venerdì 6 settembre 2013

1 settembre 2013 - TOUR MONVISO TRAIL

Solo io posso esser capace di cotanta idiozia. Imbecille, imbecille, imbecille: imbecille al cubo. Solo io posso dare appuntamento all'uomo più bello e fascinoso che si sia mai visto sulla faccia della Terra, in una città, ad un indirizzo e ad un'ora che ho deciso io stessa, e riuscire a non trovarlo. Solo io posso mettermi a girare in auto come una trottola alle quattro del mattino, senza capir più nulla, in preda al panico, in un paese che conosco come le mie tasche, mentre il tapino continua a ripetermi al telefono che lui è proprio lì dove gli ho detto di trovarsi... Che per giunta è l'indirizzo di casa di mia sorella! Solo io posso perdere del tutto il lume della ragione, lasciarmi assalire dal terrore di non arrivare in tempo alla partenza della gara – fissata due ore e mezza dopo, in un luogo raggiungibile da qui in mezz'ora – e concludere desolata al telefono "meglio che ci troviamo là", dove "là" sta per Crissolo... Tra il buio e le lacrime di rabbia e vergogna che cerco invano di ricacciare indietro, guidare fin lassù diventa un'ardua impresa. Fa brutti scherzi la tensione pre gara: beh, forse, ad essere del tutto sincera, non è tutta colpa della gara... In ogni caso, lo è in buona parte. Sono giorni che penso a questo trail ed alla possibilità di provare ad affrontarlo, per una volta, in modo un po' più deciso del mio solito. Però, cavolo... Manco la mia fosse una lotta per il podio! Ad andar bene, la mia vittoria sarà riuscire a rientrare entro il tempo massimo...

Il meraviglioso è già arrivato. Vorrei potermi seppellire sotto una tonnellata di terra, per non dire altro... Sono un'incommensurabile idiota. Lo so da tempo, di essere un'incommensurabile idiota, solo che ogni tanto cerco di dimenticarmene... Ma poi capita qualcosa che mi riporta brutalmente alla consapevolezza. Quasi non oso scendere, è lui che si avvicina alla mia auto e cautamente bussa, con la faccia di uno che ha il dubbio di avere a che fare con un pazzo alla Jack Lo Squartatore, con sembianze femminili però. Rassegnati, Gian. Anzi, rassegnati, Gianca, così almeno evitiamo confusioni, visto che è un Gian pure lui. Non hai difesa... Tantovale che ti accetti per quel che sei. Un'idiota. In fondo lui è un animo buono, non te lo fa neanche pesare.

Sono le cinque o poco più, si parte tra due ore. Le volontarie sono già ai posti di combattimento per distribuire i pacchi gara: pettorale, chip ed un'infinità di cose buone, dalle merendine al succo di frutta alla confettura... E, luce dei miei occhi, una bellissima maglia tecnica da indossare alla pelle, di quelle che non restano bagnate, una meraviglia. Caffè e quattro parole, mentre in piazzetta, al buio, fervono i preparativi per il via. Ma io qui non resisto, preferisco la solitudine: rintanarmi in auto e cercare un recupero di sonno che tanto non arriverà; controllare mille volte il marsupio e l'equipaggiamento. Per oggi, visto che 43 km sono una distanza abbastanza contenuta, ho deciso di "osare": niente zainetto, solo il bel marsupio che ho ricevuto nel pacco gara del Tartufo Trail, niente bastoncini e niente borraccia. La mancanza d'acqua al seguito non mi preoccupa, sia perché di solito bevo pochissimo, sia perché lungo l'itinerario si trova acqua quasi ovunque. Rinunciare ai bastoncini invece è un azzardo.

Il brulichìo di atleti ed accompagnatori cresce e, con esso, la mia agitazione. In auto non resisto più: prendo il marsupio, mi lego le scarpe, esco. Decido per una cioccolata, ancora: peccato che il portafoglio sia rimasto in auto... Altra corsa, vai, torna; meno male che Crissolo è un paesetto grande un pugno e le distanze sono minime... La barista deve aver avuto più o meno la stessa impressione di me del pover'uomo bellissimo.

