sabato 27 febbraio 2010

27 febbraio 2010 - Di corsa da Aisone al Colle della Maddalena e ritorno

"In pratica, ti svegli quando io vado a dormire", ha concluso ieri sera il mio amico al telefono. E non ha mancato di aggiungere, in tono rassegnato, il suo consueto saluto: "Sei una squilibrata". Ma di certo non mi offendo. Primo, perché quell'omino lì ha il piacevolissimo pregio di farmi ridere, anche quando avrei tutt'altro che voglia di ridere, con il suo piglio da finto burbero e la sua linguaccia tagliente che non risparmia mai nulla a nessuno. Secondo, perché un po' di ragione ce l'ha. Questione di punti di vista; io trovo folle l'idea di andare a dormire a metà della notte, magari dopo aver bighellonato a vuoto tra locali e gente e frastuono. Non posso negare d'averlo fatto anch'io, in gioventù, ma credo che le dita delle mani siano più che sufficienti a contare le mie serate mondane andate a finire oltre la mezzanotte. Quasi mai per scelta libera o consapevole, quasi sempre per far piacere a qualcuno, e ben presto anche lì, come in tanti altri casi della vita, mi sono chiesta: Gian, ma perché? Cui prodest? Ed ho smesso...
Lo dice anche il proverbio, del resto: il mattino ha l'oro in bocca. In effetti, io l'ho interpretato in modo un po' estremo, oggi: ho puntato la sveglia alle due. Quattro ore e mezza di sonno, ma intense, pesanti; al trillo del cellulare, schizzo su come una cavalletta, salutata dal grugnito all'unisono di mia sorella e del cagnone. Percepiscono forse un movimento, ma a svegliarli del tutto non basterebbero le cannonate. Buon per loro: altrimenti, la nostra convivenza sarebbe ardua.

Sul tavolo mi attende il risultato del mio ultimo esperimento scientifico. Un ettaro di focaccia al formaggio, che ho estratto dal freezer ieri sera. Genesi: qualche tempo fa, mia mamma, da sempre convinta che io non mi nutra abbastanza –e dire che non c'è modo di contarmi le costole se non con una radiografia, e che sia di quelle ben penetranti – se n'è arrivata in ufficio con un camion a rimorchio colmo di focacce di ogni ordine e grado. Frutto, credo, di una rapina a mano armata alla bottega della pizza al taglio. Tutta roba da mangiare in pochi giorni: e lì, ammetto, ho dovuto gettare la spugna; la capienza del mio stomaco tende sì ad infinito, ma ogni tanto ha dei limiti. Ma non potevo certo permettere che la focaccia al formaggio andasse a male; al terzo giorno della sua permanenza in frigo, ho tentato il tutto per tutto: l'ho cacciata nel congelatore, ibernata in attesa di risveglio in tempi di carestia. Me ne sono ricordata ieri sera, riaprendo il freezer, quasi per caso. Scaldata un po' nel microonde, è ottima, non c'è che dire. Mordono le mascelle e rimorde la coscienza: non c'è da stupirsi, Gian, se qualsiasi elastico si trovi a cingere il tuo corpo scatena l'immediato e raccapricciante effetto "salama da sugo"... Silenzio: a quest'ora della notte fonda, la coscienza non ha diritto di parola. Scolo la caffettiera, butto all'aria la casa per trovare tutto ciò che avrei già dovuto sistemare ieri sera; giacchino e striscie rifrangenti, luce frontale, zaino, pappatoria. Giù per le scale, dai vetri smerigliati della finestra penetra uno strano chiarore, quasi di alba: eppure sono le tre appena passate... Che abbia sbagliato a puntare la sveglia? No; sospiro di sollievo appena scendo in cortile: cielo limpidissimo, splende una luna quasi piena, solo un po' ammaccata da una parte. L'aria è cristallina, merito forse del vento forte di ieri: si vede persino qualche stella, tra quelle poche che la luce della città non riesce a soffocare. Non me l'aspettavo; mesi di tempo grigio, nebbia o neve o pioggia, mi avevano fatto dubitare che gli astri esistessero ancora. E la temperatura, gradevolissima, finalmente eccessiva per il mio piumone: sette gradi, sentenzia la Opel. Meraviglioso, da respirare a pieni polmoni.

Ogni tanto accade che qualcuno, a commento delle mie mattane in bici ed a piedi, esclami "Ma allora a te non serve la macchina!". Non diciamo eresie, per favore. Non solo mi serve, ma è piezz'e core! L'auto è tutto, è l'indipendenza; e poi, a me piace moltissimo guidare, soprattutto in notti come questa, così limpida da poter distinguere, anche al buio, linee e contorni, luci lontanissime, persino i profili delle montagne, già dalla piatta piattura carmagnolese. La torre tonda, tozza e malandata, lungo la strada Reale, nel curvone, le luci della collina tra Sommariva Bosco e Bra; la campagna piatta e deserta, prima di Fossano. E poi, verso Cuneo, sempre più evidenti, le montagne: alla rotonda provvisoria dell'area mercato, appena prima del capoluogo, mi trovo sul naso la Bisalta, la sagoma scura ed il cappuccio chiaro di neve, anzi grigio alla luce della luna, quei contorni che si vedono nitidi se volgi appena lo sguardo altrove, e sfumano incerti se invece li fissi. Capita a tutti, oppure è solo l'effetto della miopia?
Cuneo è una città meravigliosa, da qualunque punto di vista la si osservi, in qualunque stagione, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Forse l'unica città in cui mi piacerebbe vivere, anche se è, appunto, una città, quindi troppo estesa ed affollata per i miei gusti. Secondo, inopportuno guizzo di coscienza: "Ma che eresia vai pensando, Gian, non stai forse bene a casa tua?". Uffa, sì, sì, sto benissimo, non potrei davvero chiedere di meglio, ma me lo posso permettere un volo di fantasia, oppure no? Le "mie" montagne a due passi; potrei partir da casa in bici per andare, che so, al Colle della Lombarda. Sfilo oltre la rotonda del Viadotto Soleri; le luci della città si spengono; riappare il profilo delle montagne. Capita di rado una giornata d'aria così limpida. La voglia di metter piede a terra è sempre più forte: un occhio alla strada, uno alla montagna, al cielo costellato di brillanti, alla luna che invade la vallata con la sua luce azzurra, o forse grigia, che crea ombre: ecco cosa c'è di eccezionale, in questa bellissima notte, ci sono le ombre. Finché il confine della montagna, nella vallata che si chiude, si porta via il pianeta, ne lascia una striscia fiammante e poi lo inghiotte, lo nasconde alla vista di chi viaggia sulla strada di fondovalle. I portici di Demonte, deserta e sonnolenta, illuminata da un'irreale luce giallastra dei lampioni. Ancora qualche curva e poi la meta, finalmente, la piazzetta di Aisone.
La scelta dei punti chiave dei miei viaggi non è mai casuale. Aisone, perché c'è la toilette pubblica. Il successo dell'impresa per me poggia, sempre, su un wc, o affini: potrà sembrare blasfemo, ma tant'è... La Opel sostiene che la temperatura sia -3°C: a me pare che si stia benissimo. Sarà che, sopravvissuta a qualche partenza notturna a meno dieci, meno dodici, sono ormai temprata per qualsiasi battaglia... Mi dedico con calma alle operazioni di rito: spalmo pasta di Fissan ovunque, sedili ed interni compresi; controllo di aver messo nello zaino la giacca da pioggia, la maglia e la canotta di ricambio, il telo termico, che non si sa mai, e poi la pappatoria, cioccolato bianco con miele e mandorle più un sacchetto da due etti e mezzo di albicocche secche; indosso il giacchino e le bande rifrangenti; in testa, la luce frontale, accesa sul lampeggiante e girata sulla nuca, in modo da essere ben visibile per chi mi arriva alle spalle. Dicono che i pedoni debbano procedere a sinistra, ma a me 'sta storia non piace, non mi lascia tranquilla. Ore quattro e cinquanta: resto immobile per un attimo, il respiro sospeso, non un rumore nella piazzetta né tutt'intorno. Poi via, si parte.

Al trotto nella strettoia del paese, ripercorro in mente la lunga strada che mi attende. Muri di pietra, balconi e travi in legno dall'aspetto irregolare, porticine piccole, basse, bugigattoli, cortili, archi; poi la luce si spegne, l'abitato resta lì, immobile ed indifferente. La strada che sale appena, il respiro ancora affannoso; il silenzio, pesantissimo, quasi insopportabile. Pian piano lo sguardo si abitua all'oscurità e scappa all'altro lato della valle, oltre il pianoro bianco ed azzurro di luna. L'inquietudine mi fa compagnia, forse perché le forme sono minacciose, i rami che sfuggono alla boscaglia verso la strada sembrano artigli, una brezza leggera muove il fogliame secco; forse è il contrasto duro tra il nero della scarna vegetazione invernale ed il bianco della neve che riverbera anche senza luce. Trattengo a stento la voglia di correre più forte; un lontano istinto vorrebbe fuggire di qui, ma fuggire verso dove? Basta aver pazienza, aspettare l'alba, è proprio per questo che sono qui. Un rombo alle mie spalle; mi raggiunge e mi sorpassa un camion, il primo cenno di vita; il rimorchio scodinzola, le lucine rosse si allontanano, le seguo con gli occhi per intuire la strada, le vedo farsi piccole piccole e sparire oltre l'ultima curva prima di Vinadio. Mucchietti di neve sporca lungo la strada, ghiaccio incerto, la linea bianca che appare e scompare, sempre pallida. Vinadio, prima tacca sul muro del mio viaggio. L'auto dei Carabinieri spunta sulla sinistra, in arrivo forse dalla strada vecchia; si immette sulla statale, nella mia stessa direzione; si allontana, ma piano, pianissimo. C'è qualcosa che perplime i militi nottambuli: quel qualcosa, ne sono certa, sono io. L'auto si ferma, fa inversione; torna lentamente verso di me, poi accosta. Passo al trotto, senza voltarmi, faccio finta di nulla: mi piacerebbe alzar la mano e salutarli, ma non vorrei che il mio gesto fosse male interpretato... Non vorrei mai che si sentissero presi in giro, per carità, qui va a finire che mi arrestano per vagabondaggio.
L'ingresso del bar di fronte al distributore di carburante è mezzo sepolto dalla neve, il forte è illuminato. Incontro un paio di camion proprio nella strettoia; sul piazzale, di fronte al parco, ronfano i viaggiatori in camper. Il torrente e la breve discesa, la rampa che mi tormenterà al ritorno, quando i km nelle gambe saranno già tanti, ma tanti. Ripiombo nel buio, rischiarato solo dalle luci delle cabine dei camion, illuminate e decorate nei modi più fantasiosi; qualcuno saluta con un lampeggio di abbaglianti, qualcuno accenna un motivetto col clacson, con buona pace della proverbiale quiete notturna della montagna. Ma, subito dopo, ripiomba giù la cappa di silenzio. Al bivio per il Colle della Lombarda, ormai volto la testa per abitudine: chiuso, closed, fermée, geschlossen, e come potrebbe essere altrimenti? Ci saranno metri di neve lassù... La montagna è venata di neve, boschi e salti di roccia che giocano con luci ed ombre; il freddo, fin qui non s'era fatto sentire, ma è pungente. Il lungo rettilineo, le gallerie, un leggero vento gelido che s'infila nella valle e si fa più cattivo man mano che il cielo e le montagne si restringono sopra di me. Nelle gallerie, il lampeggiante della luce frontale crea un effetto abbacinante, illumina per un attimo la volta ed il ghiaccio che cola giù dalle fessure nella struttura, illumina gli archi invasi da lingue di neve; poi, appena fuori, un sospiro, la luce della luna che forse non fa giorno ma quasi, perché quello è il chiaro a cui si sono abituati ora i miei occhi. La scia bianca di un aereo taglia il cielo e ne stacca un'area quasi triangolare; gli altri due lati sono i profili delle montagne.
C'è un tratto, poco prima del bivio per la località Bagni di Vinadio, in cui la valle si restringe ed il vento s'incanala, più arzillo che mai. Mi taglia la faccia, mi congela le mani: passerà, lo so, è questione di poche centinaia di metri, ma è così forte da costringermi a chiudere gli occhi. Sento seccarsi le labbra e la gola. Le poche case al bivio hanno i tetti così carichi di neve che sembra debbano sfondarsi da un attimo all'altro: ma forse il mio stupore è fuori luogo, forse qui è normale che sia così. Finestre chiuse, sprangate, il manto di neve intatto davanti ai portoni racconta che qui, nella stagione fredda, non abita nessuno. La ringhiera di una scala esterna pende desolatamente sulla strada, straziata dal peso della neve che, giù dal pendio, l'ha quasi strappata via. Il latrato di un cane, un quadratino di luce su un muro, oltre il ponte, sono i primi cenni di vita, a parte i camionisti che non dormono mai. Ora la strada si allarga, sale verso le gallerie. Il vento si placa un po', come previsto; provo a calcare il piede nella neve, cede ed affonda: la temperatura sarà intorno allo zero, il ghiaccio è sottile, marcio come la poltiglia di fango a bordo strada. Ma il ghiaccio spesso delle cascate nelle gallerie, quello non cede, è spesso e sporco, grigio, sembra schiuma uscita a fiotti dalla bottiglia di spumante e congelata lì. E il chiarore che scorgo tra un tunnel e l'altro è già qualcosa in più della sola luce fredda della luna. Dritto avanti a me, sembra un incendio, il paese di Sambuco, illuminato a giorno; lo vedo e poi lo perdo, tra l'ultima galleria e le curve che seguono. Ai camion si aggiunge ora il passaggio delle auto degli sciatori: i primi temerari, isolati, diretti chissà dove, forse solo a Bersezio, forse a Vars.
Uno slargo sulla destra, ben protetto alla vista da cumuli di neve, è l'ideale per una tappa strategica: avrò percorso si e no una quindicina di km, ma il freddo pungente gioca brutti scherzi, meglio approfittare dell'occasione. Anche perché difficilmente ne troverò altre: qualsiasi stradina, piazzola, anfratto nella boscaglia, tutto è ricoperto di un buon metro di neve, che oltretutto non offre alcun sostegno.

