sabato 31 luglio 2010

17/18 luglio 2010 - Ultra Trail du Beaufortain

Viaggiare ai settanta all'ora per i dodici km del traforo del Frejus è una costrizione che fatico davvero a sopportare: di già che mi tocca infilarmi nelle viscere della montagna, gradirei levarmi da qui il prima possibile... Non credo di soffrire di claustrofobia, ma la consapevolezza di avere chissà quante tonnellate di roccia sospese pochi metri sopra il mio capoccione non mi ispira un gran senso di tranquillità. E invece no, guai, il Grande Fratello elettronico mi guarda: se solo mi azzardo a calare un po' di più il piedino sull'acceleratore, troverò una solerte rappresentanza della Gendarmerie ad attendermi, a braccia aperte e lampeggianti accesi, all'uscita del budello. Sarà poi vero, o sarà terrorismo? A giudicare dalle auto che mi seguono, a rigorosa distanza di iper sicurezza, potrebbe essere vero. Del resto, per questa sera non c'era alternativa. Matteo s'è già sciroppato il viaggio da Genova a Carmagnola, dopo il lavoro; quand'è arrivato, intorno alle otto e mezza, è stato catapultato all'istante sul sedile passeggero della mia fida Corsa, insieme al bagaglio: altra partenza, destinazione Queige, pochi chilometri oltre Albertville lungo la strada che sale al Cormet de Roselend e, poi, al Piccolo San Bernardo. Vittima quasi inconsapevole, Matteo, della mia furia podistica: l'ho iscritto, suo malgrado, all'Ultra Trail du Beaufortain, 103 km per 5.800 m dichiarati di dislivello in salita. Tre ore di viaggio, mal contate, da casa, interrotte solo da una breve sosta per visita turistica al bagno pubblico del parcheggio: ho sonno, eccome se ho sonno, ma voglio a tutti i costi arrivare a destinazione, prima di nanna, in modo da essere già, domani, sul luogo del delitto. Concetti vaghi, "oggi" e "domani": è già mezzanotte quando c'inerpichiamo tra le poche case di Queige, sottoponendo la frizione della povera Opel ai più raccapriccianti maltrattamenti. E la partenza è fissata per le quattro del mattino: ciò significa che abbiamo ben due ore e mezza di confortevole sonno a disposizione; anzi, su, siamo generosi: due ore e quaranta.

Vaghiamo per un po' senza meta tra le viuzze buie e deserte del paese: però, dopo un rovinoso tentativo di partenza in seconda su un tratto di salita ripida, a cui il motore della Opel reagisce con un urlo straziante, decido che è il caso di mettersi a dormire. Domani mattina, cioè tra poco, andremo a caccia del punto esatto di partenza della gara. Detto, fatto: sistemo l'auto più o meno in piano, abbasso il sedile, m'imbozzolo nel sacco a pelo; i rumori molesti degli interminabili preparativi di Matteo – ma che diamine avrà bisogno di rovistare, per dormire un po'? - si spengono nell'oblìo.

Al trillo della sveglia, riapro gli occhi alle tenebre, le stesse che avevo abbandonato poco fa. Sonno breve, ma profondo e ristoratore, almeno per me. Un grugnito all'unisono ci riporta alla realtà: ci siamo, è ora, armiamoci e partite. Mi muovo con cautela, prima un braccio, poi l'altro, poi il collo, la schiena. Infine le gambe, anzi la gamba, quella incriminata e martoriata. Combatto da una settimana con una formidabile contrattura al polpaccio destro: l'ho bombardata con ogni sorta di arma chimica, dal Muscoril agli antiinfiammatori in pastiglie ed in crema, ma ancora l'altro ieri avevo serie difficoltà a camminare decentemente in casa. Il movimento del piede è molto limitato; non posso fare molto di più che appoggiare a terra il tallone: allungare la punta è utopia.
La temperatura sarà di poco sopra i dieci gradi; una Siberia, per i miei gusti; un lungo lavoro di autoconvinzione per costringermi a cambiarmi ed indossare gli abiti da corsa, mentre Matteo ha già messo in azione le mascelle, più inarrestabili di quelle di un coccodrillo. Colazione, se così si può definire, ma è piuttosto uno spuntino notturno, focaccia, yogurt, succo di frutta, tutto quel che ieri ho buttato un po' alla rinfusa nello scatolone della pappatoria. Il neurone è ancora ottenebrato dal sonno; rinuncio a controllare lo zaino, tanto, in questa condizione, è inutile. Metto in moto la Opel e trattengo il respiro, memore dell'ultima offesa che le ho inflitto: parte... Col favore del buio, individuiamo già dall'alto un'area illuminata, giù a fondovalle, accanto alla strada principale; senz'altro è quella la nostra meta. Infatti, c'infiliamo con altre auto in una stradina sterrata e poi in un prato, in mezzo ai tralicci dell'alta tensione, destinato a parcheggio. Tutto buio: ci si arrangia con la pila frontale. Accanto a noi, qualcuno ha addirittura imbandito il tavolino per la colazione. La consegna dei numeri di gara, veloce e spartana, si svolge sotto un gazebo: il pacco gara contiene una bella canotta con il profilo altimetrico della corsa. Controllo del materiale obbligatorio e via, siamo liberi di tornare all'auto e strappare qualche minuto di sonno, come Matteo, o di andare a caccia di un bagno, come immancabilmente faccio io. Camminare su e giù per il prato mi rosicchia via quel poco di speranza che nutro per questa gara: il polpaccio fa malissimo... Non riesco nemmeno a mascherare un po' l'andatura zoppa.
Mi imbatto nell'unico altro concorrente italiano, oltre a noi, Maurizio. Non è un appuntamento noto, questo, dalle nostre parti; del resto, si tratta di fatto di una prima edizione, visto che, l'anno scorso, la gara, al vero primo appuntamento, è stata interrotta per il maltempo. Partenza prevista per le quattro e mezza; pian piano, dai quattro punti cardinali, i lumini convergono intorno al gazebo ed alla piccola struttura in legno che fa anche da bar. Non riesco a capire se questo sia un campo sportivo, o qualcosa del genere. Anche Matteo si risveglia dal torpore: basta dirgli che c'è da mangiare... C'è anche del caffé, disgustoso, ma pur sempre caldo.
Tra il brusio della folla, intuisco poche parole del breve discorso introduttivo, rigorosamente in francese. Tracanno il caffè, supero il rito della prima spunta. Pochi minuti dopo, con un po' di ritardo, il via, si parte. Al trotto, purtroppo, con grande strazio per la mia gamba inabile. Meno male che la pendenza quasi subito s'impenna, su per una strada sterrata e fangosa in mezzo al fitto del bosco. Le stelle spariscono, mentre ci facciamo strada calpestando terra grassa ed appiccicosa alla luce della frontale. Combatto, come sempre, con l'affanno della partenza, con il cuore che sembra sul punto di scoppiare, ed anche, questa volta, con la gamba da tenere il più possibile al riparo dagli sforzi, facendo peso ancor più del solito sul bastoncino. Purtroppo, in salita, non posso fare altro che appoggiare la punta del piede, quindi "tirare" il polpaccio; non posso che sperare che la situazione non precipiti.

Una dopo l'altra, le lucine dei compagni di gara, duecento persone più o meno, si allontanano. Le intravedo formare una fila ondulata, nei rari sprazzi di visuale liberi dal bosco. Risaliamo in mezzo agli alpeggi, belle case in legno e pietra. Dietro di me, oltre al fido Matteo, restano ben presto solo due persone con le radio: sono le "scope". Li accompagna un bel cane bianco e nero, snello, un cucciolone pieno d'entusiasmo: quello che, secondo i suoi amici umani, dovrebbe fare da pungolo per i podisti recalcitranti, a suon di morsi. "Stimulateur", sottolineano Ma tutto mi sembra questa bestiola, fuorché un animale minaccioso.
Quel che salta all'occhio, subito, è che seguire la strada giusta non sarà così facile. La segnaletica è quantomeno scarsa: un paio di volte, già nei primissimi km, manchiamo i bivi cruciali. Nulla d'irreparabile, ma non è affatto incoraggiante la faccenda. Va bè che io posso contare su Matteo, che è un segugio e troverebbe la strada giusta anche nel più intricato dei labirinti, e va bè che è buona norma fermarsi se per qualche centinaio di metri non si vedono più segnali, ma...

Finalmente, la prima luce del giorno, la prima scia d'azzurro. Osservo con rammarico che le giornate si sono già accorciate in modo sensibile. E' l'ora più fredda; l'aria pizzica la pelle. Qualche sbadiglio di troppo, a ricordarci, se ce ne fosse bisogno, che due ore e mezza di sonno non sono la preparazione ideale per un trail da cento e rotti km. La salita è aspra, impegnativa a tratti; di tanto in tanto, poi, spiana, attraversa un prato, si rituffa nel bosco. Ricordo poco del profilo altimetrico: somiglia all'elettrocardiogramma di un paziente molto agitato.
L'ambiente si fa sempre più selvaggio e pelato, nella prima luce di una splendida alba. Il polpaccio duole, ma, per il momento, sembra sopportare lo sforzo: il mio terrore è che, prima o poi, ceda... Sono costretta a camminare in modo innaturale, asimmetrico, caricando il peso, per quanto possibile, sulla gamba sana. Matteo, paziente, segue e non fiata. Ci lasciamo alle spalle definitivamente il bosco, per inoltrarci lungo un sentiero stretto, di terra secca e polverosa e pietre. Si vede già la nostra meta, il primo colle; c'è gente appollaiata lassù. Ad onor del vero, c'è gente dappertutto: il controllo dei passaggi è manuale, ma capillare; ogni pochi km si incontra un omino che segna su un foglio il nostro numero di pettorale, e non lesina mai un complimento ed un incoraggiamento. La Roche Pourrie, quota 2000 m circa: sembra un colle, in verità, nel senso che, effettivamente, qualche metro di dislivello lo si perde, dopo. Ma la salita ben presto riprende, blanda, a mezza costa, lungo uno splendido pendio di erba verdissima alternata a pietre, un sentiero così stretto che sembra quasi insufficiente al passaggio. Non posso dire di star bene; non capisco se questa strana sensazione sia dettata solo dal disagio di avere al seguito Matteo, che sta certo mordendo disperatamente il freno, o se proprio alle gambe manchi una marcia, oggi. Si risale di buon passo verso il prossimo passaggio in quota, il Col des Lacs, quota 2.200, anch'esso ben presidiato: e già qualche fuggiasco l'abbiamo raggiunto, anche se il cuoricino fatica ed il fiato è tremendamente corto. Dai Gian, non ti preoccupare, può solo andar meglio. Speriamo. Brontolo in silenzio, tra me e me; povero Matteo, almeno una volta ogni tanto, devo sforzarmi di non trattarlo da parafulmine. La discesa che segue è lunga e travagliata per il mio povero polpaccio irrigidito; anche ai bastoncini tocca fare gli straordinari. Si scende tra piante di rododendro ed una fioritura maestosa, di tutti i colori; sembra che questi sentieri, spesso poco più che tracce, esistano solo per noi corridori.

Il tracciato di gara intercetta una strada sterrata in leggera salita, che inviterebbe anche a correre: ma oggi, per me, correre è davvero impensabile. La gamba destra è in condizione precaria; la caviglia sinistra fa quel che può, ma risente del superlavoro. Affrontiamo poi un traverso in leggera risalita, attraverso il prato ed accanto ad una baita; tutt'intorno è pascolo, campanacci di mucche e latrati di cani. Sarebbe paradisiaco, se non fosse per la fiacca che mi tormenta. Procedo, ma con poca fiducia nei miei mezzi. Il ristoro, che già Matteo mi aveva preannunciato, offre un po' di conforto; ci arrivo quasi senza fiato e senza forze. Zucchero, l'unica cosa che desidero è zucchero; già da lontano, in mezzo al prato ed ai feticci dello sport invernale, i mostruosi impianti di risalita, io punto la bottiglia della Coca Cola, nemmeno fossi un cecchino. Al tavolino, inondato di sole, arrivo con un senso di gioia e liberazione: cinque minuti di tregua, datemeli... Tracanno litri di bibite dolci, dalla Coca Cola all'acqua in cui sono diluiti i succhi che si usano per i ghiaccioli; mangio qualcosa, ma senza convinzione: più che altro, per la consapevolezza di dover immagazzinare calorie. Frutta secca ecubetti di zucchero, oltre a qualche spicchio di arancia, ecco tutto quel che riesco a buttare giù. Dietro di noi, al ristoro, giungono le due scope, con il cagnolino; se non siamo gli ultimissimi, poco ci manca.

Con poca convinzione, recupero i bastoncini e riprendo il cammino; Matteo non tarderà a raggiungermi. Breve discesa e poi un bel sentiero tra sassi bianchi e fiori di ogni colore, al ritmo di un corridore che mi precede di poco. Segue una rapida, e ripida, salita a tornantini; so che dovrei metterci un po' di buonsenso, ma la salita è l'unico tracciato in cui mi sento davvero viva... Su veloce, per quanto possibile, all'inseguimento dei pochi fuggiaschi ancora alla mia portata, tornante dopo tornante, occhi a terra. Mi piacerebbe, sì, ammirare il panorama: il guaio è che, appena distolgo lo sguardo dalla meta del mio passo, m'inciampo. E non è il caso di aggiungere acciacchi agli acciacchi, proprio no.
La salita culmina poco oltre i duemila metri di quota; la successiva, lunga discesa mi fa perdere dislivello e coraggio. Questa non è la stanchezza di oggi, è fiacca che mi porto dietro ormai da tempo, che colpisce il corpo ma anche lo spirito, a quanto pare. E c'è l'incubo della barriera oraria... Al barrage, che è barrage sia per l'acqua del lago che per i ritardatari del trail. Perché me l'ha detto, Matteo, perché? Dovrebbe ormai saperlo, che io con l'orologio non voglio avere a che fare, in questi frangenti. Non mi serve a nulla, sapere quando il cancello verrà chiuso e qualcuno fermerà la mia gara; tanto, non posso farci nulla, non posso andar più forte, oggi meno che mai. Più incespico in discesa, più il mio umore rotola giù verso fondovalle, in compagnia dei sassi che inavvertitamente smuovo o calcio. Gian, non è possibile... Sei qui perché l'hai voluto tu; non vedevi l'ora, e adesso... Che senso ha questo muso lungo? Questi pensieri cupi, quasi di rabbia, che non puoi rivolgere a nessuno se non a te stessa? Non lo passeremo mai, quel cancello. Matteo non parla, non commenta, ma si vede, che è scettico. E se è scettico lui, di solito piuttosto incline a ritenere più che possibile anche l'impossibile... Sotto un sole ormai alto e deciso, dal sentiero scendiamo lungo una bella strada sterrata, in leggerissima salita, che costeggia un lago artificiale. Splendido... Mi sembra d'aver capito, dai discorsi delle due scope, che ci toccherà compiere il giro quasi completo dello specchio d'acqua. Matteo vorrebbe correre, m'invita a farlo; a suo rischio e pericolo, perché in questo momento ho i nervi a fior di pelle, mille pensieri neri che s'affollano, il rammarico di non avere alcuna speranza, il terrore della gamba che da un momento all'altro potrebbe inchiodarsi. Altro che correre. Mai come in questi momenti vorrei essere sola, poter decidere per me stessa senza creare danno o fastidio ad altri. E perché questi due continuano a starci attaccati alle costole? Va bene, il loro compito è sorvegliare le ultime anime penitenti della corsa e controllare che nessuno si disperda... Ma devono proprio restarci per forza sempre appiccicati, come avvoltoi che volteggiano sulle nostre teste? Non possono lasciarci dieci metri di pace? E quella radiolina che continua ossessivamente a gracchiare... Gliela farei ingoiare!

Così rimugino e cammino di buon passo lungo l'acqua del lago, appena increspata dal vento, luccicante di raggi del sole. I due che fanno da scopa sembrano non capire; restano per un po' al passo, insieme a noi, poi allungano le falcate e via, si allontanano. "Ci fermano", continuo a ripetere, "Secondo me ci fermano, vedrai. Sono andati avanti, magari proprio al punto di controllo; ci aspettano lì solo per annunciarci che siamo kaputt". Ne sono più che convinta, e già la tristezza avvolge le giunture, rallenta il passo. Superiamo la diga: alla nostra destra il lago, alla sinistra un salto di cemento impressionante, due scalinate che sembrano scendere dritte all'inferno. Ed una strada asfaltata che risale, lì accanto, a tornanti. Lungo il lago, camper parcheggiati, famigliole in trasferta, a passeggio o a prendere il sole; voci e frastuono di tifo: non è per noi, ma chissà per chi. Ho visto un paio di ciclisti sui tornanti della salita: forse l'applauso è per loro. Del resto, proprio oggi si corre una gara ciclistica sul giro del Monte Bianco, che passa proprio da queste parti. "E' inutile – insisto – tanto ci fermano", ormai sono rassegnata. Scorgo da lontano la sagoma delle due scope, con il cagnetto al guinzaglio, che confabulano con altre persone: "Ecco – penso con il cuore che impazzisce e le lacrime agli occhi – è finita...". Mi avvicino trattenendo il fiato; uno di loro mi guarda, mi viene incontro... E segna il mio numero di pettorale. Via, avanti, è fatta, possiamo andare, ancora. Quasi non ci credo... Questa è, secondo il mio fido compagno di viaggio, una salita lunga. Bene, speriamo che la salita lunga giovi ai miei garretti, al mio neurone, al mio cuore. Dobbiamo riguadagnare quasi mille metri in una botta unica, destinazione Col du Coin: dai Gian, è come se la tua gara fosse nata un'altra volta adesso. Con calma, passo dopo passo. Ancora bosco e tanta acqua, ruscelli a breve distanza l'uno dall'altro; più volte riempo la borraccia, tra i rimproveri di Matteo che è, in queste cose, molto più attento e salutista di me. Io resto dell'idea che l'acqua che bevo qui non possa far più danno di quella che raccolgo nel bicchiere dal rubinetto di casa, e se anche ci sono in giro le mucche, beh... A qualcosa dovrà pur servire, il sistema immunitario. Povero Matteo, fa di tutto per essermi gregario ideale: e lo è... Il problema non è lui; sono io, capricciosa, preda degli eventi e delle emozioni. E' sempre la solita storia: quando corro da sola, soffro per forza in silenzio, anche perché ben presto cado vittima di una sorta di dissociazione per cui io stessa non sopporto più le mie lamentele, la mia debolezza, e finisco, come si suol dire dalle mie parti, per "darmi un andi". Se però accanto a me c'è qualcuno e, peggio ancora, qualcuno che si affanna in mio aiuto, allora, chissà perché, in questi frangenti estraggo il peggio del peggio del mio sadismo, quasi mi compiacessi della mia cattiveria, un po' come la strega di Biancaneve. Sono un mostro...