Finalmente arrivo alla partenza, intruppata tra decine di altri corridori. Ne conosco tanti e quasi non ne riconosco nessuno, per la tensione che mi annienta anche quel poco di vista da miope. Beh no, il bellissimo lo riconosco, meno male che decide prudentemente di allontanarsi... Ci manca anche che mi si surriscaldi l'ormone, già peraltro discretamente agitato, e sono a posto. Capace che percorro il giro al contrario. L'attesa per la partenza mi sembra eterna...

Il via esorcizza tutte le mie paure. Parto di corsa, sì, proprio così. Non l'ho mai fatto, anzi, me ne sono sempre ben guardata... E invece oggi parto di corsa. Supero il bivio con la strada asfaltata di Pian del Re e seguo la massa su per il sentiero che si stacca sulla sinistra, oltre il ponte. Saliscendi in mezzo al bosco, sentiero ora strettissimo ora quasi una strada; foglie verdi, acqua ovunque, intorno ancora tanto fiato per chiacchierare. Il fiato è corto, ma non come pensavo. Calma. Ce la faccio: non devo esagerare; correre sì, ma senza strafare; piano, regolare, un po' più lenta di quel che mi sento. Piano, concentrata, non inciampo. Brevi discese, strappi in salita: un percorso nervoso ed irregolare che ci porta a sbucare a Pian della Regina, proprio di fronte alla Baita della Polenta. Un pastore ci osserva, evidentemente perplesso per i nostri visi stravolti: in un bel piemontese di montagna, osserva "Ma, se andassero un po' più piano, faticherebbero meno...". Come dargli torto?

Un bicchiere di the e si riparte, destinazione Pian del Re. Accendo il lettore Mp3, cuffie nelle orecchie. Si comincia con le note di Cher. Il sentiero sale blando fino al pianoro; non ci sono più alberi intorno, solo prato, rocce e tane di marmotta. Poi s'inerpica tra rocce e pietrisco per superare il salto della cascata: tornantini stretti e strappi secchi. Sono ancora in mezzo alla massa: mi compiaccio, di norma a quest'ora sarei già rotolata in ultima posizione o quasi... Altro ristoro idrico, altri due bicchieri di the al rifugio: altra partenza, guai a perdere tempo. Arrivo di corsa al sentiero che sale al Colle Traversette: dobbiamo percorrerne un buon tratto, prima di imboccare a sinistra la traccia per il Rifugio Giacoletti. Calma Gian che scoppi... Calma che scoppi... Ma stavolta non ce la faccio. Mi prendo una lepre di riferimento, la inseguo, ne scelgo un'altra ed inseguo ancora... Ci sono un bel sole ed il Monviso sopra la mia testa, ma io non ho ancora alzato gli occhi da terra.

Il primo bivio è il nostro. Ci ritroviamo su per una vera salita da capre: prima sentiero stretto e molto ripido, poi sentiero ancor più ripido, dove usare le mani, dove salire facendo un passo avanti e due indietro. Salgo bene, supero gente, mi gaso a dismisura: va a finire che prima o poi scoppio... La salita non molla, supera una balza dopo l'altra; ci vuole un bel po' perché il colle si individui contro il cielo, là dove sventolano le bandierine del rifugio, ed un altro bel po' per arrivarci. Nonostante manchi l'aiuto dei bastoncini, per ora le gambe sono ben reattive. Ma sarò capace di correre in discesa? Quello non l'ho proprio mai mai fatto...

Al ristoro del Rifugio Giacoletti, breve pausa a base di pane, marmellata, formaggio e barrette Kinder, un orribile misto che a me però sembra manna dal cielo. Alzo il volume della musica e mi fiondo in discesa: il minimo che possa aspettarmi è di sfasciarmi la faccia al primo salto... Invece no: riesco a correre, a saltare, ad appoggiare sicura, e pazienza se mostro la leggiadria di un cinghiale intasato. Mi lascio persino qualche avversario indietro. La conosco, questa discesa, so che non è uno scherzo. Eppure in breve arrivo in vista del primo lago e poi del secondo: non so mai quale dei due sia il Fiorenza... Breve risalita e ancora giù, a valanga; sono ancora in piedi e non me ne capacito... Merito delle scarpe, questo è poco ma sicuro... Ma non solo!

