domenica 17 ottobre 2010

17 ottobre 2010 - In mountain bike al Col de Turini

La rotonda della stazione ferroviaria di Cuneo non è il luogo più intimo e tranquillo per darsi appuntamento, men che meno in un tardo sabato pomeriggio di pioggia. Sprofondata nel sedile ormai deforme della Opel, con la radio a volume vergognoso, osservo sonnacchiosa i lampi di luce che s'allargano a macchia d'olio nelle colate d'acqua sul parabrezza e sui vetri laterali. E' ormai buio da un po'. Clacson, rumori, auto che passano a due dita dal mio specchietto retrovisore: in effetti, non si può dire che io abbia realizzato un parcheggio magistrale. "Sono alle porte di Cuneo, adesso cerco di ritrovare la piazza", scrive Matteo. Sempre affannato, pover'uomo: ma non è lui che è in ritardo... Sono io, che sono in anticipo!
Aguzzo la vista per individuare, tra le tante, la sagoma del suo furgone bianco, ben sapendo che il mio è uno sforzo inutile: se il tapino dovesse contare sul mio occhio di lince, potrebbe anche scavare un solco a furia di girare intorno al rotondone, prima che io sia riuscita ad individuarlo. Come da copione, è lui ad individuare me: conquista un parcheggio, magistrale almeno quanto il mio, dieci metri più avanti. Incuranti del traffico furioso e del concreto rischio di diventare parte integrante del manto bituminoso, abbandoniamo entrambi le postazioni, ma solo per decidere di andare a parcheggiare un po' più avanti, in una delle tante traverse del viale dell'ospedale.

Abbandono lì la povera Opel, con un po' di apprensione, come sempre. Sotto la pioggia battente, Matteo trasferisce la mia mountain bike sul furgone: io ci butto il mio bagaglio, una borsa quasi vuota ed uno scatolone pieno di derrate alimentari. All'occhio dell'uomo della strada, sembra che siamo come minimo in partenza per una spedizione himalayana. Invece no: destinazione Valle Roya, a pochi km da Breil lungo la strada per il Col de Brouis, presso una Chambre dove già una volta abbiamo trovato gradevole ospitalità. La gestisce una matrona francese gioviale e simpaticissima, ma che credo, a giudicare dalla struttura fisica che ricorda il tronco di una quercia secolare, sia prudente non far arrabbiare. Matteo dice che la gentil donzella, già al telefono, s'è ricordata di lui: e ci credo... Non credo subiscano spesso, da queste parti, la piaga dell'invasione delle cavallette. Con quel che mangia lui a colazione, il bilancio dell'attività registra una perdita secca da riportare nei secoli dei secoli!

La pioggia non dà tregua. Robilante, Vernante, Limone; i tergicristallo lavorano senza sosta. E il mio umore rotola sempre più verso il fondo dei calzini. Mi sa che, domani, il giro in bici me lo sogno. O, se anche dovessi costringermi a saltare in sella, sarà un supplizio. Matteo, impermeabile non solo all'acqua ma a qualsiasi altra fonte di disagio, è più che mai giulivo e deciso: sia per la gita di domani, sia per la passeggiata prevista per questa sera, dalla Chambre al Col de Brouis e ritorno, otto o nove km, più o meno. A me vien già la pelle d'oca: vero, sono io stessa la prima a tormentare me medesima ed il mio prossimo se non ottengo la mia quotidiana dose di movimento e fatica; stasera, però, ammetto il mio cedimento. Non riesco a trovare la voglia né il coraggio di buttarmi fuori in queste condizioni meteo; sono qui, rattrappita sul sedile, già infreddolita al caldo dell'abitacolo...

Il tunnel del Tenda sembra il passaggio segreto verso un altro mondo. I soliti pochi minuti di palpitante inquietudine lungo il budello buio e stretto, e poi... Niente più pioggia; mi sembra persino di scorgere una stella. E' una stella, infatti. E allora giù per i pochi tornanti, con il morale che pian piano risale dal fondo delle scarpe in cui s'era rifugiato.
Il furgone di Matteo fa sì che i viaggiatori, almeno quelli che siedono davanti, subiscano l'"effetto pullman". Il sedile è alto rispetto al piano stradale e rende le curve, o meglio il baratro a fianco, ancor più impressionante. Per fortuna, Matteo sa bene che io patisco l'auto e che, soprattutto, sono in preda al terrore quando il volante non è nelle mie mani, e mi concede la grazia di andar piano.
Le luci dei paesi, giallognole e fioche, illuminano il deserto. Le serrande chiuse, gli scheletri dei banchetti della frutta abbandonati in attesa di un nuovo giorno di lavoro. C'è poco da illudersi; le previsioni meteo, per domani, annunciano tregenda e difficilmente, ormai, sbagliano. Doppia stizza: la colazione è fissata per le otto e mezza... Ho dovuto far ricorso a tutta la mia pazienza, per dissimulare il nervoso. Ma dico io... Partiamo per un giro in bici in un giorno in cui la mattina, forse, sarà l'unica finestra salva da pioggia... E facciamo colazione alle otto e mezza? Vero, la colazione della padrona di casa, al B&B, è eccezionale, ma cavoli, svendere così una giornata in bici per i comandamenti dello stomaco... Amen, vorrà dire che partirò con il nervoso. Una cosa devi mettertela in testa, Gian: per quanto tu possa incontrare il miglior compagno di viaggio al mondo, e Matteo senz'altro lo è, la situazione ideale per il tuo carattere è sempre e comunque la solitudine. Niente compromessi, fai quello che ti pare, quando e come ti pare. Da sola, domattina me ne infischierei della colazione e partirei in sella alle prime luci dell'alba, a dispetto del freddo. Invece, mi toccherà fare buon viso a cattivo gioco. Che mostro che sono. Ai tempi, il mio ex moroso aveva sentenziato qualcosa del genere: "Quando vuoi una cosa, sei capace di passare come un rullo compressore sopra a tutto e sopra a tutti". Voleva essere un'accusa, credo, ma io l'ho preso come il più originale dei complimenti e ne ho fatto una sorta di linea di vita. Solo, dovrei essere più altruista. Non sono capace di costruire un legame che resista all'impeto dei miei capricci ed alle mie passioni sportive, quand'essi lanciano il loro richiamo. In altri tempi, avrei piantato su un bel quarantotto, avrei messo la sveglia alle sei, sarei partita da sola e chi s'è visto s'è visto. Ora, che sono più vecchietta e meno incline alle esplosioni, mi limito a rimuginare tra me e me, mentre il furgone s'arrampica da Breil verso il Col de Brouis.
A pochi km da Breil, c'infiliamo in una minuscola stradina sulla sinistra, che, tra una buca e l'altra, ci conduce al B&B. Un edificio ristrutturato, a pianta rettangolare, semplice, simile a tanti altri in questa zona di sole ed ulivi, con le porte e gli infissi dipinti di un color lilla. Ci accoglie alla porta un omone baffuto, un marcantonio con una pancia che denota una gravidanza plurigemellare avanzata; pochi istanti ed ecco la nostra padrona di casa, florida e sorridente come sempre, in vestaglia. Ci accoglie come vecchi amici, con una giovialità troppo travolgente per essere di maniera. La camera è già aperta, possiamo sistemarci come ci aggrada.

Ci sistemiamo, infatti: non abbiamo ancora messo piede nella camera che già facciamo piazza pulita delle suppellettili sul piccolo scrittoio ed imbandiamo tavola per la cena. Yogurt, formaggio, pane ed un'ottima torta salata gentilmente offerta da Matteo. Sfoghiamo sul cibo la nostra furia distruttiva, senza neanche sederci: pochi minuti per i preparativi e ci ritroviamo ancora fuori, al freddo, a calpestar la ghiaia umida, la terra umida, l'asfalto umido. Tutto sommato, la compagnia aiuta: da sola, mi sarei inumata sotto le coperte, vestita e calzata così com'ero. Invece, un moto d'orgoglio mi spinge a rimettere in moto il fondoschiena, nonostante tutto. Devo pur difendere la mia reputazione di donna "de fero", ma soprattutto "de coccio"...

Il clima non è poi così rigido come sembra. Camminare in salita aiuta a scaldarsi; poche decine di metri e già tolgo qualche strato. Saliamo di buon passo, rigorosamente a bordo strada; poche le abitazioni, pochissime le auto che incrociamo. Alla nostra sinistra, le luci di Breil; di fronte, la traccia appena percettibile che divide il cielo buio dal profilo della montagna. La pila frontale quasi non serve; c'illumina la luce fredda della luna. Un occhio agli ometti che, a bordo strada, segnano i km e la quota: Matteo me le ha ben comunicate, le cifre, ma come al solito io ho rimosso. Così non ricordo da che quota siamo partiti, a che quota arriveremo, nulla. Beh, non ha importanza; non sarà l'ascesa al K2. Chiacchieriamo, di tutto e di più. In cielo, una distesa di stelle: e chi l'avrebbe mai detto, solo un paio d'ore fa? Un barlume di speranza per domani si accende. Chissà se riusciremo a pedalare senza prender pioggia, o, peggio, neve. E' vero, la mountain bike è già più gestibile della bici da corsa, sul bagnato, ma pedalare al freddo ed all'umido non è la mia massima aspirazione. E' assurdo recriminare contro Giove Pluvio, ma ho tanto desiderato questa gita, che lo sgambetto del meteo sarebbe per me un'offesa personale! Scivoliamo da un argomento all'altro, da una curva all'altra, finché raggiungiamo, quasi di sorpresa, il colle. C'è un ristorante quassù, forse un albergo. Un edificio un po' discosto dalla strada, illuminato da una fioca luce. Un cane abbaia furioso al nostro passaggio. Ci spingiamo appena dall'altra parte del colle, per buttare l'occhio al paesaggio; subito torniamo sui nostri passi. Il cagnone, sempre più indignato, decide di verificare da vicino le nostre intenzioni; ci corre incontro, ma senza intento bellicoso. Ci controlla, ecco. I suoi latrati richiamano il padrone di casa, che fa la sua comparsa sulla porta. Lo rassicuriamo... Siamo solo a spasso. In effetti, a sera inoltrata quassù, dev'essere insolito incontrare anima viva. Torniamo giù, di buon passo e ben imbacuccati; la discesa, ormai lo so per esperienza, porta un senso repentino di freddo e brividi. Il tragitto, per fortuna, non è molto lungo; confesso che ho freddo, e anche sonno. Domattina la sveglia suonerà tardi: è l'unico cruccio che mi tormenta... Va bé dai, Gian, fattene una ragione. Un po' di riposo, ogni tanto, non può che far bene. Me lo dicono tutti: sarà per questo che non ci credo...

E' la seconda volta che alloggio qui, e già mi sento un po' a casa, quando i piedi scivolano appena sulla ghiaia, la chiave gira nella toppa della porta color lilla, la stanza semplice ed ordinata ci accoglie. Infilarsi sotto il piumone è uno degli istanti più apprezzati nella stagione fredda... E dire che siamo vicini al mare, che questo non si può nemmeno definire freddo, ed io già batto i denti. Che farò quest'inverno? Soffrirò, come sempre...

