con la parte migliore di me esposta inerme al freddo, impegnata nello sforzo supremo, mi rendo conto di quanto possa essere lugubre la situazione, al buio, senza un'anima intorno – anima viva, preciso – ed accanto ad un cimitero. Guai se fossi suggestionabile o superstiziosa.

Mi allontano alla chetichella, senza che alcuno spirito malvagio mi abbia importunata. Appena in tempo, prima che passi un'auto che avrebbe illuminato il mio momentaneo ricovero, infrangendo la poesia. Oltre la curva, si spegne l'ultimo fioco bagliore giallognolo dei lampioni di Guarene, ma s'accendono, in compenso, mille altre luci della collina. Attraverso una frazione, passo accanto ad un'osteria ed al bivio per il laghetto; tra le case, la strada spiana un po', poi riprende a scendere, fino all'incrocio con lo stradone che va ad Alba. Anche qui, i cani si scatenano: non capiterà mica tanto spesso di poter dimostrare al padrone, con tanto vigore, che non si mangia la zuppa a tradimento! Mi spiace un po' perdere quota e rinunciare, così, al panorama notturno sulla collina. Il tratto di strada rettilineo dall'incrocio fino a Piobesi non è dei più gradevoli; qui passano più auto e senza troppi riguardi. Il cartello che indica il bivio per la frazione Reala e lassù, su un cocuzzolo, la sagoma di un edificio ed una luce. Un brivido di tensione ogni volta che vedo, davanti a me, la strada illuminarsi; non sono mai davvero sicura che l'auto che mi arriva alle spalle mi schivi. E' vero, tra luci e bande rifrangenti, sono più luminosa di un albero di Natale, ma ho poca fiducia nell'altrui concentrazione ed attenzione alla guida.
Appena all'inizio dell'abitato, una fontanella: ignoro, come sempre, il cartello minatorio "Acqua non potabile"; ormai qui posso dire di essere, da parecchio tempo, la cavia di me stessa. Bevo a garganella: per risparmiare peso e fastidio, come sempre, ho lasciato la borraccia a casa.

Piobesi d'Alba, Corneliano d'Alba, due paesi distinti da chissà cosa, visto che, di fatto, proseguono l'uno nell'altro. Il marciapiede mi salva dai tentativi di omicidio a quattro ruote; in compenso, insidia l'integrità delle mie tibie: tra le crepe, le irregolarità e la mia distrazione, rischio di farmi del male. Non parliamo poi del passaggio in piazza a Corneliano: agli arzigogoli del passaggio pedonale, su e giù e gradini, preferisco la strada. Poche anime intirizzite a piedi; silenzio, immobilità. Solo le insegne luminose danno un cenno di umana esistenza. Le gambe faticano un po', dopo la lunga discesa, a riadattarsi alla pianura, nel lungo rettilineo che passa davanti alla Caserma dei Carabinieri. Alla rotonda, il traffico lungo la strada che sale a Sommariva Perno è intenso: è ora di rientro dal lavoro, per non dire di cena. Svolto in direzione di Baldissero, a caccia di tranquillità; appena oltre il cimitero, è il buio. Per quanto possibile, evito di accendere la luce; mi piace lasciare che gli occhi si abituino all'oscurità e si sforzino di distinguere la linea bianca a bordo strada. Una leggera brezza fa frusciare l'erba e quel poco di fogliame secco che ancora resiste, ostinato, sui rami. Tutt'intorno, pendii scuri, boscaglia. Passa qualche auto, ben poche; per tutti lo stesso, identico stupore, il piede sul freno, gli abbaglianti freneticamente accesi, un pensiero comune: "Ma che diavolo...".

L'idea che ci si possa spostare a piedi, o in bici, nottetempo, è qualcosa che i più non riescono nemmeno a concepire. La strada è e deve essere monopolio delle auto: se pretendi di percorrerla a piedi, il minimo che ti può capitare è di essere deriso, e fin lì nessun problema. Va peggio con quegli elementi che si attaccano isterici alle levette delle luci o al clacson, come se tu, nullità a propulsione umana, ti stessi macchiando del peggiore dei delitti. Bah, peggio per loro, non sanno quel che perdono. Così rimuginando, raggiungo il bivio per Baldissero. Una delle tante mete intermedie in cui ho spezzettato il mio viaggio, per poterlo vedere meglio e per evitare di incappare in una crisi di sconforto. Breve risalita, che riscalda i garretti; leggera discesa, nel silenzio profondissimo di questo tratto di strada deserto, poi comincia la lieve ascesa alle prime case, fino alla curva che mi porta in vista del paese. Un chilometro di salita leggera, combattuta tra la tentazione di restare all'interno dell'ampio curvone, per risparmiare distanza, ed il rischio che chi mi arriva di fronte non riesca a vedermi se non all'ultimo. Un concerto di latrati, luci accese nei giardini; il fiato che pian piano si adatta alla fatica; il bivio verso il centro del piccolo abitato sempre più vicino. Un occhio sempre rivolto al cielo, limpidissimo: mi stupisco di come possa essere stata fortunata stasera... Se sopravvivo fino a casa, potrò davvero dire di aver vissuto una giornata perfetta!

Appena oltre il bivio per il centro del paese, la stradina si restringe e s'impenna. Il piccolo cimitero, il tornante, il fondo in porfido tra le case. Salgo a passettini brevi, ma continuo a correre, nonostante tutto. Un cagnetto mi si avventa contro: la padrona, che accore carica di borse della spesa e di un pandoro appeso al polso, lo richiama: "Nessun problema, non credo riesca a mangiarmi tutta"... Guadagno a fatica il sagrato della chiesa principale, con i muscoli un po' in fiamme; ora si può dire che il peggio sia alle spalle. Il peggio in termini di fatica in salita, s'intende. Calpesto porfido fino all'uscita dell'ampia piazza. La fontanella, qui, è desolatamente chiusa: mi terrò la sete fino a casa, mi sa... Da qui mancano circa 20 km, ma quasi tutti su strada pericolosetta, direi. Certo, potrei imboccare strade traverse, ma è la pigrizia che mi frena: già così, arriverò a casa oltre le dieci... A questo punto, bando ai timori e via per la diretta. Procedo in direzione di Ceresole: la quiete mi accompagna tra le ultime case del paese, in località Sigola; finestre illuminate, camini che fumano, profumo caldo di legna, leggera discesa che riposa e ristora le gambe.

Alla rotonda, mi immetto sullo stradone tra Ceresole e Sommariva Perno, con un solo obiettivo: gambe in spalla! E' vero, a quest'ora non ci sarà più molto traffico, ma per chilometri sarà buio pesto. E, soprattutto, qui i piloti hanno tutti il piede pesante. Accelero il passo, rasentando l'erba a bordo strada; tengo la pila frontale in mano, per poterla meglio orientare sia contro le auto che mi arrivano incontro, sia verso quelle che sopraggiungono alle spalle. L'impressione netta è che mi vedano benissimo e che, anzi, l'effetto sorpresa giochi a mio favore. Da brava podista, dovrei correre sul lato sinistro della strada, ma, non so perché, non mi va giù. Ho la sensazione, forse infondata, che gli automobilisti siano più portati a sorpassare un veicolo, o qualcosa di simile, che si muove nella loro stessa direzione, piuttosto che un ostacolo che si para loro davanti. E poi, correndo a destra, subisco un po' meno l'effetto nefasto dei fanali delle auto che incrocio. Mi dà comunque molto fastidio la loro luce, per quanto cerchi di evitare di fissarla. E' come essere abbagliati da un violento lampo e poi, un istante dopo, passata l'auto, ritrovarsi per una frazione di secondo completamente ciechi. Ma, in quei pochi momenti in cui non c'è traccia di motori, mi godo il panorama di sagome scure, limpidissime nell'aria cristallina di questa splendida serata; sagome di filari di alberi, di pali e cavi del telefono, di solchi in mezzo ai campi. L'erba scintilla accanto ai miei piedi; l'aria che inspiro è gelida. Ma non sono tranquilla, non posso esserlo, con le auto che mi sfrecciano di fianco come missili terra-aria. Tengo d'occhio i cartelli chilometrici, che scorrono troppo, troppo piano; mi sforzo di allungare il passo, ma d'altro canto non posso nemmeno permettermi di esagerare: a casa devo arrivare per forza con i miei piedi...