A ruota di alcuni colleghi, mi ritrovo sul sentiero che sale al Rifugio Quintino Sella. Si torna a lottare contro la gravità, eppure oggi mi sembra tutto troppo facile... Prendo il mio passo, mani dietro la schiena e su, un piede avanti all'altro, poco poco ma inesorabilmente. Gentilissimi, gli escursionisti si fanno sempre da parte, salutano, incitano. Risaliamo la pietraia: anche da qui, la vista sul Monviso sarebbe uno spettacolo... Se solo si alzassero gli occhi da terra. Un'altra volta, magari, adesso bisogna andare. Inseguo Domenico, già sorpassato in discesa, che mi ha appena risorpassata: è un onore riuscire a restare nei paraggi di un personaggio che corre la maratona in tre ore ed un quarto... Per adesso, è lui il mio riferimento.

Anche la pietraia... Mai affrontata così. Di solito è il mio spauracchio. Ma non oggi. Scollino in vista del lago: sul tratto in piano e leggera discesa, metto le ali ai piedi. Lo so, son sicura che, non appena le gambe cominceranno ad accusare la stanchezza, ruzzolerò per terra. Ma Gian, non fasciarti la testa prima d'essertela rotta... Provaci! Alla peggio, poi, scoppi...

Al Quintino Sella, ottimo ristoro e tanta gente venuta fin su a vedere la gara. Mi strafogo di barrette Kinder e bicchieri di sali, tutta contenta d'essere ancora in buona posizione, che per me significa non proprio ultima e reietta. Pochi istanti e via: da qui al Passo San Chiaffredo, è corribile. E questa volta devo correre. Mi fiondo, infatti: non mi capacito di quanto le gambe siano sciolte ed ubbidienti, oggi. Che sia l'effetto degli ormoni in circolo? Ma allora devo prenotare l'assistenza del bellissimo a tutte le gare possibili ed immaginabili future... Devo ordinargli di piazzarsi ignudo nei punti strategici dove per me è più probabile andare in crisi!

Un salto dopo l'altro, in lontananza torno a vedere Domenico, che però ha una falcata assassina. Lo inseguo, ma senza riuscire ad accorciare la distanza. In compenso, come previsto, arriva il primo capitombolo. Meno male che la salita riprende, almeno un po', fino al Passo Gallarino: la testa comincia a girare... Devo dare il tempo alla pappatoria di entrare in circolo. Brividi: sarà stanchezza o il freddo quassù? Siamo quasi a quota 2.800 m dopotutto. Il sole comincia a velarsi, qualche nuvola qua e là. Quanta gente a fare assistenza ai corridori: nugoli di angeli custodi dappertutto! Mi salutano al Passo Gallarino. Via, di corsa verso il Passo San Chiaffredo: è proprio lì, nel tratto in piano che scorre accanto al laghetto, che riesco finalmente a raggiungere il buon Domenico. Mi sento un po' carogna: questa volta sono io a sfruttare l'altrui difficoltà in discesa... Ma io oggi ho nelle vene un doping tutto naturale e potentissimo. Mai e poi mai mi sarei sognata di affrontare la discesa dal Passo San Chiaffredo verso la Val Varaita così. Di corsa! C'è da dire che un gran vantaggio arriva, inaspettatamente, dalla mancanza dei bastoncini... E soprattutto dello zaino. Il senso di libertà di movimento, quando ho la schiena libera da pesi, per me è impagabile. Basta anche uno zainetto piccolino e leggero a darmi fastidio...

Sono davvero tanti gli escursionisti che salgono di qua. Mi sembra, ogni tanto, di fender la folla. Raggiungo altri tre corridori un po' più impacciati, passo oltre, entro nel bosco, giù a perdifiato tra sassi e radici. Continuo a non credere a me stessa. Sono allibita e felice... Ma durerà?