La luce limpida del mattino inganna, se la si osserva dai vetri della finestrella. Ci si aspetta di uscire e goderne il tepore... Ma basta esporre all'aperto un alluce per rendersi conto che non è giornata. Per quanto stanchi e nottambuli, non siamo comunque dormiglioni; già operativi da un po', ci tocca attendere l'ora della colazione. Fremo: vorrei saltare in bici subito, abbandonare Matteo ai piaceri delle marmellate ed avviarmi. Ma la fame si fa sentire, anche per me: se combino un numero del genere, va a finire che stramazzo tra dieci km. Sì, no, forse... Il cielo sembra promettere una bella giornata. Ci avviamo titubanti verso la cucina: proviamo a bussare... Sì, la padrona di casa è già in azione; ci accoglie con la solita travolgente cordialità. Sul tavolo, di fronte ad una luminosa veranda, una distesa di vasetti di marmellata, quella che Matteo ed io ben ricordavamo dalla nostra visita precedente. Marmellate molto coreografiche, oltre che gustosissime: cosa darei per poterle sbafare a cucchiaiate, una dopo l'altra! Soprattutto quelle dal gusto amarognolo, sempre le mie preferite; limone, mandarino, arancia. E ci sono ciliegie, prugne, pesche, albicocche, più la strana marmellata di rabarbaro, forse l'unica che mi lascia un po' perplessa. Non riesco a decidere se mi piace o no. E poi pane, torte, succo di frutta, caffé, the, latte, burro, c'è di tutto. Vorrei spazzolare ben più di quel che oso mettermi nel piatto; Matteo, del tutto indifferente a simili scrupoli, assume il posato contegno di chi non tocca cibo da un mese. Ma ormai è chiaro che quest'uomo ha conquistato il cuore della matrona, che se la ride della grossa e continua a portare in tavola cibo. Altro che verme solitario; nel suo caso, si tratta di un esercito di vermi solitari che momentaneamente hanno rinunciato alla vita da eremiti.

Il congedo dalla padrona di casa, e soprattutto dalla tavola, è lento e faticoso, vuoi per il dispiacere di abbandonare tanto bendiddio, vuoi per l'abbraccio caloroso, i saluti, gli arrivederci. Non sarei proprio tagliata, io, per questo lavoro: i complimenti non sono il mio pane... Quelli finti non mi riescono, quelli sinceri non mi nascono. E comunque non sono capace a cucinare, e nemmeno m'interessa imparare.

Raccattiamo le ultime cose. Matteo trasferisce il furgone su una piazzola lungo la strada principale; io lo raggiungo in sella. Ha inizio, finalmente, l'avventura: destinazione, Col de Turini per una non meglio specificata via sterrata. Anche se, da una rapida occhiata alle cime spolverate di neve, non credo proprio che oggi sarò in grado di arrivare lassù. Si parte in discesa, breve ma gelida, verso Breil, per poi deviare verso sinistra, su per una stradina che nasce asfaltata, a rampe cattive in mezzo alle case. Mi colpisce una bici ancorata al lampione con una catena: chissà se la catena serve ad impedire un furto o piuttosto ad evitare che la bici, data la pendenza, rotoli giù per la strada?

La carreggiata è stretta, tutta buchi; man mano che procediamo, è più sconnessa. Nessun problema per me, che viaggio con la mountain bike in assetto da fuoristrada; nessun problema neanche per Matteo, che pedala in bici da corsa ma è un funambolo. La salita riscalda i cuori e tutto quel che ci sta intorno: direi che posso levare la giacca. Non capisco se davvero la muontain bike richieda più fatica in salita, rispetto alla bici da corsa; quel che è certo è che il mio allenamento per le due ruote lascia molto a desiderare... Sbuffo come un mantice, spingo sui pedali ma con pochi risultati. Pazienza, finché splende il sole va tutto bene.

Le case si diradano; la stradina sale lungo la valle, sempre più sconnessa, fino a diventare una carrozzabile sterrata. Un po' di emozione: questo è uno dei miei primi itinerari seri su sterrato, il primo in compagnia di Matteo. Fin qui è tutto facile...
Il primo bivio ci costringe ad una sosta per consultare la carta. Dritto, in falsopiano, o a sinistra, su per la rampa? Optiamo per la seconda soluzione. Il fondo qui somiglia già più ad un sentiero, benché siano evidenti le tracce del passaggio di veicoli. La pendenza è severa; una fila di alberi ci separa da un bel pendio erboso. Qualche abitazione, nascosta, qualche cane che latra. Si sale a tornanti: devo, mio malgrado, constatare che le curve, sia pure in salita, sulla ghiaia mi creano qualche problema di stabilità. Però si pedala bene. Matteo mi raggiunge in fretta, dopo aver indugiato per studiare meglio e riporre la carta, ma un altro bivio ci costringe ad un nuovo stop. Destra o diritto? Le paline segnavia non ci sono di grande aiuto, ma in fondo che importa? Quel che conta, almeno per me, è pedalare, farmi un po' le ossa sui percorsi sterrati. Che si vada al Turini o altrove, non fa poi questa gran differenza. Anche qui è tutto bellissimo. Riprendo la marcia, un po' malferma. Ancora tornanti, ancora bivi. Ormai abbiamo perso l'orientamento: procediamo, per curiosità; andiamo a vedere dove finisce la strada. Se finisce. Oltre un tornante, diventa poco più di un sentiero pietroso, molto sconnesso. Vado avanti più per orgoglio che per convinzione: il gioco si fa duro, e sarà molto dura anche la pietra contro cui andrò a sbattere il cranio, se cado. E' incredibile, quanto io mi senta ben poco stabile, nonostante la velocità ridicola e la sella molto bassa. Razionalmente, so che cadere, così, è quasi impossibile. Il guaio è che l'istinto non ne è convinto... Ogni asperità del terreno mi preoccupa. Per quel poco che i miei occhi malconci mi consentono, cerco di mettere a fuoco ogni centimetro quadro del fondo su cui andrà a passare la mia ruota. Matteo procede in bici da corsa, senza problemi; non fa una piega né per le buche, né per i solchi, né per le pietre. Probabilmente levita, a pochi mm da terra per non rivelare il trucco.
Il sentiero passa poco più in basso di una fila di case. L'unica forma di vita, oltre la nostra, è un cacciatore: nonostante la repellenza per la categoria, facciamo buon viso a cattivo gioco e chiediamo a lui dove vada a sbucare la nostra traccia. Da nessuna parte: infatti, poche decine di metri più avanti, ci troviamo di fronte ad un bivio in cui entrambi i rami sono presidiati da minacciosi cartelli che delimitano proprietà private. Dietrofront. La prima discesa, devo dire, mi riesce in modo più che decoroso: lascio andar la bici, con un impeto di temerarietà che stupisce anche me stessa. Il mezzo sembra stabile, salta e procede senza scherzi; quasi quasi mi diverto... Se ne accorge anche Matteo: "Vai quasi più forte qui che su asfalto", osserva. Su asfalto, preciso, con la bici da corsa... Perché con la MTB le discese non sono più un cruccio, finalmente.

Raggiungiamo indenni un bivio davanti a cui siamo già passati in salita. Si decide di esplorare anche questa via: Matteo ancora anelante al Turini; io per pura curiosità, visto che non ho la più pallida idea della geografia dei sentieri del luogo. Una strada coperta di ghiaia. Procedo per un breve tratto di salita: mi ferma, dopo un km o poco più, un cartello che indica il divieto di transito ai veicoli, tutti, anche le bici. Mannaggia... Probabilmente, se anche tirassimo dritto, non accadrebbe nulla di male. Ma a me i divieti incutono sempre timore. Dietrofront, un'altra volta. L'idea è di tornare giù, alla prima sterrata della giornata, e tentare, al bivio, l'altra via. Anche qui, la mia discesa si avvia baldanzosa... Ma, chissà perché, di lì a poco, mi attacco ai freni. Mi prende la paura: di scivolare, di centrare la pietra aguzza, di cadere. Paura irrazionale ed inarrestabile, visto che ho ben affrontato la galoppata di poco fa, con un fondo ben peggiore... Niente da fare, affanno, agitazione, paura. Non riesco a vincerli e scendo a freni tirati, con l'assalto dell'inquietudine ad ogni curva. Mi vedo per terra. Ma perché? Perché mi succede una cosa del genere? Che rabbia... Io lo so già, se lascio che la paura prenda il sopravvento anche una sola volta, è finita. Eppure...

Il supplizio si conclude al bivio. Carta alla mano, svoltiamo a sinistra, lungo la strada sterrata che presto prende a salire a tornanti in mezzo ad alcune abitazioni in pietra, in via di ristrutturazione. La salita, a tornanti l'uno sopra l'altro, ricorda molto il profilo delle vie asfaltate al Turini; ovvio, è lo stesso ambiente, la vegetazione di mare, ancora rigogliosa a fine ottobre, scura nel contrasto con la terra bianca e sabbiosa. Il cielo non è più così limpido; corrono le nuvole. Salgo tranquilla, cercando all'orizzonte la traccia di una meta che non vedo, ma intuisco soltanto. Matteo spesso allunga, mi semina anche qui, anche oggi che io sono dotata di mezzo ben più adeguato al terreno, rispetto al suo. La pedalata è sciolta e la fatica contenuta, almeno fin quando il fondo è agevole e regolare. I guai cominciano con le buche e, soprattutto, con i frammenti di roccia grossi e spigolosi: faccio lo slalom, a caccia di una linea di marcia ideale che non esiste, e spesso mi sento sul punto di essere disarcionata. Ogni volta è battito che accelera, fiato che manca. Butto i piedi a terra, ho paura: l'ansia poi ingigantisce il pericolo. Non mi sento più in grado di pedalare, qui: lo so, sono certa che il problema sia nella testa e non nelle ruote... Scendo di sella e spingo, mentre il povero Matteo aspetta paziente. Spingo ed abbatto i santi del calendario, a turno, tre o quattro per volta, quando il pedale si schianta contro il mio polpaccio, lasciando eredità di graffi e lividi. L'affanno mi fa incespicare e montar la rabbia. E, insieme, un senso di debolezza improvviso. Le gambe diventano di piombo in pochi minuti. Continuo ostinatamente, con risultati un po' patetici e con stizza ancor più acuta perché vedo Matteo che, senza batter ciglio, procede in bici anche sulle pietre... Ormai li conosco, i miei abissi di disperazione. Sul momento, ci vorrebbe una bustina di zucchero, per levar via la fiacca. A tratti, dove il sentiero mi pare un po' meno ostico, risalgo in sella, ma percorro poche centinaia di metri e poi son dinuovo a piedi. Ormai siamo in quota; la strada sale con pendenza minima. Un gregge di pecore pascola nel prato a sinistra del sentiero, sotto l'occhio vigile di due pastori maremmani; alcune pecore fuggono dal sentiero, scomposte e spaventate. E' nuvoloso; soffia un leggero vento freddo. Mi gira la testa, meglio scendere ancora.