La rotonda al bivio per Monteu, il "Mulin 'd la pera", la meravigliosa tenuta sulla sinistra; un'altra tappa ideale. La strada scende leggermente e s'allarga, concedendomi uno spazio per correre con un minimo di sollievo in più, ma sempre ad orecchie tese, pronta a saltar fuori, nell'erba. Ancora buio, sagome scure che di tanto in tanto mi sembra di veder muovere: un sussulto... Ho paura della mia stessa ombra, è il caso di dirlo: la sequenza di lampioni fa l'effetto di spostare la mia ombra, così che, ad ogni lampione che supero, me la ritrovo davanti. Accanto a me, il nuovo agriturismo "Cà d'l Mat", alle porte di Ceresole; una vecchia cascina ristrutturata con molto gusto. Peccato solo per la spianata d'asfalto del parcheggio.

Supero anche il bivio per Sommariva Bosco; tiro dritto, con la voglia di entrare in paese e distendere, almeno per un poco, i nervi tesissimi. La luce dell'abitato mi rincuora un po': l'officina del meccanico, le prime case. Chissà che ora è? Trilla il telefonino: ci vuole un bel coraggio a levare il guanto. E' mamma: vuol sapere a che punto io sia. "A Ceresole", rispondo, "un'oretta e sono a casa". "Ah beh, allora sei vicina". Ormai ha imparato anche lei a misurare le distanze con il mio metro podistico o ciclistico; da qui a casa mancherà una dozzina di km. Beh, un'ora è un po' ottimistico, diciamo un'ora e un quarto, via. A fatica, la mano mezza congelata, ritiro il telefonino nella tasca della giacca. In paese non c'è un'anima; le locandine dei giornali pendono pesanti di umidità, il bar è già chiuso. Un gruppetto di avventori di mezz'età esce dal vicino ristorante: mi sa che sono troppo pieni per accorgersi di me...

Alè Gian, l'ultima fatica, l'ultimo tratto insidioso. Ho fame e patisco un po' lo sforzo della galoppata che mi sono imposta per ridurre i rischi, ma non posso certo pensare di cedere. Un'oretta e sarò a casa, davanti ad una tazza di latte bollente con i grissini. Oltre la rotondina, il lungo rettilineo, in leggero saliscendi; il paesaggio che è già più campagna che collina, lo splendido viale che porta alla tenuta sulla sinistra, un bellissimo palazzotto; poche case e capannoni, la quiete che precede il riposo della notte. Qualche auto passa ancora; conto i paracarri, scruto l'orizzonte di una strada che ormai conosco a memoria, centimetro per centimetro. La collina di Torino pare un cuscino di brillanti; laggiù superga, là il faro della Maddalena, persino le sagome delle montagne, le sfumature della neve. Sembra di poterle toccare. Non potrei essere più felice... Un altro trillo, un messaggio, questa volta; è la sorella. Chiede se sono a casa. Quasi quasi, la prossima volta mi procuro un sensore GPS: così, chiunque può controllare la mia posizione senza causarmi un congelamento alle mani. Le dita sono troppo rigide per pigiare i tastini: tantovale che la chiami... Con la bocca impastata dal freddo, protesto: "Non mi chiamo mica Gebresilassie! Mi mancano circa sette km...". E intanto leggo l'ora sullo schermo; le dieci meno un quarto. Dai Gian, muoviti, per carità. "La Piccola Fattoria": e anche l'agriturismo è andato. Non mi resta che l'ultima discesa, cinquecento metri e via, il bivio con la stradina vecchia di Santa Rita. Fine della sottile angoscia, posso rilassare i muscoli e la mente. Pochi chilometri tra le gaggie e le cascine, a spaventare gli indigeni all'abbaio dei cani; la fame ora sì, che si fa sentire. Ancora un po' di cautela per i tanti crateri che tormentano l'asfalto di questa piccola strada secondaria. Le sagome dei parallelepipedi di mattoni, le casermette a cui arrivano e da cui partono cavi di non so che; qualche luce di passaggio sull'autostrada. Ultimo sforzo in salita, il cavalcavia. Mi restano poche centinaia di metri per godermi il buio e le stelle; i garretti ben presto mi riportano tra le case e le luci, lungo la via di quel che resta del tiro a segno, ormai diroccato. Rotonda, sottopassaggio della ferrovia. In Carmagnola come sempre è il coprifuoco, peggio che in aperta campagna; tanto meglio... Poco più di quaranta km, un buon dislivello, in quattro ore e mezza, e null'altro al mondo che possa rendermi felice come una sera trascorsa così, in compagnia delle mie scarpe e della mia fatica. Sento nel cuore la soddisfazione dell'ennesima mattana ben riuscita. "Se puoi pensarlo, puoi farlo", recita una di quelle massime da cartellone pubblicitario; "Just do it". Infatti...
Mi servono due mani per infilare la chiave nella serratura, tanto il freddo mi ha irrigidito le dita. Mi precipito su per le scale, per produrre ancora un po' di calore. Inutile aspettarsi, a quest'ora, la festosa accoglienza del bestione peloso: riverso sul lettone, la testa sul mio cuscino, in stato di morte apparente, il filibustiere a quattro zampe vuol farmi capire, con la sua ostentazione di indifferenza, che non è questa l'ora di rientare a casa e turbare il sonno del giusto. In effetti, non posso darti torto, tesorone mio, ma sappi che tra poco verrò a reclamare la mia parte di cuccia!

domenica 7 novembre 2010

7 novembre 2010 - Camminata sui monti sopra Varazze

Lo spiazzo accanto all'uscita dell'autostrada, tra Celle e Varazze, è una delle tappe di viaggio che la Opel ormai conosce a memoria: ha già passato tante e tante ore ad aspettarmi, paziente, vicino al piccolo chiosco e di fronte ad un bel tratto di costa adattato a passeggiata, con tanto di piastrelle, lampioni e panchine. Matteo ed io ci arriviamo alle prime luci del giorno, con bellicose intenzioni camminatorie e corsaiole per la giornata. L'itinerario di oggi è stato combattuto: il mio compare aveva proposto, in alternativa, un altro giro, lungo una traccia che lui stesso aveva precisato di non conoscere. Per carità: già quando la via ti è nota, chissà perché io finisco sempre nei guai... Non ho alcuna voglia di mobilitare la Protezione Civile e le squadre di soccorso con i cani da valanga, per riuscire a tornare all'auto. E' risaputo che chi lascia la via vecchia per la nuova, spesse volte nel guano si ritrova. Lascio a lui l'emozione della scoperta, quando vorrà; per oggi, preferisco rifugiarmi nella tranquillità di una via nota, e già così nutro comunque qualche timore.