La lunga salita mi rimette in pace con il mondo, anche perché so che, tra non molto, arriveremo nei paraggi di un ristoro. Non posso dire di aver fame, ma farei volentieri il pieno di zollette di zucchero. E Coca Cola, naturalmente. Quando la fatica tormenta il corpaccione, i desideri diventano davvero elementari; basta poco, per dare un po' di conforto. Un passo dopo l'altro, sempre con l'aiuto dei bastoncini, sempre con Matteo fedele al seguito. Compaiono all'orizzonte alcuni compagni di corsa, alla spicciolata: anche questa volta, la salita non mi tradisce. Vero, son partiti tutti come pazzi, ma sapevo che avrei raccattato qualche vittima della propria eccessiva fiducia, prima o poi. Il sentiero ci riporta ben oltre quota duemila, in un teatro fantastico di guglie bianche, illuminate dal sole, quasi spettrali nella loro severità. Sembra di essere sull'asteroide immaginato nel film "Armageddon". Seguo la traccia con gli occhi, finché m'imbatto in una piccola costruzione: piccola, vista di qua... Un rifugio, possibile, lassù, dove osano le aquile ed i masochisti come noi? Eppure sì, pare proprio un rifugio, l'unico baluardo di presenza umana da queste parti. Quindi, sarà lì, il punto di ristoro. Matteo sogna la pasta, ma io la vedo dura: secondo me, sarà un ristoro spartano, perché le vettovaglie, quassù, credo possano arrivare solo in elicottero... O a spalle!
Ancora una sequenza di tornantini sassosi, alla testa di questa vallata aspra ed inondata di sole, ancora un po' di tempo per ammirare le guglie aguzze, se potessi farlo; peccato che le uniche punte che io posso permettermi di tenere d'occhio siano quelle dei miei piedi. Altrimenti, non appena distolgo lo sguardo, m'inciampo.
Sono ben lieta di raggiungere il rifugio: ho fame, sì, ma in particolare ho una gran voglia di zucchero, oltre che, come sempre, di bibite dolci. Ed ho bisogno di qualche minuto di pausa. Abbiamo superato da poco il quarantesimo km: sembra impossibile che, in tutte queste ore di marcia, abbiamo percorso così poca strada... E' vero, io sono un po' fiacca ed ho una camminata incerta, oggi, per via del polpaccio ribelle; sta di fatto, però, che il tracciato è aspro in salita e tutt'altro che agevole in discesa. Insomma, non c'è da preoccuparsi per ciò che sembra un ritardo; almeno, spero. Certo che, ancora una volta, le previsioni di Matteo circa l'orario di arrivo si rivelano del tutto sballate; fa sempre i calcoli su se stesso, lui, ma si ostina a non tener conto della palla al piede.

Al tavolino del ristoro, indugio un po' tra bicchieri di Coca Cola, formaggio, frutta secca, pistacchi, e faccio più volte il giro, anche se non è che riesca a trangugiare granché. Soffia un leggero vento freddo, da cui mi ripara la piccola folla di corridori arenati quassù: molti seduti, il volto tirato dalla fatica. Meno male, non sono l'unica a trovare duro il percorso. Pentoloni di the caldo vanno e vengono dall'interno del piccolo edificio in legno, trasportati da volontari solerti e sorridenti. Qui non c'è traccia delle manie ecologiste esasperate che dilagano, purtroppo, nei trail italiani: un bicchiere di plastica non si rifìiuta a nessuno. Già che ci sono, faccio una breve visita al bagno del rifugio: è una costruzione separata, anch'essa in legno chiaro, che merita senz'altro una menzione; lo "scarico", per chiamarlo così, non è in un normale water, bensì direttamente a terra, sulla paglia. E non c'è sciacquone: un cartello prega di buttare giù, una volta conclusa la seduta, una manciata di paglia, o segatura, insomma quel che si trova nel cassone accanto al "trono", a seconda della stagione, lì a disposizione. Non so quanto tutto ciò sia igienico; ho l'impressione che in Italia un sistema del genere sottoporrebbe il gestore del rifugio ad un fuoco incrociato di denunce da parte dell'ASL, dei NAS, dei Carabinieri, delle Guardie Forestali e financo della Marina Militare. Ma a me piace: questo sì, sembra ecologico.

Matteo è in attesa, con la giacca indosso. L'aria quassù è gelida, nonostante la luce del sole. Ripartiamo sulla pietraia: una gioia per il mio precario equilibrio, soprattutto quando, alle pietre, si aggiunge la neve. Neve morbida, per fortuna, e in piano. Incespico fino a riguadagnare il sentiero che porta su, con una bella pendenza, fino al Col du Grand Fond. Anche qui, immancabili, gli uomini dell'organizzazione, con il loro bravo taccuino per la registrazione dei numeri. Ovviamente non è finita qui: se c'è una cosa che ho capito, di questo trail, è che ad una salita non corrisponde una discesa. Mai. Il sentiero prosegue come traccia tra le pietraie; di fianco, un pendio ripido che non concederebbe sconti al malcapitato che decidesse di voler scivolare. E, per condire il tutto, non ci facciamo mancare un po' di passaggi che Matteo supera con passo da Nureyev, mentre io preferisco la tecnica dell'Uomo Ragno: mi aggrappo, con ogni appendice più o meno prensile, ad ogni possibile appiglio, mi spalmo sulle rocce, sperando che quella storia dell'attrito, che il docente di fisica a suo tempo ha inutilmente cercato di inculcare nel mio neurone, sia proprio vera. Inutile dire che, dietro di me, si forma un incolonnamento pari solo a quelli di Torino, davanti alla Stazione di Porta Nuova nell'ora di punta e con i lavori del metrò in corso.

Incespico e mi lamento, e dire che ancora non so quel che tra poco mi attenderà. Passaggio alla Breche de Parozan: ha un aspetto inquietante già in salita, un sentierino cattivo e ripido, aereo su un panorama tanto bello quanto minaccioso di lame e guglie di roccia, e nuvole in arrivo. Non parliamo poi di quel che tocca subire in discesa... Più che scendere, qui al povero corridore è richiesto di rovinare a valle attraversando una ripidissima pietraia. Marca malissimo, e Matteo lo intuisce un attimo prima di me. Mi fa strada e si pone tra me ed il baratro: ma non è che la cosa mi tranquillizzi, affatto; anzi, aggiunge al mio terrore anche la paura di scivolare e trascinare di sotto anche lui. Ha un bel dirmi che, se si scivola sulla pietraia, prima o poi ci si ferma: è quel che accade prima, appunto, che mi terrorizza... Scendo alla cieca, tutta piegata con il fianco verso la montagna, cercando di mettere i piedi di taglio; ma è panico ogni volta che l'appoggio scivola giù, trascinando un mucchio di pietruzze con un rumore che è quasi di festa. Non si vede più nulla o quasi del panorama; la nebbia pian piano avvolge la parte alta della valle. Sempre più terrorizzata, cerco di seguire i consigli di Matteo mentre, nella mia mente confusa, lo stramaledico, come se fosse colpa sua il fatto che io sia in questa situazione complicata: in realtà, sia della mia presenza che della sua sono responsabile io sola. Ma ho bisogno di un capro espiatorio e, per sua sfortuna, lui è l'unico disponibile. Rotolo giù tra i singhiozzi, senza riuscire a scorgere la fine dell'incubo, perché la pietraia sfuma nella nebbia; vedo figure multicolori che mi passano avanti, veloci e sicure là dove io non sarei in grado di muovere mezzo passo senza l'aiuto di Matteo. E, quando la pendenza pian piano sembra attenuarsi, ed io recupero un minimo di posizione eretta, metto in moto il neurone di autodifesa: questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso... Non abbiamo percorso nemmeno cinquanta km, stiamo viaggiando come lumache; se i km che ci attendono sono come quelli che abbiamo superato, a me ci vogliono due settimane per completare il giro... Il mio fido gregario fa del suo meglio per consolarmi: "Ma no dai, da qui in poi dovrebbe essere meglio". Ma ottiene l'effetto opposto, di rinvigorire il fuoco della mia rabbia: "Come diavolo fai a sapere come sarà il percorso da qui in poi! Smettila di prendermi in giro", sono di questo tenore i pensieri che agitano il vuoto della mia scatola cranica, ed ogni tanto, sfuggendo al controllo, arrivano anche alle corde vocali. "No, basta, se è così, io al prossimo ristoro mi fermo, lascio perdere". Lo dico, e ne sono convintissima. Matteo, stoicamente e saggiamente, tace; tanto, qualsiasi cosa dicesse, non farebbe che fomentare la mia stizza. Mi conosco, sono così; a mente fredda, poi, ci ripenso e concludo d'essermi comportata da ragazzina capricciosa, senza una punta di razionalità... Ma in questi momenti vorrei tutto ed il contrario di tutto, vorrei un fantoccio su cui scaricare tutte le colpe dei miei guai.

La lunga discesa su Plan Mya ha l'effetto di sbollire un po' la rabbia ed attenuare, appena appena, il ricordo del terrore sulla pietraia. Le nuvole hanno ormai coperto il cielo; la nebbia avvolge le cime e restringe lo sguardo. Non appena mi fermo a mangiare un boccone, il freddo mi assale, e dire che siamo sotto i duemila metri. Qui, una piccola folla accoglie i corridori: volontari, parenti, soprattutto bellissimi cani, quelli che io son più felice di incontrare. Due coccole sono meglio di qualsiasi farmaco anti ansia. Si riparte, ovviamente: Matteo è più che determinato; io sono invece molto titubante, con lo sguardo fisso ai sentieri che scompaiono nella nebbia. Non so che ora sia, ma è pomeriggio inoltrato; non resterà molto tempo prima che venga buio. E se la nebbia dovesse rimanere? Con la segnalazione del percorso così scarna e precaria, sarebbe un incubo.
Attraversiamo una strada asfaltata, in mezzo ad un parcheggio ed alcuni bar, con un certo traffico di turisti, poi ci ributtiamo nel prato e via, ancora in salita. Destinazione, la Crete des Gittes, un bel passaggio appunto in cresta: dal sentiero, prima ripido e poi più dolce, si vede un colletto e sembra di dover scendere, dopo; invece, il colletto non è affatto un colle e nasconde, con un roccione, il proseguimento della traccia, con tanto di targa che indica il sentiero militare. La nebbia sembra essersi un po' diradata, quel tanto che basta per lasciarci camminare senza rischio. Ne approfitto per mangiare un po' di frutta secca e trangugiare mezza bustina di Nimesulide, per pietà della mia gamba malconcia; siamo più o meno a metà strada, anche se il dislivello, almeno sulla carta, dovrebbe essere per la maggior parte alle spalle. Già, dovrebbe...

L'illusione dura poco. Ben presto, sulla successiva salita, torniamo immersi nella nebbia. E questa volta sembra davvero fitta. Complice la luce del sole, che ormai tende a calare, si vede davvero poco; individuare le tacche segnavia diventa un problema. Seguo Matteo, ma con il cuore sempre più in tumulto, e non per la fatica. Le previsioni del tempo hanno escluso, per oggi, il rischio di pioggia, ma in alta montagna non si può mai fare affidamento su alcuna certezza. Si fa sera e, già così, non si vede più nulla; se mai si mettesse a piovere...
Dal nulla, spunta davanti al nostro naso un edificio; è il Refuge de la Croix du Bonhomme. Ne esce, intirizzito, un volontario che ci chiede se sia tutto ok. Rispondo un sì per nulla convinto. Il sentiero prosegue a mezza costa; non sento pendenza particolare né in salita né in discesa: perché ormai le gambe sono l'unica forma di percezione che mi è rimasta. Con la nebbia e le lenti appannate, gli occhi sono inutili. La paura si fa strada senza più vergogna. Un passaggio difficile per me, su pietraia, per superare un torrente. E poi... Pioggia. Poche, grosse gocce, ma sufficienti a farmi perdere quel barlume di controllo che avevo sin qui conservato. Chiedo a Matteo se non sia il caso di lasciar perdere e tornare indietro, al rifugio: domanda oziosa, conosco già la sua risposta, è no. Continuo a corrergli dietro, fatico a tenere il suo passo, fatico a vedere il sentiero, un turbine di pensieri angosciosi in mente e lacrime che non smettono di sgorgare. Le tacche di vernice che segnano il sentiero sono poche, rade, quasi invisibili; non sono mai certa che ci troviamo sulla strada giusta. Che succederà quando sarà notte? Se capitasse di sbagliare strada, chi potrebbe ritrovarci? Se accadesse di mettere un piede in fallo, con il buio e la nebbia? Ho il terrore di perdere l'orientamento... Che poi, a ben pensarci, forse non sarebbe nemmeno un evento così tragico; alla peggio, basterebbe fermarsi ed attendere l'arrivo del giorno. Cosa che però, al freddo della notte a duemila metri, sudati ed umidi, sarebbe tutt'altro che piacevole. La pioggia s'interrompe, non il nostro cammino lungo questo sentiero su e giù che sembra non avere mai fine. Salire, scendere, ancora salire, ma la fatica non si sente più, superata ormai da ben altre preoccupazioni. Ho un bel pulire gli occhiali, non c'è nulla da fare. Il Col du Bonhomme è un supplizio di freddo e nebbia; la discesa lunga, tormentosa, senza che si possa vedere nulla. Non ce la faccio più: la luce del sole sta ormai sfumando, quella poca che riesce ancora a penetrare la nebbia. Un gabbiotto, due assistenti della corsa, poi ancora discesa e pietre. E pioggia: ancora goccioloni, quasi Giove Pluvio si stesse divertendo a mettere alla prova i miei già fragilissimi nervi. E' con un misto di terrore e rabbia che mi scaglio contro Matteo: non ha nessun senso continuare così, è un rischio inutile e stupido, possibile che non lo veda, proprio lui che accompagna gente in montagna? E' una disperazione incontenibile la mia, che si arrotola su se stessa; se finora ho stretto i denti, proprio nel senso letterale del termine, per timore che i singhiozzi sfuggissero insieme alle parole, a questo punto non me ne importa più nulla, della figura barbina che faccio. Imploro Matteo di ritirarci al prossimo ristoro: tra poco sarà buio... Il mio compare non sente ragioni; i prossimi colli raggiungeranno i duemila metri di quota, non di più, e poi ormai è quasi fatta, non si può mollare. Tiene moltissimo a questa corsa, mentre io ormai maledico me stessa per averlo iscritto, anzi, per averci iscritti entrambi. Incredibile, come la percezione del pericolo in certi momenti ingigantisca in modo del tutto abnorme le situazioni. "Tu puoi fermarti, se vuoi; io proseguo, mi sento bene, voglio finire". Ed io ancora a chiedermi, a chiedergli, come faccia a non capire; ho il terrore di proseguire, sì, ma avrei un terrore mille volte più forte se restassi lì, al ristoro, sapendo che lui è ancora sui sentieri, nel buio, nella nebbia. Condizione che a Matteo pare la più normale del mondo; alle mie obiezioni non fa che rispondere che "non c'è nulla di strano, nulla di pericoloso". Ed io m'infurio: sfido chiunque a trovare un montanaro, anche esperto, che reputi normale andar per sentieri di notte, con la nebbia fitta, senza alcuna certezza circa l'evoluzione meteo, senza uno straccio di cartina, fidandosi solo di un itinerario che avrebbe dovuto essere tracciato e non lo è. Ma porca miseria... Lo capisci o no, che se finisci fuori traccia, se ti succede qualcosa, non ti trovano più fino a chissà quando? E' proprio così assurdo quel che sto dicendo?

Niente. Come parlare ad un pilone di cemento, anzi, il pilone sarebbe più recettivo. Ha il coraggio di chiedermi, il maledetto, se la ragione della mia preghiera di ritirarci entrambi sia "perché poi ti dispiace se io finisco e tu no". E questa è la goccia che fa traboccare il vaso: ma con chi diavolo ho avuto a che fare io? Non solo oggi, ma nei mesi, negli anni passati? L'impulso è quello di prendere una pietra e spaccargliela sulla testa... Vero, io ho sempre sostenuto il valore del libero arbitrio ed il sacrosanto diritto di fare quel che ciascuno vuole di se stesso e della propria vita. Quindi è anche giusto che Matteo mi accusi, adesso, di rimangiarmi tutto: perché, se lui continua, allora continuo anch'io; non potrei mai pensare di fermarmi sapendo che lui va a rischiare da solo. No, niente da fare, se davvero è così pazzo da voler continuare, allora io lo seguo. Non potrei perdonarmelo, mai, se dovesse accadergli qualcosa. Ma possibile che non riesca a capire, proprio lui, che ho paura, che gli sto chiedendo di fermarsi per favore? Possibile che, invece di cavillare su mille questioni filosofiche circa il mio comportamento a suo parere assurdo, non possa semplicemente accontentarmi, levarmi questo tormento, perché... Per me?
Non c'è più niente da dire, no, proprio niente. Solo camminare, seguire i suoi piedi, in silenzio, masticando rabbia e delusione perché questa persona che ho davanti forse non è quella che credevo, è una specie di squilibrato esagitato per una corsa che finiremo, se la finiremo, ultimi o quasi, forse fuori tempo massimo, a qualsiasi costo ed a qualsiasi rischio. Io stessa, proprio io che poi sono l'invasata per eccellenza, l'avrei mandata al diavolo la corsa, senza nemmeno pensarci. Lui no. Ah, ma quando avremo finito, se finiremo...

Un'amarezza senza fine accompagna la salita al Col du Joly, all'imbrunire, ed un silenzio di tomba, labbra serrate fin quasi a far male, nebbia e fatica. Da ore ormai intorno non si vede più nulla. Solo, a tratti, un po' di spazio di sentiero davanti ai piedi. Non c'è modo di distrarsi; la nebbia chiude una campana ermetica su di me, così che io possa continuare a rimestare nei miei pensieri cupi.

Al Col du Joly, su una strada sterrata, è piazzato il punto di ristoro. Mi avvicino al tavolo malvolentieri, senza dire una parola; mangio e bevo senza voglia né interesse. Uno dei volontari parla di "orages", temporali; Matteo s'informa: pare che la nebbia sia destinata a diradarsi; si prevede una notte serena. Certo, ma se non fosse così?

Ormai rassegnata, arrabbiata, stanca, mi rimetto in marcia senza battere ciglio, anche se il neurone, disperato, m'implora di restare lì. Con Matteo, mi segue anche un corridore francese. Attaccano bottone, loro, scherzano: avrei voglia di ucciderli... Soprattutto uno di loro. Rimbomba in testa la domanda, "Possibile che non abbia capito proprio niente?". Niente della ragione che mi spingeva a chiedergli di fermarsi, niente della mia paura. Via, avanti. Un muro di nulla: sono completamente cieca. Vedo i piedi di Matteo solo se gli resto quasi appiccicata. Fermi tutti, così non va, questa è la direzione sbagliata; andiamo bene, siamo appena ripartiti... Via lungo un sentiero accidentato, un piede davanti all'altro senza veder nulla, altro che le tacche di vernice. Mi affanno per non perdere terreno, strizzo gli occhi ma non basta; ogni tanto, Matteo si ferma, mi aspetta, si procede senza dire una parola. Ancora trenta km... Trenta, un abisso, in una gara come questa, con difficoltà di questo genere, con la notte e la nebbia. Ancora due salite da tre, quattrocento metri l'una, in teoria, ma qui si sale sempre, e per dislivelli che sembrano interminabili. Ho ormai perso la nozione del tempo, dello spazio; è come se stessi seguendo un perfetto estraneo, senza nemmeno più idea del motivo; di tanto in tanto la nebbia si squarcia, lascia intravedere le stelle, poi si richiude e torna ad inghiottire tutto. Possibile che si salga ancora? L'impressione nettissima è che il dislivello dichiarato dall'organizzazione sia ben inferiore alla realtà; probabilmente, nel misurarlo, si è tenuto conto solo delle vere e proprie salite e non degli innumerevoli saliscendi, che però contano, eccome se contano: chiedetelo ai miei garretti!

