lunedì 9 marzo 2009

07/03/09 - Pedalata da Carmagnola a Genova e ritorno

In fondo è tutta colpa di Matteo. Se lui lunedì scorso, dopo una domenica di bici langarola, non fosse tornato a casa sua, a Genova, in bici, lasciando l'auto da me, e se non fosse ripartito, sempre in bici, da Genova mercoledì nell'ora di pranzo, per arrivare da me col buio, bagnato come un pulcino dopo centocinquanta chilometri di pioggia e ancora pioggia... Se Matteo, dicevo, non avesse combinato tutto ciò, il mio unico povero e stanco neurone non avrebbe mai generato l'idea. Il guaio è che è difficile, per me, essere testimone di un'impresa ciclistica o podistica folle senza lasciarmi assalire dall'invidia e dal desiderio di emulazione. Un viaggio così lungo sotto il diluvio no, questo mai: mi conosco, so che sarebbe troppo per me; patisco il freddo, ho paura in discesa, insomma, mi demoralizzerei dopo pochi chilometri. Il maltempo, posso sfidarlo se sono in gara, se so che ormai sono lì e in qualche modo devo ingegnarmi per arrivare a fine percorso, e mi spiace buttar via l'occasione; di saltare in sella con la pioggia battente però no, non se ne parla nemmeno, non io.

Però, potrei tentare di avvicinarmi un po' alla follia di Matteo in altro modo. L'illuminazione mi coglie alla scrivania dell'ufficio, giovedì: potrei andare io a Genova in bici... Andare e tornare in giornata. Faccio un po' fatica a far di conto a mente, quando si tratta di lavoro... Ma a ragionar di chilometri, tempi di percorrenza, dislivelli, il mio fido neurone, che a sentir parlare di bici si ringalluzzisce tutto, è un vero asso. Da Carmagnola al negozio di Matteo, secondo Google Maps, sono 144 km. In tutto quindi 288. 144 all'andata, con dislivello in salita un po' inferiore a quello in discesa: potrei impiegare, occhio e croce, sei ore e mezza. 144 al ritorno, dislivello in salita un po' superiore a quello in discesa e gambe già stanche: sette ore, sette e mezza, magari. Meglio tenersi un po' di margine. Il dubbio che si tratti di un progetto troppo ambizioso non mi sfiora nemmeno... Anzi: sarebbe un'ottima occasione per un sacco di cose; per saggiare a che punto è la mia resistenza alla lunga distanza in bici; per vedere come reagisce la testa ad una galoppata così lunga e solitaria; soprattutto, per fare una sorpresa a Matteo, che in fondo è sempre, da quando lo conosco, la mia ispirazione per le missioni impossibili, la fonte di entusiasmo quando le cose van bene, di coraggio e denti stretti quando non van bene per niente, in bici, a piedi e anche no. Sabato mattina dovrebbe, credo, essere in negozio: devo, a tutti i costi, raggiungere Genova prima delle 12.30. E se poi non c'è? Metti che magari sia in commissione o chissà dove? Non potrò aspettare, pena il rientro col buio... Ma non importa, accetto il rischio. Troppo forte la voglia di vedere che faccia farà!

Il venerdì trascorre tra lavoro e minuziosa meditazione della grande impresa. Succede una volta ogni era geologica, che io riesca ad essere così accurata e razionale nel meditare un giro in bici. Questo non sarà un giro in bici qualsiasi: non tanto per la distanza, quanto per il fatto che si tratterà di un vero viaggio, andare in bici in un certo posto per una certa ragione, e poi tornare a casa. Lo so, è difficile da capire, ma... Di norma, una meta quando esco in bici ce l'ho sempre, ma non è che sia una meta d'importanza vitale; posso andar lì, andare altrove, tornare a casa, insomma, posso decidere strada facendo, posso andare oltre o fermarmi prima. Stavolta, invece, ho una precisa destinazione e pure un orario da rispettare. Bisogna far le cose per benino. Più ci penso, più sono entusiasta dell'idea; sembra proprio che tutto voglia andare per il verso giusto: il meteo si annuncia magnifico! OK, è deciso, questo sabato o mai più.

La sveglia trilla alle 3.40. L'intenzione è di partire alle 4.30, ma ahimé il pancino, inopportuno come sempre, non è d'accordo. La bici è già pronta, con le luci anteriore e posteriore; cavigliere rifrangenti, giacchino d'emergenza, bande rifrangenti anche sullo zaino, in cui ho stipato una giacca impermeabile, qualche attrezzo per quel poco di guai meccanici che sarei in grado di risolvere, documenti, soldini ed una buona scorta di barrette e gel energetici. Più un'inutile macchina fotografica, inutile perché scopirò troppo tardi che ha le batterie scariche.
Alle 5 in punto mi chiudo alle spalle il cancello di casa e mi butto nella notte. In Carmagnola non vola una mosca, il deserto. Primo tratto, una ventina di km piatti verso Bra: imbocco il rettilineo che mi porta fuori città e sono già lontana, con la mente già al mare, anche se la strada è ancora lunga. Non fa nemmeno troppo freddo; ho indosso una giacca invernale, pantaloni felpati ¾, guanti spessi ed un berretto di pile su cui ho ben fissato la luce frontale. Potrebbero esserci due o tre gradi sopra lo zero: ma non so quanto sia realtà e quanto sia invece calore che nasce dalla mia emozione, un misto di entusiasmo e di paura, di voglia di andare e timore di commettere una grossa stupidaggine. Intorno a me, silenzio e deserto, lungo una strada che sono abituata a vedere caotica e fumosa; solo il latrato di qualche cane, che non si vede ma c'è, nascosto in chissà quale cortile di chissà quale cascina. Carmagnola, campagna, Sommariva, Sanfré, campagna, Bra: incontro si e no una decina di auto, che per fortuna si accorgono di me già da lontano: le sento rallentare, vedo gli abbaglianti che s'accendono nel tentativo di capire cosa diamine sia quello strambo oggetto barcollante a bordo strada; mi passano accanto con cautela, a gran distanza, quasi fossi un'entità sconosciuta e pericolosa. Il mio timore, qui, è l'incontro con qualche discotecaro assonnato, ubriaco o un po' fatto: meno i pedali e viaggio col cuore in gola... A Bra, primi segni di vita: sono quasi le sei, qualche bar alza le serrande, qualche viandante s'aggira sperduto con il dovere di andare a lavorare ma la mente ancora persa tra due guanciali. E un po' di cielo che comincia, appena appena, ad assumere una tonalità di blu un po' meno pesto, qualche stella già inghiottita dalla prima pallida luce.

Discesa verso Cherasco e strada di fondovalle: Narzole, Monchiero, Dogliani. Pedalo di gran carriera, stupita io stessa di riuscire a macinare chilometri di pianura o falsopiano in salita con tanta leggerezza, proprio io che odio questo tipo di terreno e ci soffro le pene infernali. Fa più freddo, qui dove non c'è più la città; l'erba a bordo strada è ancora gelata, bianca di brina. L'ora dell'alba, nella mia pur breve esperienza di vagabonda notturna per sport, è la più insidiosa per il freddo. Ma vedo delinearsi sempre più nitida la linea delle colline: ben presto non ho più necessità delle luci, anche se lascio la posteriore ancora accesa per un po', non si sa mai. Il cielo è sempre più azzurro e nitido: si annuncia una giornata meravigliosa. La luce spazza via la notte e, con essa, i miei dubbi, le mie paure. Calma Gian: ci stai provando. Magari non ce la fai, magari ti tocca fermarti e tornare indietro, chissà. Ne possono capitare, di imprevisti, in quasi trecento km... Ma non ti troverai mai in mezzo al deserto; se proprio finisci nei guai, una mano da qualche parte la trovi...

Sette meno dieci, sono sotto al cupolone, a Dogliani. Proprio mentre affronto i primi tornanti della dolce salita verso Murazzano, i miei occhi incrociano finalmente il sole: bellissimo, enorme, rosso fuoco, illumina la cupola e crea un'atmosfera da favola. E' qui che sfodero con convinzione la macchina fotografica, solo per assistere ad un patetico tentativo dell'obiettivo di uscire fuori, un canto del cigno... Ma và al diavolo! Più nulla, nessun segno di vita. Resisto alla tentazione di lanciarla giù dal curvone, la ripongo nella tasca e riprendo a salire. Qui la pendenza invoglia a fare i gradassi, ma tiro immediatamente il freno; non posso permettermi di sprecare nemmeno una caloria una più dello stretto indispensabile. Ho percorso appena quaranta km o poco più: ne mancano duecentocinquanta...

Mi basta guadagnare un po' di dislivello per accorgermi che la temperatura è scesa bruscamente: quassù, oltre Dogliani, ha nevicato da poco; la neve in alcuni tratti ha invaso la strada, ricoprendo l'asfalto di un insidioso manto gelato, pericoloso anche in salita. Le mani ed i piedi protestano: peggio del peggio, stamattina ho scoperto, con orrore, di aver dimenticato di far asciugare le scarpe da bici sul termosifone, dopo l'ultima lavata di pioggia di giovedì... E non ho potuto fare altro che indossarle umide. Ma lo spettacolo meraviglioso che si gode da quassù ripaga di qualsiasi sofferenza: l'aria, resa limpidissima da giorni di pioggia e neve, è cristallina; si vede l'intero arco alpino, così vicino e nitido che pare di poterlo toccare, le montagne infiammate di rosa acceso, i particolari della pianura, edifici strade e ponti, per chissà quanti chilometri, a perdita d'occhio. E, alla mia destra, il sole rosso che inizia la sua ascesa.

Salgo con buona lena, tra mille pensieri belli, perché oggi c'è posto solo per quelli. Nelle orecchie risuonano la chitarra e la voce di Matteo, che mercoledì sera ho tormentato senza pietà costringendolo a sfoderare tutto il repertorio di De Andrè con qualche sconfinamento ad altri autori; ha una voce bellissima ed io mi limito a riascoltarla col pensiero, senza azzardarmi ad imitarlo: un po' perché sono stonata come una campana rotta e un po' perché non ne avrei il fiato. Belvedere Langhe: domenica scorsa ero qui con Matteo, appunto, e Luca, sotto una pioggia fredda ed insistente. Oggi la temperatura forse è più bassa, ma il sole scalda la schiena e l'animo. Mangia e bevi, salita sempre molto dolce; Murazzano, poi il bivio verso Bossolasco ed Alba, ma io tiro dritto, direzione Montezemolo. E pensare che, a parte i primissimi anni di rodaggio con la bici da corsa, mi sono poi sempre categoricamente rifiutata di pedalare qua, su questa strada ampia e poco pendente che costringe ad una fatica improba ma dà la sensazione di non salire mai. C'è un gran viavai di scuolabus e qualche auto; la corona delle Alpi che dal rosa digrada pian piano al bianco, senza lasciare alcun dubbio sull'enorme quantità di neve caduta quest'inverno, fino a quote molto basse. Sale Langhe, Sale San Giovanni, il generatore eolico che stamattina è immobile; dolcissimi saliscendi ad una quota che più o meno dovrebbe ora rimanere costante, intorno ai settecento metri o poco più. Raggiungo Montezemolo ben prima di quanto pensassi: parlo non di tempo d'orologio, ma di quello misurato dal mio senso di fatica, che oggi sembra essersi preso un giorno di vacanza. Ma è troppo presto per cantar vittoria. Attraverso il paese ancora addormentato, anche se sono suppergiù le otto; paesino piccolo, raccolto intorno alla strada principale, come tutti qui intorno; paesino rimasto vecchio, in fondo il bello è proprio qui. Raggiungo la grossa rotonda con il ristorante che, tra qualche ora, sarà preso d'assalto, come da tradizione, da orde di motociclisti affamati. A sinistra e via, imbocco il lungo ponte che conduce alla galleria e poi giù verso Millesimo. Mi assale il dubbio: in auto non ci ho mai fatto caso... Ma la galleria sarà consentita alle bici oppure no? Drizzo le antenne, mi guardo bene intorno: non c'è traccia di divieto. Non credo che l'avrebbero nascosto tanto bene, il cartello, se mi avessero voluto proibire il passaggio... In ogni caso, la galleria è ampia e ben illuminata; alla peggio, può darsi che io stia violando il Codice della Strada, ma di certo non creo grave pericolo né per me né per altri. Infatti, passo indenne.

La discesa su Millesimo è un calvario, per fortuna breve. Questo paese è climaticamente jellato: è uno dei luoghi più gelidi che conosca... Avvolto in una tetra coltre di nebbiolina grigia, sembra sia rimasto fermo al gelo siberiano di un mese fa. Eppur si muove; c'è il mercato, c'è movimento, rumori clacson e strilli, via di qua, subito! Sto peggiorando: se l'insofferenza mi coglie persino in mezzo alla magra popolazione di un paesello così, in capo a qualche mese dovrò ritirarmi a far l'eremita su qualche cima! Mah... Meglio aspettare che qualcuno porti il collegamento ADSL anche sul Fauniera; allora sì che potrò isolarmi dal mondo reale, purché non manchi la compagnia di quello virtuale.
La salitella successiva, due o tre km su per uno stradone ampio e caotico, passa abbastanza liscia: me l'aspettavo con terrore... Oggi dev'essere proprio un giorno speciale. Quattro o cinque km di discesa e falsopiano a favore, sempre sullo stradone, fino a Carcare, poi altra breve risalita fino all'abitato di Altare, che attraverso lasciandomi sulla sinistra la galleria. Finalmente un po' di sole: per ora continuo ad aprire e chiudere un po' della cerniera della giacca invernale... Ma di svestirmi non se ne parla, non ancora. L'aria è quella gelida dell'entroterra e si vede, dalla neve che ancora imbianca prati e tetti. Le brevissime gallerie dopo il paese, con una curva secca, mi portano davanti al mare: è laggiù, ancora lontano, mancano 12 km al centro di Savona, ma "di qua" è già un altro mondo. Mi accorgo di avere stampato in faccia un sorriso che va da un orecchio all'altro... Mi fa questo effetto, il sole, il caldo. Ancora un po' di brividi e poi, laggiù, sarà tutta un'altra storia.

