sabato 5 agosto 2017

20-21 maggio 2017 - NOVE COLLI RUNNING

 Preparatori atletici e nutrizionisti, fatevi da parte... Non avete speranza di competere con la MADRE, che alle cinque e mezza del pomeriggio, al mio rientro anticipato per l'occasione dall'ufficio, mi fa trovare una ciotolona colma di fonduta in cui galleggiano gli gnocchi. “Devi fare il pieno di energie”, sentenzia. E chi sono io per disobbedire alla mamma? Ammetto però che l'impresa è ardua: ingollo metà del lauto pasto subito e metà qualche ora dopo. Come sempre, la preparazione dei bagagli è avventura dell'ultimo minuto; in più, prima di partire, devo preoccuparmi di organizzare tutto affinché la genitrice ed i tredici cagnoni possano sopravvivere due giorni e mezzo in mia assenza. Morale della favola, accendo il motore della Zafira quando sono già passate le dieci di sera.

Il viaggio non comincia sotto i migliori auspici. Sono parecchi mesi che non mi allontano da casa per ben tre notti: mi assale un senso di angoscia e di disgrazia imminente. Ma forse è solo colpa della stanchezza: sono in piedi da prima dell'alba e non posso certo far finta di ignorare il sonno, nonostante il caffé tracannato a litri. I riflessi fanno quel che possono e la trasferta è, per forza, molto lenta e carica di tensione. Il programma prevede di arrivare oltre Bologna, per evitare il rischio di intasamenti il sabato mattina, e fermarmi in autogrill a dormire, con il sacco a pelo. Ma getto la spugna poco dopo Modena: è l'una e non riesco più a tener gli occhi aperti. Area di servizio: giusto il tempo di puntare la sveglia alle otto del mattino e crollo in un profondissimo sonno, da cui mi risveglio alle prime luci dell'alba. Guardo l'ora e mi riaddormento, ma di lì a poco il trillo imperioso del cellulare mi ricorda che la MADRE non dorme mai... E già reclama mie notizie. Ok, ci rinuncio, tantovale che mi rimetta in marcia.

Un incidente, segnalato alla radio, mi costringe ad un tratto fuori autostrada. Raggiungo Cesenatico ben prima delle nove, sotto un cielo che definire plumbeo è ottimistico. La partenza della corsa è a mezzogiorno: meglio provare a dormire ancora un po'... Ho la fortuna di poter quasi dormire a comando. Mi risveglia, a tratti, il rumore degli scrosci di pioggia sulla carrozzeria, ma riprendo piena conoscenza solo dopo le dieci.
Pazienza, se non altro non si patirà il caldo. E' ora che mi cambi e mi prepari per il via. Soprattutto, è il momento di dare l'ultima occhiata alle sacche per i cambi d'abito, da lasciare ai rifornimenti. Ho intenzione di mandare l'abbigliamento per la notte al punto di ristoro del km 70 circa, al Ciola, e quello per il mattino, come gli anni scorsi, al Pugliano, al km 130 circa. Nello zainetto che porterò sempre con me infilo i documenti, la chiave dell'auto, la giacca impermeabile, un tubetto di pasta di Fissan e qualche barretta. Dopodiché, con aria da funerale e passo adeguato, mi avvio verso il Municipio.

Ormai mi sento quasi a casa, qui a Cesenatico. Sono almeno dieci anni, tra granfondo in bici e corsa a piedi, che mi ci presento puntuale a maggio. Potrei quasi avanzare richiesta di asilo. Vero, non sarei il tipo da vita in una cittadina turistica di mare; ho un livello di sopportazione dei miei simili prossimo allo zero. Però, c'è anche da dire che i Romagnoli sono, per la mia esperienza, persone con cui si sta bene... La gentilezza proverbiale e la risata sempre pronta sono due fattori non trascurabili per la qualità della vita.

Il punto della partenza brulica già di corridori, assistenti e spettatori. Qualche saluto e poi ritiro il mio pettorale, numero 7: infatti, se ce la dovessi fare anche stavolta, si tratterebbe della settima Nove Colli Running conclusa. Se. Ma è troppo presto per pensare all'arrivo.
Il pacco gara contiene una bellissima felpa ed una bandana, entrambi col marchio della gara. Torno all'auto e deposito tutto nel bagagliaio. Per ora non piove...

Il solito, interminabile appello dei partecipanti, uno per uno. Momento di curiosità e di ansia insieme. Si parte dal numero più alto... Quindi posso godermi la sfilata di quasi tutti i partenti, visto che ho il numero 7. Intanto, i primi goccioloni piombano sui crani. Ecco... Tempismo perfetto. Le ultime raccomandazioni e la vana ricerca dell'unico iscritto che non ha risposto all'appello: non si trova da nessuna parte... Probabilmente avrà avuto un attacco di saggezza e se ne sarà rimasto a casa.

Poi, quasi puntuale, il via. Sotto uno scroscio di pioggia, si parte. Ed il pensiero è sempre lo stesso: fino a domani pomeriggio, sarà lunghissima... L'anno scorso, con me, c'era il buon Ivano, impegnato in un'impeccabile ed assidua scorta ciclistica. Anche oggi avrebbe dovuto essere qui, se un incidente in bici e conseguente frattura del bacino non l'avesse immobilizzato a letto. E, ne sono certa, non esserci gli rincresce quasi più che essersi sinistrato. Ecco un ottimo motivo per cui ce la devo fare: non voglio causargli sensi di colpa.