Solo nella lunga discesa verso Les Saisies, sembra di poter dire che il volontario al ristoro, parlando del meteo, aveva ragione. Le stelle adesso si vedono per davvero, tantissime, in un cielo nero e limpido; stelle, luci dalle vallate, profili neri delle montagne. Pian piano, mi ricordo che intorno a noi c'è un mondo. E comincio a pensare che, forse forse, è fatta davvero... Con la nebbia, si scioglie anche il lungo, pesantissimo silenzio di piombo. A Les Saisies, al ristoro, troveremo un po' di conforto alla stanchezza ed alla tensione. Dovremo salire ancora una volta a quota duemila: ma, per ora, mi godo il conforto del bosco e degli alberi di bassa quota. Il sentiero scende, ma poi risale, prima di scendere del tutto. Con l'adrenalina, se ne va anche il vigore del giorno; mi assale un sonno inarrestabile, tanto che quasi non riesco più a tenere gli occhi aperti. Ombre e rami degli alberi diventano figure umane, o animali, che sembrano spuntare all'improvviso sul sentiero; anche le pietre prendono vita e si spostano da sole... Chiedo qualche minuto di tregua e mi viene concesso: ci sediamo così, per terra, nel bel mezzo del sentiero, abbracciati ed appoggiati l'uno all'altra. Un sonno profondissimo che a me sembra eterno, ma dura, credo, solo pochi istanti; il tempo che il freddo si faccia strada nelle membra intirizzite e negli abiti umidi, e siamo ancora in marcia. Le luci del paese sono sotto di noi: sulla distanza, né io né Matteo azzardiamo alcuna valutazione. Ma sembra lontanissimo, come tutte le mete agognate.

Raggiungiamo, finalmente, il paese di Les Saisies, km 88, illuminato di lampioni ed insegne, ma ovviamente deserto a quest'ora di notte. Ultimo regalo prima del ristoro, una scalinata metallica da scendere veloci: un supplizio, per le gambe... Poi, dopo una breve ricerca, troviamo finalmente il tavolo del ristoro. Pensavamo fosse ormai tardi... Invece i volontari ci accolgono ancora sorridenti, entusiasti, con la tavola imbandita di ogni golosità. Formaggio, patatine fritte, frutta secca, trangugio tutto quel che mi capita a tiro: e zucchero, e Coca Cola, e the caldo. Da seduta, questa volta. Ci dicono che, alle nostre spalle, c'è ancora una trentina di persone, e che i ritiri sono stati tantissimi. Benzina sul fuoco dell'entusiasmo per entrambi, adesso, anche se a me rimane, in fondo in fondo, un senso di amarezza, per aver corso un rischio che non aveva senso e per, beh sì, anche per altra ragione. Va bè Gian, dai, mica puoi pretendere che sia sempre il povero Matteo a capire te. A volte dovresti essere tu a sforzarti di capire lui. Però...

Rifocillati e rinfrancati, ci rimettiamo per l'ennesima volta in marcia, all'inseguimento di due lucine che ci precedono e ci fanno strada. Le raggiungiamo e superiamo poco dopo esserci lasciati alle spalle le case di Les Saisies, proprio dove inizia la salita. Un rebus, da qui in poi: si sale in mezzo ad un pascolo, dove la ricerca delle tacche di vernice è più ostica di una caccia al tesoro. Interrompiamo il riposo notturno di una mandria di bovini tante paia d'occhi gialli ci osservano... Se fossimo incappati nella nebbia anche qui, avremmo corso il serio rischio di inciamparci nella pancia di una mucca, o, peggio, di un toro! Non si può dire che io mi senta esattamente a mio agio, qui in mezzo; forse sono l'unica escursionista sulla faccia della Terra che ha subito un tentativo di inseguimento da parte di una mucca, però me lo ricordo bene, quell'episodio.
La nostra traccia taglia il pendio secondo la linea più ripida possibile. Matteo sembra sicuro di quel che fa: a me non resta che seguirlo, con ritrovato vigore nelle gambe. L'idea di avere poco più di una decina di km davanti mi dà la sensazione di essere ormai arrivata alla fine. Anche se, per la prima volta nella mia esperienza di sportiva da lunga distanza, la paura passata non s'è dissolta del tutto, ora che le acque sembrano finalmente calme. Sarà che questa corsa ha riservato tante e tali sorprese che mi sembra impossibile che non ci tocchi ancora qualche scherzo da prete, che so, una rampa di due km con dislivello di seicento metri, un passaggio ad occhi chiusi su un ponte tibetano, un guado di torrente con i coccodrilli, i famosi coccodrilli del Beaufortain.

La salita ci porta dritti a sbucare su una strada sterrata, dove raggiungiamo e superiamo un gruppetto di concorrenti che se la prende comoda. Poi via, in discesa, nel buio del bosco: corricchio come posso, per non svegliare il can che dorme, ossia il polpaccio che, forse per merito di tutti i guai affrontati finora, ha smesso di dar segni di insofferenza. Varrà la teoria secondo cui un trauma si può superare vivendone un altro peggiore? Sembra di sì... Il muscolo che, fino a ieri mattina, era duro come il guscio di una noce, ora è tornato a guizzare quasi normalmente, per quanto possano guizzare i miei muscoli perennemente stanchi ed ingolfati.
Un colpo al cuore: la strada inverte, ancora una volta, la pendenza. Si torna a salire, ripido, nel bosco. Un ululato di rabbia e sconforto, all'unisono, squarcia la quiete della notte: "Bastaaaaaaaaaaaa!". Poche decine di metri, per fortuna, solo per raggiungere il punto di controllo. Organizzazione impeccabile davvero: ci sono uomini dell'assistenza ovunque, spuntano dove meno te l'aspetti, in cima ai colli, come gli stambecchi, o nel fitto della vegetazione, come i funghi. Poi la lunga, definitiva, infinita discesa verso Queige. Le luci si vedono, giù in fondo, ma si può perdere mille volte il conto dei passi necessari per arrivarci. Il paese sembra intravedersi tra le foglie, poi scompare, si allontana, si fa inseguire e si allontana ancora. Matteo tiene d'occhio l'ora ed aggiusta di continuo in avanti la sua previsione: lo sapevo, io... Ormai ho imparato a prendere atto della sua stima dei tempi e moltoplicarla per uno e mezzo, o due, per avvicinarmi alla realtà. Ventisei le ore di tempo massimo, e ne sono passate ormai quasi venticinque dal via. Quando arriveremo a Queige?

Il sentiero fende il bosco sempre più intricato: non ci par vero, finalmente, di scorgere il muro in pietra di un edificio. Le prime case del paese; slalom nelle viuzze strette, il campanile, la chiesa, le fioriere, la fontana. Il cielo rischiara appena, è la seconda alba che ammiriamo in questa corsa, ma ora non c'è tempo, né disposizione d'animo per la poesia. Seguiamo le frecce di vernice tracciate per terra, invadiamo il giardino privato di una casa, sempre giù verso il fondovalle, fino a sbucare proprio in fondo, sulla strada principale. E mò?
Buonsenso vorrebbe che svoltassimo a sinistra, percorressimo quei cinquecento metri di strada principale che ci separano dal luogo di partenza ed arrivo e ponessimo così fine alla nostra agonia. Ma non c'è alcun segno per terra che confermi questa teoria: e, a ben pensarci, sarebbe troppo facile, lontano mille miglia dallo spirito di questa gara. Giriamo in tondo, come trottole, alla ricerca almeno di una vaga indicazione che ci suggerisca cosa fare delle nostre ossa: poi, quando ormai abbiamo abbandonato la speranza e ci siamo decisi a seguire lo stradone, con la coda dell'occhio e della luce frontale scorgo un pallino di vernice. Elementare, Watson: se l'arrivo è alla mia sinistra, io devo andare a destra; mi sembra logico, come ho fatto a non intuirlo?
Un istante dopo, passiamo davanti al campeggio, ultimo punto di controllo: sudori freddi... Abbiamo rischiato di finire fuori gara per aver saltato l'estremo appostamento dei Cerbero dell'organizzazione! C'è mancato proprio un pelo. E si corre ancora, lungo il lago, con la prima, timida luce del giorno: ci hanno detto duecento metri, quindi ci saranno almeno ancora tre chilometri... No: incredibile dictu, stavolta siamo davvero arrivati. Un ponticello, il prato, due casette di legno, è fatta. Matteo ed io tagliamo il traguardo insieme. Mi chiede, il mio compagno di viaggio, se io non sia contenta, adesso, di aver portato a termine il percorso. A dire il vero, sono contenta sì, ma, a vivo, solo perché questa è la fine di un incubo... E mi spiace non ruiuscire a condividere l'entusiasmo di Matteo, visibilmente emozionato. Senza il suo aiuto ed il suo continuo pungolo, non ce l'avrei mai fatta, ma la convinzione di aver commesso un'inutile sciocchezza non mi abbandona ancora. Domani, forse, quando mi rigirerò tra le mani la bellissima medaglia di legno, intagliata con la sigla "UTB 2010". Per ora, ci vuole un passaggio veloce al ristoro, con the caldo, ed una doccia. Sono quasi le sei del mattino: venticinque ore e undici minuti per un percorso tutto sommato molto lento ed impegnativo: non si può nemmeno dire che sia un pessimo risultato. Trasferta al campeggio – rigorosamente in auto, perché duecento metri a piedi non li reggiamo più – doccia calda e conquista della prima piazzola disponibile, per un paio d'ore di sonno ristoratore. E poi andremo a caccia di una boulangerie per affogare i nostri dispiaceri in una baguette!

sabato 24 luglio 2010

10/11 luglio 2010 - Gran Trail Valdigne

"Ah sì, Giancarla Agostini". Non mi tocca nemmeno fare lo sforzo di estrarre la carta d'identità dal portafoglio: ormai devo essere famigerata a tal punto che, qui e là, il mio nome ricorre. La signora che distribuisce i numeri di gara mi consegna il pettorale 201 e mi mette in mano una penna ed un papiro da firmare: scarico di responsabilità, o qualcosa del genere. Pare che il mio certificato medico non risulti consegnato all'atto dell'iscrizione: eppure sono certa di averlo inviato via posta elettronica, e comunque ce l'ho, garantito che ce l'ho, e poi sono tesserata per due federazioni podistiche ed una ciclistica, più di così... E, soprattutto, credo di aver già avuto piena dimostrazione della solidità del mio cuoricino. "Firmo tutto quello che volete, anche un assegno in bianco, un bonifico... Basta che mi facciate partire!".

Al via della gara mancano ancora quasi due ore; c'è tutto il tempo per girovagare per Morgex, farsi un caffé, scambiare quattro chiacchiere, aggiungere un secondo caffè. Ormai è difficile percorrere dieci metri senza attaccare bottone: è vero, la categoria dei matti che si cimentano con queste avventure è di anno in anno più numerosa, ma ci sono i volti noti, gli assidui, quelli che son sempre dappertutto, come il prezzemolo. Proprio come me. L'unico guaio è che, per ricordarmi un volto ed associarlo magari anche ad un nome e ad una storia, dovrei incontrarlo almeno tre o quattro volte; capita così che, al festoso saluto di qualche corridore, io risponda con altrettanta enfasi, salvo poi rimuginare per un bel po': "Ma chi sarà mai costui? Dove l'ho già incontrato?".

In compagnia di Giorgio, faccio due o tre volte la spola tra il parcheggio, il palazzetto dello sport e l'area della partenza: c'è sempre qualc osa che hai dimenticato, qualcosa che hai lasciato in auto ma forse ti converrebbe portarti dietro, qualcosa che hai messo nello zaino ma, a pensarci bene, ti sembra inutile. Nel mio c'è l'essenziale: telo termico, giacca impermeabile, un cambio di maglietta e canotta, perché si prevedono temporali nel pomeriggio; ancora, la luce frontale, le batterie di ricambio, il bicchiere, l'acqua e la pappatoria. Scruto il cielo senza troppa fiducia: vero, per ora l'azzurro la fa da padrone, ma nel pomeriggio ci toccherà soffrire e stare all'umido. Le previsioni del tempo, ormai, non sbagliano più; inutile illudersi. Mi consola il fatto che un bollettino meteo affisso ad una bacheca nella zona della partenza annuncia lo zero termico a 4.400 m di quota: se non altro, non si patirà il freddo.

La partenza da Morgex, anziché da Courmayeur, novità di quest'anno per il Gran Trail Valdigne, mi dà l'impressione di essere un po' sottotono: non mancano i partecipanti, né il palco, né la musica, ma la sensazione è quella di un evento meno sentito, di un via meno intenso e coinvolgente. Meglio così, intendiamoci, per i miei gusti. Del resto, io stessa non sento più quella frenesia, quell'ansia che provavo in occasione dei primi trail. Non che io abbia in tasca la certezza di concludere la gara, beninteso; sono pur sempre poco meno di 90 km per 5.400 m di salita, una notte a spasso per sentieri. Però, oggi posso permettermi di sdraiarmi sull'erba del parco giochi, sgranocchiare quel che resta di una buona dose di focaccia e consolare, per quanto possibile, le paturnie del buon Giorgio, che si è iscritto alla versione "corta" della gara – corta si fa per dire, sono poco meno di 50 km – ma vorrebbe tanto poter cambiare idea... Ci ho provato, io, a richiedere lo spostamento del suo nome all'elenco iscritti del percorso lungo: ma la risposta è stata picche, chissà poi perché, visto che il costo delle due prove è identico ed era già stato pagato, in ogni caso, da un bel po'. Forse i boss non vogliono trovarsi a dover gestire un carosello di variazioni per colpa degli eterni indecisi. Poveretto, ha tutta la mia comprensione: piuttosto che prendere parte al percorso breve di una gara che prevede anche un itinerario più lungo, mi rinchiuderei in casa a cospargermi il capo di cenere; sarebbe una sofferenza troppo profonda. Ma tant'è... Godiamoci gli ultimi istanti di riposo, con la schiena appoggiata al morbido e la testa abbandonata sullo zaino; passeranno ore ed ore di tregenda, prima di poter assaporare un'altra volta un momento come questo.

Ennesimo caffé prima di entrare in griglia: sulla rotta verso il bar, mi imbatto in Teomat, alias Matteo Ghezzi, il vincitore dell'edizione 2009 del Gran Trail Valdigne ed ovviamente al centro dell'attenzione anche per quest'anno. Spero tanto che riesca a fare il bis... Caffé con lo zucchero: è una concessione che mi offro solo prima di una corsa o di un allenamento, contravvenendo alla regola secondo cui il caffé buono va sorseggiato amaro. E' una debolezza, lo so, ma ho un alibi; posso sempre scaricare la colpa su Giorgio, che, in fatto di caffeina, è un consumatore dipendente più incallito di me. Poi, via verso le transenne; primo controllo del chip, poi ci si trova un angolino defilato e si poggiano le soavi chiappe a terra. Al via manca ancora più di mezz'ora, che Giorgio ed io dedichiamo al pettegolezzo selvaggio. Un tatuaggio su una caviglia con lo stemma della Marathon des Sables, una ragazza che corre con il velo bianco da sposa in testa; l'orologio del campanile che sembra essersi fermato, il cielo azzurro solcato da qualche nuvola passeggera, lo zaino piccolo, lo zaino enorme, guarda quelle scarpe strane, quelle altre uguali alle mie... Menar la lingua è uno dei modi più efficaci per stemperare la tensione, con un occhio fisso alle lancette del campanile. Già, perché io come al solito non ho con me alcuno strumento che misuri il passare del tempo – c'è il telefonino, ma quello è ermeticamente chiuso nella tasca, invisibile – ed il mio compare ha un aggeggio da polso complicatissimo, con milleduecento funzioni compresa la messa in piega, l'autolavaggio e la cottura dei toast... Ma con le batterie quasi completamente scariche. Utilissimo, direi.
Ormai rischiamo, così distesi per terra con le zampe allungate, di farci rovinosamente calpestare dalla folla. Meglio alzarsi, anche se manca ancora qualche minuto. L'altoparlante sbraita raccomandazioni che, in mezzo al brusio della folla, arrivano ai timpani a pezzi e bocconi. Drizzo le orecchie quando sento parlare di "temporali anche forti, intorno alle 17": chi ha i bastoncini in carbonio è pregato di stare attento... Osservo i miei: non ho la più pallida idea del materiale di cui sono fatti, ma di sicuro non ho alcuna intenzione di abbandonarli per strada: primo, perché mi ripugna perdere materiale in ottimo stato; secondo, perché, senza bastoncini, sono un'escursionista finita, me lo posso scordare il trail!

Il sole illumina appena la via centrale, riparata dagli edifici. Qualche nuvola passa, di tanto in tanto, e va. Finalmente, a porre fine all'eterna attesa, arriva il via, quasi di sorpresa. Si parte, ci si ferma, si riparte, al passo, al trotto. I due percorsi, lungo e corto, si dividono appena oltre il ponte, circa un chilometro dopo il via: saluto Giorgio, lo rivedrò all'arrivo, forse. Se ci arrivo. Per certi versi, correre la gara in compagnia potrebbe essere piacevole; ma ormai ho realizzato, per esperienza, che a me la compagnia fa più danno che beneficio. Non certo per colpa del compagno di viaggio di turno, ma proprio perché sono io a non sapermi adattare, nemmeno quando l'altro fa del suo meglio per adattarsi a me. Per trovare il giusto passo, per frenare l'euforia, per superare i momenti di scoramento o di malessere fisico, per vincere la paura, devo essere da sola, non c'è nulla da fare. Altrimenti, rischio di rovinarmi il fegato e distruggere un'amicizia, perché solo io, ed i tapini che hanno avuto la sventura di provare l'esperienza, sappiamo a quali livelli di odio ed aberrazione io riesca a scendere quando sono in crisi. E pensare che, nella vita di tutti i giorni, mi si riconosce il pregio di essere una che vive, lascia vivere e si concentra sulle sue fissazioni senza tormentare il suo prossimo.

Vai, Gian. Le prime ore saranno pura sofferenza, ormai lo sai, da questo supplizio non ti salverà nessuno. Leggera corsa sul tratto iniziale di strada sterrata, che, nelle precedenti edizioni, era piazzato più o meno a metà gara. Già, il percorso ad anello è rimasto invariato, ma il via ha subito una traslazione di 50 km: ecco, se me l'avessero spiegata in questi termini, a scuola, la traslazione, forse avrei capito qualcosa. Lascio correre i siluri e mi metto al passo non appena la strada accenna a salire. Strada che diventa presto sentiero, in molti tratti corribile; una salita, una breve discesa a tornanti, poi ancora su e giù, fino al bivio presidiato dai volontari. E' un'altalena di timori: vorrei correre di più, per non rallentare chi mi segue, ma ho paura di sforzare troppo i muscoli all'inizio, con il rischio di pagare il conto ben prima della fine. Discesa a tornanti su Pré St Didier: in senso contrario, salgono i corridori più veloci, che hanno già completato il giro nel centro del paese. Oltre il ponte sulle acque impetuose della Dora Baltea, attraverso il piazzale e raggiungo il punto di ristoro: anche se siamo appena partiti, un bicchiere di Coca non me lo leva nessuno. Riparto di gran carriera, decisa ad affrontare di petto questo primo tratto di salita, fino al rifugio di Arpy: chissà poi perché... Incrocio a mia volta corridori che ancora scendono. In salita non riesco proprio a trattenermi, se c'è qualche avversario nei paraggi: lo so, è una soddisfazione da poco, ma questo è l'unico terreno su cui posso permettermi di dire, qualche volta, la mia. Mi rendo conto che il ritmo che ho preso è esagerato per essere all'inizio dell'avventura: rischio serissimamente di scoppiare. Eppure è altrettanto emozionante vedere persone che si scansano per lasciarmi passare. Si sa, noi schiappe abbiamo bisogno del nostro piccolo motivo per sentirci grandi, anche solo per qualche istante... Per fortuna, il sentiero stretto rallenta a volte l'andatura della fila e mi consente di tirare un po' il fiato, guardando, molto più in basso, da un tornantino, le case piccine piccine di Pré St Didier.
Il sentiero ripido confluisce in una strada sterrata, dove chi può si mette le gambe in spalla e schizza via. Io no: su questa pendenza, ben più blanda della precedente, sono impotente, per quanto paradossale possa sembrare. Percorro un tratto al passo veloce, in compagnia di Silver e di un paio di suoi compagni d'avventura, ma non riesco a tenere la loro andatura. Calma Gian, non consumarti inutilmente qui, non avrebbe alcun senso. Le gambe sono già inchiodate, il fiato corto, ma non è il caso di preoccuparsi; tutt'al più, di buttare giù un po' di zucchero, se non altro per sentirne il gusto. E' una cosa che ho notato da non molto: forse da quando ho aumentato le prove di lunga distanza a pochi giorni o settimane l'una dall'altra. Una gran voglia di zucchero, proprio le semplici zollette di zucchero, o le bustine da caffé, un desiderio che mi accompagna da cima a fondo della prova. Se poi lo zucchero bianco sia o meno l'alimento ideale, non lo so...