La discesa dal Cadibona verso Savona è potabile anche per me: in molti tratti, tocca persino pedalare. Taglio qualche curva di troppo, attirandomi le ire degli automobilisti, pure sempre così coloriti nelle loro esternazioni, da queste parti, che anziché arrabbiarmi scoppio a ridere. Tepore, luce, un po' di vento. Poi i casermoni, quell'orrendo pugno nello stomaco che è l'edificio del Tribunale, i semafori, le code, il traffico: insomma, la riviera. Mi immetto sull'Aurelia ancora bardata da Omino Michelin, giacca, guanti lunghi, berretto e luce frontale: non passo certo inosservata agli occhi interrogativi degli sciami di ciclisti che sfrecciano qui al mare. E' solo adesso che, per la prima volta da quando son partita da casa, sgancio i pedali e mi fermo: pochi minuti per passare alla tenuta primaverile e per riempire il pancino, si fa per dire, con la seconda barretta. E per guardare l'acqua, le onde, il riverbero del sole che mi manca sempre così tanto.

Poi mi butto nella mischia: un po' di fatica per sfuggire al caos della città e via, lungo l'Aurelia, in compagnia di tanti altri ciclisti solitari come me. Quel che sto facendo è quantomeno insolito per me. Prendo sempre in giro i ciclisti che pestano ogni giorno lo stesso identico nastro d'asfalto, ma oggi sono una di loro, anche se viaggio persa tra i miei pensieri e non vado oltre il "ciao" distratto, che tra l'altro da queste parti è una rarità. Pizzicata tra pedoni marciapiedi e traffico di auto, devo sforzarmi di avere cento occhi, ma di tanto in tanto aguzzo la vista là davanti, casomai riuscissi ad intuire Genova.
Un plauso all'organo preposto alla manutenzione dell'asfalto di Albissola: par di viaggiare su un campo minato! La passeggiata, un altro po' di mare, poi Celle, poi Varazze; in mezzo, tanti saliscendi che sono costretta ad affrontare calando le brache, ossia la catena sul 34, mentre mezzo mondo mi sfreccia accanto mulinando il padellone; pazienza, mi consolo pensando che ben pochi, tra lor signori così pimpanti, son partiti nella notte da chissà dove. E comunque, ad onor del vero, il padellone io non lo reggerei nemmeno se fossi fresca come una rosa!

Mimose, magnolie fiorite, curioso contrasto con le cime affacciate sul mare e pure agghindate col cappuccio bianco di neve, un'immagine che credo di non aver mai visto qui al mare. Il vento è cattivo e contrario; vorrebbe ribaltarmi, ma no, non glielo permetto, non ora: ho una missione da compiere, una sorpresa da fare! Le gambe reggono bene, per adesso; nemmeno le raffiche possono scalfire il mio buon umore. I chilometri scorrono via come mai avrei immaginato. Arenzano, ormai ci siamo; lassù in alto, le "lavatrici": un altro obbrobrio edilizio, ma ormai son caratteristiche... La prima traccia di Genova quando ci si arriva in autostrada, ma non le avevo mai notate dall'Aurelia! Anche perché in bici, qui, non sono mai passata... L'ultima salita, una telefonata a casa, a mammà che tifa e ormai non si stupisce più; poi, occhi ed orecchie ben aperti, devo azzeccare la strada giusta. Via Murtola, una traversa della principale Via Prà, ma prima c'è ancora il piazzale degli autobus, punto di partenza di un bellissimo itinerario ciclistico dello scorso anno, nonché splendida balconata sul mare; poi qualche semaforo, traffico, autobus, si procede a strappi, siamo sempre fermi... Ci manca poi solo il tizio cinghialone, tutto vestito Pinarello e calato in sella ad una Pinarello nuova fiammante, che mi affianca chiedendomi di che marca sia la mia bici. "Nessuna marca, me l'ha assemblata il meccanico". Il tizio scoppia a ridere, fa la battuta: "Ah, è una bici fatta in casa...". Non lo degno di risposta: ho qualcosa di più importante a cui badare. Mi limito a pensare che il lardo che costui porta a spasso sulla pancia sia andato a sconfinare fino al cranio, soffocando quei due o tre neuroni malaticci che ancora vi albergavano... Figliolo, questa bici fatta in casa macinerà oggi più chilometri di quanto il tuo nobile destriero ne percorrerà in tutta la sua esistenza, almeno finché in sella ci sarà la tua adiposa persona!

Devo aver già superato la via che cercavo; sto andando troppo troppo avanti. Improvviso una rocambolesca inversione di marcia, brucio al contrario tre o quattro semafori che un attimo fa, in ossequio alla moda ciclistica ligure, ho già ignorato all'andata; poi mi arrendo e, a seguito di breve ed approssimativa analisi fisiognomica, individuo un paio di persone dall'aria non troppo incarognita e frettolosa, a cui chiedere lumi. Il prescelto mi fa notare che via Murtola è dritta davanti al mio naso: ringrazio, parto, la imbocco e mi lancio su per una dannatissima rampa che mi manda in apnea nel giro di tre secondi. Salgo ancora e ancora e ancora: civico 60, civico 110, un momento, io sto cercando il 32! Maremmazzozza quanta fatica sprecata. Giro, torno giù, mi arrendo un'altra volta; in questo dedalo di interni e viuzze, non mi raccapezzerò mai. "Chiedo scusa... Sa mica dove sia il negozio di Repetto Sport?". Lì, dalla sbarra, nel cortile.

OK ci siamo... Nel preciso istante in cui passo oltre la sbarra, sento precipitarmi addosso tutta l'assurdità di questa mia bella pensata. Il preché non lo so, ma ho le gambe che tremano... E le mani, quasi da non riuscire a selezionare il numero di telefono giusto nella rubrica del cellulare. "Adesso esce e mi manda al diavolo...". Per un attimo, ho persino la tentazione di lasciar perdere, andare via, tanto mi sento idiota ad essere qui. "Pronto?!". "Ciao... Senti, sei in negozio? Puoi mica uscire un secondo sul piazzale?". L'espressione allibita sul volto di Matteo vale, da sola, l'intera fatica! Direi che la sorpresa è perfettamente riuscita! "Che ci fai qui?" "Sai, avevo voglia di farmi una passeggiata da quasi trecento chilometri... Ed ho pensato di passare a salutarti". In effetti è vero; ho bisogno di macinare chilometri, ma non ce l'avrei mai fatta a farne così tanti senza un motivo che non fosse abbastanza forte. Però ammettilo, Matteo, quanto a follia stavolta ti ho quasi raggiunto!

"... e fu il calore di un momento/ poi via dinuovo verso il vento", è proprio il caso di dirlo: poche parole e via, Matteo al lavoro, io verso casa, più contenta e soddisfatta che mai. Non sono ancora le undici e mezza: meglio di ogni più rosea previsione. In fondo, oggi non sono 290 km: sono 145 più 145; è come se mi fossi appena svegliata, magari un po' stanca dal giro in bici del giorno prima, e dovessi ripartire per un altro giro, di difficoltà tutto sommato contenuta. Mi attende un po' di dislivello in più rispetto all'andata.
Ora che la fretta di arrivare a Genova non mi tormenta più, il primo pensiero è placare la sete tremenda che mi porto dietro da decine di chilometri. Già, la borraccia preparata ieri sera con tanto amore è rimasta in cantina; per fortuna, il freddo della mattina ha fatto sì che me ne accorgessi molto tardi, ma da Savona a qui, arsura tremenda! Eppure non potevo fermarmi; dovevo a tutti i costi sbrigarmi.

Mi fiondo nel primo negozietto, ne esco con una bottiglietta di Coca Cola, che tracanno tutta insieme e che poi mi farà da borraccia per l'acqua fino a casa. Cedo anche ad un pezzetto, per la verità piccolo rispetto ai miei standard, di focaccia unta e bisunta, somma goduria dopo le due barrette del viaggio d'andata. Poi torno sui miei passi, con il vento che questa volta mi dà una bella mano; faccio il pieno di colori, di gialli, di rosa, di verdi, ne porterò un po' a casa con me. Chissà se sarà tanto lungo questo viaggio verso casa? Arenzano, Cogoleto, Varazze, Celle, Albissola, il nastro si riavvolge in fretta, anche troppo in fretta per i miei gusti; salitelle e discese, gallerie e palme e gelaterie e vivai e gente, troppa gente, già in questa stagione. Savona arriva in un attimo: direzione Torino, casa, è la mia. Mi lascio alle spalle le brutture della periferia in favore dei dodici chilometri di salita al Cadibona, con la sgradita compagnia del vento che mi fa pagar pegno, mettendosi a soffiare proprio dritto contro di me. Sarebbe un'ascesa facile facile... Invece diventa un supplizio, costringe al rapportino anche se non pende; un interminabile sforzo per mandare giù un pedale dopo l'altro. Ho quasi la sensazione che il tanto agognato caldo si stia rivoltando contro di me: debolezza, fiacca, testa che gira mi fan compagnia già dalle primissime curve. Mi sento, tutto d'un colpo, vuota di energie: sono a 110 km da casa, sarebbe un dramma... Vado su a marcia ridotta, mi distraggo col panorama, con i cartelli chilometrici, persino col censimento dei rifiuti a bordo strada; sento palpabile il senso di pietà che suscito in chi m'incrocia, anche se agli automobilisti immagino non possa fregar di meno, di me. A Quiliano, miraggio, una fontanella: mi bagno le tempie, i polsi, bevo e butto giù un po' di miele, sotto l'occhio interrogativo di un'anziana signora ferma in attesa del bus; poi, pian piano, mi riavvio. Al colle manca pochissimo; un ultimo saluto al mare, pallido in fondo alla valle, poi le brevi gallerie e via, ripasso il confine tra i due mondi, torno al grigio ed alla neve. Altare, ancora deserta come questa mattina; la discesa, Carcare, la rotonda. Quei quattro o cinque chilometri, tanto gradevoli nell'altro senso, che diventano un interminabile lentissimo falsopiano in salita, da prendere con le molle, perché ormai la cotta può essere dietro l'angolo. Mi sforzo di bere e rimediare ai danni della siccità forzata di stamattina; la maglietta diventa il mio portaborraccia... Guai se la mia bottiglietta schizzasse via in discesa! Arranco, fatico, ma l'entusiasmo è ancora vivo e fa da motore anche laddove i garretti cominciano a latitare. Millesimo: occhio e croce, ancora novanta chilometri. Mi sorprendo io stessa della leggerezza con cui pronuncio, tra me e me, quel numero. Salita al Montezemolo: un incubo... Poche illusorie curve, poi uno stradone ampio, enorme, dritto, quello che a me dà l'idea di essere un falsopiano su cui sono troppo cotta per riuscire a spingere: sarà poi Matteo a farmi notare che la pendenza si aggira sull'8%... Fatto sta che io barcollo, vado a zig zag, sento abbattersi su di me tutte le disgrazie possibili ed immaginabili. Infinito questo tratto, massacrante: ma se sono ridotta così adesso, chissà come ci torno, a casa. La galleria è solo un breve momento di tregua: all'uscita, ancora più di un km di lentissima estenuante risalita. Stringo i denti perché non è proprio ammissibile mollare qui, ma la preoccupazione adesso è concreta e ragionevole.

Il ristorante della rotonda è gremito di moto e motociclisti: ammetto che un po' li invidio... Passeranno ancora parecchie ore prima che anch'io possa metter sotto i denti qualcosa di sensato. Ma la rotonda è anche la fine del mio supplizio. Riattraverso Montezemolo e mi ritrovo sui dolcissimi saliscendi della strada che conduce a Dogliani, a guardar la pianura e le montagne ed a lasciare, spesso e volentieri dove possibile, che la bici proceda per forza di gravità. Modalità risparmio energetico. Ogni tanto mi casca l'occhio su qualche cartello; ricalcolo nella mente i km fatti e quelli che mancano, per capire "a che punto sono". Ma i numeri qui non servono più; so bene cosa mi attende ed ormai non ho più paura. Sale Langhe, Murazzano con la sua caratteristica torre, le invianti insegne dei produttori di toma; Belvedere Langhe. Chissà se Matteo s'è ripreso dallo stupore. Le tre e mezza, più o meno; manca una cinquantina di chilometri. E sto bene, adesso; mi sono ripresa, o forse è solo che non c'è più salita su cui trascinare il corpaccione. Il cupolone, Dogliani, via alla lunga galoppata verso la pianura. Ho finito un'altra volta l'acqua, ma non ho voglia di fermarmi. Ci provo a Monchiero, ma la fontanella è sigillata; amen, pazienza, non mi fermo più. La fondovalle, il sole che s'abbassa, le ombre sempre più lunghe; il giro della collina di Cherasco, la rampa severa che riporta a Bra. Confesso che, di questi ultimi venti chilometri, farei volentieri a meno: ma le gambe non protestano... Approfittiamone, una volta tanto!

Appena fuori dalla confusione della città, per ingannare il tempo, scrivo un messaggio che invio a Matteo a dieci km da casa, per annunciare con un pizzico di anticipo la felice soluzione della giornata. Secondo me qualcuno deve aver ristretto la strada, comunque. In un attimo sono a Carmagnola: alle sei meno un quarto, riabbraccio il mio amore a quattro zampe, che poverello nulla sa delle intemperanze della sua inaffidabile compagna bipede. Per nulla stanca, perché elettrizzata ed entusiasta, frastornata di gioia e soddisfazione. Circa 290 km e 3.200 m di dislivello in salita, talmente diluiti che proprio non direi d'averli affrontati. Bagno caldo viziosissimo, con tanto di sali profumati, e nanna presto: domattina sveglia alle cinque e mezza; mi raccatta Mik... Si va a pedalare alle Cinque Terre!

martedì 3 marzo 2009

10/02/09 - Notturna alla Sacra di San Michele ed al Colle Braida

Per questa sera, le previsioni del tempo di ogni possibile canale televisivo o sito Internet, caso più unico che raro, sono pienamente concordi: soffierà un vento che porta via, su tutto l'arco alpino occidentale, con raffiche oltre i 100 km/h. La più colpita dalle ire di Eolo, a quanto pare, sarà la Valsusa.
Questa sera noi si va a spasso in montagna: con la tempestività ed il senso di responsabilità e misura che ci contraddistinguono... Si va in Valsusa. Ok, bassa Valsusa, come se questo potesse servire a farci ottenere uno sconto di pena. Ma siamo proprio sicuri? A giudicare dalle raffiche che fanno ballare l'automobile lungo la tangenziale di Torino, mica tanto... Ma Mik è serafico: se proprio non si riesce ad andare avanti, o si rischia che qualche ramo ci caschi sul crapone, amen, torniamo indietro!