La pioggia ci accompagna per i primi chilometri, poi cessa. Ho fatto bene a tener duro e non indossare subito la giacca impermeabile: sarei già alle prese con un irritante metti giacca – togli giacca. Non si può certo dire che faccia caldo, adesso, con gli abiti umidicci, ma si corre e ci si scalda.
Per i primi chilometri, come sempre, mordo il freno ed inganno la fatica chiacchierando. Ormai qui ci sono i fedelissimi della corsa; ogni anno è quasi un raduno di compagni di scuola. E qualche nuovo arrivo a cui vengo additata come quella da seguire per arrivare senza dubbio alla fine. Vorrei averla io, questa certezza... Quattro ciance con Popof, con Alina in bici al seguito della fortissima Brenda candidata alla vittoria assoluta, con ABS alias Andrea. Quest'ultimo è ormai il mio portafortuna; il gesto scaramantico di appioppargli un ceffone su una chiappa è ciò che garantisce il successo della mia corsa. Anche per questo, ero molto preoccupata di non aver visto il suo nome nell'elenco iscritti: per fortuna c'è, anche se in versione ciclista assistente. Speriamo che il palpeggio sortisca lo stesso l'effetto sperato.

Il cielo nuvoloso ci regala, per ora, una temperatura più che sopportabile, rispetto al caldo assassino degli anni scorsi in questo primo tratto pianeggiante. Corriamo lungo un tratto di pista ciclabile sterrata, tenendo a destra il letto di un torrente. Ad un tratto, lungo la strada asfaltata dall'altra parte del corso d'acqua, da una moto due persone si sbracciano verso di noi e suonano a tutto volume: che cari, quanto entusiasmo, fanno il tifo... Macché: tempo qualche istante e realizziamo che i due figuri non ci stanno salutando: stanno cercando di farci capire che siamo sulla strada sbagliata! All'ultimo bivio, il vigile di guardia all'incrocio ci ha fatti proseguire anziché farci attraversare il ponte... Bisogna tornare indietro! Beh, nel mio gruppetto non si manifesta grave irritazione: in fondo, si tratta di recuperare poche centinaia di metri. Ma chissà dove sono già arrivati i primi... Ululati di giubilo dai miei compagni di viaggio, appena invertiamo la marcia: “Ragazzi che culo... Siamo quasi i primi!”. E poi, suvvia... Se saremo in grado di arrivare alla fine di 202 km di corsa, ce la faremo anche a farne 203! O no?

Recuperata la retta via, alla spicciolata veniamo raggiunti e superati da chi, già prima, era parecchio avanti rispetto a noi, ma per qualche istante ci godiamo la gloria della testa della corsa.

A Cesena il primo bel ristoro ricco, con tanto di fragole e ciliegie. Merita una breve sosta, anche per riempire la bottiglietta di plastica che quest'anno ho deciso di portare con me. Non sopporto le borracce nello zaino e fatico a tollerare la sacca per l'acqua... Senza contare il fatto che, se nello zainetto avessi messo la sacca, non avrei potuto mettere altro o quasi. Ho comprato al supermercato una bottiglietta di bibita lunga e stretta, che si potesse portare comodamente in mano; spero di sopportarla per tutto il giro.

Attraversata la città, rimane l'ultimo tratto in piano prima dell'attacco della salita del Polenta: anch'esso, per fortuna, in ombra. Fino a poco tempo fa amavo molto il caldo. Ma ora, sarà l'età, lo tollero sempre meno. Vorrei solo smettere di pensare alle mie gambe ed alla mia condizione. Se non stessi bene, mi preoccuperei. Invece sto bene e mi preoccupo anche di più. Forse ho esagerato fin qui? Vorrei non sapere che ora è, ma naturalmente c'è l'inopportuno di turno che, ad alta voce, fa sapere a tutti che i primi 21 km sono stati coperti in 2h e 10'. Un po' troppo svelti, contando che siamo ad un decimo del percorso.

Rapida sosta al punto di ristoro. L'errore di percorso ha fatto sì che l'affollamento, quando arrivo io, sia maggiore del solito. Tempo di riempire la bottiglietta ed afferrare al volo qualcosa da mangiare e riparto: non voglio perdere tempo, non ancora.
La prima salita inizia appena oltre il semaforo. Alla fontanina, due anziani giunti con tanta buona volontà e la Panda carica di taniche da riempire d'acqua sono costretti, loro malgrado, a cedere il posto ai corridori accaldati, ma fanno buon viso a cattivo gioco.

Il Polenta è insidioso: alterna strappi severi a tratti in piano ed addirittura in lieve discesa, in cui si può correre. In salita non si può, o meglio, io non può. Sono troppo pesante, dovrei perdere almeno dieci chili; ma l'unica tecnica con cui potrei riuscirci sarebbe l'amputazione di una gamba. Controproducente, direi. Cammino di buon passo ed osservo, invidiosa, un podista che va su camminando, con i bastoncini da montagna. Ero fermamente decisa anch'io a portarli: in salita, anche su asfalto, sono di enorme aiuto. Il problema è che in quel caso, sì, avrei avuto bisogno dell'assistente per scarrozzarli nei tratti in cui a me non fossero serviti. Portarmeli dietro da sola per tutto il percorso sarebbe stato gravoso: è noto che, oltre ad un certo livello di stanchezza, ciò che prima era fastidio poi diventa un macigno.