Un provvidenziale bivio ci induce ad una sosta: butto giù qualche boccone di frutta secca, nella speranza che basti a tappare il buco. La prima alternativa è svoltare a destra per una strada ignota, oltretutto vietata al transito: ho già gli aculei sparati come quelli di un riccio in posizione di difesa; ormai conosco fin troppo bene i "dovrebbe essere" secondo Matteo. Come minimo, ci sono strapiombi, passaggi su ghiacciaio e coccodrilli da affrontare a mani nude. Per quanto mi riguarda, non prendo nemmeno in considerazione l'ipotesi. Si va a sinistra, destinazione anello del Turini, o meglio l'Authion. Ancora un tratto di sterrata, una lieve salita che la fiacca mi rende simile ad un Mortirolo; raggiungiamo l'asfalto, asfalto per modo di dire, una stradina minuscola e malconcia che passa accanto ad alcuni alpeggi. Panorama stupendo sui pascoli e sulle cime dei dintorni: peccato che venga giù qualcosa che ha tutta l'aria di essere ghiaccio... Minuscoli puntolini bianchi svolazzano intorno. Eppure sulla pelle non sento nulla: forse perché l'unica, minima porzione esposta è quella del viso... Taccio, per scaramanzia, finché Matteo, un chilometro più avanti, se ne accorge: "Ma... Nevica!", esclama. Eh lo so... L'ascesa si conclude di lì a poco, in uno spiazzo con tavola d'orientamento e parcheggio. Il cielo ora è decisamente chiuso, grigio. Freddo pungente: i fiocchi si fanno ora più concreti. Indossiamo tutto quel che abbiamo e via, in discesa: senza ritegno, ora che il fondo asfaltato mi è amico. Via, il più in fretta possibile, perché qui è neve, ma giù sarà pioggia... Già umidicci, raggiungiamo il Col de Turini, dove ci attende l'amara sorpresa: non si passa. E' in corso una prova di rally, o qualcosa del genere. Non ci posso credere... Ma è mai possibile che, ogni volta che io capito da queste parti, debba imbattermi nel rally? Ma ne corrono uno a settimana? Reprimo a fatica l'impulso di metter le mani al collo del gendarme, dei piloti e di tutto il carrozzone di meccanici, assistenti ecc. Possiate essere maledetti per l'eternità... Io son qui in bici, piove, fa un freddo della madonna e voi mi dite che non posso passare? Quel che è peggio è che le strade che confluiscono quassù sono tre; ovviamente le auto salgono da una delle tre, scendono dalla seconda, e guardacaso la terza è quella che interessa a noi; basterebbe lasciarci oltrepassare lo slargo... No, niente da fare. Ma vaffan####, sibilo. A bassa voce, perché i gendarmi d'oltreconfine sono senz'altro bilingui. Non ci resta che cercare rifugio in uno dei bar sul colle: mezz'ora di attesa, ci dicono. C'infiliamo in un locale arredato in legno, un bar a tema dedicato alla Harley Davidson. Un nutrito gruppo di avventori anima e scalda l'ambiente: tutti rigorosamente motociclisti, tutti in stile Harley, giacche nere di pelle, capello lungo, orecchini... Il fenomeno del momento è senz'altro un'arzilla madama, più vicina ai settanta che ai sessanta, alta un metro e un tappo, secca secca, con chioma tinta in improbabili riflessi color neon, fasciata in un paio di pantaloni di pelle nera e più che mai vivace nella conversazione. Se non altro, nessuno ci degna di uno sguardo: è già un punto a loro favore. Consumiamo due cioccolate calde, graditissime proprio per la temperatura, non tanto per la consistenza: in Francia, cioccolata calda credo significhi latte caldo con il cacao, almeno, questo è ciò che ho sempre sperimentato io. Ma oggi non mi lamento, va bene così. Indugio con le mani strette intorno alla tazza, coccolandomi con il tepore del caminetto: so già che uscire di qui ed affrontare venti e più km sotto la pioggia sarà pura sofferenza... Il branco di pachidermi in pelle sciama verso l'uscita: ne è prova un rovinoso fragore di vetri rotti. Addio ad un bicchiere: beh, tutto sommato, temevo peggio... Usciamo anche noi: tanto, la realtà va affrontata. Abiti umidi e freddo, una combinazione esplosiva. Ancora un po' di attesa, ci dicono: io questi li rovino... Auto non ne passano più, ma nessuno si muove. Tremo di freddo; Matteo, tenerone, fa il possibile per tenermi calda la schiena, ma io ho già il terrore dei prossimi venti e rotti km di discesa. Ora la pioggia è piogga sul serio. Rivoli s'infilano nelle crepe dell'asfalto, piccoli torrenti in piena. Matteo insiste, chiede di poter passare; è dura, far capire a queste teste quadre che la nostra intenzione è scendere verso Moulinet... Finalmente, ci danno il via libera. Si parte, già grondanti d'acqua. Sfiliamo accanto alle auto in arrivo da Sospel, a loro volta bloccate: qualcuno ci fa coraggio... Ne avremo bisogno. Confidando nella potenza del freno a disco, mi fiondo giù, con l'unico pensiero di scendere, perdere quota, lasciarsi alle spalle il freddo più freddo. L'asfalto è viscido, come sempre quando la pioggia è appena cominciata; Matteo mi mette in guardia: che emozione... Nessuno mi aveva mai avvertita dei rischi della velocità in discesa! In effetti, è meglio che io vada con cautela; va bene non aver paura, ma questo non significa trasformarsi per forza in piloti provetti. Non vorrei tirare dritto in qualche tornante. Il tremore non mi abbandona; la discesa è lunga, infinita. E' persino bella la vallata, ancora verde, quel verde scuro del primo autunno, ma non posso, purtroppo, ammirarla; devo tenere gli occhi ben saldi sulla traiettoria. Qui le curve non mancano. Moulinet è il primo baluardo di vita in questa valle splendida e deserta, ma Sospel è ancora lontana... Litigo con le lenti degli occhiali, bagnate, con il freddo che m'indurisce i muscoli delle gambe. Le scarpe "normali", in particolare un paio di scarpe con protezione in goretex, pensionate dopo lungo servizio di corsa sui sentieri perché prossime alla distruzione, offrono ai piedi una protezione migliore rispetto alle scarpette che uso in bici da corsa, ma non possono far miracoli. Sono combattuta tra il disagio del freddo pungente e l'euforia della guida di un mezzo che sento, finalmente, stabile, dopo anni ed anni di terrore in bici da corsa... E pazienza se l'asfalto non è il tipo di terreno a cui la Trek è destinata.

La pioggia si dirada e cessa poco prima di Sospel. Mi attardo per scuotere i piedi, nel vano tentativo di spingere un po' di sangue fino al ditone. Se non altro, ora ci attende un po' di salita... Attraversiamo Sospel, unida e sonnacchiosa, con l'occhio languido alla panetteria desolatamente chiusa, di domenica pomeriggio. Non so nemmeno che ora sia, ma non ha importanza; il sole è ancora su, questo è ciò che conta. E, comunque, per non saper né leggere né scrivere, ho messo nello zaino la pila frontale.
Il primo accenno di risalita al Col de Brouis regala un confortevole tepore sotto la giacca impermeabile, tanto da convincermi a levare uno strato. Matteo va su del suo passo, dopo una giornata trascorsa a mordere il freno per aspettarmi; io procedo pian pianino, ma meglio di quanto mi aspettassi. I muscoli surgelati si sciolgono in fretta; pedalo tranquilla, mi godo le ombre che si allungano, le curve morbide di questo stradone che ormai conosco a memoria. Poche auto. Qui pare che la pioggia non si sia nemmeno fatta vedere. La gita volge al termine: un po' mi dispiace, anche se ho una certa fame e desidero tanto il riscaldamento del furgone. Non è stato un itinerario lunghissimo, ma la fatica l'ho sentita e la sento tuttora. Trovo Matteo in cima, "all'ombra dell'ultimo sole": credevo fosse già sceso all'auto... Parte, infatti, mentre io indosso la giacca, anche se la discesa sarà breve, e lancio un ultimo sguardo là dove dovrebbe vedersi il mare. Non lo vedo, ma voglio pensare che sia colpa degli occhiali appannati. Giù a rotta di collo, complice la strada larga e dal fondo liscio come un biliardo, tra le poche case ed il fumo dei camini; nemmeno il tempo di raffreddarmi troppo e sono già a destinazione, a contorcermi sul sedile nel vano tentativo di cambiarmi esponendo all'aria meno pelle possibile, e per il minor tempo possibile: non certo per pudore, solo per evitare il congelamento! Patisco molto il freddo quando sono in moto, ma mai quanto lo patisco da ferma. In questa stagione, e per i prossimi tre o quattro mesi, assumerò stabilmente l'aspetto e l'umore di un ammasso di gelatina tremolante. E dire che lo strato di lardo, di cui senza falsa modestia sono ben fornita, dovrebbe proteggere ed isolare dai rigori del clima! Si vede che la scienza della coibentazione, applicata alla sottoscritta, non funziona...

Prima di rimettere in moto il furgone, diamo fondo a buona parte delle provviste rimaste; yogurt, formaggio, succo di frutta, pane. Poi via, infreddoliti e soddisfatti; abbiamo scoperto la quarta via al Col de Turini, e chissà se ne esistono altre. O meglio, l'ha scoperta Matteo, che ha ben più familiarità di me con le carte e l'avventura. La mountain bike mi ha fatto vedere dallo spioncino un mondo tutto nuovo: peccato solo che i mondi in cui vivo siano già troppi ed il tempo da sfruttare sia sempre lo stesso, anzi forse sempre un po' meno...

Al Tenda, la prima neve sulle cime, azzurra al riflesso della luna, è il segno che l'inverno è arrivato davvero. Il viaggio è ancora lungo, ma sogno una tazza di latte caldo e la nanna.

sabato 9 ottobre 2010

9 ottobre 2010 - Marcia Alpina a Roure (TO)

La guida in rotonda non è la specialità di mamma... E la pazienza non è inclusa nel novero delle mie virtù, ammesso che io ne abbia. "Mannaggia... Continua a girare finché non te lo dico io!", sbotto. La rotonda le incute sacro terrore; vorrebbe imboccare la prima uscita possibile, lei. E' qualcosa che supera la mia capacità di comprensione: possibile che sia così difficile fare proprio il concetto della circolazione in rotonda? Eppure, a me pare elementare, ovvio direi, lapalissiano! Ma la stizza sbollisce all'istante: dai Gian... Non hai proprio nulla da rimproverarle. Con tutti i guai che ha superato, rischiando pure di vincere un biglietto di sola andata verso la dimora di Belzebù, ha trovato il coraggio di tornare a scuola guida, riprendere la patente, mettersi al volante, anzi al pomello, di un'auto adattata e con il cambio automatico. Non è cosa da tutti, anzi. E poi, le rotonde non le andavano a genio nemmeno prima.

Una nebbia pesante, appiccicosa, quasi pioggia, nasconde Pinerolo anche agli occhi di chi passa lungo la circonvallazione. Quanto alle montagne, che pure incombono sulle nostre teste, non se ne ha notizia. Siamo ormai all'imbocco della Val Chisone. I tergicristallo sono all'opera; nemmeno un'anima lungo la via centrale di Perosa Argentina. Da queste parti, l'aria ed i colori sanno già d'inverno, per giunta in una giornata così uggiosa; alle otto di sabato mattina, i comuni mortali se ne stanno ancora rintanati al calduccio. Procediamo con i piedi, anzi le ruote, di piombo. Un po' perché siamo entrambe cieche come talpe: dei quattro occhi presenti nell'abitacolo dell'Agila, non se ne farebbe uno solo sano. Un po' perché non sono sicura di ricordare a che punto della strada si trovi Roure e, in particolare, la località Castel del Bosco. E' bello ed insolito: mia mamma partecipa sempre con interesse e malcelata apprensione alle mie scorribande, in bici o a piedi, ma non ha mai assistito dal vivo ad alcuna di queste avventure, ad eccezione della lontana Maratona di Treviso del 2006. Oggi l'occasione è ideale: la Marcia Alpina è una corsa breve, da una decina di km, sia pure con un dislivello di tutto rispetto in rapporto alla distanza; dovrei cavarmela, spero, al più tardi in un paio d'ore. Non la costringerò, quindi, ad un'attesa troppo lunga e noiosa. E poi l'ambiente è, o almeno immagino che sia, raccolto e poco chiassoso. Peccato solo che il cielo non inviti al passeggio: spero di non costringerla ad incamerare troppo freddo aspettando il mio arrivo...

Alle prime case di Roure, aguzzo la vista, si fa per dire. Per fortuna, la Pro Loco di Roure, responsabile dell'organizzazione, ha pensato a tutto, piazzando un bel cartello ad indicare la stradina che porta agli impianti sportivi. Pochi metri oltre il bivio e ci siamo: noi ed altre due auto, con largo anticipo rispetto all'orario di partenza e tutto il tempo a disposizione per registrare l'iscrizione e prendere un caffé al bar del palazzetto. I volontari sono già tutti in fermento, con i loro gilet fosforescenti, gli atleti arrivano alla spicciolata, animando lo spiazzo di fronte al palazzetto ed al ponticello sul torrente. L'accoglienza, più che calorosa, mi lascia imbarazzata e sorpresa: l'avventura del Tor des Geants ha lasciato il segno nei miei ricordi, ma anche un po' nella fantasia di altri che condividono con me la stessa passione. Lo ammetto, sarà superbia la mia, ma... Leggere negli occhi di chi mi sta di fronte sincero stupore ed ammirazione per un bell'obiettivo che ho conquistato con le mie forze, ed a cui io stessa tenevo tantissimo, è qualcosa che riempe di soddisfazione. Ne sono doppiamente contenta perché si sa, i figli so'ppiezz'ecore e mia mamma è quasi più sorpresa e contenta di me...