La salita è blanda e le gambe vorrebbero correre di più. La luce, ormai, non serve più; il cielo, da nero e scintillante, digrada ora verso l'azzurro, mentre i contorni delle montagne si fanno più netti. L'alba, si vede, si sente: il momento più freddo della giornata, me ne accorgo perché non c'è verso di scaldarmi, di scaldare le mani che sono già gonfie ed insensibili ed immobili. Le sfrego l'una con l'altra mentre corro, le batto come se applaudissi: certo che, se mai ci fosse qualche autoctono sambucano insonne alla finestra, la camicia di forza non me la leverebbe nessuno... Ancora una volta la valle si restringe, ancora il vento torna a far capire chi è che comanda, una corrente quasi violenta che scuote quel poco che resta delle chiome secche degli arbusti; sto bene, eppure qui soffro, so che dovrò stringere i denti. Il solito, stupidissimo errore: ho indossato solo i guanti di pile, per giunta vecchiotti e consumati; avrei dovuto aggiungere quelli sottili, di simil-seta, sotto. Ora non mi resta che ricorrere ad un rimedio già collaudato: infilo le mani sotto il giacchino rifrangente, che fa un po' da effetto serra con il calore del corpo. Correre con le mani raccolte sul petto dà un'andatura goffa, a papera, ma poco importa; le dita sono già talmente gonfie da far male. La strada sale ancora; scatto le prime foto, faticando non poco per costringere le dita irrigidite a schiacciare i pulsanti. Montagne a cui non so dare un nome, ma sono belle da togliere il fiato, da far dimenticare il gelo. Quand'è ormai chiaro da un po', a Pietraporzio, il sole lambisce le prime cime e le incendia di un rosso violento, felice. Devo catturare queste immagini con la povera macchinetta, che patisce il freddo pure lei, perché non ci sono parole adatte a raccontarle. Luce violenta lassù, mentre qui, nella valle, il grigio resiste ancora. Il campanile, l'albergo sulla sinistra, la strada che scorre accanto al paese. L'insegna di una panetteria mi mette appetito... Corro lungo il guard rail ricamato da piccole stalattiti; molto più lunghe, grosse, tormentate sono quelle che pendono dal muro di neve, appena sopra il muretto che costeggia il tornante di Pontebernardo, così fitte da sembrare brandelli di uno straccio. Non c'è ancora goccia che possa sfuggire alla morsa del gelo, scivolare in punta all'artiglio di ghiaccio e cadere giù.
Pontebernardo, il paese di Stefania Belmondo: il campanile mi dice che è presto, non sono ancora le otto. Per qualche km ancora correrò all'ombra; davanti a me, adesso, l'imponente parete di roccia delle Barricate, imbiancate qua e là da baffi di neve. Spicca una piccola cascata di ghiaccio; un breve tratto esposto al panorama e poi via, in galleria. Gelida, com'è gelida anche in piena estate, ma per metà della sua lunghezza è aperta, a tettoia, permette di godere del panorama. Il viavai degli sciatori è intenso ora; passano auto di ogni ordine e grado, dall'utilitaria alla Porsche, tutte con gli sci d'ordinanza, qualcuno con la tavola. Il conto dei tornanti inizia proprio qui, all'uscita del paravalanghe. Un cartello quadrato, cifra nera in campo bianco: "1°". La sindrome dell'Alpe d'Huez, la mania di contare i tornanti... Anche quando non si può dire che i tornanti siano l'elemento caratteristico della salita. Ce ne saranno in tutto una trentina, ma... Su sessanta km di strada, da Borgo San Dalmazzo al colle!
Finalmente, mi sembra di respirare meglio. E' una sensazione che provo puntualmente, ogni volta che guadagno un po' di quota, come se l'aria fosse più leggera, e probabilmente lo è. Uno, due tornanti, poi la valle torna ampia. Qui il bianco della neve si fa man mano più continuo, avvolge tutto. Villaggio Primavera, battesimo ameno per un luogo degli orrori: lungo la rampa in rettilineo, resistono da tempi immemorabili gli scheletri di costruzioni rimaste a metà, che adesso cadono a pezzi, marciscono lì alla bella vista delle povere cime. La neve riesce appena a mimetizzare la bruttura. La rampa fa soffrire, ma i due o tre tornanti successivi concedono un po' di respiro. Quando corro nel tratto in direzione del fondovalle, vedo che il cielo, giù, comincia appena a velarsi: il meteo, per il pomeriggio, prevedeva infatti un peggioramento. A Bersezio c'è già più vita; i cortili si popolano delle auto dei villeggianti da fine settimana; i parcheggi delle piste da sci si riempono, ma senza calca. Le prime tute multicolori si aggirano sul piazzale bianco.

Tiro dritto attraverso il bellissimo pianoro; davanti agli occhi, più bella di tutte, una vetta appuntita come uno spillo, a cui, nella mia ignoranza abissale, non so dare un nome. Finalmente sento il sole sulle spalle; la luce riflessa dalla neve è quasi abbagliante ora. Ed io sono nemica degli occhiali scuri. Le gambe si riprendono un po', correndo quasi in piano; all'improvviso mi torna in mente che ho fame già da un po'. Me lo ricorda, con un ruggito perentorio, la pancia ormai vuota. Avrò ormai trenta km sul groppone, con la salita di mezzo. Sarebbe meglio raggiungere almeno i tornanti oltre Argentera, prima di attaccare la dispensa: ma è ormai troppo tempo che sono a secco. Mi rassegno, rallento e scavo nello zaino: non sia mai che ci si ferma. Combatto una strenua lotta con il sacchetto delle albicocche, su cui alla fine ho la meglio, ma a fatica. E poi attingo anche alla tavoletta di cioccolato. Mastico al trotto. Della bella cascata che si vede d'estate, sulla destra, nemmeno l'ombra; nemmeno i fischi delle marmotte. I soli rumori sono quelli dei motori. Argentera, con le sue case deserte, i tetti carichi di neve: da uno spiovente pende una sequenza di stalattiti, come innumerevoli denti di un pettine. Curioso: sul manto di neve proprio sotto la falda, alcuni aghi, già spezzati forse nei giorni scorsi, sono caduti e si sono conficcati in verticale.

Superato il semaforo del paese, la strada si restringe tra i muretti di neve. Quando passano i camion, tocca farsi piccoli piccoli e schiacciarsi da una parte. Procedere, qui, non è più così facile: l'asfalto è ricoperto da una patina di neve ben compressa, ghiacciata; il piede scivola indietro ad ogni passo. Onde evitare l'ingloriosa nasata a terra, proprio ora che mi mancano cinque km al colle, forse è meglio se rinuncio e mi metto al passo, anche se più svelto che mai. I tornanti, uno dopo l'altro, mi concedono il panorama sull'intera vallata; le nubi che velano il cielo a fondovalle si estendono, pian piano, ed arrivano a lambire il sole. La luce è forte, ma non quanto potrebbe esserlo con una giornata perfettamente limpida.

Tornante dopo tornante, supero i ruderi delle baite sulla sinistra e poi la casermetta; osservo i camion, lunghissimi, che disegnano le curve con precisione millimetrica ed estenuante lentezza, le cabine che arrivano proprio al limite del vuoto. I pendii qui sono carichi di neve, morbide lenzuola bianche tese. La condizione della strada è un disastro; talvolta è difficile anche stare in piedi. Benché i raggi del sole abbiano già conquistato questo spazio, il ghiaccio è ancora vivo e tenace; solo le orme di veicoli pesanti, passati con le catene, ne scalfiscono la superficie. La Fontana di Napoleone non c'è più, sparita sotto il cumulo di neve.
Bianco e blu, nettissimi: verso la Francia il cielo è ancora limpido. All'ultimo chilometro, nel tratto rettilineo in piano appena prima del lago, tengo d'occhio con un po' di apprensione il pendio alla mia destra: dall'inclinazione che ha, secondo me potrebbe decidere di scaricare una valanga... Infatti, una linea di rottura c'è già; si vede che la strada è stata sgomberata, ma sulla destra resta ancora un cumulo di neve tagliato. Forse una valanga del genere è troppo piccola per essere davvero minacciosa; di una cosa però sono certa: non vorrei trovarmici sotto. Soffia un po' di vento quassù; ecco l'edificio del bar: tutto chiuso, con una massa di neve impressionante che sta scivolando giù dalla falda del tetto. Il lago è sparito, nascosto dalla neve che ne ricopre la superficie ghiacciata; se non sapessi che c'è...

Ormai il sorriso è stampato in faccia. Sono contentissima, anche se so bene di essere appena a metà strada, L'ultima leggera salita mi conduce al Colle della Maddalena, e cosa vedono le mie fosche pupille? Loro, gli inconfondibili camion verdi Lannutti; ben due, parcheggiati a bordo strada, quasi fossero proprio lì per aspettare me. Quasi disperavo di incontrarli, oggi! Gli autisti sono scesi, chiacchierano; avrei una gran voglia di chiedere loro il permesso per scattare una foto ai loro camion, al fianco, al telone verde con la scritta in campo bianco... Ma poi non oso: mi prenderebbero davvero per pazza. Riesco solo, mentre mi rifugio dietro la casermetta in pietra per cambiarmi, a strappare una foto di nascosto alla parte posteriore del secondo bestione.