Scruto il cielo. Per il momento, le nuvole non destano grande preoccupazione. Il meteo, tuttavia, annuncia temporali nella notte: la peggiore delle circostanze possibili. Va bè... Godiamoci questo spettacolo di colline nella luce bigia del tardo pomeriggio. Poi si vedrà.
Tra corridori ed assistenti al seguito, chi in bici e chi in auto, siamo una bella folla su questa strada che immagino, diversamente, quasi deserta. L'allegria, per ora, regna sovrana. Al punto di ristoro, in cima alla salita, birra e patatine: cosa si potrebbe chiedere di più dalla vita? Ottimi antidoti contro la nausea da barrette e dolciumi in genere; gradisco molto.

La prima discesa, piuttosto ripida, va via veloce. Mi sforzo di lasciar andare le gambe, di frenare il meno possibile. Il prossimo tratto, lunghi km di falsopiano in salita, sarà un'ottima prova per capire come sto. Intanto, Fratta Terme: punto di ristoro. Questa volta, patatine, birra ed anche un paio di spicchi di limone, per tenere sotto controllo l'attività della pancia, che per ora – prima volta dopo anni ed anni di tribolazioni – non ha ancora dato segni di alcun problema. Ottimo incoraggiamento.

Il tratto che segue, fino all'attacco della seconda salita, è lungo ed insidioso. E noioso. E faticoso, perché non è considerato una salita, ma costringe ad un sacco di salita. Le gambe, per ora, vogliono correre... Ma con cautela e senza mai vergognarsi a percorrere tratti al passo. Al prossimo colle, Pieve di Rivoschio, km 57, è fissato il cancello orario: vero, non ho mai avuto alcun problema a superarlo in tempo, ma non si sa mai. Intanto, gli assistenti degli altri corridori fanno la spola e non lesinano mai parole di incoraggiamento. Non ho la mia scorta personale, ma è quasi come se l'avessi... C'è chi segue i corridori in auto, con tanto di numero di gara e cartello “scorta tecnica” appeso ai finestrini; chi preferisce la moto e addirittura chi si è dotato di bici elettrica.

Proprio quando i primi, subdoli segni di stanchezza cominciano a fare capolino tra le fibre dei muscoli e soprattutto tra i pochi neuroni, ecco che si materializza, provvidenziale come non mai, il fascinoso Andrea ABS, il Mel Gibson di Sant'Ilario d'Enza, in tutta la sua ciclistica beltà. Il vile, che fino all'anno scorso si è presentato a Cesenatico in veste di podista, oggi si è saggiamente convertito al ruolo di assistente in bici: non di qualcuno in particolare, però. Assistente, in generale. Così, in questo noioso tratto, mi degna della sua assistenza psicologica. Bene: mi farò quattro risate e mi rifarò gli occhi. Mi chiede del mio viaggio da casa: non si stupisce del fatto che io abbia dormito in auto la notte prima della gara... Ma si scandalizza oltremodo, quando ammetto vergognosamente di aver prenotato una stanza d'albergo per la sera e notte dopo la corsa. E' vero, ha dannatamente ragione: sto invecchiando. Una volta non l'avrei mai fatto. A fine gara, mi sarei tristemente trascinata fino all'auto, mi sarei messa alla guida in condizioni, sia fisiche che igieniche, disperate e mi sarei avviata verso casa combattendo una battaglia impari contro il sonno. Ma si sa che, invecchiando, si diventa saggi, o fifoni. Quindi, questa volta, mi concederò una doccia e qualche ora di sonno civile, prima di ripartire.

Attacco, si fa per dire, la seconda salita con l'occhio fisso ai nuvoloni che incombono. Per ora, il cielo è ancora in parte sgombro, ma i cumuli bianchi non promettono nulla di buono. Si va su al passo. ABS ancora presente, ma per poco: deve tornare a casa. Lo ammetto, un po' mi dispiace. Chiacchierare tiene lontana la stanchezza, almeno finché possibile. Ma me lo devo mettere in testa: quest'anno me la devo cavare da sola.
Un punto di ristoro a circa metà salita: mangio qualcosa di dolce, anche se avrei piacere, al contrario, di cibo salato. Quando la fame si fa brutta, il dolce non basta più, anzi; nausea... Anche il corridore che arriva appena dopo di me nota la mancanza di cibo salato. Brontolando sull'argomento, ripartiamo insieme. Non avrei potuto essere più fortunata: sono incappata in un corridore veneto, anzi, proprio veneziano, io che adoro ascoltare il suono della parlata di quella regione. Anche se a Venezia sono stata di passaggio solo un paio di volte, all'arrivo della Maratona, e non amando né il caos né le città, non tornerei. Mi faccio raccontare qualche aneddoto della vita in un posto così particolare: molti aspetti che chi vive sulla terraferma dà per scontati, laggiù, non lo sono affatto...

Così, tra una chiacchiera e l'altra, raggiungiamo la cima della salita ed il punto di ristoro, dove troviamo il boss Castagnoli con il suo inesauribile entusiasmo. Mi sforzo di mangiare un po' più di quel che avrei voglia, in ordine sparso, dal pane con la marmellata alle arachidi tostate, ai pomodori con il sale, alla frutta secca. E naturalmente l'immancabile goccio di birra. Primo cancello orario comodamente superato: si riparte. Il mio compagno di viaggio veneziano si attarda ancora un po', ma io ho una missione da compiere. So che, non molto lontano dal punto di ristoro, prima che la strada cominci a scendere decisa, sono piazzati i wc chimici destinati a chi correrà domani in bici. Ne approfitto, di già che la pancia mi ha fatto la grazia di non reclamare soste, fino qui.