La giornata si annuncia bella e limpida, a dispetto delle previsioni meteo infauste. Attraversiamo l'Aurelia in un punto da suicidi: per fortuna, a quest'ora l'automobilista domenicale medio ronfa ancora, della grossa. Sarà un luogo comune, ma a me, che vengo dalle nebbie della pianura, il mare ha sempre l'effetto di allargare il cuore... Solo d'inverno, però, quando in giro non c'è traccia di turista né di bagnante. D'estate è meglio che me ne tenga ben lontana; folla e cagnara mi suggeriscono propositi pluriomicidi. Ora si sente solo il fruscìo delle onde, che accompagna il passo un po' strascicato dei primi metri di corsa. Respiro l'aria asciutta, a pieni polmoni, mentre corriamo lungo lo stretto marciapiede protetto dal guard rail: oltre a noi, pochi loschi figuri alle prese con la passeggiata o la corsetta mattutina. Leggera brezza, spiagge deserte e silenziose. Una brevissima salita ci porta in vista di Varazze; bellissima la passeggiata ancora deserta, le palme un po' rattrappite dal freddo ed agitate dalla brezza, i colori del primo sole. Corro, ma fatico un po': l'avvio, come sempre, è lento e tormentoso. Per me, ovviamente; Matteo è fresco come una rosa, non batte ciglio, chiacchiera, la falcata leggera. Una decina di km di corsa prima della salita, ha annunciato Matteo: quindi, me ne aspetto come minimo il doppio... Corriamo lungo la vecchia ferrovia, ora trasformata in pista pedonale e ciclabile: un lavoro egregio, la strada che fugge accanto agli spruzzi delle onde, le gallerie fredde. Pochi, sparuti passanti, qualche cagnotto a passeggio. I chilometri scorrono con il racconto della trasferta di Matteo a Casole Valsenio, ad un raduno di speleologi o qualcosa del genere: di certo non c'è da annoiarsi, già solo a sentir le peripezie della trasferta. Non parliamo poi di quelle della permanenza! Spuntiamo accanto all'Aurelia tra Cogoleto ed Arenzano: qui imbocchiamo una via che porta verso l'interno. Al primo accenno di pendenza, smetto di correre: oggi gira così... Chissà perché, in presenza di qualcun altro, avverto la fatica molto più che quando son da sola. Forse temo il confronto. E dire che con Matteo non c'è confronto, soprattutto se si parla di corsa; sarebbe come sfidare Angelina Jolie in un concorso di bellezza & eleganza o Garri Kasparov in una prova d'intelligenza.
Non posso fare a meno di notare un enorme ammasso di strutture e lamiere arrugginite all'interno di un'ampia area recintata: è lo stabilimento Stoppani, mi spiega Matteo, un'azienda chimica oggi non più in attività, responsabile in passato di un grave inquinamento della zona. Nella mia ignoranza, non ne sapevo nulla. Un luogo tetro, immobile, che sembra doversi polverizzare da un attimo all'altro, un ambiente da film dell'orrore. "Stoppani", mi riprometto di ricordare questo nome ed andare a cacciare il naso qua e là in Internet.

Procediamo su asfalto, sino ad un luogo ormai a me ben noto, per esserci passata più volte sia in occasione del Gran Trail Rensen che in almeno un paio di gite occasionali; una borgata con un affittacamere, un ponte, alcuni edifici incassati nel fondo della valle, che mi impressionano perché vedranno il sole si e no poche ore al giorno, e forse per niente, nella stagione fredda. Fervore edilizio anche qui, ma con gusto, per fortuna. Matteo lascia che sia io a decidere il ritmo in salita; più che altro, io faccio quel che posso, come sempre, e pian piano. Ci vorrà un bel po' di dislivello, prima che il motore si decida a girare decentemente.

Calpestiamo un po' di asfalto, sotto un sole tiepidino, o sarà forse il calore della salita. Matteo indica un sentiero che sale ripido verso destra: è il nostro. Siamo diretti, se non ho capito male, verso il Rifugio Padre Rino. Un giorno o l'altro dovrò munirmi di una cartina dei sentieri: almeno smetterò di brancolare nel buio ogni volta che capito a spasso da queste parti. I nomi ricorrono, ma mai che abbia un'idea geograficamente sensata di dove mi trovo. Meno male che la guida turistica è autoctona e, soprattutto, sempre provvista di mappe. Così, quando, di fronte ad un bivio, il dubbio ci coglie... Evitiamo di sprecare fiato e passi nella direzione sbagliata.

S'alza un po' di vento, man mano che saliamo. Il cielo non è più così limpido come prima, anche se, voltandoci, vediamo ancora il mare a colori accesi. Una leggera nebbia ci ruba la luce e porta in cambio una sottile agitazione, almeno a me.
Il vento cresce d'intensità. Prima sono folate, più forti o meno a seconda, credo, del pendio, della posizione più o meno riparata; veli di nebbia che ci avvolgono e si ritirano, a tratti; ciuffi d'erba che si piegano, onde che corrono sul prato, sembra che la violenza dell'aria debba strapparci via dal sentiero da un attimo all'altro. Un metro dopo, è quiete assoluta, un raggio di sole che mi fa sperare che sia passata, che sia stato solo un episodio storto, e poi ancora nebbia. Sempre più fitta e tenace. I contorni appaiono e scompaiono. La pendenza è più aspra, ma le gambe diventano di legno. Freddo, penetrante. Matteo è davanti, è perfettamente a suo agio; s'infila una giacca in più, con molta flemma. Io non riesco quasi più a respirare, le raffiche sono violente, forse è più la paura, la profondissima inquietudine, che la reale minaccia. Soffio come un mantice, mi trascino, brividi ovunque. Devo vestirmi anch'io, altrimenti congelo. Subito. Per quel poco che riesco a vedere, sembra che, poco più in su, il sentiero si stringa quasi in un canale; dev'essere finita la salita... Sì, me lo ricordo, questo posto, ci si arrampica fin lì e basta. Un'assurda ma incontrollabile paura mi spinge fin lì, fino al punto che speravo fosse un po' più riparato dalla furia del vento; macché. Devo vestirmi, comunque. Levo lo zaino, ma le mani gelate quasi non rispondono ai comandi. Tribolo ad aprire lo zaino, fatico ad infilare la giacca; non ci riuscirei, le dita rigide come chiodi, se non fosse per l'aiuto di Matteo. Ancora una volta resto senza parole: io sono un grumo lagnoso e tremolante di ossa e ciccia, diciamo più ciccia che ossa, e lui se ne sta lì come se fosse sdraiato in spiaggia a prendere il sole, serafico come sempre. Dai Gian, vedi di darti una calmata. Almeno ogni tanto, evita le scene isteriche. Primo, non portano a nulla, di certo non ad un miglioramento repentino del meteo. Secondo, lo sai già, è matematico, è certo almeno quanto il fatto che due più due fa quattro: se c'è il Genovese di mezzo, son casini. Grandi o piccoli, sono comunque garantiti, non c'è niente da fare. Fantastica sul prosieguo della gita, lui: adesso scendiamo giù al posto tal dei tali, poi torniamo su. Tornare su? Ma neanche con l'argano, guarda. Io voglio una sola cosa, uscire da questo gelido avamposto dell'inferno, scendere ad una quota ragionevole, tornare a vedere il sole. Se stavolta mi sarà concesso di salvarmi dall'ibernazione, non torno quassù nemmeno dietro congruo compenso. Ho detto.

Procediamo lungo l'Alta Via, in direzione del Rama, almeno così mi pare di aver capito. Sono luoghi che ho già calcato, ne sono certa, ma, se mi abbandonassero qui, potrei forse vivere cacciando cinghiali o assalendo turisti. Dubito che saprei trovare la strada per il mare. Di certo non oggi, con la nebbia che avvolge tutto. Matteo mi consola con un po' delle sue sempre abbondanti provviste; lo seguo come un cagnolino, confidando di vedere prima o poi il sentiero che punta verso il basso. C'infiliamo nella vegetazione, fino ad imboccare un budello stretto, tortuoso ed infido – il sentiero facile, secondo Matteo – che ci precipita giù, deciso. Finalmente. Mi si apre il cuore, e pazienza se qui mi gioco le caviglie. Giù, giù, conta solo scendere adesso, e più scendiamo, più l'umore risale dal risvolto dei calzoni. La luce del sole, poi, è un toccasana, un'iniezione di gioia diretta in vena. Ricordo bene questo tratto; l'inverno scorso ho tentato di risalirlo, ma mi sono imbattuta nella neve troppo alta per poter raggiungere la cima. Ricordo il panorama sul mare, una serie di tornantini, il tratto iniziale, oggi finale, a salti in mezzo al bosco, ed un guado che, lo confesso, attendo oggi con un po' di preoccupazione. Vero, ho imparato l'estremo rimedio per superare i guadi difficili: basta levarsi calze e scarpe... Ma la temperatura, oggi, non è precisamente confortevole.