Benissimo, ci sono, sono in vetta. Sono le dieci meno dieci. Il primo cartello chilometrico ad Aisone segnava 23; qui siamo a 59,7, quindi direi circa trentasette km e poco più di millecento metri di dislivello. Sul piazzale è parcheggiata una sola auto; presumo appartenga alla famigliola che sta arrancando, senza sci né racchette da neve, su per il pendio. Afferro il coraggio a quattro mani per cambiarmi canotta e maglie: la discesa è una stregaccia infida; ti raffredda pian piano, ti mette i brividi e addio, non ci si scalda più. Ben vengano quindi la canotta traforata asciutta ed il pile con il collo alto. Tanto, il bagaglio è abbondante. Un'altra porzione di albicocche e cioccolato bianco prima di ripartire: tremendo, l'effetto della fame; si presenta tutta insieme e reclama con inaudita insistenza. E pensare che qui, su questo piazzale così ben esposto al sole, metterei volentieri una sdraio...

Zaino in spalla, si riparte. In discesa, certo, si fa meno fatica, ma non si può certo dire che ci si riposa. Anzi. E' vero, qui il peso del posteriore gioca a favore dell'economia dello sforzo; ma i piedi picchiano comunque sull'asfalto e le ginocchia subiscono comunque il contraccolpo. E la patina di neve rende tutto più complicato, anche se il sole, nello spazio della mia breve sosta, ha ammorbidito il ghiaccio in alcuni punti, creando piccoli ruscelletti che corrono via lungo la pendenza. Ora posso ammirare le evoluzioni dei camionisti dall'alto e con un po' di trepidazione.
Ho sete, ma l'acqua della mia mini borraccia, che ne contiene si e no un bicchiere, finisce in un attimo. Ecco: per tutta la salita non ho toccato goccia, ma ora la gola è secca. Rimedio staccando qualche piccola stalattite dal guard rail e consumandola a mo' di ghiacciolo, finché ad Argentera, con uno sguardo senza troppa fiducia alla fontanella con la vasca in pietra, mi accorgo sorpresa del getto vivissimo. Solenne bevuta e rifornimento; subito si riparte. Un tonfo sordo alla mia destra mi fa fare un salto: un cumulo di neve è crollato dal tetto, proprio in quel momento. Per fortuna, prudenzialmente, ho pensato di correre al centro della strada... Ripercorro il pianoro verso Bersezio. Osservo le traiettorie delle discese degli sciatori: qualcuno disegna una serpentina precisissima, y = senx, qualcun altro se la cava con uno zig zag, qualcun altro ancora non se la cava affatto e ruzzola ad ogni curva. Studio con raccapriccio la pendenza della pista: credo che, per gli sciatori provetti, non sia nulla di terribile, ma mi vengono i brividi all'idea di buttarmi giù di lì. Ricordo ancora la mia tragica esperienza con lo snowboard, conclusa miseramente con la collisione tra il mio osso sacro e la tavola, proprio nel disperato tentativo di frenare la corsa dell'infernale aggeggio. Mai più! Il piazzale ora è gremito di gente vociante: è più forte di me, mi spuntano gli aculei, come ai ricci... Via di qua, rivoglio il silenzio della valle d'inverno, ammetto solo il rombo amichevole dei motori dei Lannutti e di tutti i loro soci. Chissà poi perché; forse, in qualche recondito angolo del mio subcosciente, cova il sogno di diventare camionista. Sì, proprio io che non so manco fare un parcheggio in retro decente con la Opel...

Disegno nella mente la strada che mi attende. Non ho l'impressione che sia lunga, così come non ho avuto quell'impressione all'andata. Sarà perché, nell'altra mia vita, quella di ciclista, ho percorso questa valle in su e in giù un buon numero di volte. E sempre con poco entusiasmo: in bici, questa salita è estenuante, non finisce mai. Mah, strani giochi della psiche. Bersezio, i tornanti, il Villaggio Primavera. La borraccia è già vuota; continuo a masticare stalattiti, ormai più per vizio che per reale necessità, in mancanza delle gomme. Finalmente, caldo: apro un po' la cerniera della giacca e sostituisco il pesante berretto di pile con un altro, più leggero. Ridiscendo la lunga rampa ed eccomi allo scalino, due tornanti, che mi porta al cospetto delle Barricate. Un attimo prima di infilarmi nelle gallerie, noto nella parte bassa dell'immensa parete alcune strutture quadrate, come finestre, senz'altro postazioni militari. Tutti particolari che sfuggono a chi non viaggia a piedi, infatti non ricordo di averle mai notate.

Freddo pungente nella galleria. All'uscita, mi ritrovo ancora al sole; ma, osservando l'avanzare delle nuvole da fondovalle, ho l'impressione che la pacchia non durerà. Pontebernardo, Pietraporzio; è ora di pranzo ormai: se ne accorgono le mie narici, impegnate a captare il minimo profumo che si sprigioni da case e ristoranti. Anzi, siccome la pancia è tornata vuota e reclama, ne approfitto per dar fondo al sacchetto di albicocche secche. E per concedere alle gambe qualche metro di passo. Sono stanca, sì, ma nulla di insopportabile; credo che potrei tirare avanti ancora indefinitamente. E' la testa che, al pensiero di lunghi km in cui la strada, da qui in poi, decisamente spiana, vacilla un po'. E poi c'è il piede, il solito piede sinistro che duole e mi costringe ad un appoggio un po' sbilenco. Ne ho sempre una...

Qualche curva prima di Sambuco, un breve rettilineo, la cappelletta mezza sepolta dalla neve; poi le gallerie: le prime due in leggera salita, poi si torna a scendere, con pendenza appena accennata. Il cielo è ormai velato; l'aria fredda appiccica i vestiti umidi alla pelle. La frazione al bivio per Bagni di Vinadio ha preso un po' di vita; il ristorante è aperto. La tentazione di una cioccolata calda è forte; m'impongo tuttavia di non cedere. Non avevo fatto caso, all'andata, ai piccoli cartelli che indicano la distanza ogni 100 m; adesso, invece, non riesco a smettere di tenerli d'occhio, ed anche di meravigliarmi per la velocità con cui scorrono. Cento, duecento, un chilometro, due... La neve si scioglie e crea vere e proprie cascatelle che cadono sul ciglio della strada. Gli stabilimenti dell'acqua potabile, il bivio per la Lombarda; ammetto di essere stufa di questo tratto di strada così monotono. Di fronte a me, Vinadio: quel che spicca del paese, ahimé, già da molto lontano, è un orrendo condominio di non so quanti piani, sei, sette, troppi, in ogni caso. Supero la rampa in salita, in cui mi rassegno a camminare di buon passo, e me lo trovo davanti, una bruttura da fucilazione istantanea di chi l'ha progettato in compagnia di chi ne ha autorizzato la costruzione. Uno scempio del genere, ma si può? Approfitto ancora della fontana sulla piazza; ormai manca poco. Sei km ad Aisone, secondo il cartello chilometrico, ma io so che ce n'è meno, quattro, forse, all'imbocco del paese.

Gambe in spalla, Gian, che per oggi è quasi fatta. Ancora un po' di leggero saliscendi ed il piedone dolente avrà requie. Quasi mi dispiace che sia già finita; credevo che avrei sofferto ben altra fatica, invece mi ritrovo in un attimo al semaforo di Aisone, che signfica fine. Percorro al passo l'ultimo tratto, dentro il paese; gli avventori del bar mi guardano un po' interdetti. Settantaquattro km, circa. Entusiasta e fiduciosa, sono alla Opel, lei che fida sempre mi aspetta. Rapido cambio di maglietta, un po' di stiracchiamento dei muscoli e si riparte verso il cielo scuro della pianura. Ieri sera mia sorella si è dedicata ai fornelli, pensando anche a me; quindi oggi niente scatolame, in frigo troverò la pietanza: lo so già e per questo mi lecco i baffi!

giovedì 18 febbraio 2010

14 febbraio 2010 - Freddo e neve in Liguria

"No no no, non se ne parla proprio", mi risponde, scocciata, quasi indignata, la signora all'altro capo del telefono. "Guardi, non posso, ho l'ernia del disco, non è proprio possibile", e giù con la storia clinica. E' già tanto che non esploda nella tipica manifestazione d'enfasi dei locali: "OaOaOaOa eh B'llllin!". Mi spiace tanto per Lei, madama... Ma che diamine potevo saperne io? Lasciamo perdere, evitiamo i battibecchi, non sono proprio in vena. E' venerdì sera, domani niente ufficio, niente clienti, niente telefonate, niente mugugni, ottimo motivo per non guastarsi il buon umore. Riprendo l'elenco degli affittacamere in zona Finale che Matteo ha annotato per posta elettronica: o meglio, i Bed & Breakfast, perché non sia mai che neghiamo a questi signori un po' di pomposo, altisonante, inutile inglese. Si sa, l'italiano offre così pochi spunti, nel vocabolario, che non si può fare a meno di ricorrere ai prestiti. Al secondo tentativo, mi tocca miglior fortuna. Risponde un uomo dalla voce stanca, che prontamente mi passa il boss: la moglie, una signora che già solo nella voce denota piglio spiccio e deciso. "Non c'è bisogno di prenotare in questo periodo, c'è posto. La segno per domani sera, mi lasci nome e numero di cellulare". Perfetto.