La strada sterrata offre un bel panorama sulle cime e passa accanto a bellissime case in pietra, con i vasi di gerani d'ordinanza ai balconi, ma non sale mai... Cammino ormai nel vuoto, ma solo fin quando si torna sul sentiero. Da qui, non mi è difficile mettere il sale sulla coda di chi mi precede. Un chilometro circa di sentiero ripido e sconnesso, che corre lungo un canale artificiale, colmo d'acqua, e lo interseca più volte. Tocca fare ben attenzione a non inciamparsi nel tubo che segue la stessa direzione. Salgo con andatura quasi frenetica, anche per non rallentare chi mi segue e non intende sorpassare: non sempre fare da locomotiva è così facile... La vegetazione è fitta ed umida; splendidi giochi dei riflessi del sole sulle gocce che bagnano le foglie. E poi il brusio dei fili dell'alta tensione, a ricordarci che stiamo solo giocando alla vita selvaggia: le comodità non sono lontane.

Il sentiero sbuca in un bel prato, ai piedi dell'abitato di Arpy. Abitato per modo di dire; le case, stupende e ben ristrutturate, con i tetti in lose, sembrano deserte, se non fosse per una tendina bianca ed un paio di pantofole sulla soglia di una porta. Primo vero ristoro, con la pappatoria, al rifugio. Come sempre, tracanno Coca Cola a volontà. e mangiucchio un po' di tutto, dalla frutta secca al cioccolato, ai cubetti di zucchero che ingoio a manate. E mi porto via un po' di formaggio, da sbafare nel successivo tratto quasi in piano. Via, di corsa, fuori, anzi no, si torna dentro: con le mani piene di cibarie, ho scordato i bastoncini. Lungo tratto al passo veloce in mezzo al pianoro: sfiliamo di fronte all'ultima baita, sotto gli occhi dei commensali di una ricca tavola imbandita in giardino. Qualche famigliola si gode il picnic sulle sponde del torrente; il sole è ancora limpido e caldo. Oltre il ponte, svolta a sinistra e poi subito a destra: si torna, finalmente, a salire, lungo una strada sterrata e fangosa che presto incrocia un'altra volta il corso d'acqua e torna ad essere sentiero. Si risale in parte proprio il percorso dell'acqua; benedette scarpe in GoreTex che mi evitano la preoccupazione di controllare dove metto i piedi. Tornanti su tornanti, verso quel che sembra il bordo di un gradino nella montagna, all'inseguimento non troppo prudente né sensato di chi mi precede, soffiando come un mantice, con il cuoricino che chiede pietà. Sento una fatica che mi schiaccia, dolori alle gambe, alla schiena: ma so che tutto passa, con la distanza, ed oggi non sarà un'eccezione, almeno spero.
Oltre l'ennesima svolta, mi trovo di fronte al lago di Arpy, affollato di turisti. Un attimo di esitazione sulla direzione da prendere; poi, due spettatori mi indicano il sentiero che corre lungo il lago. Infatti, scorgo più avanti altri compagni di sventura. Da lì, ancora salita, fino a lasciarsi la vegetazione sotto i piedi: con il naso all'insù, affretto il passo, raccatto qualche avversario, per conquistare una soddisfazione temporanea, che sarà smontata, pezzo per pezzo, non appena la pendenza s'invertirà. Non vedo altro che la punta delle mie scarpe, il prato ed il traverso finale, su al colle. Ci arrivo e trovo, lì appostate per il passaggio della corsa, coppie e famigliole accompagnate dagli amici a quattro zampe: non posso trattenermi dal dispensare due coccole ad uno splendido labrador dallo sguardo dolcissimo; "Mi porterai fortuna fino alla fine!". Quota 2.400, circa: da qui a La Thuile, un'unica, lunghissima discesa. Con un occhio al sentiero e l'altro, preoccupato, ai nuvoloni che si addensano proprio nella direzione della gara: grigi, gonfi, minacciosi. Del resto, Gian, si sapeva già. Oggi il temporale non si scampa: e speriamo che sia solo quello, appunto, solo un temporale, e che la sera e la notte siano, come promesso, limpide ed asciutte. E' indispensabile perché io possa pensare di concludere la gara.

La discesa è interminabile e drastica, soprattutto nella prima parte. Per quanto io mi sforzi di non pensarci, sento braccia e gambe intorpidirsi, persino le labbra formicolare. La vista si annebbia un po' e la testa prende a fare un gran male, come se il cuore si fosse trasferito a battere nella scatola cranica. E' anche possibile che sia andata così: lo spazio vuoto, da quelle parti, non manca... Mi assale un senso di sfinimento, una fiacca che non riesco ad arginare. Anche questa è una situazione che già conosco; mi accade spesso quando la discesa è molto ripida e veloce; sarà colpa della pressione, chissà. Forse dovrei fare come i sub; acclimatarmi gradualmente prima di scendere... Intanto, mezzo mondo mi sorpassa, come da copione. Saltano come camosci e filano via, mentre io sono costretta a condurre uno studio di fattibilità su ogni appoggio del piede. Ed a combattere contro la testa che gira. La sensazione di svenimento è così intensa che, quando sono ormai quasi a La Thiule, mi tocca fermarmi un istante sul ponticello di legno e riordinare le idee: va a finire che crollo come una pera matura...
Pian piano, mi avvio verso le prime case ed imbocco la strada sterrata che, seguendo il canale, porta al paese. Sullo striscione d'ingresso al punto di ristoro, leggo una notizia confortante: siamo al km 23. Ma allora... E' vero, ho sofferto parecchio sinora, ma ho già macinato 23 km! Non è che ci sia poi tanto da stupirsi, visto che la gara è composta da quattro salite ed una è già alle spalle; in ogni caso, è una splendida sorpresa. "Complimenti – esclama una signora all'ingresso della struttura – meno male che il tempo accompagna!". E qui, se avessi la materia prima, porterei d'istinto le mani in luogo innominabile: affermazioni come questa portano una rogna incalcolabile... Al tavolo del ristoro, alterno Coca Cola e brodo, fedele alla mia raccomandazione di fermarmi un po'; ci aggiungo poi qualche boccone di tutto, dalla frutta secca al cioccolato. Una rapida occhiata alle seggiole mi dice che molti tendono a prendersela comoda, intenti a mangiare, chiacchierare o curarsi le vesciche ai piedi: tanto meglio; vorrà dire che, per un po', non resterò sola. Ma è più forte di me, io non ce la faccio a stare buona e calma. Devo ributtarmi fuori, con le mascelle ancora all'opera, fuori, verso la prossima salita. Mi distrae solo la splendida vista di un cagnone enorme, un incrocio con una Frisona, credo: pelo di aspetto e colore simile al Bovaro Bernese, ma questo è più grosso persino di un Sanbernardo. Lo punto, vorrei strappargli una carezza: ma lo vedo entrare in un cortile, seguito dai compagni bipedi, due persone che insieme, secondo me, non pesano quanto il bestione. Mi riporta alla realtà un rumore sordo, cupo, inconfondibile: il primo tuono. Lascio la vita di La Thiule, tavolini e negozietti, per salire verso un cielo plumbeo che più non si può. "Meno male che il tempo accompagna"... Già, mannaggia la miseria. Imbocco il sentiero in mezzo al prato, che sale dolcemente: cosa buona e giusta per il pancino ancora impegnato nel primo atto della digestione. La temperatura è crollata repentinamente. Una marea di pensieri inquieti: il temporale inizia appena adesso; sto salendo verso un passo che supera i 2.500 m di quota. Di certo non arriverò lassù prima che Giove Pluvio si scateni; anzi, mi sa tanto che mi troverò nel posto peggiore e nel momento peggiore, tra non molto. Quindi? Quindi niente, non ha senso rimuginare, tanto non ci sono alternative. E, se anche ci fossero, non ne voglio sapere. Avanti, a tutti i costi, finché si può.
Più volte i goccioloni cominciano a cadere, costringono ad indossare la giacca impermeabile, poi si placano. Infila, sfila, sempre senza fermarsi, con evoluzioni degne di una contorsionista per tenere tutto in mano, la giacca, lo zaino, i manicotti, i bastoncini. Osservo i corridori accanto a me: qualcuno si copre, altri procedono imperterriti in maglietta. Brrr... Non sopporterei di camminare quassù con la sola maglietta, per giunta fradicia. E' vero, con la giacca impermeabile si suda molto e ci si bagna lo stesso; però, se non altro, si preserva la sensazione di calore.

Sopra la nostra testa, le nuvole passano da un grigio intenso ad un orrendo color topo: ho la sensazione che marchi proprio male... Però, se non altro, a me sembra di stare un po' meglio. Ho recuperato un buon numero di fuggitivi; altri ne recupero sul breve tratto di ripida scorciatoia che taglia il tornante in mezzo alle poche case. Poi ancora strada sterrata, che mostra qualche traccia di una remota presenza di asfalto. Cosa Giove Pluvio abbia intenzione di riservarci, non si riesce a capire; di tanto in tanto, un raggio di sole riesce persino a farsi largo tra le nubi. Un curvone a destra ci porta al banchetto del ristoro: Coca, manco a dirlo, e the caldo. Arrivo già con il braccio proteso e la tazza in mano, a mò di mendicante; oggi vale la regola "chiedi e ti sarà dato". La salita, da qui, è ancora lunga e blanda, almeno all'inizio. Il pianoro porta ancora tracce di neve, in via di scioglimento, e pozze che sembrano voler dire che ha già piovuto. Fosse vero... Ma i nuvoloni lasciano intendere tutt'altro, in verità, e le cime frastagliate delle montagne sembrano ancora più nere e minacciose con la luce metallica di questi istanti. Vai Gian, bando agli indugi, fila. Forse la scampi... Se almeno riuscissi a scollinare, lassù. Già vedo il passaggio, ben più in alto; le sagome di persone ferme sul colle. In realtà non è che cambi molto, a trovarsi sotto il fortunale appena prima del colle o appena oltre, ma è l'aspetto psicologico quello che conta. Il vento è freddo e rinforza, passo dopo passo; i primi bubbolii del tuono presto diventano rombi cupi ed inquietanti. Guardo giù per fare come gli struzzi, nascondere la testa, ma la luce improvvisa e violenta dei fulmini si fa vedere anche così. Lampi e colpi sempre più ravvicinati; vien voglia di coprirsi le orecchie con le mani, mentre i piedi annaspano sul sentiero, più in fretta, ancora più in fretta, su verso il colle. E' strano: so bene che sto correndo un grosso rischio, anzi, lo stiamo correndo tutti noi che siamo nei paraggi in questo momento; però, non provo paura, anzi. E' una strana sensazione, quasi di euforia. Sarei terrorizzata se con me ci fosse qualcuno a cui tengo, ma no, in questo preciso istante e sotto le saette ci sono io. Alla peggio, le piume ce le rimetto solo io... Forse non è, a mente fredda, un punto di vista così condivisibile, visto che, a casa, qualcuno che non sarebbe esattamente lieto dell'evento c'è; però, pensieri e sensazioni durante una corsa, quando il resto del mondo è così lontano che sembra quasi non esistere, sono elementari, istintivi.

Passo al colle a velocità da siluro e poi giù, per un sentierino scosceso e scivoloso che però a me sembra un'autostrada. Sembra sempre più scuro, come se stesse per calare la notte, ma sono sicura, pur non avendo con me un orologio, che siamo solo nel pomeriggio. Giù goccioloni sempre più decisi, ancora fulmini e tuoni: e quel poco che riesco a vedere del cielo davanti a me, con gli occhiali bagnati, è tutto fuorché incoraggiante. Va bè, Gian, dai, non è il momento di disperare. Una priorità per volta: adesso, l'essenziale è filare via di qua. Più in basso, potrai meditare sul da farsi. Alla peggio, se proprio Giove Pluvio non volesse saperne di mettere la testa a posto, puoi sempre fermarti a Courmayeur.
Però, le previsioni meteo hanno parlato di temporali, e di cielo sereno nella notte. Nel profondo del mio cuore incosciente e fiducioso, ci credo. Ho come la certezza che prenderò pioggia forse fino a fondovalle, ma poi potrò proseguire, all'asciutto per giunta. Intanto, però, i goccioloni hanno ceduto il posto a qualcosa di più solido: sono chicchi di grandine... E neanche poi così piccoli! Mannaggia, proprio io che non uso il casco in bici, lo vorrei adesso... Gambe in spalla per sfuggire alle saette ed ai bernoccoli, quasi mi stupisco delle mie insospettabili doti di discesista sul bagnato. Mi tocca pure una deviazione per andare a recuperare la borraccia che, saltata via dalla tasca, ha pensato bene di rotolare una decina di metri più in giù, verso il torrente... Mi scoccia, ma la recupero, non certo per il suo valore, ma perché detesto l'idea di abbandonare un rifiuto.

Dal sentiero al bosco ed alla strada sterrata: continua a piovere, ma ora si viaggia più sereni. Le cime davanti a me sono in parte nascoste dalle nubi ancora ostinatamente nere: ma sarà quella la direzione che dovrò prendere ora? Boh. Chissà come se la cavano i concorrenti del percorso corto. A quest'ora, Giorgio dovrebbe già essere al sicuro, ed anche parecchi altri, speriamo bene.
Poco prima di Courmayeur, la pioggia cessa del tutto. Raggiungo l'asfalto e faccio lo slalom tra pozze e pochi turisti frettolosamente equipaggiati con golf ed ombrelli: è l'unico momento in cui posso permettermi una telefonata e turbare l'operosa quiete del buon Matteo in negozio. Vedo così che sono circa le 18. Mi viene spontaneo abbozzare due calcoli: a Courmayeur siamo più o meno a metà e ci sono arrivata in otto ore... Già, però la prossima metà è più dura, infligge due salite toste alle gambe già stanche. Riuscirò a rosicchiare qualche minuto rispetto alle diciannove ore e venti dello scorso anno? Boh, in fondo chissenefrega...

Il punto di ristoro non è, come pensavo, al palazzetto dello sport di Dolonne. Tocca attraversare Courmayeur, il centro; è anche piacevole, visto il tifo sfegatato dei turisti del sabato pomeriggio. Poi si raggiunge un parco, un paio di gazebo: eccolo qui, il tavolo dei rifornimenti. Ancora prima di arrivare alla pappatoria, mi imbatto in Teomat: "E tu che ci fai qui?", esclamo. "Mah sai, ho già fatto il giro una volta, adesso riparto...". Lì per lì, non mi sorge alcun dubbio sull'attendibilità delle sue parole: sarebbe capacissimo di farlo sul serio. Invece no, mi racconta che si è ritirato per problemi di digestione. Peccato... Un attimo dopo, mi butto sulle cibarie con l'impeto di un'idrovora. Trangugio un piatto di pasta calda a mò di pitone, quasi senza masticare; caccio in bocca frutta secca, cioccolato, formaggio, in rigoroso ordine sparso. Ripartire, tutto quel che voglio è ripartire, andar via subito. E così faccio, in preda ad una furia che nemmeno io so spiegarmi: furia, entusiasmo, voglia di farcela. Mi rimetto in marcia senza nemmeno cambiarmi la maglietta alla pelle, fradicia: e sì che si va verso sera... La mia è un'aggressione in piena regola alla salita del Colle Liconi, in barba a qualsiasi norma di buonsenso e prudenza, se non altro per risparmiare un po' le gambe. Con furia in mezzo al bosco, tanto che ad un tratto riesco persino a sbagliare strada. Ma quasi subito mi accorgo della mancanza di balise e torno sui miei passi, incassando un paio di improperi dal corridore che mi ha seguita fidandosi di me. Riacciuffo la retta via: e qui faccio conoscenza di un corridore che, iscritto al percorso lungo, ha sbagliato strada all'inizio della gara ed ha seguito per un'ora l'itinerario corto, prima di accorgersene e tornare sui suoi passi... Il tapino si cosparge il capo di cenere e si dà dell'idiota; io però lo ammiro moltissimo, per la volontà ferrea che lo ha spinto a tentare comunque, a buttarsi in una corsa ad inseguimento, laddove tanti altri avrebbero gettato la spugna demoralizzati. Invece questo fenomeno ha macinato un bel po' di km più di me... Ed è qui, adesso!

Salita ripida in mezzo al bosco, col profumo dei pini e la luce che volge alla sera. Si arriva ad un rifugio che ben ricordo: Paolo, che segue a ruota, vaneggia di un the alla menta e di un pastore del rifugio di origine marocchina... Il the alla menta in effetti c'è, ma alla faccia del pastore marocchino, quella che vedo io è una gran bella donna bionda, con gli occhi chiari ed un sorriso meraviglioso! E non posso nemmeno pensare di avere un'allucinazione; nei miei momenti di follia, io vedo di solito George Clooney... Un altro lungo tratto nel bosco, prima di uscire sull'interminabile traverso che sale, a tratti anche ripido, più o meno in rettilineo, e ad ogni costone della montagna svela un altro lungo tratto, ed un altro ancora. Sprazzi di cielo azzurro tenue; le gambe reggono bene, ma non ne devo approfittare. Un po' di zucchero di tanto in tanto, non si sa mai. Attraverso un paio di nevai con il cuore in gola: pochi metri, con il passaggio già ben segnato dalle orme di chi mi ha preceduto, ma una rapida occhiata alla mia sinistra basta ed avanza per farmi capire che, se dovessi scivolare, andrei a fermarmi molto, ma molto più giù. L'aria leggera mi appiccica la maglietta ancora umida alla pelle, ma non ha senso che mi cambi qui: tra poco c'è la salita ripida, il salto che mi farà sputare lacrime e sangue, oltre ad altro sudore. Procedo con cautela e rallento un po', man mano che il sentierino si fa più stretto e scivoloso. Non vedo l'ora che arrivi la rampa... Per togliermi di qua.
Arriva, la rampa, eccome se arriva, eccola lì. La traiettoria di salita diventa d'un tratto verticale. Ed è più agra di quanto pensassi: non avevo calcolato il fango... Già è difficile salire con il naso quasi incollato al sentiero, piantando i bastoncini a mò di piccozze da ghiaccio; figuriamoci poi se le scarpe non sempre fanno presa sul terreno viscido e sulle rocce bagnate. Calma e sangue freddo: ho paura di scivolare, ma anche di scagliare inavvertitamente una pietra sulla capoccia di chi mi segue... Non vorrei davvero essere nei panni di chi passerà qui di notte. Ci metto l'anima in questo tratto, per colmare la distanza rispetto a chi mi precede: forza, anche la terza scalata è quasi fatta. Tra uno scivolone e l'altro, la paura mi fa quasi levitare fin su al colle. Ma in cima, un bicchiere di the caldo non me lo leva nessuno. E nemmeno qualche minuto di pausa per cambiarmi finalmente canotta e maglia: ora si scende e farà freddo. Solo un rapido sguardo al panorama dal colle, poi giù verso il pianoro: il lago è ancora in buona parte ghiacciato, un arcobaleno di colori dall'azzurro al bianco del ghiaccio al rosa del tramonto... Accenno qualche passo di corsa, ma è meglio che non tiri troppo la corda. Non avrei mai osato sperare di poter ancora contare, nel tratto più arduo della discesa, della luce del giorno.