A Plan Meyer, altro capannello di assistenti in giubba rossa. Qui si abbandona il sentiero che scende in Val Varaita e si imbocca quello che raggiunge il Rifugio Bagnur. Lo aggredisco con molta baldanza: il minimo che mi possa succedere, di conseguenza, è di appoggiare incautamente il piede su una roccia viscida, superando un torrente, e di rovinare pesantemente al suolo, picchiando proprio l'anca destra sulla pietra. Per qualche istante, non vedo e non capisco più nulla: il dolore è violentissimo, da piangere. Poi, pian piano e bestemmiando in ogni lingua nota e sconosciuta, mi rimetto in piedi: ma ci vuole ancora un po', prima di potermi raddrizzare del tutto e poter ripartire...

Il dolore è forte ma, con il movimento, pian piano si attenua un po'. Brucia, anche: si vede che mi son portata via un po' di pelle. Non voglio neanche saperlo. Zoppicon zoppiconi, riprendo la corsa, un po' più incerta e preoccupata: mi sento fiacca, adesso, forse per lo spavento, forse per la fame o per entrambe le ragioni. Questo bosco, che poi è il meraviglioso bosco dell'Alevè, non finisce più e mi mette l'angoscia... Corro con meno convinzione; quasi patisco la breve risalita nel fitto del bosco. Per fortuna, il Rifugio Bagnour appare come un miraggio: desideratissimo, il ristoro.

Dalle parole di uno dei volontari, capisco che ho impiegato cinque ore e mezza ad arrivare fin qui: ed io che temevo di sforare il cancello delle sette ore... Mi concedo qualche minuto di tregua, pane, marmellata, acqua e sali: riparto, in effetti, piena come un uovo. Meno male che la salita comincia subito: novecento metri di dislivello, stavolta del tutto sconosciuti. Il Passo Calatà è ignoto: so solo che mi riporterà sul Passo Gallarino. Pare, a detta di molti, che toccherà spargere lacrime & sangue per arrivare lassù... Non riesco a rendermi ben conto di come sto. Affronto con cautela i primi passi: le gambe mi sembrano un po' tese e stanche. Passo regolare, ma già sufficiente a riacchiappare qualche avversario. E, di conseguenza, a gasarmi per bene.

Si sale per un po' in mezzo al bosco, tra pietroni e radici che impediscono di prendere una falcata regolare. Poi la quota spazza via gli alberi: resta un bel sentiero che sale su fino ad un pianoro. Superata quella balza, sollevo lo sguardo e... Davanti, un'altissima parete scura, un'infinita pietraia. Lassù... Ma dove? Mamma mia... Non ci riesco, sono stanca... E più lo penso, più mi metto a correre. Gli applausi di un gruppo di escursionisti appollaiati su una collinetta fanno l'effetto di un fiammifero su una tanica di benzina. Di qui, la salita si fa quanto più possibile cattiva: si sale sulle pietre, spesso tocca aiutarsi con le mani per restare in equilibrio, e poi su per la pietraia, il fiato sempre più corto, il petto che fa male, i muscoli che urlano. Non voglio mollare. "Ma tu sei Giancarla? Vai Giancarlaaaa", un urlo che mi dà la scossa, ancora su per la pietraia ormai ripidissima, e qui sì che vorrei i bastoncini... Com'è nera questa parete; forse è l'effetto della nebbia che incombe appena più in alto dei duemilanovecento metri del colle. Un altro volontario di guardia: "Un quarto d'ora e sei su", come, un quarto d'ora, io non ce la faccio più già adesso... Ancora pietre, ancora sforzo, mani sulle ginocchia, dai Gian forza... Non mollare... Il gruppo di volontari lassù sul colle, sempre più vicini, dai che ormai è fatta...