Giusto. Ma io, nel dubbio, parcheggio la Opel in un luogo il più possibile lontano dalla traiettoria di tegole, pezzi di cornicione, alberi, non si sa mai. Il cielo è limpidissimo; sembra quasi di vedere lo scintillio delle stelle; l'aria è pungente, ma qui, a Chiusa San Michele, proprio sotto il costone della montagna, non si sente il vento. Ci avviamo sotto l'occhio vigile della Sacra di San Michele, che incombe proprio sopra le nostre teste, qualche centinaio di metri più su, e sotto l'occhio perplesso di una comitiva di gente a spasso, dall'aria meno montanara di noi. Chissà cosa si può pensare di due personaggi che, alle otto di sera, al buio, partono armati di scarponi, ghette, bastoncini e zaini... Che non siano del tutto quadrati, minimo. Per fortuna ho smesso da tempo di prendere in considerazione l'opinione di chi si definisce, in modo del tutto arbitrario, "normale", ammesso che abbia mai cominciato. Sì, partiamo, andiamo a camminare, sì, proprio adesso. E allora? E' una delle tante barriere create da chissà cosa, dalla consuetudine, dalla mancanza di fantasia, per cui chi non sta alle otto di sera con i piedi sotto il tavolo è quantomeno strano.

Poche decine di metri di asfalto, poi su a sinistra, imbocchiamo un bel sentiero ripido, lastricato di pietroni che fungono da comodi scalini, terra umida ma niente fango. Qui si svolge, racconta Mik, una cronoscalata: mi sembra impossibile che ci sia al mondo qualcuno che riesce a correre qui, e sì che ho già visto correre in luoghi e con pendenze ben peggiori. A me piace questo tipo di sentiero, il giusto compromesso per guadagnare dislivello in fretta senza però strapparsi i polmoni; Mik mi concede con magnanimità di star davanti e fare il passo, così posso davvero godermi la salita senza l'incubo di perdere terreno rispetto al capofila. Son poi ben ridicola io: basta il fatto di salire stando in prima posizione, piuttosto che in coda, per infondermi coraggio ed euforia o per farmi piombare nello sconforto. Anzi, il non plus ultra sarebbe aprire la fila ed accorgermi che chi segue fa fatica a tenere il passo... Ma la mia vena sadica stasera non ha alcuna speranza di emergere, visto il pericoloso soggetto alle mie spalle! Non lo staccherei nemmeno se seminassi candelotti di dinamite accesi, dopo ogni passo...

Di tanto in tanto filtra, in mezzo ai rami, la luce della Sacra lassù, illuminata, ora un po' più a destra, ora a sinistra, l'unico riferimento per la mia posizione. Il sentiero sale in tornantini ripidi, continui, permettendoci di guadagnare dislivello in fretta; di tanto in tanto, qualche fruscio, qualche rumore improvviso tra gli alberi, qualcosa che fugge via troppo in fretta perché ci sia possibile illuminarlo con le frontali. Pazienza, meglio così, sarebbe agra se quel qualcosa preferisse invece dirigersi verso di noi e magari fosse anche grosso ed affamato! Sarei spacciata, perché dei due camminatori la più in carne, nutriente, abbondante sono senza dubbio io. Chissà se, da sola, mi spaventerei? Anzi, chissà se, da sola, sarei mai partita per venire quassù? Non credo, probabilmente avrei una paura matta di qualsiasi minimo rumore, scapperei a gambe levate, o magari tirerei dritto, ma con il cuore in gola e le gambe molli. Devo provare, prima o poi.

Mik me l'avrà già descritto cento volte, l'itinerario di stasera, ma m'inganno lo stesso: quando arriviamo ad un bivio, una piccola radura da cui si vede la Sacra così imponente e vicina che basta solo più un salto per raggiungerla, mi viene spontaneo dirigermi lì, e invece no. Si va a destra, seguendo la traccia con pendenza che ora diventa più morbida, in qualche tratto addirittura in piano. Ancora per un po' camminiamo tra rocce e foglie secche, un paesaggio più autunnale che da pieno inverno; dovremmo raggiungere, tra non molto, la Borgata Basinatto di cui tento di indovinare, per ora senza successo, le luci. Quassù sì che si sente, il vento: se ne sente il lamento, lontano, continuo, lugubre, in valle. Per noi è solo il fruscio delle fronde, appena un po' più arrabbiato di quel che sembra nelle sere con la brezza; non minaccia, non fa paura.
Calpestiamo ben poca neve prima di spuntare in un prato ai piedi della borgata: quasi quasi rimpiango di non aver indossato le semplici scarpe da trail, al posto degli scarponi. Scateniamo il solito finimondo canino, tanto che anche qualche umano si affaccia sulla soglia a controllare la situazione. Beh, posso capire; credo che il passeggio turistico notturno da queste parti non sia un fenomeno così frequente. Mi distrae il profumo di cena che approfitta di qualche porta aperta per scappare via... Un paio di tornanti su una stradina stretta, ripida, asfaltata per modo di dire, unico collegamento di questo grumo di case con la strada principale che sale al Colle Braida: c'è neve a terra ed è ghiacciata, vuoi per la temperatura, vuoi per il passaggio dei veicoli, che l'ha resa uno strato spesso, compatto, scivolosissimo. Non dev'essere facile vivere qui, anche se siamo a due passi, due, dalla strada. Ci arriviamo infatti in pochi attimi: un paio di km, forse meno, e raggiungeremo via strada asfaltata il Colle Braida. Alle nostre spalle, la Sacra di San Michele ora con il solo sfondo delle stelle e del cielo, imponente nella sua corona di luce.

Il grosso del dislivello, osserva Mik, è archiviato... In soli quattro o cinque km. Il tragitto però è ancora molto lungo. Si dovrebbe arrivare, se non ricordo male, intorno ai venti km. Intanto, raggiungiamo il Colle, passando accanto ad un meraviglioso edificio con enorme parco illuminato, che scopriamo poi essere un hotel. Anche qui c'è una borgata, ma tutto tace, non una luce, non un movimento, niente; sembrano muri deserti. Svoltiamo a sinistra nella neve: ora non ripudio più la scelta degli scarponi... Ci avviamo per quello che mi pare un lunghissimo, interminabile tratto di strada in leggera discesa; ahimé, adesso in testa c'è Mik e sono dolori. Mi affanno per tenere il passo, ma qui si sprofonda, si scivola, si rischia di rotolare, un bel macello.

Ci lasciamo alle spalle anche le ultime sperdute case della borgata; ora solo più nero, in cielo, giù nella valle. Silenzio e vento che, in certi tratti, ci investe con forza, anche se non è ancora così feroce come s'era annunciato. Confesso che sono preoccupata: e se dovesse davvero rinforzare, ora che siamo quassù? Alzo il naso verso l'alto; c'è neve, ma non così tanta da far pensare al rischio di slavine; in più, siamo quasi sempre in mezzo al bosco. Mik racconta delle sue scorribande in bici, su questi tratti: provocatoriamente, sostiene che dovrei lanciarmi anch'io, ora che ho la bici da ciclocross... Ma declino volentieri. Faccio già fatica a mantener l'equilibrio a piedi! Brividi, ancora qualche raffica. Mi sforzo di indovinare dove andrà a passare la strada, se in quel punto sarà riparata o meno dal vento; intuisco solo un lungo traverso. Pare che si debba raggiungere, ad una distanza da qui indefinita, un'altra borgata: spesso ho la sensazione, se non la vera e propria convinzione, di vedere delle luci davanti a me... Ma chissà cosa mi passa per la testa. La neve ora non ci molla più; anzi, pian piano ci troviamo immersi fino alle ginocchia e costretti ad affrontare un bel tratto a passo di lumaca, incespicando, faticando come muli. Almeno, io, come sempre. Mi barcameno con scarpe e bastoncini,in equilibrio precario, perché, se solomi distraggo un attimo a guardare il panorama, è finita, mi ritrovo un tutt'uno con il manto bianco.

Breve sollievo quando giungiamo in vista della borgata: silenzio totale, tutto immobile, come se l'abitato fosse stato congelato insieme ai candelotti che pendono dai tetti. E mo' dove si va? Un tornantino, appena sotto il borgo, fa pensare che da lì si stacchi una strada che prosegue dritto; ci buttiamo l'occhio, ma non è così. Superiamo la stretta rampa che conduce in mezzo alla borgata. Si direbbe che qui qualche presenza umana ci sia: non è possibile che questo posto sia stato deserto l'intero inverno; c'è un lampione, ci sono fogli affissi di fresco alla bacheca, non ancora sdruciti dall'umidità. Tentiamo di tenerci a sinistra, ma finiamo in una piazzetta formato tascabile, con una fontanella che sorprendentemente butta una bella cascata d'acqua; torniamo sui nostri passi ed imbocchiamo la strada a destra, che supera la borgata e, appena oltre, ci apre una splendida balconata sulla valle, una distesa immensa di luci visibilissime e nette anche a grande distanza, complice l'aria ben ripulita dal vento. Si direbbe che la nostra sia ora una posizione molto esposta, eppure del vento ancora nessuna notizia. Ma il mio cruccio adesso è un altro: siamo quassò, occhio e croce a mille metri di quota o poco meno; camminiamo nella neve alta, per fortuna abbastanza ghiacciata da sorreggere quasi sempre il nostro peso... E non sappiamo bene dov'è che stiamo andando. L'inquietudine cresce: il macabro incontro con un pezzo di cotenna di cinghiale nella neve fa il resto. Ci scherzo su, ma rabbrividisco, e non di freddo. Cavo un po' di coraggio da qualsiasi cosa su cui mi capiti di posare gli occhi: i pali della luce dicono che per forza non possiamo essere lontani dalla civiltà; la neve a terra di tanto in tanto lascia vedere il fondo sterrato ma piatto e regolare di una strada; laggiù in fondo, nella valle, si vedono le luci della città. Quale, non lo so, forse non è una sola. La marcia è lenta e faticosa, troppa neve per pensare di procedere spediti. Il silenzio adesso è assillante. Non ho più riferimenti, né di tempo, né di spazio, nulla; mi pare d'essere in viaggio da un'eternità, basta neve basta buio... La mia unica ancora di salvezza è la luce di Mik, molto più potente della mia. Sospetto di non essere fatta per vivere al buio, perché al buio le paure si ingigantiscono; so già che domani ne riderò, ma stasera resto con il fiato sospeso.

Finalmente, sorpresa inaspettata, giungiamo ad un bivio. Non credo ai miei occhi quando vedo un'indicazione stradale, chiara, inconfondibile: adesso è sicuro, che siamo sulla strada giusta! Ora sì... Sono talmente contenta e leggera che quasi quasi sulla neve lascio impronte meno profonde. Meglio di me però se l'è cavata l'ungulato che ha pensato, è evidente, di farsi la stessa passeggiata, solo un po' prima di noi, scendendo giù lungo la strada innevata, solo con qualche deviazione in mezzo al bosco. Le luci di Vaie si vedono giù, in fondo, ma abbiamo ancora sette-otto chilometri per arrivarci, tutti su neve insidiosa, ghiacciata, che non accenna a cedere il passo nemmeno quando abbiamo ormai perso abbondantemente quota. Mik sembra avere le ali ai piedi in discesa; sarà la fame, la voglia del lettuccio caldo,chissà? In entrambi i casi, non posso dargli torto; la tensione ormei s'è stemperata, il sonno è in agguato.

Camminiamo per un'eternità, curva dopo curva, tornante dopo tornante. Buttiamo l'occhio per scoprire qualche possibile scorciatoia, ma gli esperimenti sono un fallimento: si rischiano i garretti! Vaie è lì, proprio lì sotto, sempre disperatamente alla stessa distanza; sembra che non ci si avvicini di un millimetro, nonostante la discesa! Però si vedono anche le cime della valle, con la neve che le incappuccia fino giù, giù.
Gli occhi gialli di un micio che si arrampica sul tronco di un albero e lì, in quella precaria posizione, ci fissa dal bosco; le prime case, l'abbaio imperioso di due meravigliosi maremmani chiusi in un giardino, l'ultimo tratto di discesa su una vera e propria pista di pattinaggio sul ghiaccio.
Poi, finalmente, l'asfalto: dopo una traversata così impervia e massacrante per i muscoli, l'ideale è qualche chilometro di strada secondaria, la tranquilla ciclabile che ci riporta a Chiusa San Michele passando accanto ad alcune imponenti ville protette da intere mute di cani da guardia. Abbiamo messo in saccoccia circa 750 m di dislivello in salita ed è anche la prima sera in cui rientriamo alla base senza essere mezzi morti di freddo. A pochi passi da Chiusa, alzo lo sguardo e non la vedo più: strizzo gli occhi, osservo meglio, c'è una sagoma nera su in alto, sulla montagna, fa un buco nel tappeto di stelle; la Sacra? Sì, risponde Mik, di notte la spengono. Bene, allora la Sacra c'è, posso stare tranquilla. Manca solo una cosa ad una serata perfetta: una bella tazza di cioccolata calda...

sabato 28 febbraio 2009

22/23/24 febbraio 2009 - Bici in Costa Azzurra - III giorno

C'è qualcosa che non mi quadra... Ieri, quando ho riaperto gli occhi, un po' di luce dalla finestra filtrava già! Oggi invece vedo solo il bagliore intermittente dell'insegna luminosa, verde e fucsia... E' vero, la sveglia oggi ha trillato prima, ma capperi, che fatica tirarsi su al buio, dopo sole nove ore e passa di nanna! La camera è una specie di serra tropicale: ieri sera Mik ha fatto un colpo da maestro, impossessandosi di un calorifero elettrico abbandonato in corridoio, da aggiungere a quello che già avevamo in camera. Non è colpa nostra se siamo freddolosi! A me poi non bastano certo un po' di coperte ed il piumone.
Due zombie si aggirano per la camera. Colazione con quel che resta: pain d'epices, yogurt, un fondo di Coca Cola. Il resto l'abbiamo spazzolato tutto ieri sera; questo magro pasto basterà appena a permetterci di raggiungere una boulangerie.