Ammazziamo l'attesa facendo quattro passi sul ponticello e lungo la sponda del torrente. Qui, più che da noi in pianura, i colori dei boschi parlano di autunno; ogni albero ha ai piedi il suo cerchio di foglie secche; le chiome tendono al rosso, alcune, al giallo intenso, altre. Calcio via una noce ruzzolata sul sentiero, i brividi nella schiena e sulle gambe nude. Ma chi me l'ha fatto fare, di indossare i pantaloni corti?

E' un peccato: la giornata grigia ed umida ha senz'altro giocato a sfavore della manifestazione, che già solo per l'impegno e l'entusiasmo dei suoi creatori meriterebbe ben più dello sparuto gruppetto di una ventina di atleti presenti al via. Pazienza: siamo pochi, ma buoni. La partenza è proprio alla buona, come piace a me: qualche foto di rito, quattro chiacchiere. Si parte: un paio di proiettili schizzano via come se avessero visto comparire all'orizzonte un agente del Fisco; gli altri, meno esagitati, sfilano via in buon ordine. Io resto, manco a dirlo, in fondo: non sopporto le partenze a razzo... E questa corsa non fa eccezione. Con il mio zainetto sulle spalle, immancabile anche per pochi km, attraverso il ponticello e seguo la massa, lungo il sentiero verso destra. Per ora, l'itinerario è in leggera salita; provo a corricchiare e scambio quattro chiacchiere con due compagni di viaggio, tra cui l'altra fanciulla in gara. Ce n'è una terza, in verità, ma ha il ruolo di scopa, insieme ad un bellissimo labrador nero. Il sentiero corre tra il torrente ed il bosco fitto e gocciolante, fino ad immettersi nel tornante di una strada sterrata che sale con pendenza decisamente più severa, lungo una parete di roccia. Qui si tratta già di tirare i remi in barca. Il fondo è agevole, ma la pendenza non concede misericordia. Mi sforzo di tenere un'andatura almeno decente: che diamine, sono dieci km... Ce la devo fare, a forzare un po', almeno su una distanza così breve! O almeno provarci: se anche dovessi scoppiare, amen, non impiegherò comunque quattro ore per tornare al palazzetto. Già, facile a dirsi, molto meno a tradursi in realtà. Il mio cuoricino reagisce indignato all'offesa: non solo non raccoglie il guanto di sfida, ma sembra, per ripicca, voler rallentare ancor più di quanto non sia già tranquillo per natura. Ho un bell'inspirare a pieni polmoni: è come se nel mio torace non entrasse nulla. Anche i pochi rivali da cui avevo guadagnato un misero distacco sono in arrivo. La strada sterrata è insidiosa; mi costringo a correrne i tratti meno ripidi, ma tutto ciò mi costa uno sforzo sovrumano. Dai Gian, due ore di sofferenza, alla peggio...

Ormai tiro dritto, occhi bassi e passo furioso; è solo grazie ad un attento volontario, che non parto per la tangente. Bisogna abbandonare la strada ed arrampicarsi lungo il sentierino a sinistra. Stavo giusto domandandomi dove fosse andato a finire il dislivello: settecento, ottocento metri, così ho sentito dire. Eccolo qui, proprio davanti al mio naso; una traccia ripida e sconnessa in mezzo alla vegetazione, viscida di fango e pietre bagnate. Si sale, senza appello. Alle mie spalle, una delle due coppie di papà e rampollo: ci sono, in gara, due ragazzini intorno ai dieci anni. E dire che a me sembra di salire proprio bene, qui... I due satanassi mi saltano sulla schiena in un battito di ciglia. Devo riconoscere, come sempre, la mia inferiorità e cedere il passo; in un impeto d'orgoglio, però, m'impongo di provare almeno a star loro dietro. Ci riesco, in effetti, sulla distanza: la salita, pur non essendo una rampa unica da mille metri, è comunque impegnativa e costantemente ripida; il mio terreno preferito. Si corre tra i tronchi ed una suggestiva foschia che sfuma i contorni delle piante. Sbuffando come un mantice, mi aggancio al trenino che mi precede, senza tuttavia pensare nemmeno per un istante a tentare il sorpasso. Forse, in qualche punto, ce la potrei fare, ma verrei riacchiappata e staccata con ignominia al primo tratto in piano o in leggera discesa. Un omino in casacca rifrangente spunta dal nulla: "Dai che la salita è quasi finita". Mi permetto di dubitare: d'accordo, come altimetro umano non credo di essere un gran che, ma mi sembra davvero che settecento metri sotto le suole non li abbiamo ancora schiacciati. Infatti, l'ascesa è ancora lunga ed impegnativa. Scambio qualche parola con le mie due locomotive. Di lì a poco, raggiungiamo l'altra coppia di papà ed erede. Ecco, chi mi conosce sa bene che non nutro particolare simpatia per i fanciulli, per non dire che proprio non li sopporto; in questo caso, però, devo fare un'eccezione. Questi due ragazzini sono a modo, compiti e straordinariamente maturi per la loro età. Da ammirare, sia loro che i genitori che li hanno educati così. La montagna tempra il corpo e pure l'anima!

Nel fitto della boscaglia, continuiamo a salire senza poter vedere nulla intorno a noi, vuoi per la vegetazione intricata, vuoi per le nubi pesanti che ci avvolgono. Questi due piccoli satanassi mi fanno sputare l'anima: probabilmente, se volessero, potrebbero anche piantarmi qui. Una bella lezione ed una bastonata all'orgoglio. "Memento mori", o, più semplicemente, vedi di non tirartela tanto, che poi va a finire a mazzuolate sulle orecchie, Gian. Infatti: non appena la salita accenna una tregua, i miei quattro compagni di viaggio s'involano. Anch'io, a dire il vero: mi lancio pronta all'inseguimento, appoggio la suola su un pietrone liscio, umido ed inclinato e finisco a gambe all'aria senza nemmeno il tempo di accorgermene. Atterro pesantemente sulla chiappa destra, che per fortuna è ben imbottita, come del resto la consorella. Mi rialzo, scornata e vergognosa: per fortuna, i due volontari a pochi metri da me sembrano non aver visto nulla, complice la nebbia. Mi offrono un bicchiere di the caldo: e con questo, addio a quel poco di intenzioni bellicose che ancora rimaneva. Mi gusto con calma il the, poi riprendo la marcia, con circospezione. Leggera discesa, tra fango e rami gocciolanti, poi la salita riprende, a tratti secca e cattiva. Dei fuggiaschi, più nessuna traccia. Se non erro, l'ascesa termina in località Rocho de Maurel. Finché si va su, m'impegno per quanto posso, maledicendo la mancanza dei bastoncini; pazienza se domani, al Trail dei Tre Comuni, le gambe protesteranno con fierezza. Qui è meglio che mi muova, altrimenti non scoprirò mai cos'è il misterioso "gofri"... Qualunque piatto sia, non ne resterà più per me!

Il primo tratto di discesa è sconnesso e ripido, in mezzo ad un pugno di case in pietra. Un volontario raccomanda prudenza; sulle pietre umide si scivola. Tranquillo, io la prudenza ce l'ho incorporata... Scendo con l'agilità di un rinoceronte in fase di digestione; ogni passo preceduto da un accurato studio di fattibilità. Maremma, se è tutta così, a Roure torno domani mattina... Per fortuna, no: il sentiero va a confluire in una strada sterrata in leggera discesa, dall'aria comodissima. Si corre. O meglio, si potrebbe correre, se non fosse per quel dolorino al costato, a destra. Dolorino che ormai ben conosco e che, dopo pochi passi, diventa una fitta violenta, da levarmi il respiro. Mi fermo, piegata in due; schiaccio con due dita appena sotto le costole; riprendo a camminare, forzanzo un po', ma non c'è verso, il dolore è acutissimo. Mi fermo, riprendo, mi fermo ancora; quasi non riesco a respirare. La fitta s'irradia alla gamba destra. Porca miseria, e sì che almeno qui avrei potuto recuperare qualche minuto... Del resto, avrei dovuto immaginarlo; è una sorta di crisi che mi tormenta ogni volta che, in partenza, esagero, tiro troppo per le mie scarse possibilità senza aver concesso al mio vecchio motore diesel il tempo necessario per entrare in temperatura.

Percorro così, con continue soste, almeno un paio di km, giù per questa strada a serpentina. Non ci sono segnali: in effetti, la gara avrebbe dovuto percorrere il ripido sentiero che taglia i tornanti della strada e va giù per la diretta; oggi, però, viste le condizioni del meteo e del fondo fangoso, i responsabili hanno deciso, e ci hanno raccomandato prima del via, di scegliere l'itinerario più lungo ma più sicuro. In preda ai dubbi, oltre che al dolore, mi rassereno solo quando incontro altri due volontari: "E' giusto di qua, tranquilla!". Quasi nello stesso momento, la fitta, improvvisa com'è venuta, se ne va. Riprendo a correre, prima con cautela, poi di buon passo, soprattutto quando la traccia abbandona la strada per imboccare un sentiero sulla sinistra. Leggera salita e lungo tratto in falsopiano in mezzo al bosco, con le voci del fondovalle già percepibili. Non so nemmeno io perché, ma mi diverto da matti a correre lungo questo stretto sentierino in mezzo ai tronchi ed ai pochi fiorellini ancora sbocciati; incredibile dictu, riesco persino a non cadere. Procedo a grandi falcate e quasi vorrei che questo istante magico non finisse più: pian piano, però, la foschia ed il bosco si diradano; ecco in lontananza il ponticello. Un breve tratto di corsa in piano: mamma è in paziente attesa ad un capo del ponte. "Visto, che ti avevo detto? - la saluto – Sono ultima...". Infatti, è proprio così. Il primo degli uomini, un ragazzo giovane e smilzo con gli occhiali da ingegnere, ha impiegato poco più di un'ora; la prima donna, che sarebbe poi la fanciulla con cui ho attaccato bottone all'inizio della gara, è arrivata credo almeno mezz'ora prima di me. Ed i due giovini virgulti mi hanno rifilato ben venti minuti! Ma sì, prendiamola con filosofia... Un'ora e cinquanta, poco più. Un asino da soma non potrà mai diventare un cavallo da corsa, e non si può cavar sangue da una rapa. Entriamo nell'affollato palazzetto: prima un bel cappuccino caldo, e poi... Come mio solito, vorrei andar via subito; friggo a star qui in attesa. Poi, a furia di scrutare le tante ganasce in movimento, mi avvicino anch'io al lungo tavolo accanto a cui brulica un gruppo di indaffaratissimi volontari: ecco cos'è il famoso gofri... Una pastella versata su una teglia di metallo a due facce, chiusa lì in mezzo a mò di pinza e girata più volte in un recipiente alto, da cui sale il calore delle braci. Ne esce una specie di sfoglia, leggerissima, di forma circolare, che poi viene divisa a metà e farcita a piacere: prosciutto, formaggio, Nutella. Gorgonzola, per me: fantastico... Per smaltire tutte queste calorie, come minimo dovrei correre altri due giri! Un altro ottimo motivo per tornare qui in valle l'anno prossimo, sperando che sia infondata la voce di uno spostamento della corsa in estate: il calendario estivo è già sovraffollato.

La bella mattinata si conclude con una simpatica cerimonia di premiazione simbolica, con i concorrenti chiamati uno per uno in ordine di tempo d'arrivo. E' naturale che il mio nome risuoni per ultimo... Ma, ancora una volta, chi tiene il microfono sa bene quale tasto andare a premere per farmi fare la ruota del pavone. La menzione al Tor ed un applauso che a me, nella mia megalomania, sembra quasi un po' più forte degli altri...