Sabato, tardo pomeriggio: dopo i 40 km di corsa mattutina su e giù per il Roero e la passeggiata pomeridiana con mamma e cane, mi catapulto in auto. In un'ora scarsa ho concentrato la doccia, la preparazione del bagaglio, la sistemazione della bici in auto e l'acquisto di quel paio di tonnellate di pizza, tranci vari, che costituirà per me e Matteo il frugale pasto della serata. Si sa, noi sportivi siamo ascetici per natura. Anche lui ha provveduto alla scorta alimentare: poco male, vorrà dire che ci sacrificheremo, a malincuore s'intende, per impedire che cotanta grazia divina vada sciupata. L'appuntamento a Savona è per le 19.45: ci arrivo al pelo, salvo poi parcheggiare ad un paio di anni luce dal luogo deputato. Già, il fatto è che non ho idea di dove sia, quel luogo... Mando un messaggio al povero Matteo, che di lì a qualche minuto mi salta in auto, trafelato ed ansante: guai a sprecare una comunicazione telefonica; meglio improvvisare i quattrocento metri ostacoli, è anche più salutare!
Trasferiamo tutto il bagaglio sul suo furgone: mi perdonerà la povera Opel se l'abbandono così, sola, in una via periferica di Savona... Il viaggio verso Finale ed il suo entroterra è troppo breve per potersi raccontare tutte le vicende di due settimane di lontananza. A controllare l'indirizzo della nostra meta e la strada per raggiungerla ha pensato Matteo: giustamente, sapeva che io non ci avrei badato. Ed io, a mia volta, non me ne sono curata perché sapevo che avrebbe provveduto lui. Siamo o non siamo fatti l'uno per l'altra?
L'affittacamere non è esattamente, come ci si potrebbe immaginare, un ambiente caratteristico dell'entroterra della Liguria di Ponente. Ai miei occhi di amante dei cascinali ristrutturati, delle linee semplici e dei muri in mattoni o in pietra, appare una villona a cui la buonanima del nonno, geometra d'altri tempi, avrebbe appioppato senza esitazione un unico aggettivo, in dialetto ma di facile traduzione: "Mudèrna". L'avrebbe esclamato storcendo il naso, accompagnandolo con un gesto della mano verso il basso, come a scacciare una mosca noiosa. "Mudèrna", riferito ad un'abitazione, racchiudeva, per lui, tanti significati, nemmeno uno lusinghiero: lo diceva delle costruzioni estese su una superficie esagerata e con un solo piano fuori terra, di quelle articolate in forme ed incroci che avevano poco a vedere con gli angoli retti, di quelle con il tetto piatto o poco inclinato, non certo indicato per il clima delle nostre zone, ma anche di quelle con l'ingresso direttamente nel salone – living, come fa fine dire oggi – e di quelle con la zona fornelli e la sala da pranzo fuse in un unico locale, e con troppe stanze troppo piccole... La casa che ci accoglierà questa sera è proprio così, "mudèrna" all'ennesima potenza. Bella, per carità. Casa bassa, con giardino rasato e pettinato; già m'immagino che il responsabile della tosatura sia uno di quegli sciccosissimi tosaerba che fanno tutto da soli e, a fine lavoro, si ritirano nel casotto degli attrezzi, senza richiedere ferie e contributi. Bella, ma già mi ci sento a disagio, e dire che sono ancora in strada, di fronte al cancelletto d'ingresso. Pazienza, siamo pragmatici: per una volta, una ogni morte di Papa, che mi concedo una permanenza fuori casa, non troppo costosa e un po' più confortevole del sedile della Opel o del sacco a pelo, non sempre con la tenda sopra la testa, posso anche mettere da parte il disagio. Ci accoglie un uomo di mezz'età, dall'aspetto bonario e cordiale, forse vagamente imbarazzato, come me del resto, che attraverso il giardino con il passo cauto di chi cammina sulle uova, mentre appioppo, tra me e me, la mia diagnosi al personaggio: "Secondo me è un ingegnere". Il bel cagnone da guardia non ha smesso un attimo di abbaiare. Matteo ed io seguiamo il padrone di casa in un enorme soggiorno, tutto vetri, mobili, arredi e suppellettili di pregio; nel centro, una scala in marmo, altrettanto enorme, che conduce al primo piano, un soppalco su cui si affacciano le stanze. Per un attimo mi gira la testa: mi faccio piccola piccola, mi sento, qui dentro, terribilmente inadeguata. Troppo sfarzoso, troppo pulito, troppo tutto. Mi si serra la gola al pensiero di calpestare, con le mie scarpacce da sentiero che si portano dietro stratificazioni di fango di ere geologiche, il nero liscio e lucidissimo dei gradini; mi muovo con cautela, consapevole del mio portamento abituale da elefante in una cristalleria, per paura di urtare quadri e soprammobili che spuntano a tradimento, ovunque. Molto bella anche la camera, nel sottotetto abitabile: ma qui urge una boccata d'aria, quattro passi, magari giù, fino in paese. "Tanto", ci rassicura il padrone di casa, "io resto a lavorare fino a tardi, e poi il cane quando rientrate mi avvisa".
Detto, fatto. Un attimo dopo, siamo rifugiati nello spazio, ugualmente ampio ma certo più accogliente e familiare, del furgone di Matteo: perché abbiamo sì l'intenzione di andare a passeggio, ma non certo a stomaco vuoto. pizza Margherita, pizza con i carciofi, focaccia bianca, farinata, e poi le bugie della mamma di Matteo, una vera prelibatezza. Il mio compare è fornito di cibi più sani: Parmigiano, pasta, frutta... Ma non disdegna gli agglomerati di grassi saturi e colesterolo che invece costituiscono, di regola, la mia alimentazione quando sono in trasferta. E non solo. Oh, insomma, sono anni che le mie analisi del sangue, regolarmente fornite dalla Fidas, sono perfette. Quindi, perché dovrei rinunciare ad uno dei grandi piaceri della vita? E stasera non ho nemmeno il barattolo di Nutella...

A spasso sotto un cielo che ci illude con l'occhiolino di poche stelle e poi ci riporta alla realtà con qualche goccia di pioggia; seguiamo la strada che sale su, quella che, molti km più avanti, si immette sull'altra strada, la principale, che da Finale sale al Colle del Melogno. Ci attirano le luci sparse contro la montagna scura; schivata un'auto intenta a far manovra sul piazzale di un bar, ci lasciamo alle spalle un po' di curve, fino a vedere la vallata che prende forma sotto di noi. Il passo affrettato, ormai una nostra deformazione, come se fossimo sempre in lotta con il cronometro: Matteo ben più di me, ha il passo lungo, si fatica a stargli dietro. Ma abbiamo un bel po' di cose da raccontarci, quelle di tutti i giorni e quelle fuori del comune, e di certo qualche aneddoto che avevamo tenuto in caldo finirà dimenticato. Quando torniamo giù, l'auto sul piazzale è ancora lì che fa manovra.
Non ci allontaniamo troppo, per non costringere il nostro ospite a lunga attesa: non appena ci avviciniamo al cancello della villa, il cagnone non manca di segnalare la nostra presenza. Rieccoci nella reggia, di cui apprezzo, con moto davvero spontaneo del cuore, una sola cosa, il caldo. Non si può dire che il resto non mi piaccia, per carità, anzi; il fatto è che un ambiente così mi pare più adatto ad un museo, che ad una casa. Qui non c'è un granello di polvere; ogni oggetto ha il suo posto, calcolato con squadra e goniometro. Penso alle cataste di tutto sparse per casa mia, abiti, riviste, borse da viaggio sempre in partenza, alla mia abitudine al pasto itinerante per casa, all'inseguimento delle palle di pelo di Skipper lungo il corridoio... Ma un aspetto positivo, un altro, c'è: non appena mi lascio cadere, con tutto il tonnellaggio del mio posteriore che si avvicina sempre più a quello di una nave Costa Crociere, constato con approvazione che non ho sentito alcun rumore. Un lettone che non cigola: eccellente!

Domenica mattina: son passate da poco le sette; me l'ha annunciato la sveglia, perentoria ed odiosa, del telefonino di Matteo. Risveglio lento, faticoso, come se riemergessi or ora da un lunghissimo letargo. Dalle imposte della finestrella, un complicatissimo intrico di zanzariera e persiane, che il mio compare riesce ad aprire solo perché, anche se non ama ammetterlo, è un ingegnere, filtra una luce pallida, livida. Non mi avvicino: preferisco cullarmi ancora per un po' nell'illusione che oggi sia una bella giornata di sole. Il calorifero semovente che riscalda la stanza ritarderà ancora un po' lo scontro con la dura realtà. Ci presentiamo al piano terra, a colazione, con un po' d'anticipo sull'orario stabilito: ormai so che, quando Matteo ha fame, contraddirlo potrebbe essere molto pericoloso. Abbiamo discusso su quale sia l'istinto animale prevalente: io sostengo che si tratti dell'istinto di prosecuzione della specie, sia pure con qualche correttivo per evitare danni, ma lui niente, non sente ragioni; in primis, la sopravvivenza di se stessi, in sostanza, la pagnotta. E qui, sono dolori. Al cospetto della consorte del padrone di casa, la signora con cui ho parlato al telefono, io non riesco a sentirmi a mio agio e mi costringo, mio malgrado, ad una colazione frugale, caffé, un po' di pane e nutella e marmellate monodose, sognando quel che resta della focaccia, in auto. Matteo no, lui è un'idrovora, un buco nero, fagocita tutto quel che trova nel raggio di qualche metro, suppellettili comprese; secondo me, non è un caso che la madama, temendo un atto di cannibalismo, decida di rifugiarsi nella stanza accanto. Così, per non assistere al macabro spettacolo, non mi resta che distrarmi ancora una volta con l'osservazione dell'ambiente circostante; una cucina "mudèrna", anzi "mudèrnissima", identica a quelle che si vedono nelle pubblicità dei detergenti per piatti e superfici, impeccabilmente linda. Inevitabile, anche qui, il confronto con il cucinino di casa mia, che è sempre un macello di macchie di caffé, barattoli del miele che s'appiccicano, bottiglie d'olio con la goccia che cola giù, un caos tale che nessuno crederebbe che io riesca a generarlo senza cucinare. Eppure è così; a me il fornello serve per fare il caffé, per tutto il resto c'è il microonde...
Chiedo ai padroni di casa qualcosa di più sullo splendido cane: "Sì, ha la sua cuccia fuori, quando fa freddo lo facciamo entrare in casa...". E, dopo un attimo di pausa, la signora aggiunge con una smorfia: "Di sotto, però. Qui no". Non ne avevo il minimo dubbio, madama; l'avevo già inquadrata... Per carità, in casa propria ciascuno è liberissimo di fare quel che più gli aggrada. Ma se non conosci l'infinita tenerezza della testa del tuo cagnone, che ti pesa sulla coscia mentre sei seduto a tavola e ti guarda con l'occhione implorante da orfanello per convincerti a condividere con lui il tuo appetitoso pasto: se non capisci e non ami questo, allora tra me e te c'è un abisso, siamo proprio due mondi diversi, ed io non ci tengo per nulla a venirti a trovare sul tuo pianeta, né voglio che tu passi sul mio. Indignata, la signora mi racconta che, ultimamente, il cane si è macchiato di un orribile, inspiegabile crimine, un vero affronto: "E' saltato sul divano...". Così, i poveri castellani, afflitti, sono stati costretti a ricoprire con un telo divani e poltrone nella tavernetta, "e nessuno ci si siede più". Matteo ascolta in silenzio, le mandibole in perenne movimento, ma so bene che se la ride sotto i baffi. Penso al corpo caldo di Skipper appoggiato ogni notte al mio, allo spazio che equamente ci dividiamo nel lettone, mia sorella, lui ed io, alla sua voglia di giocare e mai dormire, la sera, alle zampone che mi schiacciano la pancia, e poi al suo testone addormentato sulla mia spalla, lui che al mattino è caldo e pigro ed ha gli occhi piccoli e fa il morto per non doversi alzare... No, nulla a che spartire con chi non sa leggere l'affetto negli occhi del proprio compagno a quattro zampe, mai.