Salutiamo Saint Raphael, almeno per questa vacanza. Ci rimettiamo in marcia, questa volta verso sinistra, direzione Agay, accompagnati dal sole che appena appena sorge, la stessa bellissima palla rossa che ha già salutato ieri la nostra partenza, il nostro arrivo. Il mare appena appena increspato pare tempestato di minuscoli brillanti, l'aria è pungente, il silenzio quasi irreale, rotto solo dall'urlo dei gabbiani. Oggi le gambe soffriranno la stanchezza, i chilometri, lo zaino, la fame: tocca rassegnarsi, la prenderemo con un po' più di calma.

Quasi mi spiace quando, al paese, lasciamo il lungomare per svoltare a sinistra, verso l'interno. La costa, quand'è deserta, ha un che di magico. Ma so che l'entroterra non mi deluderà...
Sfiliamo accanto ad un cartello che indica il divieto di passaggio, proprio lungo la strada che stiamo percorrendo, "a tutti i veicoli, anche alle bici, dalle nove di sera alle sei del mattino". Una domanda mi sorge spontanea: ma a chi cavolo può venire in mente di passar di qui in bici tra le nove di sera e le sei del mattino?". E Mik, sornione: "Io qualcuno lo conosco...".
Poco oltre, un bivio: imbocchiamo senza pensarci la strada di sinistra, visto che quella di destra reca un vistoso cartello giallo che indica "strada chiusa a 12 km". Ma il Garmin subito ci rimbrotta: no, non va bene, siamo fuori rotta. Che fare? Ci guardiamo intorno; vediamo due strade, una sul versante destro della valle, l'altra sul sinistro, ma proprio non riusciamo a capire dove vadano a finire; la cartina stradale non ci aiuta molto. Mik propende per tornare giù e tentare l'altra via, nonostante il minaccioso cartello: ok, benissimo, proviamo; alla peggio, torniamo indietro ed andiamo a scorrazzare da qualche altra parte. Quasi mi stupisco io stessa del pensiero che ho appena formulato: da dove arriva questa flemma? Io che vado regolarmente nel pallone quando mi si sconvolgono i programmi. Sfidiamo sprezzanti l'avviso ed oltrepassiamo un ponte in cemento; sulla nostra sinistra, un bel laghetto, ancora nero, ancora in ombra come siamo noi che ringraziamo la salita: almeno ci si scalda un po'! Questa vallata, a pochissimi km dal caos della costa, sembra un angolo di mondo rimasto isolato e protetto da tutto il resto, tanto è selvaggia e deserta di tracce di vita umana. E' tutto bosco, verdissimo, se non fosse per questo nastro d'asfalto su cui stiamo pedalando, che ha un colore leggermente rosato e mi ricorda una pista di atletica. Lo sguardo segue curioso la strada che taglia il versante opposto. Lassù, su una cima, troneggia un'enorme antenna che quasi quasi, con un po' di fantasia, somiglia a quella che svetta sul Mont Ventoux... Ci dobbiamo arrivare? Boh, non ne abbiamo idea.
Nei tratti che restano probabilmente in ombra tutto il giorno, l'asfalto è venato di muschio, ma la strada a breve ci porta a godere in pieno il calore del primo sole: siamo quasi a picco sul mare, il riverbero della luce sull'acqua che quasi fa male, i giochi di ombre e fiamme tra le fronde degli alberi. E sentieri che salgono dalla costa fin quassù, tagliano netti la vegetazione, s'innestano tra loro dove meno te l'aspetti. Mik non perde l'occasione per fare qualche foto, e pure io, in modo ben più artigianale. Ma la nostra via, dove va? All'antenna si arriva con un paio di lunghi traversi che vediamo proprio sopra di noi; raggiungiamo, però, poco dopo, un crocevia tra strade e mulattiere. Ecco spiegato l'arcano: la strada è chiusa perché alcune sbarre impediscono l'accesso ai veicoli... Ma qui un cartello, ben più conciliante, impone il divieto a tutti i veicoli, tranne che alle bici! Fantastico.
Il nostro itinerario non prevede la salita all'antenna, che vediamo su un centinaio di metri sopra le nostre teste; ci si arriva con una strada che parte da qui, dal crocevia, ed è, questa, vietata proprio a tutti. Ma in fondo noi il Francese non lo conosciamo... Facciamo gli gnorri, passiamo sotto la sbarra e ci avviamo su, perché non sia mai che ci si nega la visita ad una vetta. Un po' me ne pento, quasi subito, perché questo è asfalto per modo di dire; buche, crepe, sabbia, piante divelte e rovesciate sulla strada; mi divertirò in discesa. Ma il tratto è molto breve. Quel che si trova arrivando in cima è un'accozzaglia di ripetitori e parabole, ma non importa: in fondo, per me, quel che conta è raggiungere il punto più alto possibile; quando son su, quel punto lì perde qualsiasi interesse e lo riacquista, al massimo, quando giungo a fine discesa. Dietrofront.

Dal crocevia, imbocchiamo una strada in discesa anch'essa protetta da una sbarra. La discesa non è lunghissima, ma tutta o quasi all'ombra: decido, come sempre, di limitarmi a chiudere il gilet e via, ma devo ammettere che batto i denti e sento un gran male alle dita. Tocca anche prestare attenzione al fondo stradale, viscido in certi tratti e ricoperto di infido ghiaietto. Cerco con la coda degli occhi qualche tratto di sole... Meno male che la pendenza presto si attenua, mentre i colori si fanno via via più intensi e caldi, man mano che il sole si sveglia.

Un po' turbati dall'inquietante lamento prodotto dalla bici di Mik, planiamo su La Napoule – Mandelieu e ci lasciamo guidare dal naso: un inebriante profumo di pane fresco ci guida verso una bella boulangerie, dove facciamo il pieno per l'immediato e per la giornata. Io sbrano subito una bella porzione di untissima pizza con le olive e metto nello zaino un pain au chocolat che poi in realtà conserverò fino a fine giro; Mik predilige il dolce e basta.

Da Mandelieu riprendiamo la salita; uno stradone ampio, pendenza blanda ed una cascata di mimose fiorite da una parte e dall'altra. Qui la fatica accumulata non tarda a farsi sentire; salgo con inaudita lentezza e, per quanto mi sforzi di non pensarci, sono fiacca, vuota. Certo non devo avere un aspetto molto pimpante, se un gagliardo turista fermo a scattar foto mi offre con insistenza una spinta. No, grazie, questo mai, me la cavo da sola!
In discesa mi porto un po' avanti, approfittando di una sosta di Mik, ma, ad un bivio, preferisco fermarmi: non si sa mai, è probabile che noi si debba proseguire, ma a volte il GPS va a cacciarsi, anzi cacciarci, proprio in quelle stradine che mai penseremmo di dover imboccare! Un fuoristrada esce da un cancello lì vicino, romba e va: e subito piomba il silenzio, quasi irreale perché siamo in pieno giorno, in un centro abitato. Per un attimo tendo le orecchie e non sento alcun rumore: nulla oltre all'acqua che scorre nel canale a bordo strada, al leggero vento tra le foglie, al cinguettio degli uccellini, che ormai non sono più abituata a sentire, dopo due mesi di Siberia. E' bellissimo...

Si riparte; uno stradone in mezzo ai centri commerciali, una rotonda, ancora avanti: il GPS protesta, siamo fuori rotta. Torniamo verso la rotonda, ma il maledetto, poco dopo, punta una strada sulla destra, minuscola. Ma no, non è possibile, quella roba lì va a perdersi tra le case! E invece no, è proprio lì che dobbiamo andare. La pendenza, sulle prime, mi preoccupa: è una rampa cattiva, una sofferenza per le gambe che pedalano da due giorni e mezzo con tanto di carico. Ma pazienza, finirà. Errore fatale... A quella rampa ne segue un'altra, peggiore e pure più lunga. La affronto mettendoci le forze che mi restano, ma è dura davvero, è una lotta impari per spingere avanti la bici e contemporaneamente tener la ruota anteriore incollata al terreno. Ed è doppiamente dura perché sono al massimo dello sforzo e non so quanto riuscirò a resistere: dubito di arrivare alla fine di questo tratto maledetto. Ho il cuore che scoppia: vedo Mik là davanti che si gira e sorride... Può ringraziare d'avere garretti da camoscio, perché, se nei prossimi cinque minuti riuscissi a mettergli le zampe addosso, lo rovinerei, assassino che non è altro! Procedo a zig zag per attenuare un po' la pendenza, ma serve a poco. Rialzo la testa, Mik è lassù a piedi: oh porca miseria... Se è sceso lui, vuol dire che marca proprio male, malissimo. Infatti, con supremo sforzo riesco a far girare i pedali ancora una volta, ma all'ennesima impennata della strada sgancio e butto giù i piedi, perché qua non c'è più santo che tenga; se continuo a salire in bici, ammesso che ci riesca, qui il manubrio si alza definitivamente ed io mi schianto. E non è mica finita qui; adesso mi tocca spingere la bici camminando sulle tacchette, che, con questa pendenza, scivolano ad ogni passo... Insomma, il rischio di spalmarmi sull'asfalto non è affatto evitato! Provo, un paio di volte, a rimontare in sella, ma su questa rampa non c'è verso di partire; alla fine, mi rassegno a spingere ancora, sperando che questo supplizio vada prima o poi a concludersi. Infatti, giro l'ultima curva stretta e trovo Mik armato di macchina fotografica: mentre gli passo accanto, all'incrocio, mi fa "guarda lì...". Mi giro, metto a fuoco il cartello che indica la pendenza: 26%. Ma vaff...

Ancora in apnea, ci avviamo dubbiosi verso destra e, poco dopo, imbocchiamo una salita umana che porta al paese di Cabris. Classico paesello lindo ed ordinato, a poco più di 500 m di quota, come indicano i piloncini a bordo strada. Le gambe ormai danno segni di fatica, ma la salita è ancora dolce e rinfrancata dal calore del sole. Oggi è più limpido dei giorni precedenti; non c'è una nuvola. Dovrei mangiare un po', ma non c'è verso, non ne ho proprio voglia. Ecco, che assurdità: quando sono a casa a far nulla, fagocito tutto quel che mi capita a tiro, vivo o morto, commestibile o no. Ora che son qui a sudare e dovrei mangiare... Niente, sciopero totale.

Saint Cézaire: ma qui siamo già passati... Sì, ieri, è la zona delle grotte. Un lungo tratto di saliscendi, dritto come un fuso, mi fa soffrire e temere d'essere già arrivata al capolinea, non quello del viaggio ma quello delle mie forze; sento il vento contrario anche dove non c'è... Nella nostra direzione, sulla montagna, si vede salire una strada: chissà se è quella la destinazione? Spero di sì, perché i miei poveri muscoletti hanno assoluto bisogno di un po' di regolarità nello sforzo. I cambi continui di ritmo mi sfiniscono ed i falsipiani mi avviliscono... Ma possibile, sono sempre solo io a subire gli effetti di questo turbinio di sentimenti contrastanti? A quanto pare sì, perché Mik è una maschera; stanco, lui, non l'ho proprio mai visto, anche se ogni tanto accenna a lagnarsi dei propri risultati e viene prontamente cazziato con la durezza che merita.