Scollino in un'atmosfera da film horror, una sterminata pietraia nera, la nebbia grigia, il vento freddo. Paesaggio che stride con i sorrisi e le urla entusiaste di chi veglia su di noi, quassù. Il primo tratto di discesa, beh... Sfido chiunque, a correrlo. Non c'è nemmeno un sentiero, solo una fila di bandierine da seguire alla bell'e meglio. Poi, pian piano, la faccenda migliora, anche se un paio di voli rischio di concedermeli. Altri volontari, sul pianoro: un bicchiere d'acqua, graditissimo, anche se adesso qui fa quasi freddo. Via, di corsa, lungo un sentiero finalmente bello e praticabile che, con impercettibile salita, mi riporta al Passo Gallarino senza che io quasi me ne accorga. Ha avuto coraggio, colui che ha deciso di inserire il Passo Calatà nel percorso: guai se lì fosse calata la nebbia... Hai voglia a metter bandierine: si sarebbe trovata gente sparsa per tutta la pietraia! Per fortuna, è andata bene ed è stato un fantastico colpo d'occhio.

Ali ai piedi, Gian, ormai è fatta o quasi. La salita è quasi tutta alle spalle. Il lettore Mp3 suona "The Final Countdown", mai colonna sonora fu più azzeccata. Devi proprio solo sbrigarti: possibilmente, senza schiantarti al suolo proprio adesso... Chissà, magari la meraviglia in forma di masculo è ancora a Crissolo... Chissà da quanto tempo è già arrivato, chissà se avrà pazienza.

Il sentiero verso il Rifugio Alpetto è bello, agevole, senza pendenze impossibili. Solo in qualche tratto, il pietrisco diventa insidioso. Il rumore della cascata, quando ci arrivo di fianco, è tale da coprire quasi il volume della musica nelle orecchie. Al bivio per il Quintino Sella, "cinque minuti", mi dicono: beh, forse un po' di più... Ma, curva dopo curva, alla fine anche l'Alpetto compare. Ultimo ristoro: ancora barrette Kinder, le adoro, e persino un pezzo di anguria. Un paio di minuti, non di più. Il cielo è plumbeo, le frange delle nuvole arrivano fin quasi a lambire la mia strada, ma che importa? Otto chilometri, tutta discesa, sostiene il volontario. Al che, mi metto una mano sui gioielli di famiglia, metaforicamente s'intende: quando sento dire "tutta discesa", minimo minimo c'è ancora una parete da superare con una scalata di settimo grado...

Corro lungo il torrente, sul pianoro; un po' di saliscendi e poi una splendida picchiata giù per un sentiero che scende addossato alla parete nera. Sarà questa, immagino, la Rocca Negra che non conoscevo. Nelle orecchie gli Stadio, "Un disperato bisogno d'amore". E poi... Un lunghissimo, interminabile traverso in leggera salita – altro che tutta discesa – taglia il pendio erboso, in certi punti anche parecchio ripido in caso di inopportuno volo. E poi ancora chilometri di prato da attraversare, correndo lungo il filo che delimita il confine per il pascolo dei bovini. Un tratto che, in altri tempi ed in altre circostanze, mi avrebbe gettato nel più nero sconforto per la monotonia e la difficoltà, così vicina alla fine della gara... Non oggi, sembra che le gambe non vogliano più rassegnarmi al passo. Sembra che oggi le gambe non siano le mie. Raggiungo ancora, inaudito, qualche concorrente; riesco a non farmi staccare dagli altri – pochi, inaudito – che ancora mi raggiungono. In vista di Serre Uberto dall'altra parte della valle, passiamo accanto ad un alpeggio; ancora prato, rognosissimo, tutto buche e sassi insidiosi sotto l'erba: calma Gian, mantieni il controllo... Prima o poi finirà, deve per forza finire! Infatti, finalmente, curva secca a sinistra e ci si butta nel bosco. Finalmente si perde quota. Accelero ancora, incurante delle raccomandazioni di cautela per il fondo scivoloso nel sottobosco; le voci di Crissolo: incontro ancora qualche escursionista, poi finalmente i primi tetti, l'asfalto, il ponte... Gli ultimi metri nel centro di Crissolo, l'arrivo. Confusa e contentissima, nove ore e dieci per 43 km e poco più di 3.000 m di dislivello, lungo un percorso parecchio rognoso; un'eternità, in assoluto, ma un tempo più che lusinghiero per me. Percorso splendido, tra l'altro, meglio ancora del tradizionale giro del Monviso.