Il cielo è suggestivo e minaccioso: si va verso la sera; la luce è di un giallo intenso che dà al panorama di colline a perdifiato un aspetto quasi sinistro. Le gambe, in discesa, reagiscono ancora bene. Appena prima del bivio, alla fine della discesa, mi raggiunge il venessian. Ci attendono pochi ma insidiosissimi km fino all'attacco della salita del Ciola: due o tre, ma lungo una strada un po' più trafficata delle precedenti e, soprattutto, in leggera logorante salita. Non dovrei correre, ma mi sento quasi vergognosa a non farlo... Il rischio di stancare troppo le gambe è altissimo.

D'un tratto, si leva nell'aria una mitragliata di irripetibili bestemmie a volume inaudito: nientemeno che un automobilista infastidito da una delle auto scorta, che viaggia lentamente affiancata, per un attimo, ad un corridore. Un pazzo furioso. Non mi viene neppure da ridere: al di là del fatto che lo tirerei fuori dall'abitacolo e gli spianerei la dentiera a calci, mi viene spontaneo pensare che magari un energumeno del genere a casa ha una famiglia costretta a subire le sue intemperanze... Chissà, spero di no.

Sono ben lieta di raggiungere l'inizio della salita del Ciola. Mi sento autorizzata a non correre più, almeno per qualche km. Continuo a viaggiare in compagnia, condividendo, come spesso succede, un tratto di strada e qualche pezzo di vita. Ma poi, tanto temuta, la pioggia arriva a guastare tutto. Poche gocce, all'inizio: spero di riuscire a raggiungere il punto di ristoro prima di essere costretta ad indossare la giacca impermeabile... Non ho voglia di levare ed aprire lo zaino, vestirmi ora, per poi giungere al colle, svestirmi nuovamente e prepararmi per la notte. Così azzardo e proseguo, sotto l'acqua che adesso vien giù a scrosci. La canotta è presto fradicia; il vento che s'è alzato è gelido. Per quanto possibile, cerco di accelerare. Ma dove diavolo è finito il ristoro? Quanto manca? Ecco, ora sì, sono fradicia ed ho freddo, ma non ha più senso indossare la giacca a questo punto...

Per la miseria. E' il diluvio. Cominciamo bene... La notte si presenta sotto i migliori auspici. Raggiungo il punto di ristoro, per accorgermi, con una certa incredulità, che non c'è altro riparo che il gazebo del ristoro stesso, sotto cui però sono già ricoverati i volontari ed i tavolini con le derrate alimentari. Un rapido sguardo nei dintorni mi fa capire che c'è poco da fare: se mi voglio cambiare, mi tocca cambiarmi alla pioggia. Ed è qui che ho spedito lo zaino con l'abbigliamento per la notte. Ok Gian. Questa è la situazione. O molli e ti ritiri, oppure ti adatti, muovi le chiappe ed affronti la dura – ed umida – realtà.
Mi ricavo un angolino di gazebo, in modo da avere la testa al coperto e le chiappe alla pioggia mentre rovisto nello zaino. Così, la goccia che piomba pesante dal bordo del gazebo mi coglie esattamente a metà schiena, con precisione da cecchino sadico. Reprimo un improperio. Tiro fuori la maglia con le maniche corte, i manicotti, i guanti, i pantaloni 3/4... Tutto drammaticamente umidiccio, per usare un eufemismo. Bene. Via la canotta, mi rassegno ad indossare quel che c'è: sarà anche bagnato, ma forse – spero – sarà comunque uno strato un po' più spesso di quel che ho addosso fino adesso. E poi, suvvia... Sarei comunque destinata a bagnarmi.

Semi ignuda alla pioggia, rincaro la dose di pasta di Fissan nei punti critici. Le scorticature nei punti critici di sfregamento, con la pelle bagnata, sono quasi una certezza; meglio prevenire. Mi rivesto ed infilo, sopra a tutto, la giacca impermeabile Gore Tex, con tanto di provvidenziale cappuccio. Metto su la pila frontale ed il giacchino rifrangente: tra poco sarà buio del tutto. Mi concedo, anche qui, una raccapricciante accozzaglia di sapori che fanno a pugni l'uno con l'altro e bevo, stavolta per dimenticare. Poi via di corsa sotto la pioggia battente.

Per fortuna, di lì a poco, lo scroscio si attenua. Sta calando il buio. Delle lucciole che di solito fanno compagnia in questo tratto, ovviamente, neanche l'ombra. In compenso, arrivano i primi ciclisti della prova notturna, incuranti del buio e della pioggia. Molti, a dire la verità, sono dotati di luminaria anteriore e posteriore da far invidia ad un camion, ma qualcuno è davvero invisibile, soprattutto per un automobilista alle prese con il parabrezza bagnato. Speriamo bene. Sono meravigliose le luci applicate ai raggi delle ruote o addirittura ai cerchi; creano effetti molto suggestivi.