Mamma ed io lasciamo il palazzetto: sul prato, legato alla staccionata in metallo, c'è il bellissimo labrador nero che ha fedelmente scortato la scopa. Bellissimo, maestoso, fiero di portare al collo, anche lui, la sua meritatissima medaglietta!

domenica 3 ottobre 2010

2/3 ottobre 2010 - Morenic Trail

"I primi 50 km, tutti in discesa... No no, questo percorso non fa per me". La prima edizione del Morenic Trail era già nell'aria da diversi mesi: una prova da un centinaio di km, in autunno, non è un'occasione da scartare, per me che già soffro all'idea della lunga, angosciante astinenza forzata dalle corse, nella stagione fredda. Però, alla vista del profilo altimetrico, sono perplessa. E' vero, sembra il tracciato dell'elettrocardiogramma di un poveretto con una tremenda fibrillazione; però, pur tra mille saliscendi, la prima metà di gara tende a scendere, mentre la seconda, al contrario, tende a salire. Si parte da Andrate, a quota 800 m circa; si scende fino a quota 200 m, più o meno nel mezzo del cammin, e si torna su a quota 800 m, a Brosso, punto di arrivo. Scorro gli occhi lungo la linea del tracciato altimetrico: da sinistra a destra, poi ancora a sinistra. Bando ai tentennamenti: è inutile che io scomodi il neurone e lo costringa a chissà quali elucubrazioni. Tanto, va comunque a finire che mi ci iscrivo. Quindi, senza troppi patemi, mi ci iscrivo. Se sia un percorso adatto a me o no, lo scoprirò quando avrò le suole sul sentiero.

Ma, c'è un ma. Il Morenic Trail parte sabato mattina, alle 7. La domenica, alle 10, ci sarebbe l'Ecomaratona di Cuneo, a cui ho partecipato l'anno scorso: ne ho un bellissimo ricordo e vorrei replicare l'esperienza. Peccherò di presunzione, ma non credo sia impossibile correre 42 km dopo aver finito di correrne 110 solo poche ore prima: a patto, ovviamente, di non porsi obiettivi di cronometro. Ma la classifica, per me, è un dettaglio insignificante, anche quando al via di una gara mi presento fresca e riposata. Il problema è un altro: il trail parte da una località ed arriva ad un'altra località; le due estremità distano pochi km in linea d'aria, forse, ma ben 30 via strada asfaltata. Sono previsti alcuni collegamenti via navetta da Brosso, punto di arrivo, ad Andrate, punto di partenza: peccato che il primo sia per le 21 di sabato, ora in cui sarò ancora dispersa tra i boschi di castagni, a correre dietro alle bandierine, ed il successivo sia alle 8 del mattino della domenica, troppo tardi per raggiungere Cuneo in tempo. Mi spremo le meningi a caccia di una soluzione. Certo, l'ideale sarebbe poter lasciare l'auto all'arrivo ed approfittare di una navetta che mi trasferisca alla partenza; tuttavia questo servizio, nonostante alcune voci, non è previsto. In alternativa, potrei approfittare dell'aiuto offerto da un amico, di raccattarmi a Brosso, dove io potrei lasciare l'auto sabato, prima dell'alba, e farmi scarrozzare fino ad Andrate; però, la sola idea di scomodare una persona che nulla c'entra con la corsa mi fa arrotolare le budella, anche perché darei dimostrazione di non sapermela cavare da sola. Odio dipendere dal mio prossimo.
Scruto la carta stradale su Googlemaps, ancora e ancora. Potrei far così: partire da casa dopo un paio d'ore di sonno; raggiungere Baio Dora intorno alle 3, 3 e mezza al massimo; macinarmi a piedi i 17 km che separano Baio da Andrate, con relativa salita, portandomi su sia lo zaino da usare in gara, sia la borsa con il ricambio, da lasciare ai responsabili dell'organizzazione per poi ritrovarla a fine corsa. Conclusa la prova, presumo entro le 20 ore, quindi entro le 3 di domenica mattina, avrei circa 13 km di marcia, questa volta in discesa, per tornare a Baio a recuperare l'auto. E potrei raggiungere Cuneo in perfetto orario, salvo colpi di sonno in autostrada. Ma sì, perché no, mi sembra una buona strategia.

In tutto ciò, ahimé, ho fatto i conti senza l'oste, o meglio, senza la pioggia battente che, nella notte tra venerdì e sabato, accompagna il mio viaggio in autostrada. Un bel guaio: certo, nessuno m'impedisce di mantenere fede al mio piano d'azione ed abbandonare la Opel a Baio Dora. Il problema è che 17 km a piedi sotto questo diluvio mi farebbero arrivare alla partenza già fradicia e mezza congelata: in simili condizioni, venti ore di corsa sarebbero impresa ardua. Rischierei, insomma, di mandare a pallino il mio trail. Così rimugino, mentre la Opel mi porta via veloce, oltre Torino, verso nord, direzione Valle d'Aosta, ed i tergicristallo alla massima velocità combattono una lotta impari contro gli scrosci d'acqua. Ottima prospettiva per la gara, non c'è che dire. Strizzo gli occhi, vano tentativo di mettere a fuoco almeno le linee bianche che delimitano le corsie. Dai Gian, magari smette... Magari migliora... Magari arrivi in zona e non piove più. Certo, come no. Se possibile, la situazione è ancor più compromessa, in quel di Borgofranco. Accosto l'auto lungo la strada principale del paese, illuminata da fioche luci giallognole e deserta. C'è vita solo nelle pozzanghere, crivellate di goccioloni. Bah... Gian, arrenditi all'evidenza. Qui, se mantieni fede al tuo piano e ti sciroppi la camminata a piedi, fai, come si suol dire con finissima locuzione di origine tardo bizantina, una colossale vaccata. Ci rimetti il trail e, se va bene, anche la maratona; in compenso, guadagni una polmonite gratis.

Rassegnata, riavvio il motore e parto in direzione di Andrate, su per la bella salita tutta curve. Al primo slargo, parcheggio: sono quasi le quattro del mattino; tantovale recuperare un paio d'ore di sonno. Abbasso lo schienale del sedile, mi arrotolo nella giacca e precipito tra le braccia di Morfeo.

Avevo puntato la sveglia, ma mi ridesta il viavai di auto, improvvisamente più intenso. Saranno i podisti che salgono su... Ma, soprattutto, i cacciatori. Un capannello di tali spregevoli individui invade anche il mio slargo. Poco male, tanto è ora di andare. Risistemo il sedile, intirizzita; avvio il motore e riparto, destinazione Andrate. In paese, non è difficile trovare il parcheggio, ben segnalato in occasione della corsa. E' buio e piove: solo qualche goccia, adesso. L'ampio piazzale brulica di vita; si sentono voci e strilli di autoradio, anche se non si vede nulla, tra il nero della notte e le lenti degli occhiali, bagnate. Il solito rituale dei preparativi: pasta di Fissan sui piedi, primo paio di calze, secondo paio di calze; Fissan su tutti i punti che potrebbero soffrire per gli sfregamenti; rapido controllo dello zaino: c'è l'abbigliamento di ricambio, c'è la giacca, c'è la pappatoria, c'è il rotolo di papiro, ci sono portafoglio e telefono. Chiudo la Opel e mi dirigo, come le zanzare, verso l'unico punto luminoso, un piccolo edificio annesso agli impianti sportivi, già gremito di atleti, volti noti e meno noti. Se non altro, per effetto stalla, ci si scalda un po'.

Rinuncio alla mia copia del road book: non mi servirebbe a nulla; confido nel fatto che la segnaletica, lungo il percorso, sia a prova di idiota: altrimenti. vorrà dire che scaverò una tana tra i castagni e mi ci nasconderò in attesa dei soccorsi. A maggior ragione, la sequela di raccomandazioni che dal palco piove sui corridori in trepida attesa mi annoia: non sarebbe forse più semplice sintetizzare con "Seguite le bandierine e in bocca al lupo?". Già, dal mio punto di vista di partecipante al trail lo sarebbe, senz'altro. Sentir puntualizzare l'ovvio è irritante. Peccato che ci siano sempre gli imbecilli che, al minimo disguido, sono prontissimi a saltar su: "Eh ma non avete detto... Non avete avvisato... Non avete precisato...". E, in caso di incidente, vagoni di grane travolgono gli organizzatori. Ecco, una delle faccende in cui mai e poi mai m'invischierò nella vita è proprio l'organizzazione di una gara. Tremerei alla sola idea delle responsabilità folli a cui si va incontro: e per cosa, poi? Non certo per arricchirsi... Per la soddisfazione personale, certo, ma con la soddisfazione personale non paghi la parcella dell'avvocato che dovrà tentare di cavarti dai guai. Per mia enorme fortuna, non tutti sono inguaribili pessimisti come me; altrimenti, non mi ritroverei qui a battere i denti, ancora al buio, sotto una leggera pioggerella, in mezzo ad una manica di invasati come me. Invece mi ci ritrovo e ne sono, tutto sommato, ben contenta.

Partenza con qualche minuto di ritardo sull'orario prefissato. Si parte sull'asfalto ed in salita. Oggi, caso più unico che raro, dopo lunga e tormentosa meditazione, ho deciso di lasciare i bastoncini a casa. 110 km per poco più di 2000 m di dislivello in salita significa che ci sarà da correre, e parecchio, anche. Correre a lungo con i bastoncini in mano è fastidioso.
I primi metri si corrono su asfalto ed in salita; una luce fioca, grigia, consente appena di intuire i contorni dei muri e degli alberi. Si respira acqua. Come sempre, sono già in affanno; potro mai superare il trauma della partenza? Mi distraggo con le poche chiacchiere da scambiare con i conoscenti che vedrò adesso e mai più, almeno fino al traguardo; inutile che tenti di aggregarmi a chicchessia: non ho alcuna possibilità di successo, in compenso sono certa che mi taglierei le gambe.
Ha inizio qui il tracciato ed il paesaggio che farà da cornice all'intera gara, o quasi: sentiero e bosco fitto, bosco fitto e sentiero. Corrono tutti come matti: un po' perché siamo all'inizio della prova, un po' per fiducia nel fatto che la prima metà di gara sarà per tendenza in discesa. Ci provo anch'io, ma con poca convinzione. Questa gara mi dà l'idea di essere simile più ad una cento km su asfalto, che non ad una vera e propria corsa in montagna; se così fosse, per me sarebbe un gran vantaggio: dell'asfalto sono amica, molto più che della terra e dei sassi. Ma è una mia supposizione; nulla, per ora, mi autorizza a credere che sarà proprio così. Meglio essere prudenti.

Lo zaino sembra ben fissato, non balla. Avrei voluto portarmi dietro lo zainetto più piccolino: se solo fosse stata una bella giornata... Con un clima del genere, meglio non fare i furbi; ho con me una felpa ed una giacca antivento sottile, oltre alla giacca impermeabile che già indosso. Dopotutto, si andrà a correre anche a notte inoltrata.
La mia corsa su sentiero è rigida ed impacciata. A furia di macinare km, qualche miglioramento l'ho ottenuto, ma sono lontana anni luce dai colleghi – tanti, quasi tutti – che mi superano con la sicurezza di chi sa di avere una ventosa applicata sotto la suola ed una presa infallibile su qualsiasi tipo di fondo, dalla terra alla sabbia, ai ciottoli umidi. Ho il terrore di scivolare... E poi non è mica che ci veda tanto bene. Non è una novità, già in tempi asciutti; figuriamoci poi oggi, che piove... Non riesco a capire quanto sia pioggia e quanto gocce che si accumulano sulla punta delle foglie e poi, plink, raggiunto il livello limite di aggregazione, piombano giù, puntualmente sulla capoccia del malcapitato. O sulla manica della giacca, con un colpo sonoro e secco. O nell'occhio, con mira da cecchino. Il bosco intero gocciola, come se fosse stato appena lavato, senza centrifuga, e steso fradicio ad asciugare. La nebbiolina confonde i contorni dei rami e dei tronchi. Il mio impeto mi porta qualche volta di troppo sull'orlo dello scivolone: calma, Gian... Sono pur sempre 110 km! Vero, un paio di settimane fa ne ho percorsi tre volte tanto, e con ben altro dislivello, ma questa consapevolezza è pericolosa, anzi direi quasi letale: mai, mai, mai illudersi, mai confidare troppo nelle proprie possibilità, mai dare per scontato alcunché. Non è affatto garantito che io, oggi, o meglio domani, riesca a raggiungere Brosso. Anzi, se continuo a zampettare con questo ritmo, non ci arrivo di sicuro.