Mezz'ora dopo, parcheggiamo il furgone in una piazzetta, a Tovo. Pioviggina, il cielo è livido come il mio umore. Sto inseguendo, da troppo tempo, il coraggio di tornare in bici: la voglia c'è, quella non manca; ho nostalgia dei miei bei giri sulle due ruote, dell'inverno passato a pedalare in Langa ed in Liguria. Ma quello stupido incidente del primo gennaio mi ha lasciato addosso, oltre ad un paio di denti nuovi, un'eredità di paura che non riesco proprio a scacciare. Complice, forse, la stagione davvero inclemente, neve e pioggia e ghiaccio e ancora neve: fatto sta che non riesco a saltare in sella senza l'avvoltoio appollaiato sulla spalla; anzi, non ci riesco del tutto, finisco per rinunciare senza provare. Da Capodanno ad oggi, sono uscita in bici due volte: la prima volta, sono rientrata a casa dopo soli otto km, mezza congelata e sconfitta dalla paura irrazionale ed incontenibile che mi assaliva non appena sentivo arrivare un'auto; la seconda volta, è andata un po' meglio, in Liguria in compagnia di Matteo e di un po' di sole. Da anni, da quando ho abbracciato la passione della bici da corsa, non mi capitava di trascorrere un periodo così lungo di astinenza. Ne giova il contatore dei km percorsi a piedi, ma so bene che in fondo la mia passione vera è quella con i pedali...
Oggi il morale ha dovuto porgere l'altra guancia ed accettare un altro schiaffo. Pioggia, quindi freddo, quindi sarà una sofferenza, per la temperatura, per la strada bagnata. Se fossi da sola, so bene che non scaricherei nemmeno la bici dall'auto. Ma devo fare buon viso a cattivo gioco, perché non voglio rovinare la giornata a Matteo, che ha voglia, e bisogno, di allenarsi. A maggio lo attende una rando da 600 km... E poi, in fondo, fa bene anche a me che qualcuno mi costringa a mettermi in strada. Stampo in faccia un sorriso ed ostento una calma che non so quanto riuscirò a mantenere. Via, si parte: io sono bardata di mille strati, pantaloni lunghi pesanti, pile, giacca impermeabile, doppio strato di guanti; Matteo, manco a dirlo, indossa i pantaloncini corti. Ci avviamo verso l'alto, in direzione del Colle del Melogno, sotto una pioggerella fine che, pochi km più avanti, è già neve. Non sembra nemmeno d'essere in Liguria: e non solo perché si gela, e perché nevica; anche perché è tutto grigio, brullo, non un fiore. Niente mimose: se continua così, alla festa della donna si regaleranno i crisantemi ben conservati dalle festività di novembre! Le uniche macchie di colore sono i limoni, coriandoli gialli tra gli alberi.
Matteo ce la mette tutta per distrarmi, e un po' ci riesce; mi piace moltissimo sentir raccontare gli aneddoti della vita del negozio o delle avventure da speleologo. Ma non basta a cancellare il freddo che si insinua nelle ossa. Fino a qualche tempo fa, del freddo non mi angosciavo più di tanto; era compagno inevitabile di una parte dell'anno e via, si sopportava, con pazienza. Ma ora, non c'è verso. Sarà che, con la corsa, mi sono viziata troppo. Se corri, il freddo è un problema marginale, nel senso che, con l'abbigliamento adeguato, può accanirsi, alla peggio, sulle estremità, sulle mani, sul naso. Il tronco si scalda anche se la temperatura esterna è sotto zero, a patto ovviamente di non fermarsi. In bici no: tutto ciò che sta sopra la cintura patisce, si raffredda. Alla fatica della ruggine, di troppi giorni senza bici, si aggiunge così il disagio della giornata becera. E, quando Matteo espone la sua teoria secondo cui, per riscaldarsi, bisogna andar più forte, provo il primo sincero moto di rabbia della mattinata. Sotto la neve che continua, indifferente, a cadere, per ora trattengo i nervi e le parole, mentre il mio compagno di viaggio, a suo inconsapevole rischio, ironizza: "Eh ma non si ferma nemmeno... Così è troppo facile!". Non è colpa sua. Lui è un essere pressoché indistruttibile; non patisce freddo, né caldo, né fatica; quasi mai ho percepito in lui alcun segno di disagio, stanchezza o paura, in qualsiasi condizione. Forse le prova anche lui, quelle sensazioni, ma una cosa è certa; sa nasconderlo bene. In questo istante, sta pedalando sotto la nevicata ed in pantaloni corti, come se fosse la situazione più normale del mondo; se in cielo splendesse un bel sole tiepido primaverile, sarebbe esattamente la stessa cosa. Io no, niente di tutto ciò; in questo momento, mi sento un uccellino sbattuto giù dal nido, implume ed indifeso. So già che, quando sarò a casa, od anche solo in auto, tranquilla, al caldo ed al riparo, rievocherò questi istanti e mi renderò conto di quanto sproporzionate ed esagerate siano le mie reazioni, ma ora la mia mente è un caos di inquietudini: il brivido freddo lungo la schiena, il pensiero che tra poco affronterò una discesa gelida e sulla strada bagnata, l'incubo delle lunghe ore che ancora mi separano dall'auto. Ecco, il desiderio "farla finita" con questo giro in bici il più in fretta possibile è qualcosa che mi spaventa: non l'ho mai provato, non ho mai desiderato, pedalando, di essere altrove.

Il bivio con la strada che sale al Melogno finalmente arriva: "Abbiamo già alle spalle cinquecento metri di dislivello e non ce ne siamo nemmeno accorti", chiosa Matteo. Sì certo, forse non te ne sei accorto tu. Io soffio come un mantice... Discesa lenta e prudente, aggrappata ai freni e concentrata sul pensiero di non inchiodare ogni volta che incrocio un'auto, per il solo fatto che la incrocio. Il mare, vicino, è grigio ed oleoso come il cielo, quasi non si distingue. Montagna, spiaggia, acqua, tutto dello stesso pesante colore metallico. L'idea originaria era di scendere sull'Aurelia da Borgio Verezzi, perché la strada ha una buona esposizione al sole. Già, in teoria... Di fatto, oggi una sola cosa è certa; non ci sarà data la soddisfazione di vedere la nostra ombra.
Giù per i tornanti, la mia paura latente si ringalluzzisce. Un po' sono i blocchi di pietra in fila a bordo strada, che alimentano la mia macabra fantasia di cadute e testa che ci va a picchiare contro; un po' sono i tornanti stretti, che non riesco a percorrere, in qualche caso, senza mettere piede a terra. Mi sento come se non fossi mai salita su una bici da corsa, in balia di un mezzo incontrollabile e con un'irrefrenabile voglia di piangere, come se fossi stata appena cacciata via da un amico a cui per anni ho dedicato tutta la mia passione. Possibile che debba finire così? E non riesco neppure a godermi questa strada che pure mi piace moltissimo, né la compagnia di Matteo che si sente a sua volta impotente. "Non so come aiutarti...". Mi sa tanto che nessuno mi può aiutare, se da questa situazione non sono io stessa a cavarmi.

Il breve tratto di Aurelia è come il coltello che rigira nella piaga. Il caos di auto e ciclisti porta i miei nervi a fior di pelle; ad ogni incrocio, l'impulso è di afferrare i freni; già vedo l'auto che non si ferma, si immette, mi taglia la strada, la buca che mi fa cadere, la rotonda in cui scivolare. Più ci penso e più mi spavento. Come se non bastasse, ecco alla mia destra l'"Unità Spinale Unipolare" di Pietra Ligure... E' lì che prima o poi andrò a finire e sarà troppo tardi per potermene pentire.
Al bivio per Boissano, siamo fuori dal caos. La risalita ci mostra un po' di mare e ci risparmia qualche km di Aurelia. Fa freddo quando ci immettiamo, al bivio, sulla strada che sale al Giogo di Toirano. Qui, alla pioggia, al nevischio, si aggiunge il vento: gelido, violento, a raffiche. Proviamoci lo stesso, so che Matteo ci tiene, ad andare lassù. Ma il freddo, la fatica, la voglia di tornare indietro non vogliono saperne di cedere il passo. E' una lotta continua; il dispiacere di aver rovinato giornata e giro a Matteo, anche se lui non me lo rinfaccerà mai, è molto, ma oggi proprio non ce la faccio. Qualche km, qualche tornante; poi, l'ennesima raffica abbatte il mio equilibrio e la mia volontà. Metto piede a terra, giro indietro la bici, si scende. Il mio compagno di viaggio, con santissima pazienza, tenta l'ultima carta. A Toirano, svolta a destra, direzione Balsetrino, nella speranza di dover litigare col vento un po' meno. Intirizzita, ringrazio quell'onda di calore che subito infonde la salita. Qui la pendenza è tutt'altro che impossibile; eppure la fatica si fa sentire, da subito. Forse un po' è colpa del raffreddore, del petto che si chiure e mi impedisce di respirare al meglio; almeno, spero, voglio credere che sia così. Nevischio, anche qui; vento, ma meno ostinato, colpisce a tradimento in qualche curva, ma poi si placa. Matteo mi racconta la sua lezione sull'abbigliamento, al corso di alpinismo, al CAI; e come si fa a non ridere? Nonostante l'apparenza possa sembrare quella di una persona poco espansiva, Matteo ha un'innata capacità di farsi apprezzare, forse perché è spontaneo e sincero, sempre, e di certo è uno che non se la tira. E' un altro lato che un po' gli invidio, la capacità di stare in mezzo alla gente; capacità che io non ho, se non in contesti molto particolari, nell'unico ambiente in cui mi sento davvero a mio agio, quello dello sport. Per il resto, in mezzo alla gente mi sento pesce fuor d'acqua; diplomazia e relazioni umane non sono il mio forte... Del resto, ammesso che sia un difetto, è un difetto che proprio non farei nulla per correggere, quindi non posso lamentarmi.

Passate le prime borgate, forse la strada in qualche punto pende un po' di più. Gambe di legno, mi sento come se di colpo il mio peso fosse raddoppiato. Pesto sui pedali e non ottengo nulla in cambio; è già tanto se riesco a far loro fare un lentissimo, eterno giro... Nevischio e freddo mi sono sempre insieme. Precipito nel profondo dello sconforto: "Ora capisco quelli che smettono di praticare uno sport e, da quel giorno, non ricominceranno più". Certo che li capisco: ricominciare è dannatamente difficile. Sbattere il muso contro il muro i ciò che, fino a poco tempo prima, si superava agevolmente è uno smacco pesante. Bisogna trovare il coraggio e la volontà per riprendere da zero, o quasi, e salire gradino dopo gradino tutta la scala, dopo essere già stati in cima: non è facile, non so se ne avrò la forza. Anche se, poco fa, mi è tornata in mente l'alba di uno splendido giorno, in cima al Colle dell'Agnello, con la Lombarda, la Bonette, il Vars, l'Izoard ed una notte burrascosa in bici alle spalle; ad attendermi, il mio amico Franco e la sua macchina fotografica, ed il momento in cui il mio giro massacrante e meraviglioso si è concluso, a Chianale, davanti ad una cioccolata calda... Dovrei rinunciare a tutto questo? Non posso...

L'edificio scuro, severo, cubico del castello di Balestrino è sempre più piccolo mentre saliamo verso il colle. Matteo si concede, poveretto, la sparata dell'ultimo km, dopo aver patito a lungo il mio ritmo: e chissà che freddo, a salire così, senza fatica ma col sudore che ti si ghiaccia addosso. Ed io oggi non so nemmeno dirgli grazie, tutta concentrata come sono nel mio egoismo. In vetta, sgranocchio un po' di cioccolato. L'idea originaria avrebbe previsto la discesa a Ceriale ed il rientro via Aurelia. In una bella giornata di sole, avrei senz'altro proposto di scendere a Ceriale sì, ma poi tornare su al passo. Oggi sono freddo e fatica a decidere per me; si torna giù subito e dallo stesso versante percorso in salita. Discesa lunga, interminabile, gelida, al punto che, negli ultimi km, non riesco a smettere di tremare ed a tener dritta la bici. L'auto, voglio tornare all'auto. Chiedo più volte a Matteo di darmi le chiavi del furgone e poi continuare da solo il giro; so che lui potrebbe macinare molti km in più, senza problemi, ma io davvero non ce la faccio. E lui, poveretto, non sente ragione: verrà all'auto con me; ci cambieremo e completeremo la giornata con una camminata.

L'illusorio francobollo di cielo azzurro si è richiuso da un po', senza speranza. Chiedo di risalire da Boissano per evitare, il più possibile, l'Aurelia. L'unico lato positivo della giornata plumbea è il fatto che molti turisti se ne son rimasti a casa, per fortuna. Altro bagno di folla automobilistica e terrore, ma per poco. Il bivio per Tovo San Giacomo è vicino. L'ultima impercettibile salita porta il mio umore all'estremo opposto; una gioia incontenibile, perché il supplizio sta per avere fine. Neanche fossi un condannato alla sedia elettrica, graziato all'ultimo minuto... 75 km e 1.700 m di dislivello; non è molto, ma non avrei potuto far di più.
Carichiamo le bici, ci chiudiamo nel furgone. Veloce cambio d'abito mentre diamo sfogo alla nostra fame, spazzolando l'ultimo residuo di focaccia ed abbassando di non poco il livello delle bugie nel vassoio. Indosso la felpa, la giacca da bici, il piumone, il collare ed il berretto di pile, eppure ho ancora freddo. Non mi scalda nemmeno il breve spostamento in auto a Giustenice: parto a piedi con la giacca piumone, anche se Matteo non è d'accordo e critica. Non ha importanza; se anche dovessi levarla in salita, l'apprezzerò in discesa.
Ci lasciamo alle spalle il paese, in cui le palme, in qualche giardino, sembrano un elemento quanto mai fuori posto, in questa luce che sa di paese nel cuore delle Alpi, di freddo, di umido. Ma ora sono finalmente tranquilla. A piedi, potrei andare in capo al mondo, anche se ora piove e, tra poco, tra un po' di dislivello, tornerà a nevicare. Matteo provoca, vorrebbe vedermi correre, se non altro per scaldarmi. Ma io non ci penso nemmeno. Se ho deciso che è il giorno della corsa, allora corro, macino km, ma ora voglio solo godermi il tepore del piumone e la bellezza della passeggiata, tutto qui. Chissà che ne pensa, il povero Matteo. S'era illuso di aver conosciuto una specie di super donna, una che potesse reggere i suoi ritmi, e si ritrova a doversi trascinare dietro una bambina lagnosa, capricciosa, nemmeno l'ombra della persona che forse aveva immaginato. Chissà se cambierà idea, o se magari l'ha già cambiata...
Un buon numero di rampe spaccagambe e ci lasciamo l'asfalto alle spalle, nei pressi di una cascina, un campo chiuso da un recinto, la carcassa di un'automobilina per bambini abbandonata nell'erba. Impiego un po' a realizzare che io quassù son già arrivata, in bici. Oggi si va oltre. Portiamo le scarpe avanti, procediamo sulla strada sterrata. Una freccia indica il Monte Carmo. Camminiamo e chiacchieriamo a lungo, mentre i fiocchi di neve, lievi e larghi, si posano sulle nostre giacche. Naso in su, non distinguo la possibile meta. A dire il vero, non so nemmeno quale sia, la meta, ammesso che ci sia. Cammino volentieri, basta questo.