Beh, temevo peggio. Il guado è già alle spalle; riguadagno il sentiero dopo aver malamente superato in arrampicata, con unghie gomiti e ginocchia, un tratto franato. Mi godo la vista del mare, ora un po' più grigio, com'è un po' più grigio anche il cielo, che semvra velarsi. Tracce di vita, le prime case dell'abitato di Sciarborasca. Si pesta finalmente un po' di asfalto; ottima occasione per attaccare la riserva di fichi secchi, con un occhio alla piccola casetta in legno in mezzo al prato, alla nostra destra, dalla cui finestrella spunta il muso di un cavallo. Se n'è già andato il desiderio inconfessabile, ma più volte confessato, di una cioccolata calda; qui si sta bene, il sangue è tornato a circolare fino alla punta delle dita.
Una breve sosta alla fontanella, poi s'imbocca una viuzza in salita, roba da ramponi, e dire che è asfaltata... Mi verrebbe da aggrapparmi con le mani a terra, visto che, con questa pendenza, la terra ce l'ho a poca distanza dal naso! Altro che barriere architettoniche... Chi vive quassù dev'essere in piena salute, altrimenti è spacciato! Patisco la mancanza dei bastoncini; la schiena si lagna della posizione così innaturale, con le mani a spingere sulle ginocchia. Superiamo in breve spazio un dislivello da ascensione himalaiana; per fortuna, alla fine della strada, dietrofront: abbiamo scherzato... Era solo per aggiungere un picco nel profilo altimetrico della gita.

Imbocchiamo una bella strada, più o meno asfaltata, che risale la montagna con ampie curve ed offre una stupenda vista sulla vallata, nonostante il cielo grigio, triste, che confonde il mare sullo sfondo. Un'altra salita accattivante per le due ruote. Tento di indovinare il percorso sul pendio, davanti a me, oltre le poche abitazioni abbarbicate quassù. In basso, in fondo al vallone, un ponte dall'aspetto un po' precario oltrepassa il torrente del colore del metallo, come il cielo, come l'aria. Quant'è piacevole marciare di buon ritmo sull'asfalto. Non s'inciampa, non ci si storce... La strada prende a salire più decisa, a tornanti; tra una curva e l'altra, osservo i lavori in corso per rimboschire la montagna: gli incendi non hanno risparmiato questo splendido versante. So io dove l'appiccherei, il fuoco, agli autori di simili prodezze.
Che senso ha, una strada asfaltata quassù, in un posto così arido e deserto? Mi risponde l'apparizione, quasi irreale, di alcuni cavalli in un recinto e, più avanti, di un gruppo di case, di costruzione abbastanza recente, direi. Dev'essere davvero misantropo, chi vive quassù: lo invidio... Qui di certo non rischi che qualche fratturagonadi venga a turbare il sonno del giusto, la domenica mattina, per proporti "La Torre di Guardia" o il catalogo della Folletto. E se, nonostante tutto, qualche temerario osasse comunque sfidare la sorte, lo potresti precipitare giù dal monte o seppellire senza che nessun testimone ti inchiodi in tribunale. Ecco: se proprio dovessi ancora chiedere qualcosa ad una vita a cui non posso chiedere proprio nulla più dell'infinità che già mi ha donato, chiederei un lavoro che mi permatta di vivere fuori dal mondo e ridurre il contatto con i miei simili alle strette necessità di sopravvivenza. Quassù, per esempio. Località Ciazze.

E adesso? La strada asfaltata finisce dritta in un cortile. Ammesso che qui non c'impallinino prima, dove si va adesso? La relazione dell'itinerario a cui si affida Matteo parla di un percorso "evidente ed agevolmente percorribile in mountain bike". Sarà pure evidente, ma qui intorno io non riesco a scorgere nulla che abbia l'aspetto di un sentiero. Attraversiamo con circospezione una spianata sterrata che ha tutta l'aria di un passaggio privato: mi sembra già di scorgere la canna della carabina dietro una finestra... Che i Liguri non brillino per senso dell'ospitalità, del resto, è fatto noto.

In effetti, una traccia di sentiero c'è. Una pallida idea tra rovi, sterpaglie e fango. Matteo procede sicuro, lungo una linea che solo lui riesce ad intuire, o forse ad inventare. Ecco, lo sapevo, ci avrei scommesso. Non poteva mancare l'incasinamento di rito. Da un sentiero inesistente, ci ritroviamo in quattro e quattr'otto in mezzo ad una palude. Mi consolano un po' gli echi delle voci che ancora sento, provenienti dalle case: finché siamo vicini ad un baluardo di civiltà, forse non siamo del tutto spacciati... Matteo sguscia come un'anguilla da una pozza all'altra; io tengo un occhio incollato ai suoi piedi e l'altro che saetta alla ricerca di qualche punto d'appoggio un po' meno fangoso. Mi ricorda tanto un topolino da laboratorio, nel bel mezzo di un labirinto, nel corso di un esperimento per lo studio del senso dell'orientamento: lo vedo procedere sicuro lungo una linea che potrebbe essere ben descritta da un gomitolo srotolato per terra. "Dovrebbe essere di qua", proclama: già... Ma di qua, dove? E' un unico acquitrino, senza capo né coda... Tracce del passaggio di cavalli; da qualche parte si andrà. Ma i cavalli li abbiamo visti prima... Non è affatto detto che si siano spinti al di là di questa trappola di fango ed erba marcia! "E se lasciassimo perdere, almeno finché siamo in grado di tornare indietro?". Figuriamoci, da quest'orecchio la mia guida non ci sente. L'inquietudine mi corre sulla pelle: tra non molto, la luce calerà... E se il buio ci sorprendesse quassù? Saremmo panati. Lo so, forse esagero, ma è orribile la sensazione di sentirsi in trappola.

Non so come e perché, ma, così come la palude ci ha ingabbiati all'improvviso, altrettanto all'improvviso ci espelle su una traccia, qui sì evidente, di sentiero, addirittura segnato. Proprio quello che stavamo cercando. Che sollievo... Tolto il peso, mi sento quasi più alta di qualche centimetro. Scendiamo, a tratti su pendenze anche ripide, in direzione dell'Eremo del Deserto. Ci sono segni del passaggio di ruote di bici: notevole... Se questo è il "sentiero agevolmente percorribile in MTB", allora il mio concetto di MTB ha bisogno di una robusta revisione... Attraversiamo un torrente in un guado dall'aspetto molto tormentato: terra, pietre buttate all'aria, radici scoperte, piante divelte. Il sentiero travolto; lo recuperiamo più avanti, nel fitto del bosco che crea una volta naturale e sembra anticipare l'arrivo della sera. L'eremo appare improvvisamente, sotto i nostri piedi, in un tratto in cui il sentiero cala ripido ed accidentato. Ordinato, lindo, ma senza traccia di vita, almeno sembra. In compenso, c'è vita nell'agriturismo che sorge proprio lì accanto: tre cagnoni schizzano fuori dal cortile, abbaiando furiosamente, salvo poi inchiodare e rinculare non appena mi fermo. Calpestiamo asfalto, adesso, finalmente, sulla via del ritorno, tra un'area picnic e splendide piante imponenti, fino al Passo del Muraglione ed alla località Le Faie, nome che comincia a suonarmi familiare. Marciando lungo l'asfalto, improvvisiamo i soliti calcoli di fine gita, lunghezza, dislivello, ore impiegate. E, quand'eravamo ormai certi di averla scampata... Spuntiamo sul lungomare di Varazze e comincia a piovere. Quattro gocce che si trasformano ben presto in una mezza bufera: soffia un vento rabbioso, quand'è ormai buio. Speravo in un tranquillo rientro al passo, per sciogliere le gambe e contemplare il mare placido; tocca invece filare, con le raffiche che quasi ci ribaltano e le onde che si infrangono furiose contro il muraglione del porticciolo e la scogliera. Non l'avevo mai visto così arrabbiato... Bastano poche centinaia di metri, per ritrovarci fradici, al buio, a non riuscire a procedere per la violenza del vento. Non ho cuore di scavare nello zaino alla ricerca della pila frontale, nonostante il rischio di mettere un piede in fallo: in fondo, ormai, le mie estremità inferiori ricordano questo percorso quasi a memoria... Sfrutto, anche a piedi, la scia di Matteo, che corre in faccia al vento: dopotutto dovrebbe esserci abituato, lui che è un autoctono. Ma la schiuma delle onde, azzurra nel buio della sera, schizza fin quasi a noi e ci sorprende entrambi. I fari delle auto in viaggio lungo l'Aurelia ci abbagliano. Manca davvero poco, ormai... Un po' mi spiace rinunciare a scendere giù in quello splendido angolo di passeggiata ben attrezzato, più in basso della strada, proprio di fronte al casello autostradale di Celle, l'ultimo assaggio di mare prima di tornare a casa, ma direi che non è il momento ideale per andare a toccare l'acqua. Rischio che qualcuno debba poi venirmi a ripescare al largo di Bastia. L'ultimo brivido, attraversare l'Aurelia al buio in questo punto infame; neanche stavolta è la nostra ora. Alla poesia della contemplazione del mare, non ci resta che preferire la prosa del piatto di tortelli con la ricotta. Sarà per la prossima volta.