Al bivio, nel paese di Saint Vallier de Thiey, finalmente riprendiamo a salire: un serpentone d'asfalto che sale su, in piena esposizione al sole e con pendenza più che sopportabile. Ci sta un altro pezzetto di Twix, mentre guardo dall'alto il tratto – breve per la verità – più o meno pianeggiante che ho appena percorso e sogghigno: "Non mi avrai più!". Pochi chilometri, ma sufficienti a dare alle mie zampe un po' di sollievo, tanto che un po' mi dispiace quando svolto l'ultima curva e mi trovo al Col du Ferrier. Mik si sta vestendo, ma, chissà perché, secondo me non è il momento giusto. I colli qui mancano della discesa... Da qui si vede la strada che scende giù giù lungo la valle, sulla sinistra, ma ho la sensazione che quella non sia la nostra rotta. Infatti non lo è: noi svoltiamo a destra, lungo una salita che mi conferma l'impressione avuta poco fa sul colle: l'ambiente, da un versante all'altro della montagna, è cambiato all'improvviso; di là aspetto costiero, di qua pura montagna. La neve accumulata a bordo strada si scioglie; l'acqua invade quasi tutta la carreggiata; tornano, per terra, le pigne. E l'aria è pungente. La strada è disseminata di evidenti tracce di pecore: che strano, eppure questa non è stagione da trovar le pecore in quota... Eppure è proprio un bel gregge, quello che ci sbarra il passaggio poco più avanti; pecore ed alcune capre dalle lunghe corna a tortiglione. Pare proprio che i pastori, arcigni e scorbutici come tutti i pastori, non abbiano intenzione di lasciarci passare: pazienza, faremo una pausa, ma che nervoso... La sindrome del "La strada è mia, levatevi di mezzo" è sempre più viva e radicata in me! Mi verrebbe voglia, con ben poco rispetto dell'ambiente delle tradizioni degli abitanti del luogo, di partire a spron battuto e fendere il gregge, e invece mi tocca star buona e ferma, con i brividi di freddo che subito mi assalgono. Per fortuna, al bivio poco oltre, pecore da una parte e ciclisti dall'altra. Una breve discesa ci butta nel bel mezzo di un altopiano bianchissimo di neve: lo attraversiamo guadando le pozze, battendo i denti per la temperatura che dev'essere scesa, in pochi chilometri, di parecchi gradi, anche se il sole non manca di splendere. C'è chi si diletta con sci e slittini, mentre noi pedaliamo, con passo ormai un po' stanco. Ho perso la cognizione dello spazio e del tempo: non so che ora sia, non so quanta strada ancora ci aspetti. Un'ampia curva a destra, leggerissima salita: un'altra curva e siamo al colle. Questa volta è un colle per davvero; siamo a più di mille metri di quota e davanti a noi si apre una profonda vallata, con la strada che scende giù in picchiata, ora su un versante ora sull'altro, e scompare. Un colpo d'occhio eccezionale: di qui non c'è più neve, ancora una volta un altro mondo; di qui tornano il verde e le rocce bianche. E, contro il cielo sempre blu, volteggiano alcuni parapendio colorati. Penso che potrebbe uscirne una splendida foto... E ci pensa pure Mik, che subito realizza.
Penso anche che stavolta sarebbe valsa la pena di indossare la giacca: sto ibernando... Ma non ho più voglia di fermarmi. E' una discesa suggestiva, una bellissima picchiata verso il mare, anche se da qui il mare non si vede ancora; per alcuni chilometri non si vede neppure segno di presenza umana, se non nell'asfalto su cui stiamo viaggiando. Nei tratti in ombra il freddo è pungente; batto i denti... Le mani sono fredde, ma non ancora in difficoltà nell'afferrare i freni: l'importante è questo; per il resto, pazienza, ciò che non uccide fortifica, dicono.

Ritrovo Mik ad un bivio; svolta a destra ed ancora discesa, fino ad incontrare, finalmente, le prime indicazioni stradali per Nizza. Una trentina di km ancora, poco più. Non è che abbia questo desiderio spasmodico di porre fine al giro, tutt'altro; ho solo tanta voglia di caldo e di mare! Come sempre, di mettere i piedi nella sabbia...
Quando abbiamo ormai perso il grosso della quota, ci resta un lungo tratto di strada che serpeggia accanto ad un torrente, sul fondo di una valle stretta e chiusa tra pareti rocciose irregolari. Il sole fin quaggiù penetra ormai solo in alcuni punti e lo sbalzo di temperatura tra luce ed ombra è nettissimo: sembra di entrare ed uscire da un frigorifero! E' anche per questo che mi sforzo di menare un po' i pedali, perché ormai, con il freddo accumulato nella lunga discesa, non riesco più a vincere i brividi. La strada s'infila in una galleria che ci fa superare una parete rocciosa a picco; oltre la galleria, la valle è completamente diversa, aperta, luminosa. Si vede il mare... E si fa la doccia: quasi non me ne accorgo e in un attimo finisco avvolta da una nuvola d'acqua; alzo la testa e vedo, sopra di me, proprio accanto alla strada, una meravigliosa cascata bianca, spumeggiante.

Nizza... Volevo a tutti i costi tornare al mare, ma, ora che ci sono, mi dispiace. Oggi "solo" 130 km e 2.500 m di dislivello. Malinconia. Nei viali di Nizza va a concludersi il nostro viaggio; la Y di Mik, il carico dei bagagli, il viaggio verso casa. Per la verità, il piano d'azione prevedeva, in origine, di aggiungere in extremis alla tre giorni sui pedali un'escursione a piedi con partenza dall'abitato di Coaraze: son le quattro del pomeriggio e per l'escursione, poco meno di un migliaio di metri di dislivello, il tempo ci sarebbe... Ma la trasferta in auto, andata e ritorno, ci costerebbe in tutto un paio d'ore, senza contare poi il viaggio verso casa. Si tratterebbe di rientrare à la maison oltre l'una di notte: noi ormai siamo anziani, per queste mattane non abbiamo più il fisico...

venerdì 27 febbraio 2009

22/23/24 febbraio 2009 - Bici in Costa Azzurra - II giorno

Mi concedo un momento di indugio, quel tanto che basta a cercar di capire se anche Mik l'ha sentita la sveglia, oppure no. Ho il vizio ormai radicato di afferrarla e spegnerla al primissimo trillo, come faccio d'abitudine a casa per evitare le ire della sorella. Poi riemergo definitivamente dal torpore, residuo un po' del sonno un po' del freddo che stanotte non mi ha dato tregua nonostante il piumone: giusto in tempo per affacciarmi alla finestra e restare a bocca aperta davanti all'esplosione di rosso intenso che tinge il cielo limpidissimo ed il mare, appena visibile tra le palme e gli edifici dall'altra parte della strada. Uno spettacolo meraviglioso, che diventa, se possibile, ancor più suggestivo quando, più tardi, dalla linea del mare emerge il cerchio rosso del sole. Urge una foto, anche se la mia macchinetta fotografica farà quello che può.

Oggi viaggeremo scarichi, visto che stasera torneremo qui. L'unico carico quindi è quello con cui riempiamo la panza: riempiamo, per modo di dire... Un po' di fette di pain d'épices con la marmellata, un po' di yogurt, ancora Coca Cola: questo ci consentirà di raggiungere la prima boulangerie utile, senza stramazzare al suolo. Mentre alleno le ganasce, scruto con preoccupazione le fronde delle palme, che si agitano al vento: che stiano arrivando i 100 km/h promessi? Ma no, Mik è ottimista, sarà la brezza del mattino. Speriamo bene... Una volta tanto, non mi costerà ammettere che qualcun altro ha avuto ragione!

Siamo in strada verso le otto meno un quarto: direzione Saint Raphael, ma a quest'ora in giro non c'è nessuno. Rivediamo le ville, i parchi, gli scorci di spiaggia che ieri sera abbiamo superato con la mente rivolta a ben altri pensieri, doccia e cena sopra tutti; attraversiamo la città addormentata, semideserta, proprio come piace a me. E ci fiondiamo diretti contro la vetrina di un'invitante boulangerie, dove facciamo scorta di risorse alimentari per la giornata. Come raccomandato dai migliori testi di nutrizione ed allenamento, ci strafoghiamo di pizza grondante olio e formaggio fuso, a cui Mik aggiunge anche la tipica "baguette da manubrio" e qualche altra dolce scorta. Chi ci vede divorare avidamente il magro pasto sulla soglia della panetteria, può solo pensare che non tocchiamo cibo da una settimana... Infatti il panettiere, impietosito, ci richiama dentro per elargirci almeno due tovagliolini!

Ecco, adesso va meglio. Ormai sono abituata alla colazione grassa, bisunta e salata; il salutare pane e marmellata non mi basta più... Il pancino chiede qualcosa di concreto!
Torniamo a fendere l'aria lungo la strada principale di Frejus, alla ricerca del bivio che ci porterà fuori di qui. Ci superano due auto giallo canarino, che trasportano ciascuna svariate bici da corsa altrettanto gialle, a marchio Mavic. Orrendo, il giallo... Sono le avvisaglie del Tour du Haut Var, che non so se si sia corso ieri o debba corrersi oggi; poco male, non ci riguarda: siamo ben presto fuori di qui, lungo un canale artificiale; sfiliamo accanto a parecchi vivai con i loro splendidi ulivi dalle enormi radici costrette in grossi vasi, proni ad essere trapiantati in chissà quale giardino di chissà quale città... E magari a far la fine di tanti ulivi che ho visto dalle nostre parti, fiaccati se non uccisi dai rigori dell'inverno piemontese.

Ad una rotonda, Mik promette: "Stasera, quando ripasseremo da qui, sapremo che ci mancano ancora 17 km". Bene, lo terrò presente... Ma in mezzo ce ne sono ancora quasi centosettanta!
Il GPS ci guida attraverso le viuzze strette e ripide di Roquebrune Sur Argens, tanto che mi domando se per caso non ci stia portando a perdere. Incontriamo un nutrito gruppo di ciclisti in partenza da un parcheggio; ha tutta l'aria di essere una randonnée, questa qui. I ciclisti hanno un numeretto sulla bici e ci salutano mentre Mik si ferma a scattare qualche foto: mi fermo anch'io, perché rischio di perdermi!

Finalmente, la salita. Imbocchiamo una stradina superando un cartello che parla di divieto: l'abbiamo visto entrambi, ma solo di sfuggita; mettendo insieme quel che ciascuno di noi è riuscito a capire, par che questa sia una strada vietata, forse ai ciclisti, forse solo in un certo periodo dell'anno. Il motivo non si sa, ma non importa: fingiamo di non aver visto e proseguiamo. Dopotutto, qui passano delle auto; perché mai non dovremmo poter passare anche noi?
Si sale sotto una vera e propria volta color giallo acceso di mimose in fiore, fitte e profumate, per chilometri; tra i rami, di tanto in tanto, si vede ancora il mare. Poi arrivano altri ciclisti, alla spicciolata, soli, in gruppetti di due o tre, in grupponi; chi sale pestando sui pedali come un forsennato, chi se la prende più comoda, chi duella con l'avversario, chi saluta e chi tira dritto immusonito. Probabilmente è lo stesso gruppo in cui ci siamo imbattuti prima, una processione variopinta di polpacci d'atleta e di pance un po' meno d'atleta. Certo la tentazione di inseguirne qualcuno è forte... Almeno quelli che sono evidentemente alla mia portata. Ma non posso, non devo nemmeno pensarci. Questi qui oggi non staranno in sella per duecento km, dopo averne incamerati ieripiù di centocinquanta: anzi, a giudicare dal profumo inebriante di bagnoschiuma che lascia dietro di sé, la ciclista che mi ha appena superata è uscita dalla doccia poco fa... E mi sa che ci ritornerà presto. Io devo sforzarmi di continuare con il mio passo; chissà Mik però... Là davanti, starà impazzendo a correre dietro all'uno e all'altro! E' più forte di lui, non può tollerare il sorpasso... E chissà la faccia di alcuni di questi qua, tiratissimi e più convinti che mai, quando se lo vedranno scattar sul naso e sparire in una nuvola di polvere! Mi piacerebbe da matti assistere alla scena... Ma devo prima comprare il motorino!

Certo che questa stradina qui non è affatto avara di buche, anzi. Ce n'è a profusione, buche, crepe, sassi. Stiamo viaggiando verso il nulla; l'aveva detto Mik: oggi incontreremo il primo centro abitato dopo 40 km, il secondo dopo altri trenta... Ritrovo il mio compagno di viaggio fermo nel punto dove sembra concludersi la scalata organizzata; uno dei tanti colli che non sono colli, seguito da una discesa che non scende, anzi resta a mezza costa. Ancora intorno a noi sciamano i ciclisti col numero, che un po' vanno un po' si fermano, con gran flemma; mi sorpassa sorridendo un personaggio che mi lascia di stucco: non più giovanissimo e con una manica penzoloni... Ha solo il braccio sinistro! Ma due gambe muscolose da far impressione. Incredibile, chissà con quale abilità riesce a guidar la bici in discesa. Peccato che io non sia in grado di rispondere al suo tentativo di attaccar bottone; capisco quel che mi dice, ma non so come replicare... Me la cavo con un vigliacchissimo "Je ne compri pas", che chissà se si scrive e si dice così... Lui però afferra al volo: "Anglais... Ou Italienne?". "Italienne", caro il mio monsieur... Sei un grande!

Pian piano, tutti i ciclisti, anche quelli che si son fermati qua e là, passano e se ne vanno. Restiamo Mik ed io ad andar su e giù per questa bella strada in mezzo al bosco, sul fianco della collina, da cui si vede un'altra strada tagliare l'altro versante della valle e perdersi chissà dove. In questi posti è molto difficile intuire dove si andrà a passare; le strade sono numerose e seguono i tracciati più impensabili. Per fortuna, oggi pedaliamo a quote ben più basse di ieri: siamo, per ora, sui quattrocento metri come altitudine massima, con gran gioia delle mani, a cui basta il conforto dei guantini estivi, e della schiena su cui batte il sole. La vegetazione è verde e calda, l'erba è punteggiata dei primi fiori; neve, qui, non se ne vede. E le auto... Poco, pochissimo traffico di auto quassù; quelle che passano portano ai viaggiatori su due ruote un rispetto a dir poco religioso. Addirittura, nei pressi di uno degli innumerevoli colli, un cartello avverte della presenza di "cyclistes nombreux" e raccomanda prudenza.

Dovessi spiegare dove mi trovo, non ne ho la più pallida idea. A questo proposito, la mia fiducia in Mik è totale: io seguo... Anzi, a me piace questo stato di incoscienza in cui sono immersa; un po' mi guardo intorno, un po' mi perdo tra i pensieri, ma non sento la fatica, non so quanti chilometri abbiamo alle spalle, non so quanti ancora ci attendono. Non so dove sia il Nord, non so se viaggiamo verso il mare o l'entroterra... Ed è bellissimo, è una sensazione di euforia. Mi trovo in un luogo meraviglioso, accogliente; sono in compagnia di una guida fidata; sento le gambe appena un po' affaticate, ma che non danno alcun segno di cedimento; insomma, me la spasso, mi godo la mia vita ideale, la mia "favola bella". E sarà banale, una frase da canzonetta: ma davvero, vorrei che non finisse mai. Eppure è inevitabile, pedalata dopo pedalata si va avanti.