La situazione è critica, almeno dal punto di vista della temperatura. La strada non scende ancora, anzi, a tratti risale; piove, ma la giacca impermeabile tiene caldo più del necessario. Toglierla, però, significherebbe raffreddarsi troppo. La vita del podista notturno umido è tutta un dilemma...
Il mio collega veneziano si lancia giù con una foga che non tento nemmeno di imitare. E' pur vero che si scende, ma, a piedi, la discesa non costituisce né un vantaggio né un'occasione di riposo. Calma e gesso. La pila frontale mi aiuta un po' ad evitare le buche, anche se le lenti degli occhiali bagnate sono una vera iattura. Curva dopo curva, sembrano interminabili i km che portano a Mercato Saraceno. Mi distraggono un po' gli scambi di saluti con i ciclisti, che sfrecciano via come se l'asfalto fosse perfettamente asciutto. Chissà quanti di loro parteciperanno anche alla granfondo, domani?

In paese, c'è vita, tutta concentrata nei due bar sulla piazza. Il punto di ristoro degli anni scorsi non c'è più... Trovo solo un tavolino con alcune bevande. Poco male. L'ascesa al Barbotto è dura, ma è breve. Supero il ponte, attacco la prima rampa. Un trio di ciclisti scatta foto con il telefonino: “Ma tra noi – domando – chi è più malato?”. E' una bella lotta. Salgo al passo, più rapido possibile. Ogni tanto immagino qualche variazione sul tema: meglio passi brevi o molto rapidi, oppure passi lunghi per fare più strada? La tecnica perfetta non credo ci sia. La tecnica perfetta sarebbe perdere peso, ma nel mio caso è più facile che un cammello obeso passi per la cruna di un ago piccolo...

La fame si fa sentire, prepotente. Mi tornano in mente le raccomandazioni di Ivano: fermati, riposati, mangia da seduta ed appoggia la schiena”. Ha ragione da vendere, pur non essendo podista. E' incredibile il beneficio che può derivare per le gambe, in termini di recupero, sedendosi qualche minuto. Peccato solo che io non abbia molti minuti da dedicare al riposo.

Cade qualche goccia mentre affronto l'ultima rampa. Niente lumini quest'anno: sarebbe dura tenerli accesi. Il grande punto di ristoro si è spostato: è piazzato sulla destra, all'ingresso di un locale pubblico. Chiedo subito un piatto di pasta: non mi pare ci sia coda, ergo non avrò molto da aspettare. Detto, fatto; eccomi col piatto in mano, alla conquista di una sedia.
Inforchetto le penne una ad una, cercando di non ingozzarmi, mentre mi guardo intorno. Provo un tale senso di calma che quasi, paradossalmente, mi preoccupa. La bolgia dantesca di corridori infreddoliti e stanchi ed assistenti volenterosi si agita frenetica, ma io son qui, seduta, gambe distese in posizione tutt'altro che elegante e femminile, fiero cipiglio e mascella in movimento. Nel frattempo, riprende seriamente a piovere. Mi avvicino al banchetto, bevo e mangio ancora un po' di tutto in ordine sparso, senza mai dimenticare birra ed arachidi salatissime, poi riparto, sotto la pioggia.

Non ricordo mai con precisione quanti km separino il Barbotto da Sogliano al Rubicone. Quindici, forse. Tuttavia, so bene che sono km odiosi di perenne saliscendi, che induce a correre e poi a pentirsene amaramente. Non c'è panorama. Cielo coperto e leggera pioggia; tratto monotono ed angoscioso, se non fosse per qualche ciclista che ancora ci accompagna. Ma le auto dell'assistenza sono una presenza costante e di conforto, anche se nessuna di loro è qui per assistere me. In verità, non sopporterei l'assistenza motorizzata: non servirebbe per tenermi compagnia e mi darebbe il patema d'animo di sapere che i passeggeri si annoiano a morte... Ben altra cosa è la scorta in bici; ovviamente, per una corsa come questa, deve essere affidata ad un ciclista di tutto rispetto, che deve sì pedalare alla velocità di una persona a piedi, ma per duecento km, con tutte le salite e con il carico di bagagli.
Ogni tanto, qualche stella fa capolino tra le nubi, ma è una pia illusione. Per adesso, pioviggina, ma per fortuna non fa freddo, nonostante gli abiti umidi. Per ora.

Al ristoro di Sogliano, un'abbondanza di scelta inaudita: tra le altre cose, anche alcune barrette di cioccolato, che per adesso posso anche prendere, contando sul fatto che non si scioglieranno. Ho voglia di mangiare qualcosa di dolce, ma poi il dolce mi nausea subito. Breve visita di cortesia ad uno dei miei adoratissimi Sebach, piazzati lì per la granfondo di domani, e poi via, in discesa. Meglio non pensare che qui sono circa a metà gara. Altri 100 km... Le gambe sono stanche, sentono il bisogno di soste frequenti che però non mi posso permettere. Il tempo massimo incombe.

A Ponte Uso, in fondo alla discesa, ultimo punto di ristoro prima di un lungo tratto di solitudine. Ancora un po' di the, un po' di Coca Cola. Puntualmente, prima di arrivare al banchetto, mi riprometto di mangiare questo e quello e fare il pieno... E poi, quando sono lì, è quasi un senso di rifiuto. Ivano, se sapessi quanto mi mancano i tuoi panini al gorgonzola! Ne spazzolerei un paio volentieri.