domenica 17 ottobre 2010

17 ottobre 2010 - In mountain bike al Col de Turini

La rotonda della stazione ferroviaria di Cuneo non è il luogo più intimo e tranquillo per darsi appuntamento, men che meno in un tardo sabato pomeriggio di pioggia. Sprofondata nel sedile ormai deforme della Opel, con la radio a volume vergognoso, osservo sonnacchiosa i lampi di luce che s'allargano a macchia d'olio nelle colate d'acqua sul parabrezza e sui vetri laterali. E' ormai buio da un po'. Clacson, rumori, auto che passano a due dita dal mio specchietto retrovisore: in effetti, non si può dire che io abbia realizzato un parcheggio magistrale. "Sono alle porte di Cuneo, adesso cerco di ritrovare la piazza", scrive Matteo. Sempre affannato, pover'uomo: ma non è lui che è in ritardo... Sono io, che sono in anticipo!
Aguzzo la vista per individuare, tra le tante, la sagoma del suo furgone bianco, ben sapendo che il mio è uno sforzo inutile: se il tapino dovesse contare sul mio occhio di lince, potrebbe anche scavare un solco a furia di girare intorno al rotondone, prima che io sia riuscita ad individuarlo. Come da copione, è lui ad individuare me: conquista un parcheggio, magistrale almeno quanto il mio, dieci metri più avanti. Incuranti del traffico furioso e del concreto rischio di diventare parte integrante del manto bituminoso, abbandoniamo entrambi le postazioni, ma solo per decidere di andare a parcheggiare un po' più avanti, in una delle tante traverse del viale dell'ospedale.

Abbandono lì la povera Opel, con un po' di apprensione, come sempre. Sotto la pioggia battente, Matteo trasferisce la mia mountain bike sul furgone: io ci butto il mio bagaglio, una borsa quasi vuota ed uno scatolone pieno di derrate alimentari. All'occhio dell'uomo della strada, sembra che siamo come minimo in partenza per una spedizione himalayana. Invece no: destinazione Valle Roya, a pochi km da Breil lungo la strada per il Col de Brouis, presso una Chambre dove già una volta abbiamo trovato gradevole ospitalità. La gestisce una matrona francese gioviale e simpaticissima, ma che credo, a giudicare dalla struttura fisica che ricorda il tronco di una quercia secolare, sia prudente non far arrabbiare. Matteo dice che la gentil donzella, già al telefono, s'è ricordata di lui: e ci credo... Non credo subiscano spesso, da queste parti, la piaga dell'invasione delle cavallette. Con quel che mangia lui a colazione, il bilancio dell'attività registra una perdita secca da riportare nei secoli dei secoli!

La pioggia non dà tregua. Robilante, Vernante, Limone; i tergicristallo lavorano senza sosta. E il mio umore rotola sempre più verso il fondo dei calzini. Mi sa che, domani, il giro in bici me lo sogno. O, se anche dovessi costringermi a saltare in sella, sarà un supplizio. Matteo, impermeabile non solo all'acqua ma a qualsiasi altra fonte di disagio, è più che mai giulivo e deciso: sia per la gita di domani, sia per la passeggiata prevista per questa sera, dalla Chambre al Col de Brouis e ritorno, otto o nove km, più o meno. A me vien già la pelle d'oca: vero, sono io stessa la prima a tormentare me medesima ed il mio prossimo se non ottengo la mia quotidiana dose di movimento e fatica; stasera, però, ammetto il mio cedimento. Non riesco a trovare la voglia né il coraggio di buttarmi fuori in queste condizioni meteo; sono qui, rattrappita sul sedile, già infreddolita al caldo dell'abitacolo...

Il tunnel del Tenda sembra il passaggio segreto verso un altro mondo. I soliti pochi minuti di palpitante inquietudine lungo il budello buio e stretto, e poi... Niente più pioggia; mi sembra persino di scorgere una stella. E' una stella, infatti. E allora giù per i pochi tornanti, con il morale che pian piano risale dal fondo delle scarpe in cui s'era rifugiato.
Il furgone di Matteo fa sì che i viaggiatori, almeno quelli che siedono davanti, subiscano l'"effetto pullman". Il sedile è alto rispetto al piano stradale e rende le curve, o meglio il baratro a fianco, ancor più impressionante. Per fortuna, Matteo sa bene che io patisco l'auto e che, soprattutto, sono in preda al terrore quando il volante non è nelle mie mani, e mi concede la grazia di andar piano.
Le luci dei paesi, giallognole e fioche, illuminano il deserto. Le serrande chiuse, gli scheletri dei banchetti della frutta abbandonati in attesa di un nuovo giorno di lavoro. C'è poco da illudersi; le previsioni meteo, per domani, annunciano tregenda e difficilmente, ormai, sbagliano. Doppia stizza: la colazione è fissata per le otto e mezza... Ho dovuto far ricorso a tutta la mia pazienza, per dissimulare il nervoso. Ma dico io... Partiamo per un giro in bici in un giorno in cui la mattina, forse, sarà l'unica finestra salva da pioggia... E facciamo colazione alle otto e mezza? Vero, la colazione della padrona di casa, al B&B, è eccezionale, ma cavoli, svendere così una giornata in bici per i comandamenti dello stomaco... Amen, vorrà dire che partirò con il nervoso. Una cosa devi mettertela in testa, Gian: per quanto tu possa incontrare il miglior compagno di viaggio al mondo, e Matteo senz'altro lo è, la situazione ideale per il tuo carattere è sempre e comunque la solitudine. Niente compromessi, fai quello che ti pare, quando e come ti pare. Da sola, domattina me ne infischierei della colazione e partirei in sella alle prime luci dell'alba, a dispetto del freddo. Invece, mi toccherà fare buon viso a cattivo gioco. Che mostro che sono. Ai tempi, il mio ex moroso aveva sentenziato qualcosa del genere: "Quando vuoi una cosa, sei capace di passare come un rullo compressore sopra a tutto e sopra a tutti". Voleva essere un'accusa, credo, ma io l'ho preso come il più originale dei complimenti e ne ho fatto una sorta di linea di vita. Solo, dovrei essere più altruista. Non sono capace di costruire un legame che resista all'impeto dei miei capricci ed alle mie passioni sportive, quand'essi lanciano il loro richiamo. In altri tempi, avrei piantato su un bel quarantotto, avrei messo la sveglia alle sei, sarei partita da sola e chi s'è visto s'è visto. Ora, che sono più vecchietta e meno incline alle esplosioni, mi limito a rimuginare tra me e me, mentre il furgone s'arrampica da Breil verso il Col de Brouis.
A pochi km da Breil, c'infiliamo in una minuscola stradina sulla sinistra, che, tra una buca e l'altra, ci conduce al B&B. Un edificio ristrutturato, a pianta rettangolare, semplice, simile a tanti altri in questa zona di sole ed ulivi, con le porte e gli infissi dipinti di un color lilla. Ci accoglie alla porta un omone baffuto, un marcantonio con una pancia che denota una gravidanza plurigemellare avanzata; pochi istanti ed ecco la nostra padrona di casa, florida e sorridente come sempre, in vestaglia. Ci accoglie come vecchi amici, con una giovialità troppo travolgente per essere di maniera. La camera è già aperta, possiamo sistemarci come ci aggrada.