Come promesso, dopo infiniti colli – i Francesi sarebbero capaci di chiamare Col de qualcosa anche i cavalcavia! - giungiamo al primo baluardo di vita umana dopo una quarantina di km in mezzo ai boschi: Plan de la Tour. Boulangerie e negozi di alimentari catturano in un attimo i sensi, la vista, l'olfatto: mi sa che Mik aveva ragione stamattina, quando mi ha ammonita che, con la sola pizza per giunta consumata appena fuori dalla panetteria, avrei avuto fame. Infatti sto centellinando i quadretti di cioccolato bianco; ne ho cinque o sei, più un tubetto da 170g di latte condensato. Devo consumarli con parsimonia. Il problema è che sento i morsi della fame, ma non ho alcuna voglia di buttar giù niente, o meglio; avrei voglia sì, ma di un altro ettaro di untuosissima focaccia... Non di barrette né di cose dolci.

Trovo Mik in vetta, si fa per dire, ad uno dei tanti colletti, il Col de Babaou, intento alla chiacchiera con tre ciclisti locali, a quanto pare molto impressionati dal nostro itinerario di oggi. E non conoscono ieri e domani... Giunge però da loro un'informazione che ci preoccupa un po': è possibile che incontriamo qualche difficoltà nella zona di Bormes les Mimosas; il paese è chiuso per via della sfilata di carri fioriti. Ovvio, siamo nel periodo migliore... Speriamo di riuscire a passare: una deviazione ci costerebbe chilometri in più, e non è proprio il caso, oggi!

Alla fine di una discesa, trovo Mik in attesa accanto ad un gruppo di sorveglianti in divisa, all'imbocco di una strada chiusa da transenne: già mi immagino il loro fiero cipiglio ed il secco rifiuto al nostro tentativo di passaggio... Invece no, incredibile, possiamo andare. Un po' di salita, mentre in lontananza si vede già il mare, tra le immancabili mimose, vivaci compagne di questo splendido viaggio. Salendo noto, sulla destra, una stradina che schizza verso l'alto con pendenza inqualificabile: per un attimo temo che quello sia il mio destino... Ma c'è una buca delle lettere all'imbocco, una casa in cima, nascosta dalla vegetazione; meno male, è una via privata... Il nostro bivio, nonostante le incertezze del GPS che avrebbe proprio voluto farci arrampicare lì, arriva poco dopo. La Route des Cretes: ce lo confermano altri due solerti vigilanti... A sinistra e su, destinazione paradiso! Paradiso, davvero, non potrei trovare altra definizione. Un breve tratto un po' più ripido, poi tornano le pendenze dolci, i colori intensi e caldi, il giallo scuro della terra, il bianco delle rocce, cespugli di salvia – pare strano eppure la guardo bene, è proprio salvia! - e cactus che spuntano qua e là, e poi il mare, ora più bello che mai. I colori, soprattutto quelli: sono accesi, quasi violenti, come se i verdi della vegetazione ed il blu del cielo fossero accentuati con lenti particolari. Ma no, le lenti son sempre le mie, spesse e piene di righe, souvenir del mio ultimo schianto che risale a poco più di un anno fa.
E' un paesaggio così distante dalle montagne che amo, eppure oggi è quanto di meglio potrei desiderare. Vorrei fare più foto, ma quasi mi dimentico d'aver la macchina fotografica: male, molto male, perché la mia memoria è ben più labile di quella elettronica. Meno male che ci pensa Mik: lo ritrovo all'improvviso, arrampicato in cima alle rocce, armato del suo obiettivo degno dei migliori reporter di guerra... Chissà che spettacolo di lassù! Ma non è per me, io il piede a terra non lo metto, se non è strettamente indispensabile. Tiro dritto, incamero altri saliscendi, tanto ormai mi ci sono abituata e non li maledico nemmeno più. Del resto, lo sapevo fin da subito: 200 km e soli 2.300 m di salita significa tanti, tanti saliscendi... Quiè davvero deserto, solo qualche abitazione di tanto in tanto, qualche affittacamere, qualche venditore di formaggio, qualche piccolo animale che posso solo intuire dal fruscio nell'erba. Solo al bivio, dove inizia la discesa, c'è un po' di vita, qualche turista. Ci lanciamo giù per le curve e controcurve che ci portano al mare: da lì in poi... Resta solo la pianura. Ormai mi ci sono abituata; lo stradone lungo la costa, mi vien di chiamarlo "Aurelia" anche se siamo in Francia... In fondo, la moda è la stessa: i semafori rossi non esistono; le auto fanno il possibile per stirarti; piloti e ciclisti non perdono occasione per scambiarsi gentilezze... Insomma, mi sento a casa!

Ma anche oggi, puntuale, la defaillance è dietro l'angolo. Si materializza sotto forma di poche parole di Mik: "Ci mancano 70 km... Siamo a rischio". A rischio che le ore di luce non ci bastino. Ahia, Mik, non me lo dovevi dire! Io vivevo nella mia beata ignoranza, avrei potuto andare avanti chissà quanto, senza farmi domande di cui non avrei voluto conoscere la risposta. Questa è una tegola pesantissima sulla mia capoccia peraltro non protetta da casco. Non me le spiego, queste mie reazioni sconclusionate: ho già passato un bel po' di notti sui pedali o sui sentieri... Eppure, se il programma della giornata non prevede di attendere in bici il ritorno del sole, l'idea di farmi sorprendere dal buio mi getta nel panico. Aggiungiamo poi l'effetto distruttivo che la pianura ha sul mio morale e sulle mie gambe... E, pochi chilometri dopo, Mik già si ritrova a rallentare l'andatura in modo esasperato per consentirmi di stargli dietro, mentre io barcollo all'improvviso sotto i colpi di tutti i possibili ed immaginabili guai: la fame che fa gorgogliare lo stomaco, i muscoli che diventano di legno, il fiato che non c'è più, l'insofferenza per il traffico e la gente. Si stava molto meglio, lassù, con la sola compagnia dei primi insetti primaverili. Il guaio è che sono ripiombata nella realtà, che purtroppo si misura in chilometri ed ore di luce! Ora so solo che devo sbrigarmi, pedalare e non perder tempo, ma cosa posso fare più di così? Paesoni uno via l'altro, ma tra l'uno e l'altro ci sono pochi, preziosi tratti di strada da cui si vede solo il mare ed anche il caos motorizzato sembra calmarsi; qui si sente la brezza, lo sguardo segue la linea della costa, risale lungo la montagna, poi torna precipitosamente sulla ruota posteriore di Mik che, nel frattempo, ho rischiato di toccare. Sono una frana anche quando il resto del mondo fa di tutto per facilitarmi la vita: nemmeno capace di seguire una ruota! Qui basta un attimo, una svista, e finire per terra può costare molto caro.

Ha ragione Mik, quando osserva che in pianura i chilometri scorrono via più veloci... Ma questo non basta a trattenermi dalla somma vigliaccata: di fronte alla possibilità di approfittare di una scorciatoia, scelgo la scorciatoia... Niente promontorio di Saint Tropez, non ammetto repliche e, alla rotonda, svolto decisa a sinistra anziché a destra. Mi dispiace, so che Mik non approva, anche se non commenta e si adegua. Prima o poi dovrò vincerla, questa smania che mi assale, questa fobia delle ore di luce che stanno strette. Non so esattamente quanto si risparmi, forse una decina di chilometri, ma dieci km a questo punto, in pianura, per me significano mezz'ora di marcia. Intanto il cielo si tinge di un blu via via più scuro, si vena di rosa; le ombre si allungano. Solo il traffico non accenna a diminuire, anzi. Ce ne liberiamo però all'improvviso, in modo per me inatteso: ovvio, io del percorso non so un bel tubo... Quindi giubilo quando abbandoniamo la strada di costa ed imbocchiamo un'ultima salita, molto dolce, sulla sinistra. L'impegno richiesto è poco, ma le mie forze sono proprio al lumicino, o meglio: sono senza benzina. In riserva fissa. Un'altra ciucciata al tubetto di latte condensato: lo zucchero servirà ancora. E s'arriva così alla rotonda, proprio quella dove, un bel po' di ore fa, Mik ha osservato che sarebbero mancati, adesso, diciassette chilometri. Qui in effetti il ricordo è nitido: e meno male... Gli stessi tabelloni pubblicitari, gli stessi vivai, lo stesso canale artificiale, la fine del giorno che accompagna la fine del giro. L'ultimo supplizio, attraversare Frejus e Saint Raphael, non senza dedicarci con accanimento alla pratica della rasetta al pedone, di cui vedo che Mik è un vero cultore. Io mi sento più baldanzosa quando sono in auto; in bici ho un po' più timore a puntare decisa verso il pedone che, del tutto arbitrariamente, decide di incrociare la mia traiettoria... Perché, instabile come sono, se cado mi faccio male anch'io! Ma le striscie pedonali sublimano in me tutto il furore che già ribolle per la petulante, chiassosa folla informe che mi circonda. Quei pascià e quelle matrone che attraversano con tutta la calma necessaria, guai a muovere appena più dell'indispensabile quelle grosse cellulitiche chiappe e levarsi d'intralcio! Sì, potete dirmi tutto quel che volete, che la strada non è solo delle auto o delle bici eccetera, ma in fondo la strada è una guerra e tra le varie etnie regna l'odio incontrastato. Tutti stirerebbero tutti ed io certo non faccio eccezione.

Sospiro di sollievo quando usciamo dal centro città. Ci restano alcuni chilometri di lungomare, verso una meta che ormai conosciamo già e non ci preoccupa più. La pelle ormai rabbrividisce, i raggi non ci scaldano più, e poi c'è la stanchezza, la fame. Per non so quale miracolo, il piccolo supermercato appena prima dell'albergo è aperto, oggi, domenica, alle sei del pomeriggio passate: Coca Cola, biscotti, yogurt e qualche altra maialata cioccolatosa per domani, siamo salvi. Un'altra cena tranquilla, quei meravigliosi momenti in cui finalmente mi abbandono alla pigrizia assoluta senza provarne rimorso, perché so che "oggi ho già dato", insomma, mi sono guadagnata la pagnotta ed anche il Camembert. Ed un po' di tristezza perché la prossima notte non sarà più così.

22/23/24 febbraio 2009 - Bici in Costa Azzurra - I giorno

Un'imperdibile offerta di televisori al plasma, che ammicca dall'ingresso ancora sprangato di un magazzino di elettronica, tutto giallo sgargiante, è il primo impatto con Nizza, intorno alle nove del mattino, poco prima, quando mi risveglio dal coma vigile di quasi tre ore di viaggio in autostrada. Cielo appena velato, vento freddo mi mettono i brividi appena scendo dall'auto: eppure MeteoFrance aveva promesso il sole... Lo spettacolo non è dei più accoglienti: grigio il cielo, squallido quel che si vede della città, solo una distesa di capannoni, palazzi in serie, l'autostrada. Il mare, chissà dov'è, non qui, poco ma sicuro. Ma la riva erbosa del canale che scorre proprio qui davanti è un luogo di passeggio per cagnotti: uno via l'altro, arrivano accompagnati in auto da pigri padroni che nemmeno scendono dall'abitacolo, per non prendere freddo; scorrazzano, annusano, fanno il loro giretto, tornano all'auto, scompaiono tra i sedili e via, si torna a casa. Un bellissimo pastore tedesco, un batuffolo di pelo bianco d'incerta origine, ancora un pastore tedesco con evidenti sintomi di problemi alle zampe, ma con una mamma umana, questo, più attenta e premurosa. In pochi minuti, una sfilata di quattrozampe: è dura, per me, resistere alla tentazione di coprirli di coccole uno per uno!

Anche oggi, manco a dirlo, sono prontissima e determinata... A seguire il mio navigatore umano, che seguirà il suo navigatore elettronico. Ha pensato a tutto Mik, proprio dall'inizio: ha avuto l'idea del viaggio, ha individuato la destinazione, ha pazientemente studiato i percorsi sulla cartina, li ha stampati e ne ha registrato la traccia sul GPS. La mia collaborazione in tutto ciò si riduce alla pura presenza fisica... Sono qui, un po' infreddolita, ma più ansiosa che mai di partire; mi basta agganciare i pedali e sono già nel mio mondo, quello fatto di bici e fatica e chilometri, in fondo quello che per me è vero e vivo; l'altro mondo, quello di casa e del lavoro e della vita borghese, è già sparito, inghiottito dal clack dello sgancio rapido, dimenticato come se non fosse mai esistito. L'unico collegamento con quel mondo, fino a lunedì sera, sarà qualche telefonata a mamma. Incredibile come, ogni volta, io riesca a convincermi che sto partendo per non tornare più, non perché abbia il presentimento di un incontro ravvicinato con un autotreno, ma solo perché sogno di poter passare il resto della mia vita così... E chi l'ha detto che solo i bambini possono inventarsi una vita parallela? Io ce l'ho, eccome se ce l'ho, ed ho anche la fortuna di poterci spesso sconfinare! Se lo raccontassi stando sdraiata sul lettino di uno psichiatra, mi rinchiuderebbero all'istante, ma non importa; Mik ordina di andar di là, quindi bando alle meditazioni, si parte! E come, si parte: una rampa feroce, seguita da una gemella ed accompagnata da una cugina. Non me l'avevano detto, che tutto il dislivello della giornata sarebbe stato compreso nel primo chilometro! Con cinque o sei chili di zaino sulla schiena, poi, è una goduria... Cuore in affanno, gola che brucia; mi alzo sui pedali con pochi risultati; mi conforta sentire che anche Mik, incredibile dictu, ha il fiatone. Va bè che lui, poveretto, è ancora preda della sua bronchite ormai cronica: i bacilli gli si sono affezionati, si trovano bene, non lo mollano più! Lo sforzo improvviso della salita dura, a freddo, incarognisce la sua tosse e permette a me di restare nei suoi paraggi per i primi, diciamo... Due chilometri? Forse!