Abbiamo dimenticato, entrambi, la borraccia. Ma, appena oltre un tornante, la natura ci viene in soccorso: qui la neve s'è già fermata nei giorni scorsi; ce n'è uno strato sufficiente per poterne grattare via un po' e mangiarla. E' talmente gelata che le dita, tese a morsa, la scalfiscono appena. Là dove il manto è stato schiacciato dalle ruote dei fuoristrada, si sono formate rotaie ghiacciate e scivolosissime; le tracce degli pneumatici sul fango sono calchi di creta, duri. Camminiamo e da tempo io ho già perso la nozione del tempo. Mi accorgo che, troppo spesso, rispondo con durezza alle battute di Matteo che mi prende un po' in giro; non dovrei, non ha senso, è un malessere che dovrei tenere per me e soffocare, perché non ha ragione di esistere. Insomma Gian, stai trasformando una sciocchezza in un caso internazionale. Hai perso il senso della misura, e poi cosa ne può questo poveretto se tu stai correndo ad ampie falcate verso la paranoia?

La neve ben presto arriva a coprire tutta la strada, e si fa più profonda. Secondo Matteo, al passo dovrebbero mancare circa tre km: tradotto nel normale sistema metrico decimale, significa che ne mancano almeno sei o sette. Buonanotte, con questa neve non ci arriveremo mai; io son già stufa di incespicare. Ma paziento ancora un po', perché Matteo vorrebbe mostrarmi l'ingresso di una grotta. "Una grottina insignificante, che non va da nessuna parte", si affretta a precisare; ormai però la mia curiosità è mossa. La luce del giorno impallidisce ancora, mentre ci facciamo strada nella neve; raggiungiamo una piccola radura. Della grotta, neanche l'ombra; il passo è davanti al nostro naso, ma non ci arriveremo. Si torna indietro qui, troppa neve. E, pochi passi più avanti, eccola, la fessura. Mi ci avvicino con circospezione: mai e poi mai penserei che lì dentro possa infilarsi una persona...

Per la discesa, torno ad indossare il piumone. Ed a parlare di bici, rievocazione di avventure di qualche anno fa. Matteo sopporta, paziente; io ricordo quegli eventi, i giorni della XXAlps, con immutata emozione, anche se sono ormai trascorsi quasi sei anni; mi sembra di rivivere, ogni volta che ci ripenso, la stessa fatica, lo stesso abbattimento e la stessa felicità di quelle splendide dieci tappe di pura montagna, dal Liechtenstein alla Costa Azzurra. Posso davvero permettere che tutto questo mi sfugga? Posso pensare di non riviverlo più?

Il giorno si spegne nella lunga camminata che ci riporta a Giustenice, al furgone. Un saluto all'anziano col cane ed al sole, che oggi non s'è fatto vedere e adesso del tutto se ne va. Ci resta mezz'ora, ancora due bugie, un po' di succo di frutta ed il viaggio fino a Savona. Non so con quale coraggio, Matteo abbandonerà il furgone ad Arenzano e si sciropperà gli ultimi 15 km, fino a casa, ad Acquasanta, in bici. Io non posso nemmeno lontanamente immaginare il coraggio che occorre per ributtarsi fuori, in questa serata gelida anche al mare, dopo il tormento del freddo del giorno intero; credo che non sarei capace di uscire dall'abitacolo nemmeno sotto minaccia delle armi. Infatti, una volta a casa, abbandonerò come sempre l'auto in cortile, per rendere minima l'esposizione al freddo, perché l'apertura del garage richiederebbe di sopportare una nuova glaciazione a cui non potrei sopravvivere. Ma lui non patisce nulla e, se decide una cosa, non ci ripensa mai. Infatti, quando sono quasi al casello di Carmagnola, ricevo un messaggio: "Alla fine, il senso del dovere ha prevalso". Non avevo dubbi, io...

lunedì 15 febbraio 2010

7 febbraio 2010 - Corsa in Roero

Sul tappeto di neve pesta e sporca del cortile, stamattina, giacciono due moncherini abbrustoliti di fiammiferi. Solo due: è un buon segno. Si può dire che oggi faccia quasi caldo: fino all'altro ieri, per scongelare e sbloccare il lucchetto che chiude il cancello d'ingresso dal viale, ne dovevo impiegare almeno cinque o sei. Data la mia tecnica incerta e maldestra nell'accensione, poi, ciò significa che di cadaveri, a terra, ne restano, di solito, almeno dieci; nell'aria, un odore acre di carne bruciacchiata, quella dei miei polpastrelli. Soprattutto quando, onde evitare di sfregare furiosamente a vuoto la testa del povero fiammifero, con la foga del cane che si gratta per il fastidio delle pulci, mi ingegno per accendere un legnetto mentre l'altro sta per giungere a consunzione completa. Ecco, diciamo che un esperimento scientifico richiede spesso, da parte del suo autore, una buona dose di sacrificio ed abnegazione. Ed io non ho ancora raggiunto la perfetta coordinazione dei tempi. E non possiedo un paio di guanti in tessuto ignifugo. Accade così che il silenzio delle gelide mattine invernali sia squarciato dalle più raccapriccianti oscenità...

Si sente il crepitio delle ruote dell'auto che schiacciano la crosta di neve, ma quasi sommesso, attutito. Non quegli schiocchi secchi, netti, come di assi di legno che cadono dall'alto. Ed è diverso anche il profumo dell'aria. Come ieri: per la prima volta in questo lungo freddo inverno, l'ho notato, ieri mattina. Come definirlo, non saprei, ma fa quell'effetto sulle narici, che se ne accorgono subito. E la luce, più intensa, più calda. E ancora, qua e là, un cinguettio. C'è poco da illudersi; le previsioni meteo annunciano ancora giorni e giorni di freddo, di nevicate. Ma non oggi: carpe diem.

Una decina di km di auto per raggiungere il mio punto di partenza, Ceresole d'Alba. Oggi, come ieri, concedo un po' di soddisfazione alla mia pigrizia. Stesso giro, identico, da non dover nemmeno chiedere al neurone solitario uno sforzo supplementare. Circa 40 km su e giù per le colline. Abbandono la fida Opel a Ceresole, sulla piazza della scuola. Lo zainetto in spalla non manca mai: anche se l'itinerario è breve e mi porterà via poche ore in tutto, non potrei mai partire senza una giacca in più, un rotolo di pergamena per le emergenze ed una tasca per tutto, chiavi, documenti, telefonino. Calzo le scarpe da corsa, il nuovo acquisto di quest'anno, strategico, nei saldi, e storco il naso. Lo scorso autunno, ho comprato un paio di scarpe davvero belle, comode, perfette per le mie esigenze di distanza ed i miei piedi massacrati; con quelle, sembra di correre su un tappeto di gommapiuma. Così, con la mia solita mania del criceto che si fa la scorta di semini nelle guance, mi son detta: prima che queste si distruggano, compriamone subito un altro paio, così ho il ricambio. Dev'essere un retaggio di cultura ancestrale. Ricordi d'infanzia: mia mamma aveva sempre gli armadi, la credenza e l'armadietto dei medicinali pieni di articoli acquistati in serie, in blocco, in pallet, cosìcché, se qualcosa si fosse rovinato o esaurito, zac, subito pronto il sostituto. E fin qui, la mia poteva anche essere un'idea saggia. Peccato che il negozio non avesse più lo stesso tipo di scarpa, e peccato ancor più grave che io mi sia lasciata indurre a comprarne un altro paio che "è praticamente la stessa cosa". Nulla di più falso. Queste scarpe bianche e gialle che mi sto allacciando sono tutt'altra pasta; meno ammortizzate, più rigide ai lati. E, soprattutto, fanno sì che il mio piede sinistro, dopo un tot di chilometri, cominci ad emettere strazianti lamenti. Caviglia dolente, dita che si irrigidiscono. Pazienza: ora che le ho, le scarpe, e dopo aver dovuto accendere un mutuo cinquantennale per finanziare l'acquisto, le uso, garantito; ci corro fino a completa distruzione. Solo, ho l'accortezza di riservarle agli itinerari più brevi.
A ben pensarci, è proprio vero che mi sono imborghesita. Fino a qualche anno fa, non mi sarei nemmeno posta il problema della scarpa con cui correre; un paio di scarpe "da ginnastica" strappate via su un banco del mercato, per quattro soldi, e andare. Adesso, riesco persino a percepire, ed a patire, la differenza tra due paia di scarpe che, sulla carta, sono entrambe di ottima fattura e di alta gamma. Sono convintissima che si tratti di un tipico caso di necessità indotta, nel mio caso, dal tempo passato a leggere riviste e siti di corsa, discussioni, dibattiti e chi più ne ha più ne metta. Se non avessi mai saputo che una suola sottile e rigida può provocare, a lungo andare, dolori alle articolazioni, non li avrei mai provati, quei dolori. E di esempi del genere potrei citarne a decine. Su un giro, come oggi, da quaranta km, un tempo non mi sarebbe passata per l'anticamera del cervello l'idea di portarmi appresso una borraccia; poi ho letto da qualche parte che la sete, anche per poche ore, può causare qualche fastidio ai muscoli, e alè, la gola appena secca si traduce subito in una serpeggiante apprensione. Manco fossi la principessa sul pisello. Ma forse tutto ciò ha una sola spiegazione; sto invecchiando, tutto qui.

L'ultimo nodo e sono pronta. Scaccio i pensieri noiosi come mosche: un'occhiata di sbieco all'orologio del campanile, le otto e cinque. Cinque minuti più tardi di ieri mattina. Mi avvio lungo la strada che da Ceresole porta verso la frazione Casanova. Calpesto una poltiglia di sale e sabbia e neve che si scioglie; fa freddo, ma saremo a zero gradi, forse addirittura qualcosa in più. La stessa luce tersa della scorsa mattina, riflessa dalle distese bianchissime di neve sui campi; la stessa vista mozzafiato sull'arco alpino, le poche cime a cui so dare un nome che si delineano pian piano, staccandosi dal blu scuro del cielo senza una nuvola: il profilo adunco del Rocciamelone, il massiccio del Rosa e poi, ultimo a spuntare sopra i tetti del paese che si allontanano alle mie spalle, il Monviso. Non ho mai capito un accidente di tutto ciò che ha a che fare con la fisica, ergo, non ho mai capito un accidente di ottica; insomma, non so spiegarmi il motivo per cui, nelle giornate così limpide, le montagne sembrano molto più vicine, più grandi. Sarà che le innumerevoli nevicate dei giorni scorsi hanno provveduto a pulire l'aria per benino. Ieri ho scattato, già qui nel primissimo tratto del mio itinerario, parecchie foto all'alba, ma oggi non posso fare a meno di ripetermi: anche se le inquadrature sono più o meno sempre le stesse. In realtà, ieri la strada e la natura portavano i segni della nevicata appena conclusa; asfalto ricoperto da uno strato viscido e scivolosissimo e bianco, rovi e gaggie piegati sotto il peso della neve; ciascun paletto a bordo strada aveva il suo cappuccio immacolato e le mie scarpe, dalla suola bella liscia, non offrivano presa sicura, tutt'altro. Toccava, talvolta, correre a piedi piatti e saggiare la tenuta del passo, per evitare che la scarpa scivolasse all'indietro. Altrimenti, facciata a terra garantita!