Torno ad immergermi nella notte. Poche parole con altri viandanti: menare la lingua è un ottimo palliativo per la stanchezza e per il sonno, ma mi costringe ad adattarmi al passo altrui, cosa che può rivelarsi molto pericolosa. Quindi, in breve, sono costretta a lasciar allontanare i miei occasionali compagni di viaggio. Alterno passo e corsa in questo odiosissimo tratto che mi sembra sempre interminabile. E quando finalmente attacco la salita di Monte Tiffi... Comincia a piovere sul serio. Salita abbastanza breve, circa 4 km, buia e cupa. Le auto delle scorte continuano a fare su e giù, podisti mi precedono e mi seguono, ma su tutti è calata una cappa pesante di preoccupazione e silenzio. Mamma mia... Se continua così, è ben difficile che io ce la faccia, ad arrivare a Cesenatico.

La pioggia cade abbondante; in pochi attimi, rivoli d'acqua corrono lungo la strada. Con gli occhiali bagnati, vederci comincia a diventare un problema. Beh, finché si sale, più o meno ci vedo... L'ascesa è breve, ma su questo colle non ci sono punti di ristoro. Tocca arrivare fino al Perticara. In cima, a bordo strada, si affollano ferme le auto delle scorte, in cui si infilano podisti intirizziti alla ricerca di un momento di sosta e riparo. Non so quanto sia di conforto, in realtà. Credo che, se mi fermassi qui al riparo, difficilmente poi sarei in grado di ripartire. Meglio non pensarci e tirare dritto. Il cappuccio della giacca, sfregando contro le orecchie con il movimento, mi fa sentire un brusio confuso dai goccioloni di pioggia che picchiano insistenti sul tessuto. Che idea provvidenziale è stata mettere nello zaino del ricambio i pantaloni ¾. Vero che si sono infradiciati in pochi secondi; tuttavia, la sensazione sulla pelle è meno penosa rispetto all'acqua diretta.

La discesa è un pianto. Dovrei e vorrei correre, ma come faccio, senza veder nulla? Al buio ed alle lenti bagnate si aggiunge la nebbia, contro cui la pila frontale può poco o nulla. Provo a levarla dalla fronte ed a tenerla in mano, ma la situazione non migliora di molto. Letteralmente, non vedo dove metto i piedi. Conoscendomi, è una condizione pericolosissima; io riesco ad inciamparmi spesso e volentieri anche con la migliore visibilità... Se non corro, perdo tempo; se non corro, mi congelo. Non vorrei lasciarmi prendere dall'ansia, ma non ho difesa. Buche e crepe nell'asfalto sono un'insidia. Quanto manca alla prossima salita? Almeno, lì, ci si scalda un poco e si cammina...

Quando ormai sono certa di essere lontana anni luce da tutto e da tutti, galleggiante nella nebbia, ecco una voce. Allucinazione? No no, è proprio una voce umana e persino conosciuta. Il buon Paolo mi raggiunge poco prima dell'attacco del colle successivo. Devo dire che mi capita di rado, molto di rado, di accogliere la vicinanza di un essere umano con tanta gioia. Paolo sembra molto più tranquillo di me, come se per lui la situazione non rappresentasse un problema. Per me, un po' di calore, anche se solo psicologico. Se qualcuno ce la fa, allora si può fare. Forse. E poi, con le lenti bagnate combatte anche lui... In salita, ci distraiamo a vicenda a suon di chiacchiere, mentre la pioggia ci sferza senza misericordia. La giacca Gore Tex ha fatto quel che ha potuto, ma per i miracoli, come si suol dire, ci stiamo attrezzando... Sono fradicia in ogni dove. Man mano che prendiamo quota, si aggiunge il vento: è l'unico particolare da cui capiamo di essere ormai vicini al colle. Rimangono un paio di km di strada in falsopiano, oltre il bivio, prima di giungere al punto di ristoro di Perticara. Coperto, per fortuna, ma ovviamente non riscaldato, considerata la stagione.
Paolo ha saggiamente mandato qui una borsa con abiti di ricambio, che, fortunatamente, sono persino asciutti. E' molto più attivo e razionale di me: si cambia, si sistema, organizza le sue cose con calma. Io non riesco a far di meglio che inchiodarmi su una sedia a tremare. Tolgo la giacca impermeabile, cerco di scuoterla per asciugarla un poco, se possibile, ma lo sforzo è quasi vano. Intorno a me, un girone infernale di podisti mezzi ibernati ed assistenti che si affannano a portare in giro abiti asciutti e piatti caldi di pasta. Molti hanno già comunicato di voler abbandonare la corsa. Io stessa sono in dubbio. Come faccio a buttarmi fuori di qui in queste condizioni meteo? E con il freddo che mi è già entrato nelle ossa da un po'? Provvidenziale e salvifica è la maglia con le maniche lunghe che mi offre Paolo. Calda e morbida, soprattutto asciutta. Quel che ho addosso adesso, potrei strizzarlo. Mi cambio con gran fatica; mangio un piatto di pasta. Mollare? Sto perdendo tempo, mi sembra di essere qui ferma da un'eternità. Sarà bene che mi decida alla svelta. Un piatto di pasta. Continuo a tremare; mi chiedono se voglia una coperta o un the caldo. No... Devo ripartire a tutti i costi, subito. Rimetto addosso la giacca, purtroppo bagnata. La maglia si inumidisce subito... Ma almeno è spessa e mi aiuterà a scaldarmi un poco. Via, di corsa, un gelido trauma. Non ci pensare, Gian, tra poco sarà l'alba. Qualche km di stradone in discesa e la pioggia che sembra voler cedere il passo. Qualche podista in più. Ho timore di aver perso troppo tempo al ristoro, ma non avrei potuto fare altrimenti.