Ci sistemiamo, infatti: non abbiamo ancora messo piede nella camera che già facciamo piazza pulita delle suppellettili sul piccolo scrittoio ed imbandiamo tavola per la cena. Yogurt, formaggio, pane ed un'ottima torta salata gentilmente offerta da Matteo. Sfoghiamo sul cibo la nostra furia distruttiva, senza neanche sederci: pochi minuti per i preparativi e ci ritroviamo ancora fuori, al freddo, a calpestar la ghiaia umida, la terra umida, l'asfalto umido. Tutto sommato, la compagnia aiuta: da sola, mi sarei inumata sotto le coperte, vestita e calzata così com'ero. Invece, un moto d'orgoglio mi spinge a rimettere in moto il fondoschiena, nonostante tutto. Devo pur difendere la mia reputazione di donna "de fero", ma soprattutto "de coccio"...

Il clima non è poi così rigido come sembra. Camminare in salita aiuta a scaldarsi; poche decine di metri e già tolgo qualche strato. Saliamo di buon passo, rigorosamente a bordo strada; poche le abitazioni, pochissime le auto che incrociamo. Alla nostra sinistra, le luci di Breil; di fronte, la traccia appena percettibile che divide il cielo buio dal profilo della montagna. La pila frontale quasi non serve; c'illumina la luce fredda della luna. Un occhio agli ometti che, a bordo strada, segnano i km e la quota: Matteo me le ha ben comunicate, le cifre, ma come al solito io ho rimosso. Così non ricordo da che quota siamo partiti, a che quota arriveremo, nulla. Beh, non ha importanza; non sarà l'ascesa al K2. Chiacchieriamo, di tutto e di più. In cielo, una distesa di stelle: e chi l'avrebbe mai detto, solo un paio d'ore fa? Un barlume di speranza per domani si accende. Chissà se riusciremo a pedalare senza prender pioggia, o, peggio, neve. E' vero, la mountain bike è già più gestibile della bici da corsa, sul bagnato, ma pedalare al freddo ed all'umido non è la mia massima aspirazione. E' assurdo recriminare contro Giove Pluvio, ma ho tanto desiderato questa gita, che lo sgambetto del meteo sarebbe per me un'offesa personale! Scivoliamo da un argomento all'altro, da una curva all'altra, finché raggiungiamo, quasi di sorpresa, il colle. C'è un ristorante quassù, forse un albergo. Un edificio un po' discosto dalla strada, illuminato da una fioca luce. Un cane abbaia furioso al nostro passaggio. Ci spingiamo appena dall'altra parte del colle, per buttare l'occhio al paesaggio; subito torniamo sui nostri passi. Il cagnone, sempre più indignato, decide di verificare da vicino le nostre intenzioni; ci corre incontro, ma senza intento bellicoso. Ci controlla, ecco. I suoi latrati richiamano il padrone di casa, che fa la sua comparsa sulla porta. Lo rassicuriamo... Siamo solo a spasso. In effetti, a sera inoltrata quassù, dev'essere insolito incontrare anima viva. Torniamo giù, di buon passo e ben imbacuccati; la discesa, ormai lo so per esperienza, porta un senso repentino di freddo e brividi. Il tragitto, per fortuna, non è molto lungo; confesso che ho freddo, e anche sonno. Domattina la sveglia suonerà tardi: è l'unico cruccio che mi tormenta... Va bé dai, Gian, fattene una ragione. Un po' di riposo, ogni tanto, non può che far bene. Me lo dicono tutti: sarà per questo che non ci credo...

E' la seconda volta che alloggio qui, e già mi sento un po' a casa, quando i piedi scivolano appena sulla ghiaia, la chiave gira nella toppa della porta color lilla, la stanza semplice ed ordinata ci accoglie. Infilarsi sotto il piumone è uno degli istanti più apprezzati nella stagione fredda... E dire che siamo vicini al mare, che questo non si può nemmeno definire freddo, ed io già batto i denti. Che farò quest'inverno? Soffrirò, come sempre...

La luce limpida del mattino inganna, se la si osserva dai vetri della finestrella. Ci si aspetta di uscire e goderne il tepore... Ma basta esporre all'aperto un alluce per rendersi conto che non è giornata. Per quanto stanchi e nottambuli, non siamo comunque dormiglioni; già operativi da un po', ci tocca attendere l'ora della colazione. Fremo: vorrei saltare in bici subito, abbandonare Matteo ai piaceri delle marmellate ed avviarmi. Ma la fame si fa sentire, anche per me: se combino un numero del genere, va a finire che stramazzo tra dieci km. Sì, no, forse... Il cielo sembra promettere una bella giornata. Ci avviamo titubanti verso la cucina: proviamo a bussare... Sì, la padrona di casa è già in azione; ci accoglie con la solita travolgente cordialità. Sul tavolo, di fronte ad una luminosa veranda, una distesa di vasetti di marmellata, quella che Matteo ed io ben ricordavamo dalla nostra visita precedente. Marmellate molto coreografiche, oltre che gustosissime: cosa darei per poterle sbafare a cucchiaiate, una dopo l'altra! Soprattutto quelle dal gusto amarognolo, sempre le mie preferite; limone, mandarino, arancia. E ci sono ciliegie, prugne, pesche, albicocche, più la strana marmellata di rabarbaro, forse l'unica che mi lascia un po' perplessa. Non riesco a decidere se mi piace o no. E poi pane, torte, succo di frutta, caffé, the, latte, burro, c'è di tutto. Vorrei spazzolare ben più di quel che oso mettermi nel piatto; Matteo, del tutto indifferente a simili scrupoli, assume il posato contegno di chi non tocca cibo da un mese. Ma ormai è chiaro che quest'uomo ha conquistato il cuore della matrona, che se la ride della grossa e continua a portare in tavola cibo. Altro che verme solitario; nel suo caso, si tratta di un esercito di vermi solitari che momentaneamente hanno rinunciato alla vita da eremiti.

Il congedo dalla padrona di casa, e soprattutto dalla tavola, è lento e faticoso, vuoi per il dispiacere di abbandonare tanto bendiddio, vuoi per l'abbraccio caloroso, i saluti, gli arrivederci. Non sarei proprio tagliata, io, per questo lavoro: i complimenti non sono il mio pane... Quelli finti non mi riescono, quelli sinceri non mi nascono. E comunque non sono capace a cucinare, e nemmeno m'interessa imparare.

Raccattiamo le ultime cose. Matteo trasferisce il furgone su una piazzola lungo la strada principale; io lo raggiungo in sella. Ha inizio, finalmente, l'avventura: destinazione, Col de Turini per una non meglio specificata via sterrata. Anche se, da una rapida occhiata alle cime spolverate di neve, non credo proprio che oggi sarò in grado di arrivare lassù. Si parte in discesa, breve ma gelida, verso Breil, per poi deviare verso sinistra, su per una stradina che nasce asfaltata, a rampe cattive in mezzo alle case. Mi colpisce una bici ancorata al lampione con una catena: chissà se la catena serve ad impedire un furto o piuttosto ad evitare che la bici, data la pendenza, rotoli giù per la strada?

La carreggiata è stretta, tutta buchi; man mano che procediamo, è più sconnessa. Nessun problema per me, che viaggio con la mountain bike in assetto da fuoristrada; nessun problema neanche per Matteo, che pedala in bici da corsa ma è un funambolo. La salita riscalda i cuori e tutto quel che ci sta intorno: direi che posso levare la giacca. Non capisco se davvero la muontain bike richieda più fatica in salita, rispetto alla bici da corsa; quel che è certo è che il mio allenamento per le due ruote lascia molto a desiderare... Sbuffo come un mantice, spingo sui pedali ma con pochi risultati. Pazienza, finché splende il sole va tutto bene.