I brividi che mi tormentavano poco fa, al parcheggio, sono già spariti. Al loro posto, una sensazione improvvisa di caldo, ma ingannevole. So bene che, nel giro di un paio di km, la temperatura sotto la mia giacca raggiungerà un livello ideale, a patto, ovviamente, di non fermarsi, nemmeno di rallentare. Lascio la strada principale, al bivio per i Cantarelli: "strada dei gianìn", così si chiama da queste parti. Gianìn, per i forestieri, è il vermiciattolo; lungo questa strada, a metà circa, c'è uno stabilimento, l'In.Pro.Ma., che, se non erro, è una sorta di inceneritore di scarti animali, da cui spesso si sprigiona un tanfo terrificante, indescrivibile, un misto di marciume e di chissà che altro. Da qui, credo, l'associazione d'immagine con i vermi. Oggi però è un caso fortunato: domenica, nessuna colonna di fumo bianco in vista.
La strada dei gianìn ha, in alcuni punti, un microclima tutto suo: due o tre avvallamenti in cui, in questa stagione, i raggi del sole non arrivano mai. Così, la neve resta ghiaccio, la strada scintilla di una miriade di brillantini, naso e labbra si congelano all'istante, restando insensibili. Hai voglia a tirare su il collare di pile: nessun conforto termico, ma in compenso rischio di soffocare. I sentieri che si staccano dall'asfalto, coperti di neve, restituiscono testimonianza di chi e di cosa è passato da lì: zampe e passi, tracce di ruote di fuoristrada, movimenti forse di ieri che il gelo ha fotografato. Il sole ancora basso splende quasi rabbioso, anche se la sua luce è fredda; ombre lunghissime ma nette. Solo tre colori, l'azzurro intenso del cielo, il bianco della neve, il contrasto nero dei rami e dei tronchi. Sono scomparsi anche i cacciatori, che, fino a non molto tempo fa, scalpitavano e sparacchiavano senza posa in questa zona. La seconda sacca di gelo siberiano è proprio in corrispondenza dell'impianto industriale; le scarpe fanno crepitare la neve ghiacciata. Per fortuna, la rampa in salita, la cosiddetta "rampa dei gianìn", riscalda il cuore e le ossa e mi porta sul piccolo altopiano, fuori dalla boscaglia. Mi restituisce il panorama sulle montagne e sulla collina di Pralormo. Il sole basso, accecante, mi mostra le immagini come in negativo, solo per quell'istante in cui riesco ad afferrarle, prima che gli occhi si arriccino per lo schiaffo della luce troppo intensa. Discesa, risalita, un altro bivio, verso i Berteri; qui il sole è proprio in faccia, violentissimo. Corro alla cieca, posso guardarmi solo ai lati, distese di neve e striscie create forse dal vento, che scappano via, e tracce di animali a disegnare traiettorie frutto di chissà quale istinto, di inseguimento di qualche preda o fuga da qualche predatore, chissà.



Scateno, come sempre, le ire di tutti i cani della frazione; grossi e piccoli, voci tonanti o stridule, nessuno si fa sfuggire l'occasione di dare sfoggio della propria abilità di guardiano. Non capita spesso, soprattutto di questi tempi e climi, di avere un potenziale pericolosissimo podista killer a portata di zampa. Cortili, tettoie, attrezzi, tutto coperto di neve, che nasconde anche le brutture ed il disordine. Ci vorrebbe, a questo proposito, una bella nevicata in casa mia, che nasconda le calze spaiate, i fogli della banca ed i mezzi pacchi di biscotti dispersi negli angoli più impensabili. Un cagnone, più ostinato dei colleghi, continua ad abbaiare anche quando sono già lontana, ben oltre la frazione, lungo l'ampia curva ai piedi del costone della collina. Altro tratto in cui la luce, di buon mattino, stenta a farsi valere. Vince l'ombra azzurra del gelo. Minuscole stalattiti ornano il parapetto in metallo del ponticello; il mio fiato è una nuvola che appare e scompare al ritmo dei passi, mentre corro ancora incontro al sole.

Il bivio per la frazione Capelli è la porta verso un altro mondo. Basta imboccare la salita che porta, in un paio di tornanti, al grappolo di case sulla collina, per sentire sulla pelle, nelle ossa, un calore inaspettato, ed immediato. Una serpentina stretta tra le case, un nanetto di pietra scolorito dal tempo, un anziano che cammina curvo col paltò, la neve che si scioglie e si allunga in mezzo alla strada, un pannello per gli annunci mortuari. Poi tornano a farmi compagnia gli alberi di nocciole. Ieri, sì, lo spettacolo da queste parti era davvero impagabile: i rami erano stracarichi di neve, sembrava di correre in un lungo corridoio con il pavimento, le pareti, la volta di cristallo scintillante. Mi sarebbe piaciuto saper scattare una di quelle foto suggestive, un particolare, la goccia in punta al ramo, il riflesso del sole. Il risultato pratico è stato un po' deludente, visto che, così, non son riuscita a mettere a fuoco né il dettaglio né lo sfondo, ma pazienza, quel che conta è l'intenzione. La curva della cappelletta offre uno spettacolo senza confini sul Monviso, blu e nitido al punto da poter quasi distinguere, come su una carta geografica, le sfumature delle sue costole di roccia sotto la neve. Poi la strada si rituffa in mezzo ai noccioleti, per riemergere solo più avanti, oltre la rampetta che conduce all'altra frazione. San Grato: una chiesa, un bar ristorante ancora chiuso, un camino che fuma e profuma di legna. Alcune ville, belle, per carità, ma troppo chiassose, troppo sfarzose, nulla c'entrano con l'austera bellezza dei tronchi nodosi dei vecchissimi castagni lungo la strada, e giù sul pendio. Tronchi che richiederebbero, per essere abbracciati, due e più persone; alcuni sormontati da una nuvola enorme di rami, chioma folta d'estate, altri che muoiono in monconi di ramo tagliato; alcuni cavi, tormentati, altri colonizzati da una sorta di edera che dà l'impressione che l'albero sia un caso anomalo di castagno sempreverde.
Con buona pace degli architetti che le hanno concepite, le quattro o cinque villone di San Grato non mi piacciono nemmeno un po'. Mi piacciono invece, proprio tanto, le cascine ben ristrutturate che si incontrano proseguendo nel cammino, lungo la strada alta, verso Monteu. Strutture semplici, quattro muri ed un tetto, archi in mattoni, imposte in legno; linee severe, semplici, consapevoli del tempo passato sui loro comignoli; cortili in terra battuta e le piante che qui crescono per natura, la nocciola, il castagno, il roseto, il fico, persino le zucche che, in autunno, pendono dai fori delle reti. Altro che le palmette e gli ulivi ed i prati rasati con la macchinetta da barba.
La cappelletta sulla sinistra, con il suo alberello di rose. Un'altra breve salita e poi la pendenza s'inverte; giù, in poche curve, verso Monteu, non prima, però, di essermi affacciata allo splendido belvedere che mi fa ammirare il castello di Monteu dall'alto, oltre le rocche di terra che si disgrega. Blanda discesa; passo accanto al vigneto dove, d'estate, rubacchio talvolta qualche grappolo d'uva: lo scorso autunno, del resto, quell'uva non l'ha raccolta nessuno; è rimasta lì, fino a diventare uva passa e poi a cadere. Peccato.

La strada si immette sulla via principale che conduce all'abitato di Monteu. Il ponte d'ingresso al paese è un palco privilegiato su un doppio spettacolo naturale: sulla destra, la montagna di terra gialla che si sgretola e trascina con sé quel che resta della boscaglia, un salto di cui non si vede il fondo, nascosto dalla vegetazione fitta e nera del colore invernale; sulla sinistra, le onde delle colline, strato dopo strato, nei colori azzurro e verde che digradano verso l'orizzonte, nei contorni sfumati dalla nebbiolina che il sole solleva dai pendii innevati. Sulla piazza del paese c'è già un po' di movimento; la messa domenicale, la puntata al bar per il caffé. Il castello, ora proprio sopra la mia testa, con una piccola torre ed una scaletta metallica che a quella torre salta in cima. La strettoia e poi la lunga discesa verso i Tre Rivi. La vista spazia prima sul paese di Santo Stefano Roero, sul cocuzzolo della collina a sinistra, e poi verso San Rocco, in lontananza Vezza d'Alba e le Langhe. In qualche punto, la strada ha ceduto; un paio di strettoie sono le tracce ancora ben visibili della pioggia abbondante dei due anni scorsi, che s'è mangiata il terreno. Vigneti a perdita d'occhio, filari ordinati, spogli e deserti; la collina bianchissima con la cappelletta in cima, una cappelletta ed un albero.

Dalla rotonda dei Tre Rivi, imbocco la direzione di Canale; per un paio di km, mi trovo a correre lungo un tratto un po' più noioso e trafficato. E mi rendo conto, con un brivido, di quanta gente si metta al volante pensando a chissà cos'altro. Sono io che corro contro sole; eppure, le auto che mi arrivano incontro, spesso, scartano all'ultimo, come se fossi apparsa in quello stesso istante. Eppure, se chi guida badasse a quel che fa, non potrebbe non vedermi già ben prima di incrociarmi, dal momento che questo tratto di strada è rettilineo. Per fortuna, la corsa a piedi offre un gran vantaggio: alla peggio, posso sempre saltar via dall'asfalto, sulla riva erbosa o dentro il canale. Non è che sia il massimo della vita, ma sempre meglio di un alterco con la fredda e durissima lamiera.

Al bivio per San Michele, sulla sinistra, sono via dalla pazza folla. Comincia la salita. Di fronte al mio naso, molto vicina eppure molto più in alto, c'è la chiesetta della frazione, davanti a cui dovrò passare. Il cuore se ne accorge subito, che la faccenda si fa impegnativa. Passi corti, corsetta lenta ma inesorabile. L'importante è non cedere alla tentazione della camminata, mai. Mi distraggo cercando un senso nelle geometrie dei regolarissimi filari delle viti; poi, puntuale come un orologio svizzero, si ripete il solito rito al tornante: due cagnetti, tanto piccoli quanto fetenti, si precipitano a rotta di collo fuori dall'aia di una cascina, piantano un baccano infernale, puntano dritti alle mie caviglie. Li lascio avvicinare il più possibile, poi mi giro di scatto: ecco che inchiodano, lasciano la scia della frenata, quasi ruzzolano per terra e battono in ritirata. Mi volto, riparto, rieccoli all'inseguimento; la scenetta si ripete finché non sono lontana a sufficienza dal confine invisibile del loro territorio. Ancora qualche abbaio di riprovazione, ma poco convinto, e poi se ne tornano alla magione. Io proseguo invece sbuffando come un mantice. Questa salita è insidiosa: comincia dolce e si inasprisce sempre più. Un cartello, appena oltre la curva, ammonisce: 18%. Beh, non so se sia proprio 18, ma la rampa che sembra alzarsi ad angolo retto proprio davanti a me non è certo una carezza. Solo un brevissimo tratto in piano, per prendere fiato, e poi l'affronto. Più che corsa, è ostinazione nel riprodurre il gesto della corsa, anche se il passo è brevissimo e la fatica esagerata. Anche per la misura delle pendenze, ho un metodo tutto mio: parlando di corsa, questa è la pendenza alla quale l'aria che riesco a buttare nei polmoni non è sufficiente; quando espiro, in realtà sento ancora l'esigenza di inspirare altra aria, sono in debito di ossigeno. Il tratto è breve; la pendenza si attenua in una curva tutt'altro che piana: ma sembra già riposante al confronto.
Il muraglione della collina è della stessa terra gialla che compone tutto qui intorno; si vede scavata una sorta di grotta, si vedono le radici dei cespugli che pendono nel vuoto. Se ci passi le dita, è terra che si sbriciola. Gli ultimi metri di salita, poi la strada spiana in cresta. Splendida vista su Santo Stefano e Monteu, sul Monviso e giù verso le montagne cuneesi, un trionfo di azzurro e bianco dominanti.