Il primo chiarore illumina il bivio alla fine della discesa. Un odioso tratto di brevi strappi in salita tra le cascine, dove non posso fare altro che camminare, e poi qualche km su uno stradone, con il traffico di qualche automobilista molto mattiniero. Le gambe, irrigidite dai km e soprattutto dal freddo, stentano a rimettersi in moto, ma qui bisogna correre, a tutti i costi. Almeno fino all'agognato punto di ristoro all'attacco della salita numero sette, il Pugliano. Qui si mangia, purtroppo poco perché a questo punto, nonostante la fame, trovo nauseabonda qualsiasi cosa. Ma soprattutto si beve, perché il goccio di birra all'alba non me lo leva nessuno.
Ogni anno mi sforzo di fare un confronto con l'anno precedente. E' più presto dell'anno scorso? E' più tardi? Impossibile dirlo, soprattutto per una come me che viaggia senza orologio e con il cellulare spento imboscato in fondo allo zainetto. Non pensarci, Gian, sali e vai. Passo svelto, anche qui, almeno ci si scalda. Prima sui km di salita e poi sul lungo, lunghissimo, interminabile tratto in piano, che ad ogni edizione sembra più lungo. Provo a correrne qualche centinaio di metri, ma le gambe non rispondono. Dopotutto, non sono l'unica tapina che si trascina camminando stancamente. Il fatto è che, ad ogni curva, il colle sembra lì... Ma non è lì, affatto.

Finalmente ci si arriva. Purtroppo, come sempre, questo punto di ristoro è un po', per così dire, approssimativo. Non c'è un minimo di riparo per potersi cambiare completamente: va bene essere disinibiti, ma a tutto c'è un limite... In più, questa volta, le borse devono aver preso parecchia pioggia. Il contenuto è fradicio. Ma da queste constatazioni mi distrae il dialogo tra un corridore ed un operatore dell'ambulanza: pare che più avanti, a bordo strada, ci sia un capriolo ferito. Per fortuna si è già provveduto a chiamare il servizio veterinario. In effetti, riparto e, di lì a poco, vedo la povera bestiola adagiata tra i cespugli. Vorrei fermarmi, ma non saprei cosa fare e rischierei di spaventarlo ancor di più... Consapevole però che qualche anima buona ha già provveduto, riprendo la mia marcia.

Siamo ormai al cospetto della Rocca di San Leo. Il cielo continua ad essere nuvoloso; la temperatura, fresca e confortevole. Nel lungo tratto di discesa, piuttosto sconnesso, inganno la fatica guardando quel che resta dell'imponente e terrificante frana che si è staccata qualche anno fa, non ricordo esattamente quando. La lunga discesa è un calvario per le gambe che fanno male, anche se per ora riesco ancora a correre. Corro anche il tratto finale, sul ponte, e la breve risalita verso l'abitato. Confido nel punto di ristoro, dove mi fermo per qualche minuto. Seduta.

Passo delle Siepi. Salita breve, ma non è quella a spaventarmi. E' la discesa successiva, ottimo termometro di quel che accadrà poi nei lunghi km finali. Con mia sorpresa, e solenne botta di fiducia, mi accorgo di riuscire a correrla, sia pure con cautela. Intanto, la strada si affolla di auto, moto, ciclisti e persone a piedi, tutti in attesa del passaggio della granfondo. Infatti, nell'ultimo tratto della discesa, vedo di fronte a me il serpentone multicolore delle bici che scendono dal Barbotto. Ne incrocerò il tracciato, per un breve tratto, giù a Ponte Uso. Poche centinaia di metri in cui tuttavia, neanche ci fossimo dati appuntamento, incontro alcuni amici che mi salutano e mi incitano con tutto il fiato che hanno in gola.

Da qui... Ancora 45 km. Poco più di una maratona, da percorrere con le gambe stanchissime. Il fatto che di mezzo ci sia un Gorolo è un dettaglio trascurabile. Forse...
Il lunghissimo tratto di pianura e leggera salita è micidiale, anche oggi che il clima sembra restare benevolo. Mi ci lancio al trotto, con grande entusiasmo... Ma, ad un paio di km dal Gorolo, si spegne la luce. Niente più fiato, niente più forze. Niente di niente. Il buio. Ahia... Questa è la volta buona, anzi, la volta cattiva. E' la volta che a Cesenatico non arrivo. Gli incoraggiamenti di ciclisti e spettatori non servono più, anzi: ottengono l'effetto opposto. Non ce la faccio più...

...la salita del Gorolo s'ha da fare, comunque. Mi arrampico su per le rampe con passo stanco e sfiduciato, masticando rabbia e lacrime, braccia e gambe vuote come sacchi ed un mal di testa senza fine. Sfilano a frotte i ciclisti della granfondo... A me pare di essere ferma, inchiodata all'asfalto. Distrutta, sfinita, senza alcuna possibilità di giungere al traguardo.
Nel brevissimo tratto in piano che precede la staffilata finale, vorrei abbozzare qualche passo di corsa, ma le gambe non reggono proprio. Lascia perdere, Gian. Cerca di trascinarti fin su in qualche modo. Poi ti fermi lì, ti ritiri, basta.