Le case si diradano; la stradina sale lungo la valle, sempre più sconnessa, fino a diventare una carrozzabile sterrata. Un po' di emozione: questo è uno dei miei primi itinerari seri su sterrato, il primo in compagnia di Matteo. Fin qui è tutto facile...
Il primo bivio ci costringe ad una sosta per consultare la carta. Dritto, in falsopiano, o a sinistra, su per la rampa? Optiamo per la seconda soluzione. Il fondo qui somiglia già più ad un sentiero, benché siano evidenti le tracce del passaggio di veicoli. La pendenza è severa; una fila di alberi ci separa da un bel pendio erboso. Qualche abitazione, nascosta, qualche cane che latra. Si sale a tornanti: devo, mio malgrado, constatare che le curve, sia pure in salita, sulla ghiaia mi creano qualche problema di stabilità. Però si pedala bene. Matteo mi raggiunge in fretta, dopo aver indugiato per studiare meglio e riporre la carta, ma un altro bivio ci costringe ad un nuovo stop. Destra o diritto? Le paline segnavia non ci sono di grande aiuto, ma in fondo che importa? Quel che conta, almeno per me, è pedalare, farmi un po' le ossa sui percorsi sterrati. Che si vada al Turini o altrove, non fa poi questa gran differenza. Anche qui è tutto bellissimo. Riprendo la marcia, un po' malferma. Ancora tornanti, ancora bivi. Ormai abbiamo perso l'orientamento: procediamo, per curiosità; andiamo a vedere dove finisce la strada. Se finisce. Oltre un tornante, diventa poco più di un sentiero pietroso, molto sconnesso. Vado avanti più per orgoglio che per convinzione: il gioco si fa duro, e sarà molto dura anche la pietra contro cui andrò a sbattere il cranio, se cado. E' incredibile, quanto io mi senta ben poco stabile, nonostante la velocità ridicola e la sella molto bassa. Razionalmente, so che cadere, così, è quasi impossibile. Il guaio è che l'istinto non ne è convinto... Ogni asperità del terreno mi preoccupa. Per quel poco che i miei occhi malconci mi consentono, cerco di mettere a fuoco ogni centimetro quadro del fondo su cui andrà a passare la mia ruota. Matteo procede in bici da corsa, senza problemi; non fa una piega né per le buche, né per i solchi, né per le pietre. Probabilmente levita, a pochi mm da terra per non rivelare il trucco.
Il sentiero passa poco più in basso di una fila di case. L'unica forma di vita, oltre la nostra, è un cacciatore: nonostante la repellenza per la categoria, facciamo buon viso a cattivo gioco e chiediamo a lui dove vada a sbucare la nostra traccia. Da nessuna parte: infatti, poche decine di metri più avanti, ci troviamo di fronte ad un bivio in cui entrambi i rami sono presidiati da minacciosi cartelli che delimitano proprietà private. Dietrofront. La prima discesa, devo dire, mi riesce in modo più che decoroso: lascio andar la bici, con un impeto di temerarietà che stupisce anche me stessa. Il mezzo sembra stabile, salta e procede senza scherzi; quasi quasi mi diverto... Se ne accorge anche Matteo: "Vai quasi più forte qui che su asfalto", osserva. Su asfalto, preciso, con la bici da corsa... Perché con la MTB le discese non sono più un cruccio, finalmente.

Raggiungiamo indenni un bivio davanti a cui siamo già passati in salita. Si decide di esplorare anche questa via: Matteo ancora anelante al Turini; io per pura curiosità, visto che non ho la più pallida idea della geografia dei sentieri del luogo. Una strada coperta di ghiaia. Procedo per un breve tratto di salita: mi ferma, dopo un km o poco più, un cartello che indica il divieto di transito ai veicoli, tutti, anche le bici. Mannaggia... Probabilmente, se anche tirassimo dritto, non accadrebbe nulla di male. Ma a me i divieti incutono sempre timore. Dietrofront, un'altra volta. L'idea è di tornare giù, alla prima sterrata della giornata, e tentare, al bivio, l'altra via. Anche qui, la mia discesa si avvia baldanzosa... Ma, chissà perché, di lì a poco, mi attacco ai freni. Mi prende la paura: di scivolare, di centrare la pietra aguzza, di cadere. Paura irrazionale ed inarrestabile, visto che ho ben affrontato la galoppata di poco fa, con un fondo ben peggiore... Niente da fare, affanno, agitazione, paura. Non riesco a vincerli e scendo a freni tirati, con l'assalto dell'inquietudine ad ogni curva. Mi vedo per terra. Ma perché? Perché mi succede una cosa del genere? Che rabbia... Io lo so già, se lascio che la paura prenda il sopravvento anche una sola volta, è finita. Eppure...

Il supplizio si conclude al bivio. Carta alla mano, svoltiamo a sinistra, lungo la strada sterrata che presto prende a salire a tornanti in mezzo ad alcune abitazioni in pietra, in via di ristrutturazione. La salita, a tornanti l'uno sopra l'altro, ricorda molto il profilo delle vie asfaltate al Turini; ovvio, è lo stesso ambiente, la vegetazione di mare, ancora rigogliosa a fine ottobre, scura nel contrasto con la terra bianca e sabbiosa. Il cielo non è più così limpido; corrono le nuvole. Salgo tranquilla, cercando all'orizzonte la traccia di una meta che non vedo, ma intuisco soltanto. Matteo spesso allunga, mi semina anche qui, anche oggi che io sono dotata di mezzo ben più adeguato al terreno, rispetto al suo. La pedalata è sciolta e la fatica contenuta, almeno fin quando il fondo è agevole e regolare. I guai cominciano con le buche e, soprattutto, con i frammenti di roccia grossi e spigolosi: faccio lo slalom, a caccia di una linea di marcia ideale che non esiste, e spesso mi sento sul punto di essere disarcionata. Ogni volta è battito che accelera, fiato che manca. Butto i piedi a terra, ho paura: l'ansia poi ingigantisce il pericolo. Non mi sento più in grado di pedalare, qui: lo so, sono certa che il problema sia nella testa e non nelle ruote... Scendo di sella e spingo, mentre il povero Matteo aspetta paziente. Spingo ed abbatto i santi del calendario, a turno, tre o quattro per volta, quando il pedale si schianta contro il mio polpaccio, lasciando eredità di graffi e lividi. L'affanno mi fa incespicare e montar la rabbia. E, insieme, un senso di debolezza improvviso. Le gambe diventano di piombo in pochi minuti. Continuo ostinatamente, con risultati un po' patetici e con stizza ancor più acuta perché vedo Matteo che, senza batter ciglio, procede in bici anche sulle pietre... Ormai li conosco, i miei abissi di disperazione. Sul momento, ci vorrebbe una bustina di zucchero, per levar via la fiacca. A tratti, dove il sentiero mi pare un po' meno ostico, risalgo in sella, ma percorro poche centinaia di metri e poi son dinuovo a piedi. Ormai siamo in quota; la strada sale con pendenza minima. Un gregge di pecore pascola nel prato a sinistra del sentiero, sotto l'occhio vigile di due pastori maremmani; alcune pecore fuggono dal sentiero, scomposte e spaventate. E' nuvoloso; soffia un leggero vento freddo. Mi gira la testa, meglio scendere ancora.