Oltre il pianoro, il sentiero precipita giù con una serie di tornantini, accanto alla fragorosa cascata del torrente, quasi assordante. Più giù, verso il secondo pianoro, vedo alcuni concorrenti che sciano sul nevaio senza sci: mi assale il panico... Per fortuna, mi accorgo di un paio di puntini che invece hanno preso la via della pietraia. Meno male, alla neve c'è alternativa: quando ci arrivo, non ho dubbi e mi butto anch'io sulle pietre. Scomode, sconnesse, una tortura per i piedi, ma sempre meglio del pattinaggio. Laggiù, tra le poche casupole nel pianoro, è già in funzione il faro del punto di ristoro. Incredibile, quanto si riducano le distanze, quando si è già mandato a memoria il percorso. Ormai so cosa e quanto c'è da qui a qui a lì... Riempo la borraccia e riparto, destinazione Planaval, una lunga morbida discesa. Sei, sette km, circa: un podista accanto a me, toscano a giudicare dalla parlata, promette a chissà chi, al telefono, di raggiungere Planaval in un quarto d'ora. Trasecolo: sì, un quarto d'ora, manco con l'elicottero!

La lunghissima discesa supera un torrente: passaggio in cui approfitto del provvidenziale aiuto di un concorrente che mi fa strada. Poi via, in mezzo al bosco, senza fine. Ormai è buio; sulla destra, verso valle, luci di abitati; intorno a me, foglie, rami e radici a cui la luce della frontale dà vita, una sinistra spettrale forma di movimento immaginario. Ricordo che, poco prima del ristoro, il sentiero si fa più ampio e riprende a salire leggermente; infatti, passando accanto alla sagoma di una costruzione, forse una stalla, mentre presto orecchio ai campanacci delle mucche dal buio, ho l'impressione di scorgere una lucina che procede lesta, un po' più in alto. E di lì a poco, molto prima di quanto mi aspettassi, ecco alla mia destra le luci di Planaval. Le luci, le voci, il brusio dei generatori. Perfetto, Gian: adesso, calma. Avrai ancora venti km, poco più o poco meno: fermati, mangia, riprenditi un attimo. Già, una parola... Bevo Coca Cola a volontà, anche se è a temperatura ambiente, che quassù significa fredda; bevo the e mangiucchio qualcosa, ma non tanto quanto vorrebbe il mio pancino. Ho fame, ma la pappatoria non vuole andar giù: tantovale allora riempire il sacchetto che ho attaccato allo spallaccio e cercare di buttar giù qualcosa strada facendo. Tanto, di qua in poi, c'è un buon tratto in piano.

Recupero i bastoncini e riparto, sgranocchiando frutta secca e cioccolato. La luce del ristoro sfuma pian piano; ora la strada me la segnano due concorrenti un po' più avanti di me. Va tutto bene, finché posso approfittare della traccia, sia pure lontana, delle loro frontali. Il guaio è che, all'improvviso, li raggiungo e, complice una loro sosta, li sorpasso. Sono dolori... Non che manchino le bandierine di segnalazione, tutt'altro; è solo che, con l'aggravante delle mie difficoltà di vista, mi tocca zampettare su sassi e sfasciumi, là dove non si può più parlare di un vero e proprio sentiero. La vedo, la bandierina successiva; il problema è arrivarci senza capitomboli... Ripenso a quella splendida notte di agosto del 2008, quando ho percorso l'itinerario di questa gara con la guida di Matteo. Siamo passati di qui nella notte, anche quella volta, ed abbiamo tribolato l'indicibile per poi scovare la traccia quasi per caso: adesso capisco... Non è facile nemmeno stanotte, con le balise a guidare la rotta! Incespico un'infinità di volte e perdo il senso della distanza; so che, tra poco, mi toccherà affrontare l'ultima rampa... Ma non riesco a valutarne la distanza. E più inciampo, più sento salire il nervoso. Per fortuna, il cielo è meravigliosamente limpido, anche se la luna questa notte non ci fa compagnia.

Il rumore della cascata è fragoroso, assordante; dà alla testa, soprattutto nell'ultimo ripidissimo tratto. Per quel che posso, alzo l'occhio verso le lucine che salgono lente sulla verticale della mia capoccia, ma al buio non riesco a farmi un'idea della distanza. Cammina Gian, sali più in fretta che puoi, e pensa ad altro, non al frastuono che ti sta martoriando i timpani... O impazzirai! Anche qui, come sul Liconi, si cammina e si scivola nel fango; che angoscia, spiccare un passo poggiando su un piede che non sai se terrà... Fatica, fiatone, cuore che scoppia; chi mi sente arrivare si fa da parte, approfitta di una pausa. Guai, fermarsi in salita, guai.. Che sia quasi finita, non posso vederlo, ma lo sento quando le ginocchia cominciano a fare un po' meno fatica per sollevare l'ingombrante posteriore. Sento un odore intenso di carne alla brace, ma forse è la mia immaginazione... Che i volontari del punto di controllo stiano improvvisando una grigliata notturna? Non so, non mi avvicino nemmeno per un bicchier d'acqua; saluto e passo oltre, sorpresa di trovarmi già sul lungo tratto di strada sterrata, quasi in piano, che porta verso l'alpeggio. Camminata veloce, con le luci di Planaval sulla destra, ma molto più in basso... Ed il sonno che, improvviso, mi piomba addosso. No, cavoli, non è il momento... Eppure, è fatale che accada proprio in questo tratto: qui la marcia è facile, non ci sono pericoli né sorprese, a meno di inciampare nei propri stessi piedi. Slalom tra le pozze: devono essere le tracce del temporale dello scorso pomeriggio. Ammiro le stelle e sbadiglio, mi perdo dietro a pensieri così lontani da sconfinare nei sogni, e chissà che questa non sia una via di mezzo tra veglia e sonno. Non è il momento di cedere; manca davvero poco, ormai.
L'alpeggio è deserto; ne sono sorpresa, mi aspettavo di trovarci il bestiame ed i cani da guardia. Nulla, questi muri hanno quasi l'aspetto di ruderi, sporchi e riparati da coperte stracciate a mò di tenda. Ma forse è il buio che rende l'immagine più cupa di quel che è. O il sonno.

Il corridore che ha scollinato poco prima di me è già sparito, arzillo ed agile. Io ho un sonno tale che vorrei davvero sedermi a dormire... Solo qualche minuto... Ma è meglio di no, quassù ci si raffredda in un attimo. Forza, Gian, vedrai che tra non molto raggiungerai il punto di ristoro. La strada diventa sentiero, sono confusa, non ricordo bene dove, come, per quanto. Si sale, si scende, si sale ancora; una curva, un'altra curva e dietro ancora il buio, il nulla, nessuno oltre a me. Eppure è la strada giusta, ci sono le fettucce... Un pendio erboso senza fine, le palpebre sempre più pesanti. Il rumore cupo del generatore è un vero soffio di vita per me: luce, le voci, ecco il rifugio. Mi ci butto con entusiasmo: non è la fame che mi spinge, ma il tentativo disperato di svegliarmi. Coca Cola, the, per l'ennesima volta; poi riparto, con la promessa di tornare qui, a settembre, con un carico dei celebri peperoni carmagnolesi, direttamente dalla Sagra.

Ora è davvero l'ultima salita. Di giorno, quasi uno scherzo, ma al buio... Il sentierino taglia il prato, salendo a tornanti, e poi diventa un traverso in pendenza, con il vuoto sulla destra. Non vedo altro che la stretta striscia di terra, poco più larga del mio piede, ed il pendio che si dissolve nel nulla, là dove la mia luce frontale non può essermi d'aiuto. E qui le gambe tremano: procedo pianissimo, un passo meditato dopo l'altro, pur con la consapevolezza che, così, impiegherò un'eternità. Pendo verso sinistra per il terrore di ruzzolare giù a destra: ho i nervi tesi come corde di violino, anche perché so bene cosa mi attende... Alla fine del traverso, come previsto, passo dalla padella nella brace. Alla Testa Fetita si arriva risalendo un tratto di roccia su cui, ahimè, servono le mani; ma fin qui sarebbe ancora tollerabile... Il guaio è che io non riesco ad individuare la linea del percorso tra una balise e l'altra; sarà anche elementare, ovvio, ma non ci riesco, sono davvero impotente. Supero con difficoltà il primo passaggio delicato, con i piedi malfermi su quel poco di terriccio umido, e per farcela mi aggrappo a tutto, anche agli arbusti. Provo con il secondo: esito, punto il piede, mi do lo slancio... L'appoggio scivola e mi ritrovo in un attimo, senza rendermene nemmeno conto, con le mani aggrappate alla roccia, i bastoncini penzolanti dalle fettucce ai polsi ed i piedi che non fanno più presa. E' il panico. Riesco a girarmi di schiena, mi appoggio alla pietra confidando nell'attrito prodotto dal mio voluminoso deretano e realizzo in un istante che, da qui, non mi schioderò più... Con il cuore impazzito ed i singhiozzi che premono per uscire, mi sforzo di riordinare le idee. La roccia accanto a me mi dà la stessa fiducia di uno specchio per giunta strapiombante; se ci provo un'altra volta, finisco dritta e filata tra le braccia di Belzebù. Piango, sì, almeno mi sfogo, ma so benissimo che non è la più utile delle soluzioni... Non mi resta che aspettare, sperare che ci sia ancora qualche concorrente alle mie spalle. Mi siedo tra gli arbusti, il volto verso il nulla. Qualche minuto, già i brividi mi mordono le spalle, ed ecco una lucina, anzi due. Più o meno mi sento come se avessi visto arrivare un'intera squadra del Soccorso Alpino, con tanto di Sanbernardo e fiaschetta. Come se qualcuno mi avesse appena detto "Lazzaro, alzati e cammina". Calpesto senza misericordia quel poco che resta della mia dignità e, con la voce ancora malferma, chiedo aiuto alla prima delle due lucine. Mosso a pietà, il sant'uomo si prende a cuore il mio caso e quasi quasi a spalle il mio peso: non solo mi fa strada, ma mi dà subito un gran senso di sicurezza. Mi ci affido con tale slancio che, se in questo momento mi dicesse "Fai un salto e buttati di sotto", credo che obbedirei senza discutere... E' un lettore dei miei racconti, il samaritano: mannaggia che bella figura che rimedio... Non posso nemmeno più nascondermi; questa specie di fagotto tremante ed infreddolito ha un nome ed un cognome, ormai. Pazienza, l'importante è che adesso siamo in cima, fuori dall'incubo. C'è un punto di controllo, in cima: ma il tratto più pericoloso è del tutto sguarnito...

Tribolo ancora un po' a scendere giù per i pietroni; anche qui, la tecnica a quattro zampe con rinforzo di chiappa è quella che mi salva. Poi perdo inesorabilmente la scia del mio angelo custode; va troppo forte, lui... A me non resta che l'interminabile discesa verso La Salle, combattere contro il sonno cantando tutto quel che mi salta in mente, infarcire la melodia di coloriti improperi. Il polpaccio destro è contratto, fa abbastanza male; scendo scaricando il peso, per quanto possibile, sui bastoncini e sull'altra gamba: così, un buon numero di storte alla caviglia sinistra provvedono ad equilibrare almeno la sensazione di dolore ai due lati.
Le luci del fondovalle, che si vedevano di lassù, spariscono ben presto, quando la vegetazione torna ad inghiottire il sentiero. Un solo pensiero mi rimbomba tra le tempie: non finisce più, non finisce più... Non finisce davvero più, questa discesa da incubo, con la schiena che grida vendetta, le gambe che s'inciampano, il sonno che reclama il suo tributo.
Il piccolo grumo di case, il penultimo punto di ristoro, arriva inaspettato, come una vera liberazione. I volontari, nonostante l'ora tarda, sono più alacri e gioviali che mai... E c'è persino la focaccia! Passo come una meteora, ne afferro due bei bocconi e via, ancora in discesa, strada sterrata e poi sentiero, e ancora strada. Finalmente, l'abitato. Si potrebbe correre, qui, volendo: ma vedo che nessuno vuole... Tantomeno io. Ci troviamo, tre o quattro anime in pena, a ciondolare tra le case silenziose, le fontanelle e le cascate di fiori che la brezza agita nei vasi. E ritrovo un volto noto, il buon Silvio: con ritmi del tutto diversi, alla fine approdiamo allo stesso porto, più o meno nello stesso momento. Resta solo l'ultimo ristoro, poi via, pochi km di strada sterrata lungo il fiume, che ricordavo in discesa... Già, così pareva. A correre non ce la faccio; il polpaccio è inchiodato, il piede destro si appoggia solo con un angolo di novanta gradi. Non resta che il passo spedito da bersagliere: quattro chiacchiere per digerire l'ultima fatica, per aggiornarci l'uno con l'altro sulle ultime avventure. Quando la strada sbuca alle prime case di Morgex, alzo lo sguardo e noto che le montagne spiccano già un po' di più nel cielo... Le prime, primissime luci dell'alba. L'orologio del campanile indica le quattro e mezza passate da poco: stai a vedere che rimango al di sotto delle diciannove ore... Silvio ne è sicuro, ma io stento a crederci: l'accetto solo quando realizzo che l'arrivo non è, come temevo, oltre Morgex, ma è in pieno centro.

Riconosco la sagoma di Giorgio: quel matto ha brutalmente interrotto il comodo sonno in albergo per venire ad aspettarmi... Scatta foto, si unisce alla corsa, scatta ancora; e dire che ha nelle gambe i 47 km del percorso corto, che sono comunque tutt'altro che una scampagnata, percorsi in meno di dieci ore... L'ultimo dolore, il sottopassaggio; poi la via centrale, l'arco d'arrivo... E' fatta. Finita, anche questa volta, riuscita alla perfezione: 18h 48', mezz'ora meno dell'anno scorso. E non mi resta che festeggiare nel modo più bieco, per rispetto del corpaccione stanco ed accaldato: una solenne birra gelata... Per la serie, se non uccide, nel caso specifico per congestione, allora fortifica!

martedì 13 luglio 2010

2, 3, 4 luglio 2010 - Super Rando Fausto Coppi

Qualcuno che mi osservasse, in questo momento, dal fondo del lettone, potrebbe trovare in me una certa somiglianza con il Cristo del Mantegna. Anche la vitalità più o meno è la stessa. Solo, il Cristo del dipinto non indossa una specie di vestaglia a fiorelloni, lisa e sbrindellata, ed io non ho accanto nessuno che pianga per me: c'è Skipper, sì, ma è svaccato sul pavimento, ansimante, a godersi il fresco delle piastrelle di marmo. Altra differenza sostanziale: ho la sensazione che a me ci vorranno più di tre giorni, per risorgere. Non ho nemmeno la forza di girarmi su un fianco; sento la testa lì lì per scoppiare da un momento all'altro, le braccia e le gambe pesanti come se fossero di piombo. Ed ho la vaga coscienza che sia primo pomeriggio, perché ho buttato l'occhio all'orologio, poco fa; ma per me, dopo due notti insonni spese in sella a faticare, potrebbe essere qualunque momento del giorno o della notte. Il mio bioritmo ha alzato bandiera bianca. Per natura, ho orrore dell'inattività, ma in questo momento è tutto ciò che posso permettermi, in attesa che il buon Morfeo mi accolga tra le sue braccia, almeno per un po'. Ho la sensazione che non ci vorrà molto...

Raggiungo Cuneo intorno alle sette e mezza di venerdì sera; ad onta del vero spirito dell'atleta, mi spingo con l'auto proprio in Piazza Galimberti, con la ferma intenzione di abbandonare la Opel, per poco, in divieto assoluto di sosta, con il lasciapassare delle quattro frecce accese. C'è un viavai che non mi aspettavo: di solito, una randonnée che si rispetti è cosa che non interessa a nessuno, salvo monopolizzare anima e cuore di chi vi prende parte. Ma il mistero è presto svelato: la folla non è qui per il via della Super Randonnée; è attratta da tavole imbandite e musica a tutto volume. Panem et circenses. Il fatto che, nella stessa piazza, stia per radunarsi una truppa multicolore e luminosa di ciclisti è una pura coincidenza. Mi carico sulle spalle i due borsoni da lasciare sotto il tendone dell'organizzazione, dove ritiro, nel contempo, il numero di corsa: 151. Devo ammettere che, quest'anno, il papà della Super Rando, il temutissimo Ivano il Terribile alias l'Invasato delle Alpi Occidentali, ha dato prova di insospettabile magnanimità nei confronti dei suoi sudditi a due ruote. E' vero, ci infligge un itinerario di 440 km, con partenza da Cuneo e salite al Colle della Lombarda, al Col de la Bonette, al Col de Vars, al Col Izoard, al Colle dell'Agnello, al Colle di Sampeyre, al Colle di Fauniera altresì detto dei Morti ed alla Madonna del Colletto come dessert, con obbligo di rientro a Cuneo entro 44 ore dal via; però, bontà sua, anzi Sua con la "S" maiuscola, ci concede di preparare due borse da spedire una al punto di controllo e ristoro di Vars les Claux e l'altra a Sampeyre, dove non riceveremo, sulla carta, alcun sostegno alimentare, ma potremo fare una doccia e dormire qualche ora in una palestra. In più, il Terribile ha pensato bene di farci omaggio, sul sito Internet della manifestazione, di una sintetica raccolta di consigli dedicati proprio al bagaglio. Per quanto io sia, di norma, allergica ai consigli, questa volta ho deciso di fare un'eccezione, visto che il buon Ivano ha senz'altro più randonnée nel curriculum che peli sparsi per le varie parti del corpo e, suo imprescindibile cavallo di battaglia, vanta il 100% di successi: insomma, è sempre arrivato al traguardo, più o meno vivo e capace di intendere e volere. Quindi, mi duole ammetterlo, ma qualcosa ne dovrebbe sapere.