Mi passano più o meno tutti, ad eccezione di quelli che son già partiti davanti. Essere ultimi o quasi ha, se non altro, un vantaggio: l'onta del sorpasso si patisce poche volte. Mi consolo guardandomi intorno, ad ammirare il bosco davvero meraviglioso, anche in questa luce grigia, fioca, anche attraverso la nebbia sulle lenti degli occhiali. Piove, poi sembra voler smettere, poi riprende; poche gocce, una secchiata, dinuovo poche gocce. Non ha l'aria di voler volgere al meglio, il tempo, almeno non oggi. E' vero, il percorso tende a scendere, ma è una discesa molto blanda, che alterna tratti di secca risalita. Non c'è mai respiro, mai possibilità di prendere un ritmo ed adagiarvisi per un po'. Neanche a parlarne.

Il paesaggio quasi mai permette di orientarsi e valutare la distanza percorsa. Meno male che ci sono i cartelli con l'indicazione dei km già superati: un'idea mutuata dalle corse su strada, che per me è gradevolissima. A proposito delle corse su strada: mi ritrovo a camminare in compagnia dell'organizzatore della Maratona di Reggio Emilia, un simpatico chiacchierone dai centomila interessi, dalle millemila occupazioni. Già, la Maratona di Reggio: è vero, le maratone mi hanno presto stufata, ma Reggio è un caso particolare, un bel percorso ondulato, mai monotono. E poi è a dicembre, periodo dell'anno in cui l'astinenza da competizioni fa sentire più forti i suoi morsi. Quest'anno ci torno. In compagnia del boss raggiungo un bel punto di ristoro, in riva ad un lago. Km 21, Lago di Bertignano, mi dicono. E ancora pioviggina; la superficie grigia dell'acqua sfuma nella nebbia. Ci accolgono i gentilissimi volontari ed il fotografo. Come sempre, non mi fermo più di qualche secondo; a maggior ragione, con questo freddo, rischio che le gambe s'inchiodino e non ripartano più. Ingoio qualche pezzo di cioccolato ed un po' di frutta secca.

Il collega emiliano mi raggiunge di lì a poco e mi accompagna ancora un po', litigando furiosamente con la sacca del camelbag. Bah, quella roba lì non mi ha mai convinta... Non puoi sapere quanta acqua hai ancora di scorta, né puoi riempire il contenitore, se non smontando mezzo zaino per estrarlo. Meglio la cara, vecchia borraccia. In un tratto di strada sterrata in piano, allungo un po' il passo e rimango sola: non posso farci nulla; mi sento di andar così, adesso, sperando di non scoppiare.

Un'infinità di salite e discese brevissime, in rapida successione, sguazzando spesso nel fango; si passa nei paraggi di una galleria ferroviaria. E sempre in mezzo al bosco; del mondo esterno non si vede nulla, se ne sentono solo i rumori, di tanto in tanto. Rombi di motore d'automobile lungo qualche strada che posso solo immaginare, o di moto da cross lungo i sentieri; frastuono di motoseghe, di tanto in tanto: se ne vedono le tracce nelle cataste di tronchi tagliati da poco. Faggi, betulle, castagni e chissà cos'altro, e rovi, erbacce. E funghi, qua e là. Un insetto screziato di blu sulla pietra, una lucertola che scappa via, un filo di ragnatela che s'appiccica al viso. Un mondo sospeso.

D'un tratto, senza avviso, sbuco al cospetto della civiltà: leggo il cartello stradale; sono a Masino. Percorro pochi metri di strada asfaltata: un punto di ristoro, c'è Alice, sempre sorridente e gentile, come tutti gli altri angeli custodi, del resto. Cioccolato e frutta secca, anche qui: "A Vialfré c'è la pasta", mi incoraggia Alice. Benissimo! Riparto per un lungo tratto pianeggiante, di strada sterrata, finalmente un po' aperto alla vista sulle colline, tra i vigneti lindi ed ordinati. Provo a correre: ma l'impercettibile accenno di salita, che ad occhio nudo non si vede, impone ai garretti uno sforzo che, per prudenza, a questo punto preferisco ancora risparmiarmi. Ho una quarantina di km alle spalle... E quasi settanta davanti. Non è il caso di fare la furba. Da lontano, noto una sagoma dall'aspetto e dall'andatura familiare. Procede con evidente difficoltà. Mi avvicino di buon passo, aguzzo la vista: è proprio lui, Gabriele. Cavoli... Se è qui, adesso, significa che c'è qualcosa che non va. Lui di solito vola... Mi mangia per diritto e per traverso, altro che. Ma è chiaro, si vede lontano un miglio che ha male. Lo affianco, "Hai bisogno di qualcosa?". Saluta, conferma che sì, è in difficoltà, ha dolori alle anche. Mi spiace, ma non saprei come aiutarlo, se non offrendogli un contributo dalla mia farmacia, che però declina. In bocca al lupo allora! Proseguo al passo; corricchio quando posso, o meglio, quando me la sento, senza forzare. Ho commesso un errore marchiano: ho scelto questo zaino senza ricordarmi che lo spallaccio destro tende a spelare il collo... E dire che lo sapevo, avrei dovuto indossare il gilet con il collo alto. Invece, ora che ho levato la giacca impermeabile, perché finalmente la pioggia sembra aver dato tregua, mi ritrovo a dover convivere con questo piccolo ma fastidioso supplizio. Amen, ormai è fatta.

Il percorso mi porta tra le case di un paese che si distingue al primo sguardo per qualcosa di strano: improbabili sculture e dipinti adornano i muri esterni delle case. Sorprendente e, a tratti, inquietante; forme, figure, colori, immagini che spesso sconcertano la capacità di raziocinio del povero neurone, già messo a dura prova dalla carenza di ossigeno. Rappresentazioni dell'assurdo, direi. Curioso... Però preferisco di gran lunga l'acciottolato che ci porta via dal paese, tra i vigneti e dolci profili di colline ed un bel lago ed uno splendido parco. I primi colori autunnali spiccano anche nell'aria grigia di questa umidissima giornata. Attacco bottone, qua e là, con i pochissimi colleghi che ancora incontro; ci domandiamo, noi delle retrovie, se alle nostre spalle resti ancora anima viva... Ma non è il caso di preoccuparsi. La strada tornerà a salire, prima o poi, e farà giustizia. Passiamo accanto ad uno splendido parco, di proprietà di un ordine religioso o qualcosa del genere. Non posso esimermi da un commento poco edificante...

Appena oltre un tratto di salita un po' più regolare delle precedenti, raggiungo una coppia a sei zampe, podista e compagno canino, un bel boxer snello, muscoloso e di buon carattere. Li affianco, non senza fatica; la discesa non è il mio terreno di corsa preferito... Per non smentirmi, imbocco la via della chiacchiera, mentre la strada esce dal bosco e raggiunge un tratto pianeggiante, di campagna che mi riporta all'istante alla memoria i paesaggi della 50 km del Lamone, nei pressi di Ravenna. Si parla di gare passate, presenti e future: e come potrebbe essere diverso?
Percorriamo un breve tratto di strada bianca, in piano, lungo un canale, in mezzo ai campi; il cagnotto s'incuriosisce, si spinge fin sulla sponda, si sporge. Rabbrividisco, mi volto dall'altra parte per non guardare: se il padrone non si scompone, immagino sia una consuetudine... Ma io sono una mamma iperprotettiva; penso al mio cagnone che, a quest'ora, se ne sta spaparanzato sul mio lettone, o a spasso in giardino, tranquillo e beato al sicuro, e tiro un sospirone di sollievo. Un raggio di sole sembra voler fare capolino tra le nubi, o forse è solo un'impressione, il riverbero della fioca luce sul bianco della terra battuta. Passiamo accanto ad alcune cascine, ben ristrutturate, lungo la strada sterrata; corricchiamo accanto al canale. Con poca convinzione, da parte mia; i muscoli delle gambe sono irrigiditi, un po' dolenti. Eppure qui il tracciato è piatto; camminare è proprio segno di pigrizia... Di questo nastro bianco di terra non si vede la fine; la traccia si perde nella foschia, confusa dai cespugli di gaggie. Non piove più: questo è già un gran sollievo. Si chiacchera; il cagnotto ci precede, fiuta ogni centimetro quadrato di territorio, scatena l'ira funesta di due o tre cani da caccia, spiritati dietro le sbarre di una cancellata. Una bella cascata artificiale, impetuosa, è lo sbocco del canale alla nostra destra. Procediamo di buon passo, finché non c'infiliamo un'altra volta nel bosco, per uscirne poco oltre, su una strada asfaltata. "No no no, non si può, squalificata": alzo la testa, con aria interrogativa; toh, chi si vede... Il buon Isacco! In convalescenza per infortunio, non sa proprio restare lontano dai trail. Lo saluto appena, di sfuggita; le gambe qui chiedono di correre, sia pure lungo il guard rail, con molta attenzione alle auto che mi arrivano di fronte. Temo per il boxerino alle mie spalle; speriamo che non schizzi in mezzo alla strada...

Qualche centinaio di metri più in là, ecco un altro punto di ristoro; due tavolini che espongono le solite vettovaglie, assediate però dalle vespe. Con il terrore che ho io di questi insetti, non vorrei essere nei panni dei volontari che restano qui accanto! Il cagnotto conquista le cure degli addetti al ristoro e si bea, anche lui, delle leccornie. Io riparto quasi subito: via, oltre il ponte sulla Dora, forse mezzo km di asfalto e si svolta a destra, ancora su sentiero. Poco avanti a me, due volti noti, Franco e Morgana: procedono di buon passo, senza esagerare. Il tracciato corre lungo la sponda di un lago; in alcuni punti, la superficie dell'acqua arriva a lambire il piano del sentiero: fa una certa impressione sinistra, come se dovesse straripare da un attimo all'altro. Raggiungo i miei due compagni di viaggio; scambio qualche parola, poi via, approfittando di un tratto in salita che mi fa riscaldare un po' le gambe. Il precedente punto di ristoro era al km 57: significa che ormai metà percorso è alle spalle. Ma il grosso del dislivello in salita è ancora tutto da affrontare. Con la luce calante del tardo pomeriggio, i colori del bosco s'incupiscono; tronchi e chiome, erba e terra si confondono. Giungiamo tra le case di un paese; quasi c'infiliamo nei cortili, turbando la quiete di mucchi di sabbia e giocattoli abbandonati forse dopo un pomeriggio di fervida attività. Viene spontaneo buttare l'occhio indiscreto alle finestre illuminate. Calpesto un po' di terra ed un po' d'asfalto. La strada d'improvviso s'impenna: qui non c'è trippa, non si corre, tutt'altro; su una rampa del genere, si può solo camminare ed annaspare. Ecco altri tre compagni d'avventura, un po' più avanti. Devo resistere alla tentazione: pian piano, come previsto, sto raccattando qualche fuggitivo... Ma non devo permettere che l'entusiasmo prenda il sopravvento. La corsa è ancora lunga, molto lunga. Già, ma vallo a spiegare ai piedi, alle orecchie che vogliono sentire le voci più vicine, al sottile, ingenuo piacere di leggere lo stupore negli occhi dei fuggiaschi, velati di stanchezza, quando quelli si voltano stupiti dei passi alle loro spalle. Passare oltre, ostentando un sorriso ed una freschezza che forse non sono del tutto sinceri, ma fanno colpo. Speriamo che questa rampa spiani presto, altrimenti schiatto, che figuraccia... Eccomi accontentata. Con l'andatura forzata della locomotiva, arrivo in vista del cartello "Ristoro": il famoso, anzi famigerato km 67. Colle delle Vigne, punto tappa, con tanto di piatto di pasta. Trovo un buon numero di corridori arenati qui, impegnati a leccarsi le ferite ed a riempire lo stomaco; qualcuno arzillo e chiacchierone, altri accasciati sulle sedie, con l'aria di chi non è troppo convinto di voler ripartire. Calma e sangue freddo, Gian. Fermati qualche minuto. Non troppo, perché gli abiti umidi si attaccano alla pelle ed il freddo non tarderà a prendere il sopravvento: ma almeno un po' di pasta, di formaggio, di frutta, buttali giù. Vorrei evitare di ripartire con il macigno sullo stomaco: facile a dirsi... Invece, è proprio quel che succede. I brividi mi spronano a ripartire prima di quanto vorrei; saluto, accendo la luce frontale: ormai è quasi buio, nel fitto della vegetazione non ci si vede più. Giù in discesa, a rotta di collo, non certo per ragioni di cronometro, ma per far sì che il sangue torni a scorrere anche nei vasi periferici. Sempre con l'occhio alle bandelle rifrangenti: non c'è che dire, la segnaletica è ottima ed abbondante. Raggiungo altri due corridori, saluto e passo oltre: ormai, l'idea fissa è che ho davanti a me meno passi di quelli che ho già alle spalle, quindi, in parole povere, è quasi finita. Si fa per dire, manca più o meno una maratona... Comincia qui una galoppata nei boschi che sembra non aver più fine. Per km e km, procedo, di corsa e di passo, in un corridoio quasi continuo di vegetazione; sotto i miei piedi la terra, intorno rami e foglie a chiudere la vista ed il respiro. Chilometri lunghissimi di solitudine, di buio ancor più nero perché non si vede né il cielo, né il riverbero delle luci della pianura. Il fascio della frontale illumina un intrico di tentacoli, rami che si allungano come artigli sul viso, fruscìo sinistro di foglie al vento. Il verso ritmico di un animale, acuto, quasi un grido, ad intervalli regolari, ancora e ancora; il silenzio rotto all'improvviso dalla castagna che si stacca, cade, colpisce una foglia, cade ancora, piomba sul tappeto di foglie secche, rotola, "Tac, tac, tac tac tac". Bosco, bosco ed ancora bosco, per minuti, ore, bosco che sembra volersi restringere, chiudere davanti a me, diventare sempre più fitto ed inestricabile. "Uh, uh, uh", poi silenzio, "Tac, tac, tac tac tac", ed ogni volta trattengo il fiato, drizzo le orecchie. E corro più che posso, corro per quanto mi permettono i miei occhi che, al buio, servono davvero a poco, nonostante la luce della frontale. So benissimo che non corro alcun pericolo, ma devo fare appello a tutto il mio controllo per mantenere la calma, ora che mi sento quasi in trappola. Bosco, bosco, ancora bosco, è un incubo, non finirà mai più... Non raggiungo più nessuno, nessuno mi raggiunge. Ho perso la nozione del tempo; è buio, vero, ma potrebbero essere le nove di sera come le tre del mattino. Non c'è nulla, né luci, né rumori, nulla che permetta di orientarsi nel tempo e nello spazio. Solo le bandelle da seguire, solo farsi largo tra le fronde, scacciarle con le braccia quando si spingono troppo vicino.