Saltiamo a piè pari la città, salendo su in mezzo a due ali di ville dall'aspetto più che altro pacchiano e pretenzioso, a parte rare eccezioni di buon gusto, e nomi improbabili; non posso fare a meno di pensare alle case in pietra delle borgate di Elva, o ai comignoli fumanti dei paesi di Langa nella nebbiolina dell'autunno... Non cambierei una losa di quelle, con tutte le piscine, i colonnati, i colori sgargianti di questo luogo così chiassoso e sfacciato. No no, via di qui, verso l'entroterra. Man mano che la pendenza si raddolcisce, Mik ed io recuperiamo fiato e favella. In fondo qualcosa di bello c'è anche qui: ci sono i fiori, il giallo delle mimose sopra tutto, ci sono i profumi della primavera, ci sono i muscoli che ancora faticano un po', ma dovranno rassegnarsi, perché oggi tocca proprio portare su del peso in più. Pian piano, sullo sfondo compaiono le prime cime innevate, anche se sono lontane, anche se oggi, per fortuna, non andremo lassù. Ho voglia di caldo, di sole, quello che le nuvole oggi continuano a nascondere rincorrendosi in enormi cumuli grigi. Dai guanti lunghi e dal berretto di pile per ora non mi separo.

La strada si lascia alle spalle l'abitato; l'ambiente si fa brullo, spoglio, colline tondeggianti di terra grigia e cespugli avizziti, come se qui fosse passato un incendio: ma è solo l'inverno che ha lasciato traccia di sé, che qui, un po' più in alto rispetto alla costa, tarda ancora a cedere il passo. Saliamo lungo uno stradone ampio, quasi deserto, con pendenza dolcissima. Dovremmo salire, oggi, a quota 1200 circa, la Cima Coppi dell'intero viaggio: il piano originale contemplava un passaggio a quota 1.400, ma Mik, per fortuna, ha saggiamente deciso di essere magnanimo e ripiegare su un itinerario un po' meno gelido. Va bene che siamo a Sud e vicini al mare... Ma questo non basta a salvarci dall'assideramento, a febbraio!
Le gambe, come dicono i veri ciclisti, girano: frullano tranquille, senza sforzo, senza dolore, senza fastidio. Certo, questa salita potrebbe essere affrontata con ben altro passo: ma il mio pensiero fisso sono i centosessanta km in programma oggi, i duecento domani, i centotrenta dopodomani. Insomma, c'è poco da fare i furbi. Mik sì, lui può permetterselo; si allontana lentamente, alla chetichella, poi si alza in fuorisella e sparisce, un puntino nero che al massimo potrò rivedere alzando il naso a scrutare i tornanti sopra la mia testa. Per me invece l'unico comandamento è risparmiare...

Con manovra franca ed ardita, che richiede qualche minuto di pazienza e di equilibrio, afferro nella tasca posteriore dello zaino, senza fermarmi, la prima delle mie risorse alimentari; spezzo e scarto un quadretto della mia tavoletta di cioccolato bianco con miele e mandorle. Com'è ovvio, mi trovo in mezzo al nulla eterno ma, se m'azzardo a mettere in moto le ganasce, ecco che si materializza un inseguitore... Un ciclista, non più giovanissimo ma dai garretti promettenti, mi sorpassa di gran carriera; poco più avanti, poi, rallenta all'improvviso, tanto che gli ripasso davanti, non certo con intenzioni combattive, ma solo per seguire la mia strada. Pochi minuti dopo, rieccolo all'attacco; mi sorpassa un'altra volta, pestando come un forsennato, e se ne va. Ah ok, adesso ci sono; sta facendo qualche esercizio di scatti e riposo, insomma, non è scoppiato ma si sta seriamente allenando. In effetti, questo tipo di salita è invitante, ma io non posso permettermi fesserie. Sorrido, però, pensando a Mik quando s'accorgerà dell'inseguitore: dalla sua posizione, non potrà capire che il ciclista francese si sta dedicando alle ripetute; lo vedrà arrivare a spron battuto e schizzerà a sua volta via come una scheggia impazzita! Va bé, tanto Mik non patisce; potrebbe fare qualsiasi sforzo, tanto lo recupera in un attimo. Ha una fonte inesauribile di energie!

Si sale ancora in mezzo ai cespugli bassi e secchi; di fronte a me, sopra il tornante che sto per raggiungere, pochi metri più in basso della strada che poi passa su in alto, vedo un'auto che si direbbe parcheggiata: però, più che parcheggiata, è appesa, vista la pendenza spropositata del punto in cui s'è piazzata! Ci sfilo poi accanto e la guardo, da sopra: non ha segni di bolli né di incidenti... Forse un parcheggio senza freno a mano? Forse un tentativo discutibile di "tagliare" il tornante salendo su per il pendio? Boh, quel che è certo è che quell'auto, da lì, non si muoverà tanto facilmente.
Le collinette tonde lasciano poi il posto alla viva roccia: la strada si inerpica tra pinnacoli di pietra e gallerie brevi, scure, fredde, con lo spettacolo delle montagne offerto appena al di là del guard rail in legno. La giornata purtroppo non è limpidissima, altrimenti... Chissà che spettacolo!

Oltrepassato il colle, l'ambiente cambia radicalmente, lasciando spazio alle conifere ed alla neve. Ebbene sì, la neve è scesa anche qua; in quantità certi minore che da noi, ma ce n'è; ha ricoperto il pianoro ed imbiancato le montagne intorno come una spruzzata di zucchero a velo sul pandoro. E fa freddo qui: non ho voglia di fermarmi ed indossare la giacca, ma almeno i guanti lunghi ed il berretto, quelli sì.
E' vero che i Francesi li chiamano "colli": Col de Peyron, Col de Vence... Ma non son mica colli, questi! La discesa non ce l'hanno, o se c'è è brevissima; poi si torna a salire, o almeno a saliscendi. Pochi paesi dall'aspetto addormentato, le case con i muri chiari, illuminati dal sole, che sembrano intirizzite, colte da un inverno improvviso che non s'aspettavano. Muove solo qualche turista con gli sci, diretto chissà dove, speriamo non nella nostra direzione! Vence, Coursegoules, Greolieres, e meno male che c'è il navigatore, anzi, i navigatori! Dello stato delle strade, per ora, non ci si può proprio lamentare; l'asfalto è perfetto, appena un po' sporco nei tratti di bosco, ma è normale; solo che, più giù vicino al mare, a terra c'erano rametti di mimosa sfioriti, mentre qui ci son le pigne e la neve... Oltre alle immancabili bottiglie di plastica e lattine: mi viene in mente l'affermazione sconsolata che, tanto tempo fa, ho sentito esclamare ad un anziano francese; qualcosa tipo "Les cons sont partout". Ora, io non conosco la lingua, ma non credo ci siano molti dubbi circa la traduzione. Gli idioti, insomma, non son tutti in Italia!

Sto pedalando in compagnia, vero, ma sono un po' persa nei miei pensieri. Mi godo con un po' di stupore le gambe che girano senza lagnarsi: a questo punto, avremo percorso almeno una cinquantina di km? Non lo so, non riesco a rendermi conto né del dislivello, né della distanza accumulati. So solo che mi sembra di pedalare da un'eternità! Ma si sta bene, benissimo, e poi il pensiero di tre giorni di questa vita zingara mi mette le ali ai piedi. Ogni tanto penso anche alla doccia calda ed alla cena, ovviamente al sacco, in camera, che mi attendono per questa sera. Viaggiamo da un po' tra gli 800 ed i 1000 m di quota, credo, e la temperatura rigida si fa sentire. Per ora, mi limito a tirare su e giù la zip del gilet antivento; batto un po' i denti, ma guai se dovessi vestirmi e svestirmi ogni volta che s'inverte la pendenza! Già sono lenta come una lumaca...

Il colle questa volta giunge a sorpresa, appena oltre una curva. Una bella discesa liscia, dove posso, ancora una volta, impegnarmi a studiare la traiettoria delle curve così come mi ha suggerito un amico paziente. Già, il guaio è che qui è tutto bello e facile: pendenza minima, asfalto liscio come un tavolo da biliardo, traffico zero; posso spaziare da una parte all'altra della carreggiata, con l'unica preoccupazione di non tagliare la strada a Mik: altrimenti, se lo sinistro, chi mi fa da navigatore poi?

La discesa termina su un ponticello, dove ritrovo Mik alle prese con il suo enorme armamentario fotografico che non capisco come riesca a concentrare nel borsello da manubrio. Se non si fosse fermato lì, non avrei nemmeno notato quel che sta fotografando: uno splendido specchio d'acqua del torrente, limpido, verde e nero dai colori accesi, una conca quasi nascosta dalla vegetazione. Appena oltre, un bivio: ne approfitto per cacciar giù un altro po' di cioccolato, in attesa che Mik mi raggiunga e scelga la direzione. Il cartello del centro abitato indica Canaux, ma noi andiamo a destra, su per una strada che, sulle prime, sembra ripida e parecchio accidentata. Ci arrampichiamo tra una buca e l'altra; Mik parte e va via, io sbuffo e fatico un po' di più, quindi scelgo, come sempre, il ritmo del carro funebre. Rocce frastagliate, ghiaia e detriti e buche sul mio cammino; speriamo di non forare! Ma la salita riscalda un po' le membra intirizzite.
Siamo, annuncia Mik, circa a metà strada: ma probabilmente, aggiungo io, a più di metà del dislivello complessivo. Ci sono delle grotte qui nei dintorni, a giudicare dai cartelli; quel che conta, però, è che si torna a viaggiare, nella discesa successiva, in mezzo agli ulivi, alle margherite, ad alberi da frutto già carichi di fiori e profumi. Questa volta la strada è un po' più stretta ed impervia delle precedenti, ma ci riporta nell'ambiente che attendevo con più impazienza, quello caldo calduccio del mare. Non sento, per ora, stanchezza; sento solo l'euforia, mi godo il paesaggio, riesco persino a prender le discese in modo vagamente decente, cosa chiedere di più alla vita?

Anche i paesi che attraversiamo riprendono l'aspetto di abitati da clima caldo, per quanto io non ami molto i centri abitati; anzi, li amo tanto meno quanto più son grandi. Non mi soffermo mai molto ad osservarli: preferisco uscirne, il prima possibile... Di Fayence però non posso non notare il campanile squadrato, a forma di torre, con la campana sorretta da un'intelaiatura di ferro. Curioso!
Nello spazio di poche decine di chilometri, ne attraversiamo alcune, di queste tranquille borgate; poi, ahimé, ci resta la pianura: o meglio, una serie interminabile di brevi saliscendi, di quelli che sfiniscono le gambe, in mezzo al traffico: meno male che provvede Mik, come sempre, a mettersi davanti e fendere l'aria... Nonché a tracciare la via, sicura senza incertezze, nel caos totale di Frejus e Saint Raphael, due paesoni appiccicati l'uno all'altro. Città per me significa, all'istante, insofferenza allo stato puro: tutte queste auto, tutto questo rumore, luci, colori sguaiati, questo assurdo assembramento di gente, un carnaio sul lungomare... Potrebbe essere bello, questo posto, sbotto rivolta a Mik... Se solo sparisse completamente la presenza umana! So di non avere alcun diritto di sentirmi migliore di qualcun altro, ma non posso farci niente, il pensiero mi nasce proprio dal cuore: ma tutte queste vite che non hanno nulla a che fare con la bici, con la fatica, con la montagna... Che senso hanno? Lo so, è questione di punti di vista, basta sforzarsi di cambiare un po' il proprio, per comprendere almeno in parte quello altrui, ma no, non ci penso nemmeno; il mio punto di vista me lo tengo ben stretto. Passo oltre le teste, le pellicce ambulanti, i tacchi, le labbra colorate; oltre c'è il mare, placido e bellissimo nella luce del tardo pomeriggio. Se ne sente la brezza, mentre usciamo dal centro città e seguiamo la strada di costa, alla ricerca del nostro albergo. Mancano ancora un po' di chilometri di dubbiosa ricerca del nostro albergo. "Ti ricordi che si chiamasse Beausoleil?", mi chiede Mik, incautamente fiducioso nella mia memoria. "Sì sì, sono proprio sicura!". Infatti, si chiama Beau Site... Va bè, qualcosa di Beau in fondo c'era.

Non sono ancora le sei del pomeriggio: abbiamo macinato 155 km e circa 2.500 m di dislivello in salita; tutto sommato, per i miei canoni, abbiamo fatto molto in fretta. Non ci restano che la doccia e la caccia alla cena: un paio di chilometri a spasso sul lungomare ci regalano lo spettacolo di un bellissimo tramonto rosa e ci conducono al paese di Agay, dove troviamo un provvidenziale minimarket. La nostra cena: una scatola di Camembert da 250 g, da dividere salomonicamente a metà; pane; marmellata di mirtilli; biscotti ripieni al cioccolato; yogurt; il tutto innaffiato da abbondante Coca Cola. Ovviamente, le spartizioni spettano a Mik che, da buon ingegnere, sa azzeccare le proporzioni al millimetro. Abbiamo fatto scorta anche per domani sera, ma il secondo Camembert corre già ora un serio rischio...
Per me, questo è quanto di meglio potrei desiderare: abbuffarmi seduta sul lettone, senza riguardi per la forma e l'etichetta, senza patemi per le calorie, senz'altro pensiero che la pancia da riempire e la tappa di domani da studiare, anche se Mik l'ha già studiata tutta, l'ha già pronta sul GPS. Con buona pace delle insegne luminose, delle madame sul lungomare, dei locali che a quest'ora si staranno già affollando. Non cambierei il mio pane e formaggio con tutte le ostriche ed il caviale del mondo, a parte il fatto che sono vegetariana... Tornando con i piedi per terra, Mik ed io pendiamo dalle labbra della meteorologa della TV francese, che per domani promette sole ma... Raffiche di vento ad 80-100 km all'ora. La prospettiva mi terrorizza: eppure Mik pare sicuro che le maniche a vento, stilizzate sulla mappa della Francia, non riguardino la zona dove pedaleremo noi. Spero tanto che abbia ragione, perché a me sembrano piazzate esattamente lì!