Così faccio, o almeno, credo di poter fare. Arrivo al ristoro con i lacrimoni e comunico di volermi fermare. Caso vuole che lì, al ristoro, ci sia in quel momento un concorrente che prende la cosa come se fosse un'offesa personale. Ritirarsi, qua, non è neanche da pensare, è proibito, anzi, è un reato da punire con l'immediata crocifissione. Ma io non sento ragioni. So di non avere speranza alcuna di arrivare in tempo a Cesenatico. Da qui ci sono trenta km, circa, ma sono trenta km agghiaccianti. Ed affogo il dispiacere nella birra. Il podista, Luca, però, non ammette di essere contraddetto. E quasi quasi, sarà perché il soggetto in questione è anche quel che si dice un bel manzo, mi viene la tentazione di credere che abbia ragione lui. Provo ad alzarmi, faccio una tappa ai bagni e poi torno al ristoro: convinta di voler ripartire, ma le gambe non mi tengono su. Mi abbatto seduta per terra, con la testa appoggiata al bagagliaio di un auto. L'aguzzino, però, è ancora lì e non mi molla. Tanto fa e tanto dice che, alla fine, in un modo o nell'altro mi rimetto in piedi e riparto.

Scopro, nel giro di pochissimi metri, di non essere l'unica vittima delle sue angherie. C'è anche un altro povero tapino, che non è solo stanco, ma deve avere dolori alle gambe ed ai piedi tali da emettere lamenti strazianti. Ma il Cerbero non ha pietà: si può dire che ci sospinga fisicamente avanti con lo spostamento d'aria causato da potentissime tonanti irripetibili bestemmie che, credo, si sentano già anche a Cesenatico. Così, il mio tristissimo umore è scacciato, almeno per il momento, da un accesso di risate che per poco non mi soffoca allo stesso modo. Che dire: un motivatore sui generis, ma senza dubbio efficace!

Corro per qualche chilometro, con prudenza e sempre con difficoltà. Ma la stanchezza presto torna ad avere il sopravvento. Purtroppo o per fortuna, avevo assicurato a Luca che stavolta non mi sarei più fermata... Così, mi tocca cavarmela da sola. E, siccome da sola non me la cavo, impiego ben poco a sprofondare nuovamente nell'abisso del “non ce la farò mai”. Tanto da percorrere gli ultimi km di discesa camminando e convincermi, senza che la matematica me ne desse ragione, che il tempo massimo non mi basterà per giungere al traguardo. Ancora fatica, crampi e lacrime. Provo ancora a ritirarmi, ma dai punti di ristoro mi cacciano via. E il caldo, alla fine, è scoppiato.

I venti km finali della Nove Colli sono un'esperienza mistica, sia per chi sceglie la gara in bici, sia per chi li affronta a piedi. Sono generalmente torridi e comunque lunghissimi, molto molto più lunghi di qualsiasi altra ventina di km al mondo. Mi trascino senza forze e senza senso fino a quando ne mancano circa dieci. Poi decido di prendermi a schiaffi da sola. Allora, Gian. O muovi le tue grosse chiappe e ci provi, almeno ci provi... Oppure butti tutto via da idiota e ti mangerai le mani per il resto della tua esistenza. L'anno scorso, qui, c'era Ivano a buttarmi in corpo la rabbia giusta per finire. Questa volta sono sola. La decisione è nelle mie mani.

Chiamo a raccolta tutto quel che resta delle mie forze e delle forze di qualcun altro, credo. Riprendo a correre, piano, tribolando, ma corro. Km dopo km, incrocio dopo incrocio, maledicendo me stessa perché credevo di essere più avanti e invece sono ancora qui. Poi raggiungo qualche altro concorrente e mi sembra di stare un pochino meglio. Quel maledetto grattacielo sempre troppo lontano. Il traffico, l'asfalto, il caldo, la sete maledetta. Rasente ai muri a cercare un po' d'ombra, la pelle che brucia. E poi il viale. Gli ultimi due cavalcavia, dove i ciclisti lanciano improperi in ogni lingua per l'inattesa fatica. Il curvone finale, il tratto lungo la pista ciclabile. Il rettilineo finale, dove la gente oltre le transenne ti fa un sacco di festa e le gambe d'improvviso sembrano quelle di Varenne. Incredibile ma vero, a quaranta minuti dalla fine del tempo massimo, per la settima volta, l'abbraccio di Mario Castagnoli e la pesantissima medaglia da finisher.

Ormai veleggio verso i 36 anni: invecchio. Infatti, questa volta, ammetto di aver commesso un grave atto di debolezza. Ho prenotato, per la notte successiva alla gara, una stanza presso l'Hotel Anthos, convenzionato con l'organizzazione. Ci arrivo con la navetta, ritiro i bagagli e, dopo una birra in compagnia, con le ultimissime forze residue, mi butto sotto la doccia e quindi sul materasso. Per mia fortuna, ho ancora la lucidità necessaria per puntare la sveglia alle quattro del mattino successivo, perché per l'ora di pranzo dovrò essere in ufficio. Per fortuna: perché l'idea è di riposarmi un poco prima di andare a cena in albergo. In realtà, piombo in un coma profondo da cui mi sveglia appunto il cellulare, puntuale, alle quattro del mattino. Ritorno faticosamente al mondo dei vivi, ricompongo zaini e borsoni, me li carico in spalle, esco. Giusto per avere un'idea, controllo sul navigatore la distanza tra qui e l'auto, parcheggiata nei pressi della partenza della corsa. Quattro km e mezzo. A piedi, con le borse, praticamente un'altra Nove Colli Running. Ma non importa, respiro il profumo del mare e mi godo l'alba all'orizzonte. Inizia il nuovo conto alla rovescia per la Nove Colli Running 2018.


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