Il punto di ristoro è un'oasi nel deserto. Non ho fame né sete, ma sono contenta di scoprire che, in fondo, non mi sono persa nel nulla. Sono sulla retta via, devo solo avere un po' di pazienza. Raggiungo qui due compagni di sventura. Qualche centinaio di metri in mezzo alle case di un paese, sia pure addormentato e deserto, ha l'effetto di calmarmi un po' i nervi: troppo, forse, tanto che, ad un bivio, tiro dritto anziché seguire le indicazioni, a destra. Mea culpa: procedo forse due, trecento metri, lungo una strada sterrata che costeggia alcuni giardini privati, ingannata dal luccichìo di un frammento di carta lucida appeso ad un'inferriata. Presto, però, mi accorgo che qualcosa non quadra. Ecco, perfetto: di già che oggi i km sono pochi, mi pare ottima l'idea di allungare un po' il percorso... Ritrovo la retta via, in salita, l'imbocco con foga, ancora in mezzo al bosco, ma ora so che lassù, oltre le foglie, ci sono le stelle. Forse la pioggia ha deciso di concedere tregua, almeno per questa notte.

Al km 77, a Vialfrè, m'imbatto in un signor ristoro; una tavolata ricca ed imbandita, anche se le due gentilissime volontarie si scusano perché non è rimasto molto. Più che sufficiente, per me, il cibo e soprattutto le quattro parole in compagnia. Sto bene, adesso; non ho male, non ho motivo d'angoscia; respiro, faccio il pieno di stelle, perché so già che, tra poco, il bosco m'inghiottirà ancora una volta. Saluto, riparto di buon passo. Un lungo tratto in piano, su strada sterrata; mi sorpassa un gruppo di ciclisti notturni in mountain bilke. Lì per lì, li scambio per assistenti della gara: invece no, sono semplici turisti nottambuli. Il sentiero corre in salita, su in mezzo ai castagni; il silenzio mi ripiomba addosso, prepotente, cancella persino il fruscìo delle foglie secche, attraverso cui i miei piedi sembrano quasi nuotare. Finirà, Gian, prima o poi. Calma. Le gambe marciano via veloci; i pensieri scorrono via per conto loro, anni luce da qui. Voci sempre più vicine mi riportano con i piedi per terra: quattro occhi luminosi mi puntano. Rieccoli, i ciclisti, raccolti intorno ad un tavolino, accanto ad una cappelletta spuntata chissà come qui nel fitto degli alberi. Passo, saluto, ma è destino che noi ci si rincorra; non passa troppo tempo, che li sento arrivare veloci alle mie spalle, con equilibrio da funamboli, giù tra fango e pietre. "Complimenti – esclamo – io sono a piedi e rischio di finir per terra ad ogni passo...". Alla strada asfaltata, ci separiamo; mentre quelli discutono sull'itinerario più breve per raggiungere il cuscino, io proseguo a sinistra e poi ancora a destra, ancora sterrato, ancora bosco. Con la sgradita sorpresa, più avanti, di due fuoristrada che accampano diritto di passaggio: ma è mai possibile che questi stracciamaroni imperversino anche nel cuore della notte? Riacchiappo, proprio qui, uno dei due fuggitivi che avevo superato un paio di ristori fa, ma che evidentemente mi avevano rimangiato il vantaggio mentre io vagavo fuori tracciato. Il tapino ha l'aria un po' cotta; tenta qualche allungo, poi cede, si abbatte su una pietra: "Come fai ad essere dietro, se eri davanti?". Domanda da un milione di dollari... "Ho sbagliato strada, giù in paese", spiego mentre mi allontano. Affronto di buon passo la salita; di lì a poco, raggiungo anche la signora che lo accompagnava. E qui accade l'imponderabile... La mia collega si volta, accelera il passo. Mi faccio due conti: mancheranno più o meno venti km; in salita, per lo più. Se l'ho raggiunta qui, significa che ne ho più di lei. E se ci provassi? Così, per la soddisfazione di provarci. Non ha molto senso, lo so; davanti a me ci sono magari altre dieci donne, non ne ho la più pallida idea. Ma chissà se riesco a forzare un po' l'andatura. Affianco la mia avversaria; lei accelera, corricchia in salita, poi rallenta. Gian, fatti furba. Che tu ti metta a correre, qui, sul ripido, non ha alcun senso. Prova a starle dietro. Pochi metri, ma sempre dietro. Alla peggio, schiatti e molli. Così faccio: la seguo, con un po' di distacco; mi avvicino, fin quasi ad affiancarla, poi resto ancora un po' indietro; mi avvicino un'altra volta. Sempre attenta al mio cuoricino: per ora, sembra reggere il gioco. Ho ancora margine, non dovrei scoppiare. Allunga ancora, la collega: provo ancora una volta a tenere il passo; ci riesco e forse sono più stupita io di lei. Non ricordo chi l'abbia detto, ma ho ben presente il concetto: chi insegue ha un vantaggio psicologico non trascurabile su chi è in fuga. A maggior ragione se l'inseguitore ha già ridotto il distacco. Non l'avevo mai sperimentata, però, questa sensazione. L'avversaria, infine, rallenta. La guardo di sottecchi, senza farmi notare; mi sa che è al limite. Esito, seguo ancora un po', titubante. Poi, una rampa: Gian, ora o mai più. Ci provo, parto di corsa dove mai e poi mai, con la mia stazza, dovrei azzardarmi ad una follia del genere. Poi, quando il sentiero spiana ed il bosco concede un po' di spazio alle vigne ed al cielo, gambe in spalla, via, uno strappo dopo l'altro. Se l'avversaria è in affanno, impiegherà qualche minuto a riprendersi; Gian, se ci vuoi provare, devi approfittarne adesso. Altrimenti ti riprende, sei fatta. Via, con tutto il fiato che ho in corpo, di corsa anche in salita. Raggiungo altre due figure; sorpasso con impeto, mi scuso: "Non ce l'ho con voi... Sto solo cercando di staccare la mia inseguitrice!". Mi guardano di storto, non rispondono: una delle due figure è un'altra donna. Beh che dire... Quasi una rimonta! Ormai sono in ballo, tantovale ballare... E' dura, però. Non mi ero mai trovata in una situazione del genere. E dire che nessuno mi costringe; potrei ben lasciar perdere, prendere il mio passo tranquillo e via. Ma le voci alle mie spalle mi fanno sentire più o meno come un cinghiale braccato; più la salita si fa ripida, più annaspo e mi sforzo di accelerare. Vai Gian, se hai una minima possibilità di staccarle, le due, è proprio qui, sulla salita ripida. Non mollare adesso, vai, muoviti. Scivolo, mi aggrappo a tutto quel che trovo, e quando il sentiero spiana, anziché prendere fiato, tiro avanti in apnea. Che diavolo mi stia succedendo, non saprei spiegarlo; forse ho inavvertitamente respirato la polvere di qualche fungo allucinogeno. Però, tutto sommato, è divertente: e poi, non ho nulla da guadagnare, nulla da perdere.