Un provvidenziale bivio ci induce ad una sosta: butto giù qualche boccone di frutta secca, nella speranza che basti a tappare il buco. La prima alternativa è svoltare a destra per una strada ignota, oltretutto vietata al transito: ho già gli aculei sparati come quelli di un riccio in posizione di difesa; ormai conosco fin troppo bene i "dovrebbe essere" secondo Matteo. Come minimo, ci sono strapiombi, passaggi su ghiacciaio e coccodrilli da affrontare a mani nude. Per quanto mi riguarda, non prendo nemmeno in considerazione l'ipotesi. Si va a sinistra, destinazione anello del Turini, o meglio l'Authion. Ancora un tratto di sterrata, una lieve salita che la fiacca mi rende simile ad un Mortirolo; raggiungiamo l'asfalto, asfalto per modo di dire, una stradina minuscola e malconcia che passa accanto ad alcuni alpeggi. Panorama stupendo sui pascoli e sulle cime dei dintorni: peccato che venga giù qualcosa che ha tutta l'aria di essere ghiaccio... Minuscoli puntolini bianchi svolazzano intorno. Eppure sulla pelle non sento nulla: forse perché l'unica, minima porzione esposta è quella del viso... Taccio, per scaramanzia, finché Matteo, un chilometro più avanti, se ne accorge: "Ma... Nevica!", esclama. Eh lo so... L'ascesa si conclude di lì a poco, in uno spiazzo con tavola d'orientamento e parcheggio. Il cielo ora è decisamente chiuso, grigio. Freddo pungente: i fiocchi si fanno ora più concreti. Indossiamo tutto quel che abbiamo e via, in discesa: senza ritegno, ora che il fondo asfaltato mi è amico. Via, il più in fretta possibile, perché qui è neve, ma giù sarà pioggia... Già umidicci, raggiungiamo il Col de Turini, dove ci attende l'amara sorpresa: non si passa. E' in corso una prova di rally, o qualcosa del genere. Non ci posso credere... Ma è mai possibile che, ogni volta che io capito da queste parti, debba imbattermi nel rally? Ma ne corrono uno a settimana? Reprimo a fatica l'impulso di metter le mani al collo del gendarme, dei piloti e di tutto il carrozzone di meccanici, assistenti ecc. Possiate essere maledetti per l'eternità... Io son qui in bici, piove, fa un freddo della madonna e voi mi dite che non posso passare? Quel che è peggio è che le strade che confluiscono quassù sono tre; ovviamente le auto salgono da una delle tre, scendono dalla seconda, e guardacaso la terza è quella che interessa a noi; basterebbe lasciarci oltrepassare lo slargo... No, niente da fare. Ma vaffan####, sibilo. A bassa voce, perché i gendarmi d'oltreconfine sono senz'altro bilingui. Non ci resta che cercare rifugio in uno dei bar sul colle: mezz'ora di attesa, ci dicono. C'infiliamo in un locale arredato in legno, un bar a tema dedicato alla Harley Davidson. Un nutrito gruppo di avventori anima e scalda l'ambiente: tutti rigorosamente motociclisti, tutti in stile Harley, giacche nere di pelle, capello lungo, orecchini... Il fenomeno del momento è senz'altro un'arzilla madama, più vicina ai settanta che ai sessanta, alta un metro e un tappo, secca secca, con chioma tinta in improbabili riflessi color neon, fasciata in un paio di pantaloni di pelle nera e più che mai vivace nella conversazione. Se non altro, nessuno ci degna di uno sguardo: è già un punto a loro favore. Consumiamo due cioccolate calde, graditissime proprio per la temperatura, non tanto per la consistenza: in Francia, cioccolata calda credo significhi latte caldo con il cacao, almeno, questo è ciò che ho sempre sperimentato io. Ma oggi non mi lamento, va bene così. Indugio con le mani strette intorno alla tazza, coccolandomi con il tepore del caminetto: so già che uscire di qui ed affrontare venti e più km sotto la pioggia sarà pura sofferenza... Il branco di pachidermi in pelle sciama verso l'uscita: ne è prova un rovinoso fragore di vetri rotti. Addio ad un bicchiere: beh, tutto sommato, temevo peggio... Usciamo anche noi: tanto, la realtà va affrontata. Abiti umidi e freddo, una combinazione esplosiva. Ancora un po' di attesa, ci dicono: io questi li rovino... Auto non ne passano più, ma nessuno si muove. Tremo di freddo; Matteo, tenerone, fa il possibile per tenermi calda la schiena, ma io ho già il terrore dei prossimi venti e rotti km di discesa. Ora la pioggia è piogga sul serio. Rivoli s'infilano nelle crepe dell'asfalto, piccoli torrenti in piena. Matteo insiste, chiede di poter passare; è dura, far capire a queste teste quadre che la nostra intenzione è scendere verso Moulinet... Finalmente, ci danno il via libera. Si parte, già grondanti d'acqua. Sfiliamo accanto alle auto in arrivo da Sospel, a loro volta bloccate: qualcuno ci fa coraggio... Ne avremo bisogno. Confidando nella potenza del freno a disco, mi fiondo giù, con l'unico pensiero di scendere, perdere quota, lasciarsi alle spalle il freddo più freddo. L'asfalto è viscido, come sempre quando la pioggia è appena cominciata; Matteo mi mette in guardia: che emozione... Nessuno mi aveva mai avvertita dei rischi della velocità in discesa! In effetti, è meglio che io vada con cautela; va bene non aver paura, ma questo non significa trasformarsi per forza in piloti provetti. Non vorrei tirare dritto in qualche tornante. Il tremore non mi abbandona; la discesa è lunga, infinita. E' persino bella la vallata, ancora verde, quel verde scuro del primo autunno, ma non posso, purtroppo, ammirarla; devo tenere gli occhi ben saldi sulla traiettoria. Qui le curve non mancano. Moulinet è il primo baluardo di vita in questa valle splendida e deserta, ma Sospel è ancora lontana... Litigo con le lenti degli occhiali, bagnate, con il freddo che m'indurisce i muscoli delle gambe. Le scarpe "normali", in particolare un paio di scarpe con protezione in goretex, pensionate dopo lungo servizio di corsa sui sentieri perché prossime alla distruzione, offrono ai piedi una protezione migliore rispetto alle scarpette che uso in bici da corsa, ma non possono far miracoli. Sono combattuta tra il disagio del freddo pungente e l'euforia della guida di un mezzo che sento, finalmente, stabile, dopo anni ed anni di terrore in bici da corsa... E pazienza se l'asfalto non è il tipo di terreno a cui la Trek è destinata.

La pioggia si dirada e cessa poco prima di Sospel. Mi attardo per scuotere i piedi, nel vano tentativo di spingere un po' di sangue fino al ditone. Se non altro, ora ci attende un po' di salita... Attraversiamo Sospel, unida e sonnacchiosa, con l'occhio languido alla panetteria desolatamente chiusa, di domenica pomeriggio. Non so nemmeno che ora sia, ma non ha importanza; il sole è ancora su, questo è ciò che conta. E, comunque, per non saper né leggere né scrivere, ho messo nello zaino la pila frontale.
Il primo accenno di risalita al Col de Brouis regala un confortevole tepore sotto la giacca impermeabile, tanto da convincermi a levare uno strato. Matteo va su del suo passo, dopo una giornata trascorsa a mordere il freno per aspettarmi; io procedo pian pianino, ma meglio di quanto mi aspettassi. I muscoli surgelati si sciolgono in fretta; pedalo tranquilla, mi godo le ombre che si allungano, le curve morbide di questo stradone che ormai conosco a memoria. Poche auto. Qui pare che la pioggia non si sia nemmeno fatta vedere. La gita volge al termine: un po' mi dispiace, anche se ho una certa fame e desidero tanto il riscaldamento del furgone. Non è stato un itinerario lunghissimo, ma la fatica l'ho sentita e la sento tuttora. Trovo Matteo in cima, "all'ombra dell'ultimo sole": credevo fosse già sceso all'auto... Parte, infatti, mentre io indosso la giacca, anche se la discesa sarà breve, e lancio un ultimo sguardo là dove dovrebbe vedersi il mare. Non lo vedo, ma voglio pensare che sia colpa degli occhiali appannati. Giù a rotta di collo, complice la strada larga e dal fondo liscio come un biliardo, tra le poche case ed il fumo dei camini; nemmeno il tempo di raffreddarmi troppo e sono già a destinazione, a contorcermi sul sedile nel vano tentativo di cambiarmi esponendo all'aria meno pelle possibile, e per il minor tempo possibile: non certo per pudore, solo per evitare il congelamento! Patisco molto il freddo quando sono in moto, ma mai quanto lo patisco da ferma. In questa stagione, e per i prossimi tre o quattro mesi, assumerò stabilmente l'aspetto e l'umore di un ammasso di gelatina tremolante. E dire che lo strato di lardo, di cui senza falsa modestia sono ben fornita, dovrebbe proteggere ed isolare dai rigori del clima! Si vede che la scienza della coibentazione, applicata alla sottoscritta, non funziona...

Prima di rimettere in moto il furgone, diamo fondo a buona parte delle provviste rimaste; yogurt, formaggio, succo di frutta, pane. Poi via, infreddoliti e soddisfatti; abbiamo scoperto la quarta via al Col de Turini, e chissà se ne esistono altre. O meglio, l'ha scoperta Matteo, che ha ben più familiarità di me con le carte e l'avventura. La mountain bike mi ha fatto vedere dallo spioncino un mondo tutto nuovo: peccato solo che i mondi in cui vivo siano già troppi ed il tempo da sfruttare sia sempre lo stesso, anzi forse sempre un po' meno...

Al Tenda, la prima neve sulle cime, azzurra al riflesso della luna, è il segno che l'inverno è arrivato davvero. Il viaggio è ancora lungo, ma sogno una tazza di latte caldo e la nanna.