Quasi mi stupisco di me stessa al pensiero della cura meticolosa con cui ho riempito le mie due borse. Anzi, un passo indietro: evento inaudito, ho persino elaborato una tabellina di marcia, pur sapendo che, su un percorso del genere e con due notti insonni, qualsiasi previsione lascia il tempo che trova. Dal momento che si parte questa sera alle 21, ho meditato che potrei raggiungere Vars Les Claux, primo punto di ristoro, domattina, sabato, tra le 9 e le 10; lì troverò già da mangiare, quindi nella borsa destinata a quella meta ho messo un cambio d'abito completo, maglietta canotta e pantaloncini, un po' di cibo da trasferire nel borsello della bici e portar via, due lattine di Red Bull ed una dose di collutorio, perché odio avere i denti sporchi ed il gustaccio in bocca.
A Sampeyre dovrei arrivare, sempre con beneficio d'inventario, intorno alle 20-21 di domani sera. Lì avrei intenzione di dormire tre o quattro ore e, possibilmente, di lavarmi un po'; spedisco quindi un cambio d'abito completo con pantaloni ¾, maglietta, canotta, gilet, guanti lunghi, perché ripartirò con il freddo della notte in montagna, e batterie di ricambio per eventuali problemi con le luci. Inoltre, dal momento che a Sampeyre non è previsto ristoro alimentare, ho preparato una mezza dispensa con ogni sorta di derrata alimentare: formaggio molle e grasso, pane, una latta di pesche sciroppate, un litro di succo di frutta, quattro lattine di Red Bull e due di Burn, marmellatine, bustine di sali, barrette, merendine con il cioccolato, Nutella, frutta secca. Non che abbia intenzione di spazzolare tutto: il fatto è che ormai mi conosco e so che, a quel punto, mi troverò a far fronte ai desideri alimentari più assurdi ed imprevedibili, e soddisfarli sarà condizione necessaria per il proseguimento della mia corsa. Ci sono poi anche posate, spazzolino, dentifricio, salviettine, sapone ed asciugamano per la doccia. Il risultato è che la mia borsa è la più grossa e pesante di tutte...

Al ritiro del numero di gara, un attimo di panico. "Ecco il numero che devi attaccare sul casco...". Un momento, quale casco? Non è obbligatorio indossare il casco, infatti io non ce l'ho. "Come – ribatte la ragazza dietro al banco – è obbligatorio per il Codice della Strada!". No, niente affatto... Scartabelli pure sui fogli del regolamento; per mia fortuna, di una simile ridicola norma si è discusso, tempo fa, ma nulla si è deciso. Uno dei tanti aspetti della Super Rando che adoro è proprio questo; nessuno si arroga il diritto di costringermi a tutelare la mia capoccia. Infatti partirò, come sempre, con il capello al vento. O meglio, sfoggiando la gloriosa bandana nera degli Orsi, il gruppo organizzatore del tostissimo trail "Porte di Pietra".

Sbrigate le faccende burocratiche, mi sposto nella piazza poco distante, dove la Opel riposerà fino a domenica, e preparo con cura la bici e me stessa. Sulla Ridley fisso le luci ed il borsellino anteriore, gonfio le ruote e stringo qua e là le varie viti, mossa che ha più che altro lo scopo di tranquillizzarmi un po'; su me stessa sistemo le varie bande rifrangenti e lo zainetto. Ho deciso di viaggiare il più possibile leggera, visto anche il fatto che il meteo dovrebbe essere fausto; nello zaino trasporto un copertoncino di ricambio, il telo termico, la giacca Goretex, un paio di guanti invernali ed un gilet, più alcune barrette, qualche bustina di zucchero, qualche soldo, documenti e la farmacia di rito: antiinfiammatori, Muscoril, Aspirina, Imodium, una pastiglia di caffeina ed un po' di pastiglie di guaranà. Nel borsello da bici, tre tranci di focaccia bianca, ridotti in monodosi che ho amorevolmente confezionato in alluminio; nelle borracce, due litri di purissimo caffé con miele. Nel caso non si fosse percepito, so già che la mia resistenza al sonno è quasi nulla; faccio il possibile per porre rimedio a questo gravissimo difetto.

Torno in Piazza Galimberti e sono già in un bagno di sudore: ma la cosa non mi dispiace, tutt'altro; amo con tutta me stessa il clima torrido delle estati della pianura piemontese. Quest'anno, poi, la stagione calda s'è fatta attendere troppo... E durerà, purtroppo, come sempre, troppo poco. Ma i vari siti meteo in giro per Internet, che questa settimana ho esaminato con maniacalità da sindrome ossessivo-compulsiva, sono più o meno concordi nel promettere caldo, bel tempo e zero termico a quote quasi himalayane per i due giorni e mezzo della Super Randonnée.

Il tempo di scambiare quattro parole con alcuni dei ciclisti pronti al via: gli immancabili ed implacabili Franco, Graziano e Marco, che lo scorso fine settimana, tanto per gradire, si sono sciroppati un'altra rando da 600 km intorno al Bianco; il debuttante della notte in bici, Mik, che sinceramente non pensavo davvero di trovare al via; Roberto, ormai scatenatissimo nelle lunghe distanze, che ha alle spalle una carriera ciclistica breve e fulminea, e tanti altri volti più o meno noti. Intravedo l'inconfondibile figura del Terribile: di lì a poco, il suo vocione tonante ci convoca imperiosamente davanti al palco, per gli ultimissimi aggiornamenti. Uno su tutti: l'inattesa, ma inevitabile modifica del percorso, con il taglio della salita al Col Izoard da Briançon. Pare che, proprio questa mattina, una frana sia precipitata sulla strada nel tratto della Casse Deserte: la strada è stata chiusa, per decisione delle autorità francesi. La massa a due ruote è ancora fresca e vivace a sufficienza per lanciare esclamazioni di protesta e rammarico: ma non c'è proprio nulla che si possa fare per rimediare? Mandare i più veloci in avanscoperta a rimuovere l'ostacolo, muniti di pale e piccozze? Unire all'aspetto ciclistico della prova anche un tratto di arrampicata libera con bici a spalle? Sperare nella proverbiale efficienza dei cantonieri d'oltralpe? Niente da fare. Tocca rassegnarsi: alla fine della discesa del Vars, a Guillestre, dovremo tirare dritto per Chateau Queyras ed il Colle dell'Agnello, anziché dirigerci verso Briançon. Certo, così la rando perde circa 1.300 m di dislivello e 53 km; però, tra me e me, non sono poi così sicura di dovermene rammaricare. La salita all'Izoard da Briançon, ad eccezione degli ultimi dieci km, non ha proprio nulla di suggestivo; in più, i trenta km di stradone trafficato, in leggera salita, tra Guillestre e Briançon sono orrendi, angoscianti, infiniti.
Il tempo massimo sarà di conseguenza ridotto, da 44 a 40 ore: si dovrà tornare a Cuneo entro domenica alle 13. E questa non è affatto una buona notizia. Di conseguenza, saranno ridimensionati anche i cancelli orari intermedi, ai vari punti di controllo: ma mi perdo ben presto nella gragnuola di cifre e tempi che il Terribile infligge al suo tristo popolo dall'alto del palco. Ha un piglio tale che gli mancano solo i baffetti, la divisa militare e le mostrine sulle maniche... Sembra quasi che si compiaccia, il fetentissimo, fustigandoci con le sue parole crudeli come punte del gatto a nove code. Anche se io so bene che quell'omino lì non è affatto cattivo come vuol far credere... Potrei demolire in pochi minuti quell'aura di spietata crudeltà che il Terribile si è pazientemente cucito addosso in anni ed anni di onorata odiosissima antipatia!

Mi distraggo buttando l'occhio qua e là sui miei compagni di avventura, in paziente attesa. Nessuna traccia di muscoli lustri e guizzanti, sguardi truci e coltelli tra i denti, o quasi; niente odore di olio da massaggi, niente bici ipertecnologiche tirate a lucido e tutine iperaderenti a caccia del profilo il più possibile aerodinamico. Sembriamo un'allegra e sgangherata armata Brancaleone. Chi ha lo zaino sulle spalle, chi le borse sulle bici, chi entrambe le cose, più qualche chilo di troppo incorporato, ma si sa, quelle sono le riserve di energia per la lunga distanza. Anche negli impianti luce per le bici, la fantasia s'è scatenata: qualcuno ha lampade di ultimissima generazione, fari da discoteca o da stadio, qualcun altro si accontenta di lanterne più o meno improvvisate; cavi, cavetti, batterie piccole e batterie ingombranti, escrescenze luminose sul manubrio o sul casco. E il meglio dello spettacolo si vedrà quando farà buio.

Al termine del solenne discorso in stile Presidente della Repubblica a Capodanno, la truppa sciama nella direzione indicata e si dispone in bell'ordine per il via: qualche applauso, qualche foto, tutti pronti, e invece no, falso allarme, ricominciamo da capo, non si parte da qui ma dall'altro lato della piazza. Meno male, perché qui si trattava di scendere uno scalino! Il primo timbro sulla carta di viaggio arriva nientemeno che dal Sindaco di Cuneo. Saluto la bellissima Piazza Galimberti con le ombre lunghe della sera, tra gli incoraggiamenti della piccola folla che, ebbene sì, s'è radunata anche per noi: tornerò, forse, tra molte ore e molte, moltissime pedalate.
I primi km scorrono lenti, con la protezione delle moto della scorta che ci accompagnano attraverso Cuneo e Borgo San Dalmazzo. Sarà noioso e pericolosetto il primo tratto, quei trentacinque km fino a Vinadio: mi domando perché non si possa passare, da veri randagi, lungo la vecchia strada che corre dall'altro lato della valle rispetto alla Stura. La strada del Colle della Maddalena è caotica: auto, camion, camper, soprattutto piloti nervosi che nulla sanno della Super Rando e che si dimostrano tutto fuorché pazienti nei nostri confronti. Va tutto bene, si fa per dire, finché la truppa resta unita: peccato che, manco a dirlo, io rotoli subito indietro... Con la prospettiva di quattrocento km da macinare, non mi va proprio di sfinirmi già qui, sull'orrido falsopiano. Mi tiene compagnia il buon Roberto, che ha promesso di prendermi come riferimento per risparmiare le forze sulla prima salita: secondo me, se la rimangerebbe già volentieri, la promessa...

Non vediamo l'ora, né Robi né io, che questo stramaledetto tratto iniziale si concluda, ammesso e non concesso che noi si riesca ad uscirne vivi. Senti il rumore del motore che si avvicina alle spalle e non sai mai se chi è alla guida vorrà prendersi la premura di schivarti; che angoscia. Se proprio è destino che in questa corsa io passi a miglior vita, lasciatemi almeno inanellare qualche salita ed un po' di gloria... In compenso, la temperatura è adorabile; già all'imbocco della Valle Stura, siamo ancora al di sopra dei 20°C, e ormai saranno quasi le dieci di sera, notte quasi fatta. Si percepisce ancora un vago chiarore oltre il contorno delle montagne, alla nostra destra: lì dovrebbe essere l'ovest... Una delle poche certezze.
Il "drittone" in leggera salita passa il bivio di Festiona, l'insegna del ristorante, la cappelletta e lo spaccio di latte e formaggi; Demonte, finalmente. Qui è fisiologico che l'occhio saetti tra le colonnine dei portici alla ricerca della vetrina della pasticceria Agnello: chiusa, è ovvio... Ma i vassoi di paste e pasticcini son tutti lì in bella mostra; viene voglia di prendere un mattone, aprirsi un varco nel vetro e fare man bassa. C'è ancora vita a quest'ora in paese. Da qui a Vinadio è ancora lunga, ma un po' più gradevole; c'è qualche curva e si passa ad Aisone, ovviamente con il semaforo rosso, in spregio alla fila di auto e camper in paziente attesa. Uno dei camperisti ci rende il favore appena oltre l'abitato: un sorpasso criminale, schivando per un pelo sia le bici che il camion in arrivo in senso contrario... Ma sei in vacanza, dov'è che devi andare così di corsa, pezzo di idiota? Qui ci vorrebbe Ivano: sarebbe capace di inseguire il malcapitato turista frettoloso fino a sfinimento, approfittare della prima sosta caffè del furbacchine, tirarlo giù dalla cabina e gonfiarlo di legnate!

A Vinadio, per un pelo non saltiamo il punto di controllo. Rallento, mi guardo intorno, nulla... Me l'aspettavo sulla piazzetta, invece no, è poco più avanti, al bar. Timbro veloce: la barista non appare entusiasta del ruolo che le è toccato... Ripartiamo, Roberto sempre pazientemente in coda, ed incontriamo parecchi colleghi che tornano indietro: il controllo, loro, proprio non l'hanno visto!
L'ultimo brivido, per me, è la svolta a sinistra al bivio per il Colle della Lombarda. Hai un bell'alzare il braccio per segnalare la manovra, di notte: difficilmente, da un veicolo che arriva alle spalle, si può vedere la manina tesa. E qui sulla strada della Valle Stura c'è un bel po' di movimento di camion, anche di notte. Fila tutto liscio, per fortuna: la prima ascesa ha inizio. 34 x 27 e tanta pazienza. Uno sciame silenzioso attraversa la borgata: sulla soglia di casa, un autoctono ci osserva perplesso, in canotta, pantaloncini, ciabatte e strofinaccio per i piatti sulla spalla. Starà pensando certo che è ora di smettere di bere...

Sorseggio il caffé mentre, sui primi tornanti, cerco di capire come stanno le gambe. Che fatica spingere su la bici, il corpaccione, lo zaino. E che fastidio il campo visivo così limitato dalle luci della frontale e della pila da manubrio. Qui la valle è ancora profonda ed incassata, offre la vista su uno spicchio di cielo. Quel poco che vediamo, però, è incoraggiante; stelle e ancora stelle. Procedo con immensa cautela, un po' per risparmiare le forze, un po' per vedere bene dove metto le ruote. Alla spicciolata, molti colleghi passano oltre: esorto Robi ad andare, se ne ha, ma preferisce restarmi al seguito ancora per un po'.
Il frastuono del torrente, in certi punti, è quasi assordante. Al buio, gli occhi servono a poco; prevalgono i sensi che non si è abituati ad ascoltare. Di giorno, il rumore dell'acqua è quasi un contorno; di notte, dà alla testa , non c'è scampo. E la strada non si vede; è solo dalla durezza della pedalata, che riesco ad intuire più o meno a che punto siamo, anche se, d'improvviso, il mio senso dell'orientamento già precario subisce un duro colpo: là dove pensavo di essere rivolta con la faccia verso il colle, vedo le luci che arrivano dal fondovalle... E' come se stessi pedalando nel vuoto, senza sapere dove sia la meta; è una sensazione inquietante, anche se l'ho già vissuta più volte.
Finalmente, i primi tornanti ci portano un po' più su, sull'altro lato della valle, da cui ci è concesso di godere un po' più di cielo. Notte limpida e perfetta. L'aria si fa più fresca man mano che saliamo; un refolo di vento, di tanto in tanto, ci rinfresca le idee. E le lucciole ci illuminano il cammino. Sotto e sopra di noi, la lunga scia delle lucine delle altre bici, lente e silenziose. Bevo come una spugna; la prima delle due borracce di caffé e miele è quasi andata. Si suda, nonostante la quota e l'ora tarda, tornante dopo tornante. La prima metà della salita se ne va in chiacchiere e fatica che avevo già messo in preventivo, conoscendomi. Non appena la strada spiana, il freddo della notte sulle braccia nude si fa sentire. In alto, davanti a noi, una fila di luci: possibile che sia il Santuario di Sant'Anna? Eppure no, dovrebbe vedersi solo oltre i prossimi due tornanti... Il ricordo che ho con la luce del giorno mi inganna. E' proprio il santuario; d'altronde, nella valle, non c'è altra costruzione che possa essere così imponentre ed illuminata. Lasciamo le mucche che sonnecchiano in mezzo al prato e l'acqua impetuosa del torrente, per imboccare il bivio, gli ultimi 8 km verso il Colle. Sempre pian piano. Oltre i tornanti, il bosco si dirada fino a scomparire, quasi di colpo; la vista ora spazia sull'intera vallata e sul cielo limpidissimo, nero, una cascata di stelle. Peccato che la luce artificiale delle pile infastidisca gli occhi e dia quasi il mal di testa: d'improvviso, però, oltre una cima alla nostra sinistra, spunta una fetta di luna, luminosissima. Interrompo il chiacchiericcio di Roberto e di un altro collega, per far loro notare con impeto la sorpresa. Ce l'aspettavamo, questa sera, la luna: non piena, ma comunque molto utile. La valle è pian piano invasa da una pallida luce azzurrina; le dita sono intirizzite, le orecchie idem. Lascio che i miei compagni prendano un po' di vantaggio, mentre litigo con le ultime rampe in mezzo ai laghetti che riflettono lo scintillio di chissà cosa. Alle mie spalle non vedo più nessuno; penso ai primi, chissà dove saranno già, a quest'ora. Il Santuario è solo più un bocciolo di luce, lontano. Son passate un paio di auto lungo la salita: sono quasi certa che si tratti dell'assistenza abusiva a qualche randonneur... Cavoli suoi, in ogni caso.

In cima trovo un gruppetto di ciclisti che mi ha preceduta di poco. Vestizione per la discesa: giacca, guanti lunghi ed una buona scorta di coraggio. Si parte, a freni tirati, alla luce della luna e di ogni altra fonte a mia disposizione. Roberto mi sorpassa subito e sparisce; non lo vedrò più. Coraggio Gian, dai, molla un po' questi freni. L'asfalto sembra in buone condizioni; il freddo è pungente, ma non eccessivo; siamo, in ogni caso, ampiamente sopra lo zero. Il guaio è che il buio confonde ancor più, se possibile, i miei sensi dell'orientamento e dell'equilibrio; mi sembra di viaggiare senza appoggio sul terreno. Più che mai qui ho la dimostrazione pratica del realismo della metafora di Ivano: le mie curve, secondo lui, sono quadrate... Da Isola 2000 in poi va un po' meglio, ma solo perché la strada è larga. Ma il sonno non tarda a bussare alla mia porta, improvviso quanto insistente. Pochi km di discesa e già mi si chiudono gli occhi, senza appello. Provo a fermarmi qualche minuto contro il muro di un edificio: seduta a terra, la testa appoggiata alla parete, piombo in un sonno fulmineo e profondissimo. Mi risveglio con un salto quando sento il fruscìo di una bici: allora qualcuno alle mie spalle c'era ancora... Potrei aver dormito un minuto, cinque, dieci, chissà. Mi rialzo infreddolita, torno in sella: da lì a Isola, a fondovalle, una lunghissima battaglia contro le palpebre che vogliono chiudersi. Hai voglia a bere caffé, non serve a nulla; vero, gli occhi sono aperti, ma spesso non vedono; negli ultimi tornanti, più volte mi tocca fermarmi sull'esterno della curva, scendere per un attimo dalla bici, riordinare le idee e ripartire. I chilometri indicati sulle paline a bordo strada non scorrono mai; la luce della luna in questo imbuto non arriva più. Finalmente, Isola: la speranza è che la pianura mi svegli un po', visto che dovrò per forza pedalare. Ma poche decine di metri bastano a farmi capire che non sarà così. Ancora sonno, testa pesante, voglia inarrestabile di fermarmi, lasciar perdere, buttarmi per terra e dormire.