Fontanelle, di questi tempi, neanche l'ombra: ci sono, ma desolatamente chiuse, perché il gelo invernale farebbe scoppiare i tubi. In barba a qualsiasi scrupolo, raccolgo un pugno di neve gelata a bordo strada e la sgranocchio, con calma, come fosse una granita. E' una sensazione quasi piacevole, quella dei denti che tritano i minuscoli aghi di ghiaccio. Non credo, con ciò, di potermi levare la sete: ma, almeno, mi inumidisco la bocca. Qualcuno di mia conoscenza inorridirebbe all'idea di mangiare neve raccolta per terra. Chissà quante sostanze nocive ha raccolto cadendo a terra, chissà quanti microbi, chissà... Per quel che ne so io, se si ha cura di non prenderla proprio sul ciglio della strada, non credo che un pugno di neve contenga molte schifezze in più rispetto a quelle che potremmo trovare nei cibi comprati al supermercato. E poi, questo sistema immunitario, lo vogliamo tenere un po' in allenamento, oppure no? Altrimenti, a che serve?

Al bivio, percorro un breve tratto della strada che da Santo Stefano scende a Canale, ma l'abbandono quasi subito, prendendo a sinistra la strada verso Borgata Lora. Un brevissimo ma spietato anello che, nel giro di tre km, forse nemmeno, mi tuffa cento metri più in basso e poi mi riporta proprio a Santo Stefano, con una rampa altrettanto impietosa. La discesa è impresa doppiamente ardua: un po' per la pendenza – quando passo di qui, in salita, in bici da corsa, la ruota anteriore tende a staccarsi da terra, e correre in questa condizione, a piedi in discesa, non è così semplice – un po' perché il tratto più ripido è anche ostinatamente in ombra, quindi ricoperto di una patina ghiacciata. Il rischio di ritrovarsi con le chiappe a terra, sul duro asfalto e su quel che resta dei ricci di castagna dello scorso autunno, non è così remoto. Vista di qua, la risalita dall'altro versante della minuscola valle fa quasi impressione. Sembra la metà, tagliata nel senso dell'altezza, di un imbuto; appena arrivo al fondo della breve ma ripidissima discesa, svolto a destra e m'impegno in un'altrettanto aspra risalita. Mi imbatto qui in un'anziana donna quantomeno pittoresca: bassa, tarchiata, un sigaro in bocca, cammina all'indietro, in discesa, frenando con il corpo una sedia a rotelle. Sulla sedia, una cassa di... Bottiglioni di vino. La saluto, ricambia in piemontese. Sento il suo sguardo perplesso sulla schiena mentre mi arrampico su per la prima rampa, che supera un tornante e va a spianare in mezzo ad un gruppo di cascine, due ben ristrutturate, una abbandonata, ma che meriterebbe un restauro come si deve. Mi accoglie l'abbaio di un cagnetto con la testa di bassotto ed il corpo di mortadella: è buffissimo, sembra quasi tagliato in due da un collare troppo stretto, ma non sembra aversene a male e trotterella, in salita, certo con meno affanno rispetto a me.
Appena oltre le cascine, la vista spazia sulla valle e sulla borgata Lora, che adesso vedo dall'altra parte, benché ci sia passata solo un quarto d'ora fa, più o meno. Vigneti e ancora vigneti, qualche contadino che armeggia con pinze e fili. Ed un bubbolio lontano, anzi vicinissimo. Questa è la voce della mia pancia: è ormai qualche km che ricaccio indietro il pensiero della fame, ma ormai l'inganno non funziona più. Il bello è che ieri sera ho dimenticato di far cena. Intendiamoci, per me la cena, come tutti gli altri pasti della giornata, non è altro che un piatto consumato in giro per casa o seduta al computer, un po' più consistente del mangiucchiamento continuo a cui mi dedico per tutte le mie ore di veglia. Non mi piace l'idea del pasto completo da consumare seduta a tavola, per carità; è vero che ho fame di continuo, ma è anche vero che mi sazio in fretta; quindi, non avrebbe senso comporre un antipasto con un primo, perché dopo l'antipasto smetterei comunque di mangiare fino all'attacco di fame successivo. E poi, seduta a tavola, perderei tempo e mi annoierei.
Comunque, dicevo: ieri sera ho dimenticato di fare questo pasto integrativo pre nanna, chiamiamola così, la mia cena. Il guaio è che un giro di corsa da 40 km, già di per sé, si porta dietro un giorno e mezzo di "effetto inceneritore"; figuriamoci poi se, il giorno successivo, se ne aggiungono altri 40. Tutto quel che ho è una gelatina di frutta. La scarto, non senza difficoltà, in salita, e la ingurgito quasi intera. Intanto la salita mi deposita alle spalle di Santo Stefano, anch'esso paese abbarbicato sulle torri di sabbia che si sgretola. Avevo visitato, anni fa, un paese chiamato "La città che muore": un grumo di case su una collina di tufo, lentamente consumata dall'erosione, un gioiello destinato purtroppo, per natura, a dissolversi. Qui il fenomeno è forse meno suggestivo, ma il risultato, prima o poi, credo sarà lo stesso.

La gelatina di frutta non è servita a nulla. La pancia è vuota come e più di prima. Afferro un'altra manata di neve, la sbocconcello pian piano: raggiungo così il centro del paese. La chiesa, alla mia destra, e la rampa ripidissima che porta in piazza: l'affrontano due temerarie madame col cappotto bello della festa; le vedo salire un po' incerte, puntellarsi l'una con l'altra, ma non le seguo; passo dalla comoda strada bassa. Centro paese, direzione Canale e poi bivio per Monteu Roero. Avrò ancora quindici, sedici km di corsa; un paio d'ore, contando le salite. Proprio sul bivio, incontro i primi, ed unici, ciclisti della giornata: tre volti noti con cui scambio qualche battuta. Un po' mi si stringe il cuore: vorrei esserci anch'io, in bici... Ma la paura delle strade umide e sporche si somma a quella, ancora fresca, dell'incidente di Capodanno. Non avrei mai pensato che quella botta, tutto sommato senza gravi conseguenze – gli incisivi di porcellana sono già al loro posto e belli più di quelli naturali – avrebbe lasciato un segno così ostinato e duraturo. Ho paura della bici, adesso. Passerà, con le belle giornate, se mai arriveranno... Ma adesso ne provo paura e preferisco lasciarla in cantina, a riposare un po'. Ci salutiamo e via, ciascuno per la propria strada. A dire il vero, per un attimo provo l'impulso di chiedere se per caso uno di loro può elargirmi qualcosa da mangiare, anche solo una caramella, una bustina di zucchero. Ma non oso: taccio e riprendo la mia corsa, per l'intera discesa, mangiando neve. Non serve a lenire la fame né la sete, ma inganna per un poco il senso di vuoto nelle viscere.

La strada di Santo Stefano è particolare: vista dall'alto, sembra una corda lasciata cadere in verticale, arrotolata su se stessa. I tornanti si accatastano l'uno sull'altro, fino al fondo del catino. Il castello di Monteu svetta contro il cielo sempre più blu della giornata che matura. Riprendo a salire, sempre corricchiando; abbasso la cerniera della giacca:. La neve scioglie, sparge torrentelli che seguono la pendenza della strada. Al bivio, ritorno a calcare la stessa strada dell'andata: sono sulla strada che dai Tre Rivi sale a Monteu. Pendenza dolce, costante, ottima esposizione al sole. Le gambe reagiscono bene all'ennesimo cambio di ritmo. Solo i rumori cavernicoli della fame turbano la poesia del momento. Il tornante, quello mi tocca prenderlo tutto all'interno, grazie all'automobilista che mi sorpassa proprio ora e nulla sa, è evidente, di quanto un tornante possa essere ripido nell'interno. Conto i passi alla cima, le tappe ideali che mancano all'auto. Lo strappo finale è cattivo; altri due tornanti, duri, e poi la strettoia nel paese. Monteu: passo davanti al bar, con disappunto. Se almeno avessi con me qualche moneta, potrei prendere una cioccolata... Oh ma Gian, possibile che ti sia ridotta così? E basta! Neanche fossi sul punto di iniziare la traversata del Sahara! Un'ora e mezza ed hai finito... E poi, con tutta la riserva di lardo che ti trascini addosso, ce ne vuole del bello e del buono, prima di morir di fame!
Riuscire ad umiliarsi da soli, con un discorso del genere, credo sia un sintomo discretamente significativo della schizofrenia. Orecchie basse, morale a terra, tiro dritto in centro paese, poi sul ponte dove la frana si mangia ogni volta qualche centimetro di strada in più. E riprendo a salire verso San Grato. Meno di un km di salita blanda, dolce, dove posso tornare a rubacchiare neve. E' nei tratti in piano ed in discesa che posso fare banchetto; come se tenere le mandibole in movimento potesse in qualche modo attenuarla, la fame. Il sole è ormai alto, per quanto può essere alto a febbraio; sta facendo del suo meglio per offrirmi un po' di conforto. Castagno dopo castagno, raggiungo la chiesa della borgata. Curioso: ieri ricordo d'essere partita alle otto in punto da Ceresole e di essere arrivata qui a mezzogiorno; oggi, partita alle otto e cinque, eccomi qui a mezzogiorno e cinque. Ci potrei regolare l'orologio, se l'avessi.

Da qui all'auto, saranno circa sette, otto km di saliscendi, tra noccioleti e serre. Procedo di buon passo: appetito a parte, non sento alcun disturbo, né di gambe, né di schiena, che ieri invece si lagnava un po'. Sgranocchio neve e penso ad altro. Penso alla Nove Colli Running, quando, dopo 40 km, sarò appena ad un quinto del percorso, penso alle ore infinite che dovrò trascorrere picchiando le suole a terra, penso al dolore che dovrò essere in grado di sopportare il più a lungo possibile. Dopo una 100 km su asfalto, sono distrutta: come farò ad affrontarne il doppio? In fondo, non ha importanza. Tutto ciò appartiene al pensiero razionale, cioè non appartiene a me, che quel sabato, a mezzogiorno, sarò comunque al via, costi quel che costi. Perlomeno, a Cesenatico e dintorni, a fine maggio, farà caldo. Lo spero.

San Bernardo, altro bivio, a destra. Leggero saliscendi, le serre, la chiesa e poi ancora a sinistra. Passo accanto alle cascine e ad un laghetto dalla superficie di ghiaccio ricoperta di neve. La strada fa l'ultimo tuffo in basso, per poi tornare allo stesso livello con una rampa altrettanto secca: quasi un piccolo canyon. Non restano che gli ultimi tre o quattro km di curve e passaggi accanto alle cascine. Qui il paesaggio, in poca strada, è mutato del tutto; non più collina e noccioleti, ma campagna piatta, appena ondulata, pioppi e terra dissodata sotto la neve. Misuro i passi che mancano alla Opel e ancora ingurgito neve, anche se ormai è quasi fatta. Misuro i sassi, le buche, a momenti persino i fili d'erba: questa strada è casa mia... Passo in mezzo a due ali di pioppeto: il desiderio, mai così forte, è di sentire la brezza di un primo mattino di luglio, che ne accarezza le foglie. Ma no, nulla di tutto ciò; i rami svettano bianchi ed ostinatamente spogli. Il ripetitore, le prime case di Ceresole; mi impongo di correre proprio fino al solito stop. Da lì, cento metri al passo per raggiungere la Opel, cambiarmi e via. Dispensa, puoi cominciare a tremare: il flagello delle cavallette è in arrivo!