Accolgo con molta gratitudine la confezione di Estathe: sono talmente suonata che quasi non riesco ad infilar la cannuccia... Poi mi avvio, un po' stordita, verso l'auto, parcheggiata proprio lì vicino. Talmente stordita che solo quando ci arrivo, mi ricordo di spegnere il lettore Mp3. Nessuna traccia della meraviglia in giro... Beh, sarà già partito. Mando un messaggio: "So che non ci credi, ma sono già qui". Incredibile dictu, è ancora nei paraggi: sta a magnà, tanto per cambiare...

Il mio desiderio più forte, in questo momento, è la doccia. Di mangiare non se ne parla. Le docce sono messe a disposizione dall'albergo sulla piazzetta: fantastico, troppo gentili! Un po' di coda e poi il meritatissimo, questa volta sì meritatissimo, scroscio d'acqua bollente sulla pelle... Somma goduria, levo via un chilo buono di polvere. Quando scendo, il portatore sano di quasi offensiva bellezza è lì al tavolino, davanti ad un bicchiere di Coca Cola: ma sì... Concediamoci ancora quei dieci minuti di contemplazione. Evidentemente deve aver deciso che non sono pericolosa, nonostante la performance psicopatica di questa mattina. Non adesso, di sicuro... Mi gira troppo la testa per essere minacciosa; ci vuole il soccorso di un caffé con lo zucchero. Mi gira per colpa della gara, intendiamoci, anche se, davanti a questo personaggino qui, qualunque fanciulla rischia qualcosa di simile alla sindrome di Stendhal... In trentadue anni di poco onorata esistenza, un simile esemplare di masculo non l'avevo ancora mai veduto, parola mia. Non me lo sarei certo dimenticato, altrimenti.
Se poi proprio mi concentro ed immagino di avere davanti un mostro inguardabile, riesco persino a passare oltre ed a concentrarmi su quel che dice: è anche simpatico, il marrano! Sette ore e mezza per lui.. Porcaccia miseria. Inarrivabile. Gnocco e pure forte, ha tutte le fortune.

OK Gian, è ora di tornare con i piedi per terra. E il deretano in pianura, a Carmagnola. Quei dieci minuti di tentativi per far partire la Zafira, che oppone strenua resistenza all'avviamento... Malgrado i commenti scettici dei viandanti, il rottamone ce la fa. Si parte: almeno fino a Paesana dovrei arrivare, è tutta discesa. Arrivo invece fino a casa, sia pure combattendo con il mal di testa, i morti di sonno al volante delle utilitarie ed il caos carmagnolese per la Fiera del Peperone. Mi restano un livido enorme, nero, sull'anca destra, e lo stupore per aver corso così come ho corso. Tra due settimane, tocca alla Valle Maira Skymarathon: e se provassi a fare il bis? Per la gara di oggi, il premio per il vincitore era il barattolone da cinque chili di Nutella, ma l'ho saputo soltanto dopo... Se il 15 settembre sarà in palio lo stesso premio, allora lotterò per la vittoria!




2 commenti:

  1. Sono capitato qui per caso ... ho letto questo racconto e mi sono veramente divertito, ho riso tanto ... bello e divertente !!! Complimenti anche per la gara eh non solo per lo scritto.
    Ora pian piano mi leggo anche il resto.
    Ciao Luigi

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  2. Cara Giancarla
    Da un po' di tempo torno su questo blog nella speranza di leggere un bel racconto di montagna di quelli ai quali mi hai abituato in passato. Leggo invece un triste e commovente racconto scritto, come sempre, molto bene. Ti prego, torna a farci sognare con racconti di avventure fantastiche, anche quelle semplici a due passi da casa ma ricche di emozioni e pensieri profondi. Resto in attesa e ti auguro una estate felice.
    Paolo - Genova

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