Una luce che non è la mia arriva alle mie spalle: è un ciclista straniero, parla un po' di francese ma ho l'impressione che quella non sia la sua lingua madre. In ogni caso, è l'unica in cui possiamo provare ad intenderci: il guaio è che io più o meno lo capisco, ma ho seri problemi nel rispondere. A quanto pare, anche lui ha avuto qualche diverbio con Morfeo; in più, ha trovato la salita alla Lombarda molto lunga ed impegnativa. Non è un buon segno, penso tra me e me; ci attende ben di peggio... Mi fermo nello spiazzo sulla destra, dove c'è una fontanella, per levarmi gli abiti della discesa; il collega prosegue e si allontana, ma in fondo è meglio così; detesto tentare un dialogo in cui non capisco nulla e non riesco a farmi intendere. Poi riprendo, pian piano, il mio viaggio nel buio. Qualche casa, l'officina di un meccanico, auto malridotte, ancor più tetre nel buio. Poco prima di St Etienne, inizia un breve tratto di risalita; raggiungo un altro ciclista titubante tra la strada principale e la pista ciclabile. Gli suggerisco di tirare dritto e così faccio io: lo sconosciuto non risponde, ma di lì a poco mi risorpassa e tira dritto. Alla prima curva, io getto la spugna un'altra volta: il sonno mi fa barcollare... Scendo di sella, mi siedo a terra con la testa appoggiata al guard rail: un attimo di sonno, il freddo mi aggredisce subito. Mi rialzo, riparto per l'ennesima volta, ma, al tornante successivo, sono dinuovo ferma. Non c'è niente da fare: o mi rassegno a mettere un po' di sonno in tasca, oppure di qui non mi muovo più. Indosso la giacca, mi sdraio sulla comoda pendenza della roccia. Non ho idea di che ora sia quando mi addormento... Al mio risveglio, il cielo ha il primissimo tenuo colore dell'alba. Bando agli indugi: mangiucchio qualcosa, riparto. Breve discesa su St Etienne: il paesetto è deserto. Ormai credo di avere un distacco abissale rispetto ai miei compagni di viaggio, ma non è il momento di gettare la spugna. Chissà...

All'attacco della salita, trovo un ciclista che procede a piedi, la bici per mano. Un guasto non riparabile, povero lui: spero che qualcuno possa provvedere a raccattarlo... Il cielo pian piano si fa più chiaro, ma non è ancora ora di spegnere la frontale. Mi concentro sulla pedalata, sui km da qui alla vetta, su qualsiasi cosa che mi impedisca di pensare al sonno, ma è dura... Le gambe sono di piombo. Dal bivio di St Dalmas alla cima mancano più di venti km; del resto, ormai conosco questa salita come le mie tasche e non ho bisogno dei numeri per sapere quanto dovrò ancora faticare. Si annuncia un'alba stupenda. La cascata alla base dei due tornanti sconfina sull'asfalto; chissà che un po' d'acqua fresca non mi ricomponga le idee... Con infinita fatica tiro avanti. Scruto l'orizzonte, ora che è ormai chiaro, alla ricerca di qualche puntino come me che si muova lungo la strada, ma non vedo nulla. Deserto. Le case di Le Praz sono ancora chiuse, immobili; la vetta si vede già, lassù, nuda e maestosa, ma tanto tanto lontana. Non c'è da esser fiduciosi, eppure, strano, non riesco ad abbattermi. Forse perché me l'aspettavo, la disfatta, o forse perché non è ancora detta l'ultima parola. Oppure, ipotesi più realistica, perché i miei pensieri navigano nella melma del sonno, sono vaghi ed inconsistenti. E le gambe procedono non per scelta ma per abitudine. Meglio così. Sono certa che, quando avrò la luce diretta del sole addosso, andrà meglio. Forse.

Bousieyas, l'ultimo baluardo di civiltà che per me significa, da sempre, essere "quasi in cima". Anche se mancano tredici km di strada in mezzo ai prati ed alle pecore. Supero con fatica la rampa che mi porta al di sopra dei tetti e sbuco su quello che per me è il tetto del mondo... Lassù, poco avanti a me, due figurine pedalanti: uno è senz'altro il ciclista francese, o pseudo tale, che mi ha accompagnata nel tratto in pianura prima di St Etienne. Una botta di coraggio; dunque, non sono sola... Non ci si può nascondere, qui dove la strada sale con ampi tornanti e taglia pendii nudi. Non c'è nemmeno l'idea di un albero; solo cespugli, erba, acqua. Posso seguire il movimento dei due puntini e metto sui pedali, involontariamente, un po' di foga. Uno dei due, il ciclista pseudo-francese, si arena prima dei ruderi di Camp de Fourches; l'altro sembra essersi accorto di me e non intende mollare l'osso. Non sa che io sono a caccia non di rivalità, ma di compagnia: mi va benissimo che lui mantegna la distanza, perché so che, comunque, nei paraggi qualcuno c'è.
Il guaio è che, passate le baracche, il sonno mi aggredisce un'altra volta, a tradimento. Per quanto mi sforzi di concentrare la mente su un pensiero e gli occhi su una linea, non c'è nulla da fare, sbando, barcollo. Scendo di sella, mi siedo a terra, appoggiata alla parete. Pochissimi minuti, forse nemmeno uno; è davvero impossibile capire quanto a lungo si dorma in questi momenti, anche se davanti alle pupille scorre un'infinità di immagini convulse. Il sonno s'interrompe di solito per i brividi di freddo, oppure con un sussulto per l'impressione di cadere. In piedi, in sella, un altro chilometro; mi sa che il fuggitivo è nelle mie stesse precarie condizioni, perché non s'è allontanato di molto. Ancora sonno, ancora una pausa irriverente al cospetto di Sua Maestà dei ciclisti, la Bonette, ancora una volta si riparte, metro dopo metro. C'è già un po' di viavai di auto. Il giro della cima, che sia obbligatorio o meno secondo la carta di viaggio, non lo prendo nemmeno per un istante in considerazione. Al colle indosso giacca e guanti e riparto, mentre il ciclista fuggitivo è ancora intento a vestirsi e mangiare. Non c'è problema, mi raggiungerà.

La discesa è gelida ed angosciante: lunghissima, sarà un vero incubo per lo stato pietoso di sonno in cui mi ritrovo. Il sole illumina già qualche angolo della strada, ma è troppo poco perché il mio bioritmo riesca a capire che è fatta, è giorno e pazienza se stanotte non s'è dormito. Sforzo disperato di concentrazione per seguire la strada e, com'è ovvio, tecnica di discesa ancor più sconclusionata del solito. Mi divido nella mente i tratti del percorso, ecco questo è fatto, quest'altro pure, dai che non manca tanto... Ma, quando incrocio un veicolo, non è così facile centrare lo spazio tra lui e la parete, o tra lui e il baratro, anche se magari ci sono due metri.
Mi raggiunge il ciclista che avevo abbandonato sulla cima. E' giovane, occhio e croce parecchio più di me, e mi chiede se io sia Giancarla... Che dire, sarò un po' povera di spirito, ma non posso negare la sottile soddisfazione che provo quando incontro un lettore del mio blog! Osservo che il collega scende con un paio di pedali normali, senza aggancio: mi viene spontaneo pensare al dolore che ormai tormenta i miei piedi in modo assiduo... "Per le velocità che farò in questa corsa, va benissimo così", mi risponde. E provvedo subito a tatuarmi queste parole sulla fronte, per non dimenticarle. D'ora in poi, al diavolo i pedali a sgancio rapido ed il male lancinante ed i piedi gonfi.

Il laghetto a metà della discesa è già meta di un piccolo raduno di pescatori. Poco oltre, già vedo il fondovalle e mi rincuoro: ci arrivo, però, dopo troppi km ed un'ennesima pausa per il sonno. Al pelo: i due volontari del punto di controllo di Jausiers stanno già sbaraccando. Uno di loro, tra l'altro, è il papà del Terribile: ma, rimbecillita come sono, non me ne accorgo. La delusione mi piomba addosso tutta d'un colpo. E' tardissimo... Sono le nove: significa che ho impiegato dodici ore, ben dodici ore da Cuneo a qui. Meno di centocinquanta km, poco più di tremila metri di dislivello. Non che io sia un fulmine, di solito, ma questo è uno sfacelo... Stanca, demoralizzata ed assonnata, mi rimetto in marcia. "Troverò ancora qualcuno a Vars?". Sì, mi rassicurano, ma senza convinzione. Ora sì che è un bel guaio. Che fare? Continuo, oppure risalgo passando dalla Maddalena e vado a Cuneo, e chi s'è visto s'è visto? Tanto non ce la posso fare, non ha alcun senso. Con poco più di tremila km di bici nelle gambe quest'anno, dov'è che vuoi andare? E poi c'è la stanchezza accumulata con tutte le mattane, per lo più podistiche... Solo nelle ultime due settimane, la 100 km Torino Saint Vincent su asfalto ed i 110 km del Trail di Cro Magnon su per i bricchi. Ok, non lo ammetterai mai, però lo stai provando sulla tua pelle, Gian, che tutto questo ha lasciato il segno.
Anche nel tratto quasi piatto verso La Condamine, ho sonno. E sono stanca, fiacca, non vado avanti. Che fare, proseguire o mollare? Mangio un po' di focaccia, supero l'abitato, il ponte. Arrivo al bivio. Destra, Maddalena e ritiro? Oppure sinistra, Vars e si va avanti? Ma no, dai Gian. Così non si molla. E' da pusillanimi, te ne pentiresti amaramente, lo sai. Decido di tentare il Vars. Se poi davvero il ristoro di Le Claux dovesse già essere sparito... Va bè, pace, allora tornerò indietro e rientrerò in Italia dalla Maddalena. Ma non senza averci provato.

In cerca di conforto spirituale, in barba al costo delle chiamate dall'estero, telefono a Matteo. Intanto, il lievissimo accenno di salita dei primi km oltre il bivio sembra fare già effetto. E il sole, finalmente diretto sulla testa, oltre le due gallerie, mi ringalluzzisce un po'. Sulla destra, è fermo un grosso camper, bianco pezzato di nero, con il disegno del mantello di una mucca: "Bellissimo", esclamo, suscitando orgoglio e soddisfazione nel pingue proprietario. Sotto un cielo azzurro che più non si può, al vero attacco della salita, dopo Saint Paul, sento finalmente il sangue che torna a scorrere nelle vene, nelle arterie, insomma là dove serve. Davanti a me, una distesa di prati verdissimi e, soprattutto, una scia di puntini che procede lungo la strada. Vuoi vedere che... Pesto e pedalo, in barba alla prudenza, che vorrebbe il risparmio delle energie prima di tutto, con un sorriso che si allarga da un orecchio all'altro. Vedo la strada metro per metro, ma ogni metro l'ho già anticipato nella memoria. Raggiungo un paio di colleghi nel tratto degli ultimi, ripidi cinque km: potenza della suggestione, mi sembra di volare... Non è spregio nei loro confronti, è riacchiappare per la coda un sogno che sembrava già scappato via. L'ultima cascata a bordo strada, l'ultimo lungo rettilineo e, infine, il colle. Un gruppo di motociclisti saluta ed applaude: chiudo la zip del gilet, tiro su i manicotti e via, senza nemmeno metter piede a terra, mi dimentico per un attimo che ho il terrore della discesa e mi fiondo a Vars, oltre il lago, oltre il Refuge Napoleon, a capofitto in mezzo agli orrendi palazzoni. Immensa è la gioia quando, nello spiazzo che per tradizione ormai è destinato al ristoro delle Randonnée della Coppi, vedo una fila di sdraio ed altrettanti ciclisti che poltriscono al sole. Allora non sono ancora fuori corsa... Ok, perfetto Gian, adesso però calma e sangue freddo. Non fare cretinate, non lasciarti prendere dalla fretta e dall'entusiasmo. Pappa prima di tutto: formaggio, pane, marmellata, miele, zucchero, frutta secca, tutto in rigoroso ordine sparso. Tanto, pare che qui se la prendano tutti comoda. Poi, cambio d'abito: recupero la borsa che avevo spedito qui ed approfitto dei bagni pubblici, unisex, per cambiarmi maglia, canotta e pantaloncini, darmi una pulita alla bell'e meglio con le salviette e rinnovare lo strato di pasta di Fissan sul soprassella. Infine, trasferisco nel borsello della bici una buona dose di barrette e due merendine, scolo una Red Bull, vuoto l'altra nella borraccia. Rinfrescata e pure rinfrancata, torno in sella e proseguo la discesa verso Guillestre. La rotta qui è nervosa, passa tra i paesi, talvolta risale e ridiscende; non lascia troppo spazio al sonno. E, quando le palpebre mostrano dinuovo voglia di chiudersi, son già quasi in fondo, tuffata nel caldo pesante del fondovalle. Ritrovo alla rotonda un gruppo di colleghi, con cui poi condivido parte del noioso trasferimento verso Chateau Queyras: bellissima, questa valle con le sue gole, ma lunga, noiosa e logorante per la leggera pendenza in salita. Stento, infatti, a seguire il passo dei miei compagni, ma nemmeno, d'altro canto, voglio rischiare di imballare le gambe. Inganno il tempo scrivendo messaggi qua e là. Il fiume scorre impetuoso e rumoroso. Scopro che il collega che viaggia con me è un veterano delle lunghissime distanze, 1001 Miglia, Parigi Brest Parigi e chi più ne ha più ne metta... Ecco perché, sulla breve ma ostica risalita prima del bivio per l'Izoard, lo lascio andare. Sbuffo e sbuffo, fatico a riprendere il ritmo.

Al bivio, un cartello rosso conferma l'infausta notizia: il Col Izoard è chiuso per frana. Un randonneur duro e puro andrebbe almeno fin su a vedere il misfatto con i propri occhi; per fortuna io non lo sono... E tiro dritto senza indugio. Ritrovo i miei compari spaparanzati ad un bar a Chateau Ville Vieille: mi invitano ad aggregarmi, ma di pause io proprio non voglio sentir parlare. Pedalo come una furia verso il bivio per il Colle dell'Agnello. Un occhio preoccupato al cielo: grossi e minacciosi nuvoloni si stanno addensando proprio nella direzione del colle. E ciò non è bello, affatto. Ma non ho molta scelta, purtroppo.

Attacco la salita con molta cautela. I primi cinque o sei km non sono poi così duri, sulla carta: ma il caldo è feroce, l'asfalto è nero, la strada larga e con un certo viavai di auto. So che soffro sempre, qui. Pian piano, senza esagerare: mi godo la vista della Demoiselle Coiffée, che anche oggi affascina un buon gruppo di turisti armati di macchina fotografica. Curva dopo curva, attendo con ansia il primo dei tre paesini che s'incontrano lungo l'itinerario al colle, Molines en Queyras. Appena prima del bivio, sulla sinistra, mi cade l'occhio oggi per la prima volta sul campanile della chiesetta del cimitero: a pianta quadrata, in pietra, è sormontato da una struttura in legno che sostiene gli ingranaggi della campana e da una copertura piramidale; linee semplici, molto belle. E quante volte sarò già passata di qui?
A Molines non mi fermo, anche se avrei voglia di sciacquarmi la faccia, allungare il contenuto delle borracce con acqua fresca e mangiare qualcosa. Supero ancora il lungo rettilineo con la splendida vista sulla valle di Saint Veran e sulla cerchia di montagne intorno al colle: i nuvoloni sono sempre più scuri e minacciosi. Mi sa proprio che non la scamperò, l'acqua... E già ne ho il terrore, conoscendo la discesa in terra italiana. Se piove, io di lassù posso scendere solo a piedi... Pazienza, non c'è proprio nulla che possa fare per evitare il disastro. Ed ho bisogno di una pausa: al secondo paesino, alla prima delle innumerevoli fontane, scendo di sella e mi concedo qualche minuto di tregua. Faccia e mani nell'acqua, mangio due paninetti con il cioccolato, immergendoli nell'acqua per riuscire a buttarli giù. Casette splendide, senza pretese, giardini colorati e prati a non finire: questo sì è un posto dove apprezzerei una casa, altro che quelle latrine da villeggiatura tipo Sestriere...

Un po' rinfrescata, riparto per gli ultimi lunghi km di salita: dodici, occhio e croce, da qui, o poco più. Mi raggiunge uno dei colleghi ritardatari, quello che sostiene di essere qui per colpa mia... Sarà pur vero che per lui è la prima rando, ma lo vedo fresco, riposato ed allegro come un veterano! Davanti a noi, il ciclista con i pedali da passeggio. Al piccolo bar sulla sinistra, presenza un po' fuori luogo nello splendido nulla di questa vallata, abbiamo ancora il sole sulla testa, ma in lontananza già si sentono i primi mormorii del tuono. Il colle è ancora lontano, ma già si vede lassù, proprio nel fitto delle nubi. Andar più forte, per me, non è proprio possibile; la pendenza, verso la fine della salita, si fa più aspra. Mi sforzo di chiacchierare senza pensarci troppo: in fondo, ogni pedalata all'asciutto mi avvicina lassù senza danno... I colpi di tuono si susseguono e rinforzano; e dire che, nei tratti in cui la strada volge verso il fondovalle, si scorge un bel cielo azzurro. Meno cinque, meno quattro, tornanti e rampe finali; all'ultimo rifugio, quando mancano circa due km, le prime gocce raminghe, tra gli escursionisti armati di ombrelli e giacche impermeabili che si ritirano in buon ordine verso le auto. Meno uno e sono ancora asciutta; il colle ormai è lì... Viaggiamo in tre, di buon passo, fino all'ultimissimo tornante, fino al vento che ci investe in vetta. Il cielo è plumbeo, la strada nera, sporca, bagnata: vuoi vedere che capita un colpo di fortuna? Sembra che qui il temporale si sia già scaricato... In preda ad una tremenda altalena di paura ed euforia, mi vesto e schizzo giù. Schizzo, si fa per dire, perché parto già a freni tirati. La Ridley ha il pregio di una frenata potentissima, ma il difetto – che è difetto solo per me – di permettermi di impugnare le leve solo "da sotto", come peraltro sarebbe normale fare, per un normale ciclista. Ecco: quella posizione, con il didietro per aria ed il peso del tronco sbilanciato in avanti, verso il basso, accentua la mia orrenda sensazione di siluro lanciato verso il vuoto; se poi ci aggiungo la pendenza fortissima della strada dal lato italiano, fino a Chianale, il disastro è assicurato. Nelle prime curve, mi affianca il neofita delle rando: "Volevo vedere se sei davvero così paracarro come dici...". Ottima occasione perché tu possa verificarlo di persona! Scendo, è il caso di dirlo, a passo d'uomo. Cade qualche goccia, la luce è quella che precede la notte, anche se siamo appena nel pomeriggio. Però, è evidente che il peggio, qui, è già passato. Mi sento quanto mai instabile, "come d'autunno sugli alberi le foglie": come se fossi appesa su un veicolo di cui non ho il minimo controllo... Ho già le dita piene di crampi, a furia di stringere le povere leve. Dopo poco più di due km di discesa, quando la strada s'affaccia sulla lunga serie di tornanti, è il panico. Scendo pianissimo, al punto quasi da cascare giù di lato; non riesco ad imboccare il primo tornante, tanto che mi devo fermare e girare la bici sollevandola. Mi faccio impressione da sola per quanto sono ridicola, ma che ci posso fare? E poi rampe, ancora rampe, il pensiero fisso ai cavi dei freni, già li vedo sfilacciati, sul punto di rompersi, li vedo spezzarsi e vedo me stessa partire come un siluro verso il tornante, verso il vuoto. O magari buttarmi a terra per evitare il salto e grattarmi via la pelle contro la strada... Un lungo, interminabile supplizio. Al punto in cui la pendenza raggiunge il 16%, decido che per me è troppo. Scendo di sella e percorro quella rampa a piedi; ne approfitto per chiamare Matteo, con un tono questa volta ben più incoraggiante della telefonata precedente, anche se in questo preciso istante mi trovo, ecco, in difficoltà. Chissenefrega: alla peggio, continuo a piedi fino a Chianale. Ma non è necessario; riesco, sia pure con difficoltà, a tornare in sella. Mi superano frotte di ciclisti, della corsa e no, ma questo ormai è normale. Anche su Chianale, il cielo è cupo: ma confido nelle previsioni meteo, che per questa notte annunciano miglioramento. Ora, tutto ciò che desidero è raggiungere Sampeyre: dovrebbe essere possibile fare una doccia e dormire un po'. Il lago, Pontechianale, la lunga discesa su Casteldelfino; il freddo mi morde le mani e le gambe nude. Non so se sia la pioggia a bagnarmi, o l'acqua che le ruote tirano su da terra; ma quant'è ancora lontana Sampeyre... Tuoni in lontananza, foglie strappate sparse sulla strada, il lungo rettilineo davanti all'area pic nic, il campeggio. Finalmente, Sampeyre e, come promesso, le frecce che indicano la palestra. Si sale nella parte alta del paese, su per rampe che tagliano le gambe: crudeltà gratuita... Sulla più dura, scendo e procedo a piedi, al diavolo l'orgoglio. Arrivo all'ingresso della struttura e trovo un'accoglienza calorosa come mai mi sarei immaginata, da parte sia dei volontari che dei ciclisti presenti. E' un'iniezione di fiducia ed allegria, vedere qui tanta gente che se la prende con calma. Forse c'è tempo anche per me... Con vivissima gioia, mi ritrovo davanti il Terribile, nella veste affettuosa e sincera che io conosco: un suo complimento per la mia testa dura è il più forte degli incentivi... C'è anche Roberto, già sulla via di ripartenza, ed il mitico Giaccone. Un po' confusa e frastornata, mangio un piatto di pasta, seduta sul bordo dello scalino. Poi, con calma, mi concedo una doccia. Certo, tutto ciò stride con l'aura di professionisti della fatica che qualcuno attribuisce ai ciclisti di questo splendido viaggio... Ma per me l'acqua caldissima ed il sapone sulla pelle significano la rinascita; starei qui a godermi il getto bollente per ore. Mi cambio, indosso questa volta i pantaloni ¾; ripongo gli abiti sporchi nella borsa che mi sarà rispedita a Cuneo. E commetto, qui, un errore fatale: decido di rimandare il trasferimento del cibo, dal borsone al borsello della bici, a dopo la nanna. Perché saranno anche le sette e un quarto di sera, ma io casco letteralmente dal sonno. Conquisto un materasso ed una coperta e piombo nel sonno: profondissimo e ristoratore. So bene che, così facendo, perdo le ultime ore di luce della giornata, che sarebbero buone per pedalare, ma so anche che non ho alcuna speranza di riuscire a superare un'altra notte completamente insonne. Rischio poi di dovermi rassegnare a dormire magari su in alto, in quota, al freddo ed all'addiaccio. Tempo ne ho ancora, quindi meglio essere cauti e saggi, una volta tanto, e fermarsi qui per un po'.
Mi risveglia il brusio di un gruppo di ciclisti in partenza: uno sguardo all'ora, sono solo le otto e quaranta; meravigliosa sensazione di potersi girare dall'altra parte e riprendere il sonno.