Ora, le voci non si sentono più. Avrò raggiunto la distanza di sicurezza dagli inseguitori? Un attimo di tregua. Procedo di buon passo, ma senza più esagerare; ascolto il cuore riprendere un ritmo ragionevole, i passi farsi meno frenetici. Ecco un altro collega: ha più o meno la mia stessa andatura; l'affianco, attacco bottone, si chiacchiera un po', per esorcizzare i km, la fatica, la stanchezza. Insieme raggiungiamo il punto di ristoro sulla strada asfaltata: pausa brevissima, perché ormai sono in pieno fervore agonistico. Riparto, seguita a ruota dal buon Luciano, con cui ormai il chiacchiericcio è troppo fitto e piacevole per separarsi. Passiamo accanto ad un'area recintata, in cui è in corso una rumorosa festa danzante: musica commerciale, luci, gente sparsa per il parcheggio, qualche schiamazzo e qualche bottiglia di troppo. Due mondi agli antipodi che si incontrano per un momento, senza che ci sia alcuna possibilità di comunicazione. "Una domanda mi sorge spontanea – rifletto – sono loro, i pirla, o siamo noi?". Bah... Qualunque sia la risposta, non farei cambio, per nulla al mondo. Si torna a salire, lungo la strada asfaltata, ma con pendenza da rampichino ed una bella vista, finalmente, sulle luci della vallata. Al ristoro, mancavano sei km. Qui ne mancheranno quattro, forse cinque, ma è arcinoto che gli ultimi km subiscono un fenomeno di dilatazione, con andamento crescente. Si sale sull'asfalto, ma non è finita; un sentiero, una rampa che taglia le gambe in mezzo al bosco; l'affronto con rabbia, con la foga e la paura di essere raggiunta; ormai quel poco di senno che m'era rimasto è svanito del tutto. Non mi devono prendere, non qui, eppure sento avvicinarsi le voci... Spuntiamo in una radura, accanto ad un ristorante; una volontaria ci indica un altro sentiero, in mezzo alla vegetazione, ancora, ma breve. Fuoco alle polveri, Gian, è il momento di dare tutto quel che ti rimane. Accelero; Luciano resta un po' indietro, ma capirà, spero, che non è lui la vittima designata della mia fuga. Ancora prato, ma già si vedono le luci del paese. Cammino, spedita, ma cammino; marcio sulla terra, sull'erba, poi sull'asfalto. Le voci alle mie spalle si avvicinano; non riesco a capire se ci sia, lì in mezzo, una voce di donna. Non voglio voltarmi, e poi non servirebbe; resterei abbagliata dalle luci, senza poter distinguere chi c'è sotto la frontale. Ticchettio di bastoncini, la voce si avvicina, sì, è una donna, è senz'altro l'ultima ragazza che ho sorpassato. Guardo avanti: quanto mancherà? No Gian, se ti metti a correre qui, non ce la fai, schiatti, sicuro... Rimedi una figura da cioccolataia, ecco. Sì, però... Ci hai messo tanto impegno, e adesso? Che fai, getti la spugna ad un passo dal traguardo? Su, in alto, le luci del paese. L'arrivo è in salita. Coraggio, è l'occasione per tentare il tutto per tutto. Un bel respiro e via, di corsa, anche se la strada è in salita, anche se i polmoni rischiano di scoppiare. Di corsa, con l'orecchio in angosciosa attesa della voce che mi arriverà alle spalle, mi passerà accanto, mi sorpasserà. Corri Gian, non puoi fare altro, è l'unica speranza. La gola brucia, i muscoli sembrano di pietra. Raggiungo il paese, accelero ancora, o almeno ci provo; le prime case, la svolta a destra. Passo accanto a due colleghi, mi sento quasi in imbarazzo, chiedo scusa: "Non posso farmi riprendere a pochi metri dal traguardo...". Pochi metri, è la mia speranza; in realtà, non ho proprio idea di quanto manchi alla fine. Quel che è certo è che mi resta ben poca autonomia. Testa bassa, pancia a terra come i cavalli al galoppo. Là davanti c'è una luce, c'è una chiesa, potrebbe esserci una piazza, forse l'arrivo: mi avvicino, col cuore in gola per lo sforzo e l'ansia che la mia speranza sia smentita... Quasi non ci credo, quando vedo l'arco d'arrivo. Quattro balzi ed è fatta: la medaglia, i complimenti dei volontari che assistono all'arrivo. Sono sorpresa e soddisfatta: prendo fiato, assisto all'arrivo dei due concorrenti che ho appena sorpassato e della fanciulla che stava per mettermi il sale sulla coda. Un cenno di saluto, ma lei ed il compagno mi ignorano: va bé, contenti voi... Se io mai dovessi mettere su il muso verso tutti i corridori che mi lasciano indietro, potrei smettere di rivolgere la parola a chicchessia!

Sono terza in classifica femminile, o forse seconda, chissà. Il volontario che mi consegna la medaglia non è ben sicuro. Potrei avvicinarmi al tavolo del computer a controllare: ma in fondo non è che la cosa abbia poi quella grande importanza... Ho concluso la corsa; soprattutto, ho aggiunto l'ennesima tacca al lungo elenco di prove di lunga distanza collezionate quest'anno. E' la quantità, il traguardo personale che inseguo, non certo il piazzamento... Se anche fossi davvero sul podio, oggi, è solo perché le atlete di rilievo nell'ambiente non hanno preso parte al Morenic Trail. Tutto qui. Alla prossima corsa, con l'ordinaria partecipazione femminile, rotolerò dinuovo in fondo alla classifica, come si conviene ad un paracarro del mio calibro. Amen. M'incammino titubante nella direzione del punto di ristoro, seguendo i due concorrenti che ho sorpassato appena prima dell'arrivo. Non sembra che abbiano le idee poi tanto più chiare delle mie. Camminiamo esitanti tra le case del paesello silenzioso ed immobile, una fioca luce gialla ad illuminare la piazza deserta. Troviamo il locale destinato a ristoro e ricovero per dormire: da qui, un'auto, nientemeno, ci accompagna alle docce, presso la piscina. Sorpresa: doccia unisex... "Ci sono uomini nudi?", domando. Un collega appena uscito rimette la testa oltre la porta e risponde di sì; cita per nome un concorrente che già vestito ha il suo bel perché, figuriamoci nudo... Ohibò. Non sarebbe la prima volta a proposito di docce indistinte, ma confesso che mi sento in imbarazzo. Non per me, beninteso: il senso del pudore per me è sempre stato un concetto ignoto... E poi, dopo la cura dimagrante presso la Clinica Tor des Geants, devo dire che potrei anche fare la mia porca figura. Mi imbarazza l'imbarazzo altrui: i compagni di spogliatoio che si sentono in dovere di coprirsi come esquimesi... Tra frizzi e lazzi di chi è già lavato e rivestito, entro comunque, perché più del dolor, secondo l'Alighieri, o più dell'onor, secondo De Andrè, potè il gelo siberiano. Aspettare fuori, sudatissima, al freddo, non mi pare un'idea da premio Nobel. Lo stanzino è minuscolo e non esattamente lindo; uscire di qui senza un'infezione tripla carpiata con avvitamento all'indietro sarà dura! Attendo il mio turno alla doccia, al seguito di due concorrenti francesi che, almeno loro, nudi come mamma li ha fatti, non si pongono il problema della mia presenza. Tra me e me li ringrazio: sono a loro agio e mettono a loro agio anche me. Peccato solo che la mamma in questione non si sia poi impegnata così tanto... I colleghi italiani presenti sono tutt'altro spettacolo, o meglio, lo sarebbero, se solo non si fossero arrotolati dalla punta dei capelli alle unghie degli alluci dentro lunghi, castissimi, informi accappatoi! Mannaggia, ma che fine ha fatto il maschio spavaldo e conquistatore? Beh Gian, adesso non te la tirare. Non sei mica la Schiffer, né la Bellucci; magari a questi qui un comodino ispira più seduzione di te. C'est la vie, bisogna saper accettare le sconfitte. Sgattaiolo nella doccia alla prima occasione: più che una vera lavata, diciamo che mi do, per usare l'idioma dei Torinesi, "'na b'rlicà": questo posto è così lurido che rischio di uscirne più sporca di quando ci sono entrata... Va bè, pazienza. Mettiamo gli abiti smessi in una borsa di plastica – sono previdente, ne ho portate un po' – e non pensiamoci più; li laverò poi a casa, in acquaragia, dopo aver sottoposto me stessa al medesimo trattamento. Non sono certo un tipo schizzinoso, ma quand'è troppo è troppo....

Più o meno tornata all'onor del mondo, mi riavvio verso il locale del ristoro. Troppo caldo ed affollato per i miei gusti. Al tavolo con alcuni colleghi di sventura, trangugio il graditissimo pasto procurato dai volontari dell'organizzazione: zuppa di verdure calda, pane, formaggio, frutta. Indugio un po', in attesa che mi passi quel senso di capogiro che spesso mi assale, dopo una gara, in un luogo troppo riscaldato; quando sento le gambe più o meno ferme, saluto e torno a recuperare le mie borse: lo zaino che ho usato in gara e l'altro zaino, quello che contiene gli abiti sporchi e, ora, anche il pacco gara che mi è stato consegnato all'arrivo. Biscotti, volantini ed una bottiglia di vino. Riesco a malapena a farci stare tutto... Provvedo a corazzarmi contro il freddo: giacca impermeabile, guanti, bandana. E poi gilet e fascette rifrangenti. Infine, luce frontale in testa. Uno zaino sulle spalle, l'altro sulla pancia. M'incammino, sotto lo sguardo perplesso degli infermieri dell'ambulanza. "M'incammino, non ho voglia di aspettare".

Riprendo la strada, direzione fondovalle, Baio Dora e Borgofranco. Ormai non ho più alcuna speranza di recuperare l'auto in tempo per arrivare al via della Maratona, a Cuneo. Ho concluso la gara poco prima delle 3; saranno passate le 4, ormai. Da qui all'auto, 30 km, con due zaini e già 110 km nelle suole... Pazienza, Gian. Sarà una lunga, bellissima passeggiata; goditela, con calma.
Il riverbero delle luci del paese, alle mie spalle, è sempre più fioco. Ripercorro a ritroso un tratto della gara, giusto in tempo per veder arrivare Franco e Morgana, sorridenti e contenti sotto il fascio di luce delle frontali. Poi proseguo, in compagnia di qualche stella raminga e di qualche auto che mi sorpassa o m'incrocia. E pensare che basterebbe provare ad allungare il pollice e chiedere un passaggio. Ad ogni rombo di motore alle mie spalle, mi sforzo di convincermi a provare: eppure non c'è niente da fare, non ci riesco. Non è paura: dubito che quassù circoli quella grande abbondanza di malintenzionati... E' proprio vergogna, fastidio di dover chiedere. Dai Gian, arrangiati e cammina. Respira, non pensare al sonno, non lasciarti andare.

Mi supera un'auto che, poco più avanti, si ferma. Un bel gruppo, corridori ed assistenti: mi offrono un passaggio... Come dire di no? La Maratona all'improvviso non è più così lontana... Questo buon samaritano a motore mi risparmia almeno una decina di km, scarrozzandomi fino a Lessolo, a fondovalle. Da lì, riprendo la mia marcia: Baio Dora, Borgofranco, strade cupe, buie, senza un'anima. Case e capannoni, capannoni e case, un'auto ogni tanto. Il cielo dovrebbe schiarire, prima o poi. Già, dovrebbe... Il guaio è che le poche stelle sono già state inghiottite dalle nuvole e, ben prima dei raggi del sole, mi raggiungono grosse gocce d'acqua. Sopra di me, alberi non ce ne sono... Quindi la verità amara è una sola: piove. Fantastico. 17 km ed un buon dislivello, sotto la pioggia. Coraggio: hai passato di peggio. In fondo, non fa nemmeno freddo. Così, metro dopo metro, buca dopo buca, cancello dopo cancello, cavalcavia, marciapiedi, lampioni, raggiungo Borgofranco, già fradicia. Da lì, al semaforo, imbocco sulla destra la strada in salita. Con l'acqua che cola sulle lenti, sulle maniche della giacca, sui pantaloni, che s'infila nelle scarpe, le mie vecchie scarpe da corsa su asfalto, che ho riciclato come scarpe da passeggio. Fradicia fino al midollo, ma serena e contenta, cammino stando il più possibile a bordo strada; guardo giù, le sagome del fondovalle appena accennate nell'uggia di quest'alba piovosa. Addio Maratona di Cuneo, ma è bellissimo anche così, senza fatica, senza dolori alle gambe, senza freddo, perché la salita riscalda le membra ed il cuore. Perdo coscienza del tempo che passa, forse anche per colpa del sonno. Di tanto in tanto, le palpebre si chiudono per un istante di più. Vorrei poter leggere nella scatola cranica di chi mi vede per strada in questo momento... Ci sarebbe da ridere!

Raggiungo Andrate intorno alle otto e mezza, grondante come uno scolapasta. Per fortuna, in auto ho lasciato un secondo cambio di maglia e giacca: lungimirante, una volta tanto. Mi sistemo, mi ricompongo, ma riparto solo dopo aver aperto il pacchetto di biscotti al burro che ho ricevuto nel pacco gara: lo sistemo in posizione strategica, sul sedile accanto. Prima che il gallo canti, l'avrò già spazzolato tre volte.
Nella strettoia all'uscita del paese, incrocio un pullman, non proprio di primo pelo, anzi, direi dall'aspetto antico. Vuoi vedere che questa è la navetta che riporta alle auto i corridori prelevati all'arrivo? Del resto il trasporto era fissato per le 8... E mezz'ora di viaggio è un tempo ragionevole. Se l'avessi attesa a Brosso, sarei tornata quassù in bus, più o meno alla stessa ora in cui ci sono arrivata a piedi. Ma di certo non me la sarei goduta così tanto, anzi, sarei rimasta laggiù a girarmi i pollici e crogiolarmi nel dispiacere di aver disertato Cuneo. Ora non mi resta che evitare di spiaccicarmi con l'auto per un colpo di sonno, e poi a Cuneo andrò in ogni caso: non per correre, ma per assistere agli arrivi di Matteo e di alcuni amici. Con la segreta, inconfessabile speranza di una cioccolata calda da Arione...