La sveglia suona alle undici. Mi ridesto un po' intontita: la palestra è buia, solo un alone delle luci di emergenza; c'è solo più una persona, oltre a me, che russa beata sulla branda accanto. Subito dopo, lo squillo di un messaggio. E chi può mai essere a quest'ora? Stento a credere ai miei occhi: è Lorenzo, il mitico 53x1. "Ciao Gianca, dove sei? Ti aspettiamo sui primi tornanti del Sampeyre". Ma come... Sul Sampeyre? Ma che ci fa qui? Bando alle elucubrazioni. Schizzo giù dal mio giaciglio, mi fiondo ancora una volta in bagno; poi vado al recupero della bici ed alla ricerca della scorta di cibarie nella borsa... Che non c'è più. Oh cavolo... Che fine ha fatto la mia borsa? Probabilmente è già in viaggio verso Cuneo... I volontari sono già in via di smobilitazione; dovranno lasciare la palestra a mezzanotte. Forse potrei chiedere a loro, magari l'hanno caricata su un veicolo che è ancora nei paraggi... Ma non oso disturbarli oltre: sono già stati anche troppo gentili e disponibili. E' comprensibile che abbiano voglia di andar via, anche loro. Recito un requiem per il mio Camembert, il mio pane, le marmellate, il miele, il succo di frutta, le lattine di Red Bull, gli yogurt. Quando il gioco si fa duro, del resto, i duri cominciano a giocare: mi restano tre o quattro barrette ed un gel, me li farò bastare.

Saluto tutti, preparo la luminaria. La musica assordante di un raduno motociclistico, in corso proprio qui in paese, accompagna la mia partenza: e dire che, con questo frastuono, io ho dormito come un ghiro... Poco prima delle undici e mezza, eccomi ad affrontare il Colle di Sampeyre. Massima cautela, nel passo e nello sguardo. La strada è tutta una buca, una crepa; il temporale ha trascinato ghiaia e sabbia sull'asfalto; non è semplice salire schivando le pietre. Ma non avrei proprio voglia di mettermi a cambiare una camera d'aria adesso...
Salgo pian piano in una quiete sempre più irreale. Le luci del paese si spengono giù in basso; attorno a me, silenzio, gocce d'acqua che cadono di foglia in foglia, rivoli che si sentono scorrere, occhi piccoli e gialli di gatti o di chissà che, mi fissano per un attimo e scompaiono. Squittii e versi di uccelli, latrati di cani lontani chissà quanto, un firmamento di stelle sopra la testa, là dove le piante lasciano un po' di spazio. D'improvviso, oltre una curva, una lucina e due fanali di auto che si accendono: eccolo, è lui, Lorenzo, in compagnia di una ragazza che, mea culpa, ancora non conosco, ma che scoprirò essere una ciclista di tutto rispetto. Non riesco a credere che si siano sciroppati tutta questa strada solo per me... E domani Lorenzo parteciperà ad una corsa in bici! Sono contentissima di vederli, anche se mi fermo solo per pochi istanti; la loro presenza è un incentivo in più per mettercela davvero tutta. Manca poco... E Lucia e Lorenzo sono le ultime due persone che incontrerò da qui al colle, e poi per buona parte della discesa. Riprendo la mia marcia nella solitudine più assoluta. Un leggero venticello agita le foglie, che alla luce della frontale sembrano d'argento; di tanto in tanto, quando passo con le ruote su una pietra, un improperio squarcia la quiete. Dal nero del bosco, sento lo scampanio delle mucche al pascolo, fruscìi e fischi di ogni genere, e a tratti nulla, assolutamente nulla. Di tanto in tanto, a qualche curva, spuntano le luci sempre più lontane del fondovalle. Non sempre sono certa del punto in cui mi trovo; la notte altera le distanze e le sensazioni. Ma, quando arrivo alla fontanella sulla destra, che poi altro non è che un pezzo di tubo di gomma, ho la certezza che ormai è quasi fatta. Di lì a poco, il bosco lascia il posto agli ultimi km con vista sulle stelle e sulla sagoma appena accennata, splendida, del Monviso e delle cime lì accanto; la Luna ancora alta, tanto che, in omaggio al Colle, spengo entrambe le luci, la frontale e quella da manubrio, e salgo alla sola fioca luce azzurra, fino al noto spiazzo proprio in faccia al Monviso. E' così bello che varrebbe la pena di stendere il sacco a pelo e dormire qui... Ma non ce l'ho, il sacco a pelo. Mi vesto e mi avvio in discesa: non ho più nemmeno i guanti lunghi, che sono rimasti nel borsone; per fortuna, la temperatura non è così rigida. I primi quattro km verso il Colle della Cavallina scorrono lenti: al buio, ho la sensazione che la pendenza sia ancora più forte e che la bici sia ancor più difficile da governare; mi aggrappo, come sempre, alla mia unica ancora di salvezza, le leve dei freni. Vedo di sfuggita le luci disperse sui pendii più in basso; sento, anche qui, i campanacci delle vacche, che però non riesco ad individuare. Ho paura della discesa, di questo tratto in cui attorno non c'è nulla; dal colle in giù, se non altro, ci sarà il bosco...

Mi pareva di ricordare, anzi direi ne sono certa, che qui alla Cavallina, al rifugio, ci fosse un punto di controllo. Ma così, occhio e croce, mi par di capire che siano tutti a nanna. Provo ad avvicinarmi con cautela alla porta d'ingresso: tutto buio, chiuso, sprangato. Ohibò, e mò che faccio? Non ho macchina fotografica né telefonino con fotocamera; non vedo proprio come potrei provare senza spazio per il dubbio di esser passata di qua. Bah, pazienza, non ha alcuna importanza, non posso certo stare ferma quassù a cincischiare: per giunta, fa freddo... Riprendo la discesa verso Stroppo, un interminabile calvario di buche, fessure, sabbia e sonno. Non è una strada, questa, è una mulattiera... Tornanti dopo tornanti, attendo l'arrivo almeno delle prime case, ma il sonno non ammette repliche. Vedo ombre che mi attraversano la strada; la bici sbanda qua e là. Mi fermo qualche minuto su uno slargo, appoggio la testa contro una catasta di tronchi; riparto, macino ancora un po' di strada. D'improvviso, vedo una corda tesa in mezzo alla strada, all'altezza della mia faccia, tra due alberi; spaventatissima, inchiodo e per poco non cado... La corda tesa lentamente riprende le sue sembianze, è il bordo della strada che, chissà come, s'è spostato e sollevato nella mia fantasia. Butto a terra la bici e lo zaino, a mò di cuscino, mi sdraio, mi addormento.

Torno nel mondo dei vivi col frusciò di una ruota che mi passa accanto, lungo la strada. Dev'essere il collega che ho lasciato ancora tra le braccia di Morfeo, a Sampeyre. Mi rialzo anch'io, mi scuoto, riparto, lottando contro le pesantissime palpebre fino a Stroppo, all'incrocio con la strada di fondovalle della Val Maira.
Non resta che l'ultimo vero scoglio. I 22 km di salita al Colle di Fauniera, da Ponte Marmora: sulla carta, il versante più facile, ma a questo punto non c'è più nulla che possa definirsi facile. Piano, Gian, pianissimo, un km dietro l'altro. Se necessario, salirai anche a piedi, ma lassù ci devi arrivare, per forza. Trovarai un amico ad aspettarti, per giunta: vorrai mica deluderlo?
Il cielo comincia appena a cambiare colore. Salgo senza luce, agli ultimi raggi della Luna, con la compagnia del frastuono del torrente, ora alla sua destra, ora alla sinistra. Fino al primo paese, lo so, si sale poco. Un km dopo l'altro, con fiducia e calma: e sono già a Vernetti, il luogo del punto di controllo. Chissà se qui troverò qualcuno? Altroché. Con mia gran sorpresa, la Locanda Ceaglio è in piena attività; la titolare, il marito ed il giovanissimo rampollo sono impegnati a sfornare piatti e caffé proprio per noi ciclisti. Gentilissimi, oltretutto, e disponibili: vale davvero la pena di tornare qui, magari in orario diurno, per la splendida ospitalità che ci viene riservata questa notte. "Non è che io sia entusiasta di restare tutta la notte in piedi, visto che siamo già aperti 18 ore al giorno – sentenzia la signora – ma lavoriamo in prevalenza con i ciclisti, quindi, se c'è da farlo, lo facciamo". Penso all'atteggiamento di altri esercizi commerciali piazzati sul percorso della Granfondo Fausto Coppi, che fanno il diavolo a quattro contro il passaggio della gara, e mi consolo al pensiero che in fondo qualche persona intelligente e disponibile da queste parti c'è!
Abbandono la locanda con un arrivederci e riprendo il mio cammino, con un doppio caffé in corpo. Sempre con cautela, con un occhio ai cartelli che segnalano i km mancanti alla vetta. Sono tanti, Gian, ma pian piano ce la farai. Sorge il sole mentre percorro il tratto quasi in falsopiano verso Tolosano, e poi la lunga sequenza di tornanti in mezzo al bosco. Quella stessa sequenza di strappi brevi ma ripidissimi, un insulto ai garretti, quattro o cinque, uno dietro l'altro nell'arco di pochi km. Sul primo, mi ammutino e scendo di bici: quei pochi secondi che perdo, salendo a piedi, sono nulla in confronto alle energie che risparmio. I muscoli sono ormai troppo provati. Poi torno in sella, continuo a salire pian piano, tra le pigne, curva dopo curva, di buona lena, mentre tutt'intorno le cime s'incendiano di rosa nella luce di una splendida giornata. Guardo giù, ma non c'è traccia dei miei colleghi rimasti a fare il pieno di pappa e riposo alla locanda. Ad una curva, appena lo sguardo supera il basso parapetto in pietra, lo spettacolo è da levare il fiato: il Monviso, limpidissimo, d'un colore rosa acceso, sullo sfondo di un cielo appena più chiaro. Meravigliosa quest'immagine, meraviglioso essere qui, nonostante la fatica che tanto ormai non si sente più. Ancora strappi, li affronto tutti in bici tranne l'ultimo, che supero ancora a piedi, perché è proprio spietato, E poi, fuori dal bosco, le prime malghe, la strettoia, la vallata che si apre sui prati. Le marmotte che tornano a fischiare; fiori ed acqua dappertutto; l'ultima malga, dove si compra dell'ottimo formaggio. Se non fosse troppo presto... Mancano ancora cinque km e le gambe girano come se fossi fresca e riposata. Piano, Gian, non esagerare, non farti prendere dalla foga. Le cime spuntano una dopo l'altra, la bellissima Rocca La Meja su tutte, è uno spettacolo impagabile, riempe il cuore di una gioia incontenibile. E poi so che, ormai, metro dopo metro, è fatta, so che arriverò a Cuneo e potrò stringere tra le mani la maglia Finisher per cui avevo già perso la speranza...

Oltre una delle ultime curve, ecco un losco figuro in Vespa. "Toh, chi si vede", esclamo, ma sapevo benissimo che l'avrei incontrato. E' Giorgio, che s'è sciroppato una levataccia inaudita per venire fin quassù, da Virle, in sella al motorino. Ha portato, dice, due banane ed una bottiglietta di Coca Cola: lo caccio via senza nemmeno fargli finire la frase, "No, non si può, è vietata l'assistenza, mi squalificano...". Metto tale foga nel mio rifiuto, che il poveretto, dal terrore, s'allontana. Lo ritrovo su in cima, al Fauniera, dopo aver percorso con gran fatica l'ultimo km di salita, che dell'asfalto ha ormai solo un pallido ricordo. Non riesco a smettere di ammirare quanto sia tutto bellissimo qui intorno; vorrei potermelo portare via, questo posto, fino a casa... Al colle, fervono i preparativi per il passaggio della granfondo; i volontari stanno montando il gazebo del ristoro. Una signora gentile e premurosa, che scopro poi essere la mamma di Emma Mana, la boss dell'organizzazione della gara, mi offre un caffé con lo zucchero; in barba a tutti i divieti, poi, finisco per cedere alle lusinghe del buon Giorgio e stappo anche la Coca Cola.

Suo malgrado, il poveretto decide di accompagnarmi in discesa; pessima scelta per una moto che non ha le marce, almeno così ho capito, ma solo i freni. Se pensa di scendere alla mia velocità, anzi alla mia lentezza, rischia di fondere tutto... Infatti, molto opportunamente, decide di andare avanti e fermarsi di tanto in tanto. C'è da dire che, per me, la discesa del Vallone dell'Arma è meno critica di altre, a parte i primi quattro o cinque km; impiego sì un'eternità a percorrerla, ma è un'eternità un po' meno eterna del solito. Del resto, è proprio la cautela che, nelle prime curve, mi salva dall'incontro ravvicinato con il cofano di un'auto sbucata all'improvviso.
Lo spettacolo del Vallone è anch'esso impagabile. La neve che, fino a qualche settimana fa, occupava la strada, è sparita. Si scende di buona lena, si passa la baita, poi i tornanti, in mezzo ai pascoli ed alle mucche che mi osservano perplesse; i paesini, uno dopo l'altro. Ad un certo punto, Giorgio, fermo a bordo strada con la cartina aperta sotto il naso, sentenzia: "Hai ancora trentacinque km". Sì, e una Madonna del Colletto in mezzo...

A Demonte, mi svesto ed imbocco la stradina laterale che porta dall'altro lato della Stura. L'aria è limpidissima e frizzante, io sono su di giri, emozionatissima, felice. La scorta motorizzata mi accompagna fino alla prima rampa oltre Festiona: poi mi abbandona, onde evitare di fondere il motore. Saluto, ringrazio, schizzo via, pazza di gioia: le staffilate della Madonna del Colletto non si sentono nemmeno più. "Sei la prima della granfondo", mi prendono in giro alcuni viandanti che aspettano il passaggio della gara: "No – medito tra me e me – non sono la prima della granfondo, ma ho fatto di peggio...". Il colle è sopra la mia testa, nascosto da una fitta vegetazione; le rampe sono crudeli, ma nulla possono contro l'entusiasmo che anima i miei garretti. Pedalata dopo pedalata, in piedi o seduta, ora non ho più il pensiero di dover risparmiare le forze. Nello spazio di tempo che mi sembra un attimo, sbuco fuori dall'ultima curva: in cima, al ristoro, applausi e complimenti, il timbro sulla carta di viaggio, una bottiglietta d'acqua frizzante. E' fatta, Gian. E' fatta davvero. Riparto in discesa, pianissimo, come se camminassi sulle uova; mi hanno raccomandato di fare attenzione alle "buche invisibili"... Infatti è proprio così; l'asfalto ha veri e propri avvallamenti, profondi, che però da lontano non si individuano, se non per i segni tracciati con le bombolette colorate: tu vai per la tua strada e d'improvviso ti senti mancar la terra sotto le ruote... E' una sensazione che mi mette gran paura: ma ormai posso permettermi di tirare i freni, come e quanto mi pare. E' fatta, è dannatissimamente fatta, e cosa importa se impiego due secoli a raggiungere Valdieri. Da qui in poi, la strada è presidiata ad ogni incrocio; ho l'impressione che sia imminente l'arrivo dei primi atleti del percorso corto della gara. Ma della sorveglianza approfitto anche io: sotto un bel sole già caldo, in pianura, raggiungo Borgo San Dalmazzo. Un collega mi offre di seguire la sua scia, ma non ce la farei, proprio non ne ho la testa; voglio godermi gli ultimi km in tutta tranquillità. Da Borgo a Cuneo si viaggia per strade secondarie, che mai e poi mai saprei ritrovare da sola: infatti, ad un incrocio, è solo grazie alla solerzia di un sorvegliante, che non tiro dritto anziché girare a sinistra. Mi chiama per nome, quel volontario: toh, un altro lettore... Felicissima, parto di gran carriera. I cartelli della corsa annunciano meno cinque, meno quattro, meno tre. Peccato solo per il passaggio nel viale di Cuneo, chiuso alle auto e caotico di gente a passeggio: ma non ha importanza, un attimo dopo c'è la piazza, l'arco d'arrivo che non è per me anche se ci passo sotto, il gazebo dell'ultimo controllo. 390 km, circa 10.000 m di dislivello, 37h 40' comprese le pause. L'ultimo timbro, la maglia rossa, bellissima, "Finisher", la tensione che si scioglie. E il viaggio verso casa, in auto, prima che il sonno abbia il sopravvento. Una soddisfazione immensa ed un immenso grazie a chi l'ha resa possibile: sì sì, proprio lui... Il Terribile!