...puntiamo la sveglia alle sette meno un quarto. Dieci ore e ventidue minuti all'alba, dice il mio telefonino: mamma mia... Ce la faremo a dormire dieci ore? Mik è scettico... Come volevasi dimostrare, l'indomani il trillo del cellulare ci strappa dal più profondo del letargo degli orsi. Altro che insonnia!

mercoledì 18 febbraio 2009

3 febbraio 2009 - Escursione serale al Colletto del Forno

Scarponi da montagna, ghette in prestito da Mik che sempre vede e provvede, bastoncini, zaino in spalla, luce frontale e via: ormai è sempre lo stesso, piacevolissimo rito che si va consolidando, nonostante le sferzate del maltempo ed i rigori della temperatura invernale, da inverno vero, cattivo, come non ricordo d'aver vissuto. Un'altra sera coperta di stelle ci accoglie per un'altra delle nostre scorribande notturne su sentiero: oggi tocca, almeno secondo i piani, al Colletto del Forno, itinerario con partenza dall'abitato di Pontepietra, nei pressi di Giaveno. Mik ha una fantasia inesauribile, che gli nasce anche dall'esperienza di amante della mountain bike: a me, che in bici non mi schiodo dall'asfalto, questo bagaglio culturale e cartografico manca del tutto.
I primi km sono su asfalto, ideale per fare un po' di riscaldamento e tenere il naso all'insù senza troppo rischio di inciampare. Attraversiamo borgate già assopite, pochi francobolli di luce alle finestre, qualche guardiano a quattro zampe che segnala, svogliato, il nostro passaggio. I tornanti secchi ci fanno mettere in saccoccia un bel po' di dislivello: mi vien voglia, come sempre, di avere i pedali. Più in là, le suole calpestano una salita tranquilla, per nulla minacciosa, in mezzo al bosco, a qualche avamposto di presenza umana, alla neve: sfruttiamo però le provvidenziali tracce lasciate da un veicolo che, chissà come, s'è arrampicato fin quassù. La pendenza non è mai preoccupante, anzi; par di fare una lunga passeggiata a quota quasi costante, anche se è evidente che un po' continuiamo a salire. Sulla destra, le luci scintillanti della bassa Valle di Susa, le montagne innevate che si distinguono nette, nero in basso e grigio della neve, contro il cielo, le luci di qualche pista da sci.

Raggiungiamo una borgata dove, a suon di fragorosi abbai, ci accoglie un buon numero di cani: come al solito, spero che il padrone di casa, spaventato, non pensi bene di uscire armato di carabina... Siamo matti, ma inoffensivi.
Poco oltre, un'altra abitazione, questa però senza dubbio deserta. Poi più nulla: solo il sentiero. E' buio, ma il riverbero della neve, riflesso di luce che arriva chissà da dove – dal fondovalle, dalle stelle? - rende superflue le luci frontali. Il bosco, i rami, i tronchi, formano figure a tratti minacciose, che sembra quasi di veder muovere all'improvviso, ma che tornano immobili non appena le si fissa di fronte. E fruscii di chissà quale animale. Seguiamo ancora le tracce del veicolo, mentre di fronte a noi, oltre ogni accenno di curva, si aprono pendii innevati, visibili distintamente, grigi nel chiarore della notte, belli da togliere il fiato. Fino ad una casermetta: le rotaie si arrestano qui. D'ora in poi, tocca invece camminare nella neve alta, seguendo la traccia di una strada che si vede salire dolce verso destra e poi sparire dietro una curva. Confesso che non ne sono per niente felice, anche se sapevo bene che questo sarebbe stato, presto o tardi, il mio destino. Benché abbia ormai sviluppato una sorta di abitudine, camminare nella neve così alta è per me una sensazione sgradevole, un'intensa fatica che non dà risultato, in incedere lentissimo, affannato, un continuo cambio di ritmo, una sofferenza per i muscoli delle gambe, costretti ad un movimento innaturale e sempre tesi a parare una caduta, a fermare gli scarponi che sprofondano. Anche qui la superiorità di Mik è netta: avanza agile, lui, senza peso; io mi sforzo di sfruttare l'impronta dei suoi scarponi, ma, nella stessa impronta, affondo ben più di quanto non sia successo a lui. Eppure il mio peso non può essere tanto diverso dal suo... Diciamo che per lui il peso è distribuito su un metro e novanta e fischia, mentre per me resta tutto concentrato in un metro e un tappo, come uno di quei pesantissimi fermacarte da tavolo. Però insomma, non è giusto, la fisica è sempre contro di me! Che iattura!

Arriva la fatica cattiva, se ne va il buon umore. So benissimo di non correre il benché minimo pericolo, so che, alla peggio, basta tornare indietro, ma non riesco a soffocare, in questi momenti, il mio senso di inadeguatezza alla situazione, che mi mette paura. Penso alla neve così alta qui, chissà quanto alta più avanti, chissà se e come ce la faccio... Non ho altro riferimento che le ghette di Mik: se non tengo gli occhi più che incollati alla neve, immediatamente mi inciampo e precipito a pelle di leone. L'importante è che non si allontanino... Altra sensazione assurda; dubito che Mik decida di abbandonarmi qui; non foss'altro che ho io le chiavi dell'auto! Nel buio, nel silenzio, sentiamo solo il rumore ritmico dei passi e del respiro. Che cosa assurda, patire questa inquietudine, eppure aver sempre più voglia di buttarcisi in mezzo.

Raggiungiamo un bivio, una tavola segnaletica: siamo dubbiosi, ma tentiamo la via a sinistra, che sembra a tutti gli effetti una strada migliore dell'alternativa a destra. Neve sempre alta, ancor di più se possibile; orme piccole e e tonde che segnano la traccia di una corsa forsennata, a zigzag, dal bosco al sentiero e slalom tra i tronchi degli alberi caduti a terra. Dal buio, sulla sinistra, spuntano i tetti di alcune piccole case; ci troviamo su una sella, un colle, di fronte ad un'altra cartina dei sentieri. Piccolo, irrilevante particolare: questa cartina non ci dice dove siamo! La scrutiamo entrambi nei minimi particolari, ma niente, nessuna traccia di un "voi siete qui". Così non abbiamo la certezza di essere sulla buona strada o no, anche se Mik, il navigatore, propende per il no. Pochi minuti di consulto, in cui il gelo e l'aria freddissima che soffia quassù si impadroniscono di ogni mio singolo ossicino: poi via, un breve tratto a ritroso fino al primo bivio, stavolta tentiamo a destra. Con mio gran dispetto, anche qui neve alta: c'era da aspettarselo, ovvio. Via in mezzo ai pini; dovrebbe attenderci un lungo traverso in quota. Ma...

Non appena il bosco si dirada, lasciando spazio al pendio sopra le nostre teste, ci troviamo di fronte ad un cumulo di neve. Nasi in su, non ci vuole molto a capire cosa sia successo: questa è una piccola valanga; se ne vedono ancora i segni, la spaccatura, proprio su sul pendio. Uno strato di neve, forse una decina di centimetri, per quel poco che i miei occhi miopi e la luce fioca permettono di capire, scivolato giù come un foglio di carta ed accartocciato sulla nostra strada. Guardando oltre, se ne vede un'altra. Soprattutto, si vede che la strada passa sotto ad un lungo tratto di pendio così esposto, fino ad una curva, e chissà dopo. Dubbio amletico... Che si fa? Una volta tanto, non mi sento così intimorita dalla situazione; mi sembra che la slavina sia piccola e, per quel che ne so, è improbabile che le slavine cadano di notte. Anche se qualche dubbio ce l'ho: è vero che è notte e fa molto freddo, ma l'acqua stenta a gelare stasera; se siamo intorno allo zero, è proprio per poco. Quasi quasi, sarei dell'idea di provare almeno a superare un pezzetto della mini valanga: ma Mik, che c'è già salito sopra, è risoluto nel decidere la retromarcia. Mi dirà, poi, perché ha avuto l'impressione, naturalmente nella fantasia, di vedere una mano spuntare da sotto la neve... Non so se una slavina del genere possa essere pericolosa, non so se sia stata prudenza eccessiva, fatto sta che, dopo aver messo una decina di metri tra me ed il cumulo, già mi sento meglio, più leggera. Apprenderò della saggezza della decisione domani mattina, quando mia sorella, montanara di più lunga data, mi farà il cazziatone per aver anche solo pensato di procedere. Pazienza, rinunciamo all'anello, torniamo sui nostri passi. E l'euforia mi scoppia in petto, anche se, da fuori, mantengo un contegno il più possibile rigoroso: niente di più gaudioso, in queste situazioni, che imboccare la via del ritorno lungo una strada che conosco già. Non si può dire, proprio no, che io abbia l'indole dell'esploratore: tutto quel che è nuovo mi preoccupa; mi ci butto solo se ho il conforto di una compagnia che metta buonsenso e cervello per entrambi. Zampetto nella neve con allegria; anzi, mi pare quasi di affondare meno... Allora è vero, mi sento leggera leggera, ma è proprio così! In un lampo, siamo al bivio; un altro lampo e riecco la casermetta, di cui noto solo adesso la dotazione di pannelli solari. Riecco le luci del fondovalle e le piste da sci illuminate sull'altro versante, le stelle e le scie grigie degli aerei. Chissà se, da lassù, qualcuno ci immagina qui.

La via del ritorno è lunga, perché la strada ha pendenza quasi sempre dolcissima; a perdere quota s'impiega un'eternità... Ma è tempo ben speso a pianificare i prossimi piani d'attacco, a piedi e in bici, curando anche di non pattinare troppo sulle lastre di ghiaccio.
I cani della borgata, questa volta, ci percepiscono con buon ritardo e non si scomodano più per avvicinarci; procediamo spediti, seguendo ancora le tracce del fuoristrada, fino a riguadagnare l'asfalto, i tornanti, le luci dei lampioni, il fumo dei comignoli. Ed infine la frazione dove ritroviamo l'auto: anche qui, dorme quasi tutto; solo il torrente Sangone schiaffeggia fragoroso le rocce del suo letto, schizzando poi via a fondovalle.

Mik consulta la sua base spaziale da polso; ne sono usciti sedici km, più o meno. Non male, affatto: se non fosse che, per slacciare gli scarponi, mi tocca ricorrere ad un prestito di dita: le mie sono gonfie e gelide! In compenso, però, il cervello, o meglio, la zona di esso che controlla l'appetito, funziona alla grande e mi fa ricordare che, dietro al sedile, dovrei ancora trovare un paio di sacchettini del biscottificio di Ceresole d'Alba: infatti... Baci di dama con lo zabaione. Non par vero: in fondo ce lo meritiamo, e poi dobbiamo pur reintegrare le scorte. No?

domenica 15 febbraio 2009

01/02/09 - Giro Sanremese

Eppur si muove. Anzi, no, eppure fischia: non è un moto di fantasia dell'autoradio, un improbabile ritocco della canzone che sta passando adesso, no no, è proprio un fischio. Acuto, allegro, sale d'intensità quando l'auto accelera, si quieta quando rallenta. Un risveglio un po' inquietante dal torpore che, durante un viaggio in autostrada, non risparmia chi fa da passeggero; soprattutto se tal passeggero ha dormito si e no quattro ore nella notte appena trascorsa e, per giunta, patisce un po' gli spostamenti a quattro ruote. Speravo fosse una mia allucinazione, eppure no: se ne accorge anche Mik, che spazza via ogni mia residua speranza spegnendo la radio e dando campo libero al cinguettio del motore. Sto col fiato sospeso e pendo dalle sue labbra: certo di motori ne sa più Mik di me; ci vuole ben poco, e poi lui lavora per costruirli, i motori, o qualcosa del genere. La diagnosi? Allora, parla, dimmi che ne sarà di noi! Taccio, perché si sa che tra motore e marito non bisogna mettere il dito; lo so che non si tratta di un marito, ma rende l'idea, insomma, mai intromettersi tra un masculo e la sua automobile! Però sono tormentata da una paura: cavoli, adesso qui se si spacca qualcosa in mezzo all'autostrada... Pazienza se ci si schianta, pazienza se si fa il gran salto dal viadotto, quel che è peggio è che ci perdiamo il giro in bici!

Il fischio continua, ma resta sempre uguale a se stesso. L'auto più o meno procede. Allora procediamo pure noi, con l'infallibile strategia dello struzzo: riaccendiamo la radio ed alziamo un po' il volume; il sibilo non si sentirà più. O quasi. E intanto si ripete lo stesso copione di tante e tante domeniche: il cielo che diventa chiaro, le immancabili ciminiere di Vado Ligure che annunciano il mare, il lungo tratto di autostrada per raggiungere Arma di Taggia con tanti splendidi scorci sulla costa. E, con lo sguardo distratto verso la mia destra, catturo in un attimo qualche chiazza di tenue giallo, le prime mimose in fiore. E già mi sembra di sentire il calore del sole, anche se è solo il riscaldamento della Y.

Dopo il primo appuntamento al casello di Ceva con Luca e Max, che ora sono da qualche parte nei paraggi, con le rispettive auto, ne abbiamo un secondo all'uscita di Arma di Taggia, con Fabio che troviamo proprio appena superata la sbarra. Seguiamo la sua Rover in un dedalo di incroci, svolte, rotonde: insomma, non abbiamo ancora iniziato il giro in bici che siamo già dispersi. All'appello nel parcheggio manca Max, che ritroveremo dopo un paio di vasche nella via della stazione ed un paio di telefonate. Fu così che, sotto un tiepido sole di un mattino di gennaio, si ammassarono sull'esterno di una rotonda cinque loschi figuri ed un GPS: nessuno di loro, nemmeno il GPS, aveva la più pallida idea di quale direzione imboccare. Chiosa Luca, con poche parole efficaci, dirette al povero Mik, creatore dell'itinerario per oggi: "Ma come miXXXia hai fatto a tracciare il giro? Hai detto al programma che volevi un giro con tot km e tot dislivello e l'hai lasciato fare?". Già, perché noi, che siamo un sacco più avanti, creiamo le tracce al computer... E poi regolarmente, nel tentativo di seguirle, va a finire che la diritta via si smarrisce, e allora sì che è cosa dura... Alla fine, qualcuno prende una decisione chiara; si parte, dritto avanti a noi. Io mi limito a seguire, visto che, come al solito, casco dal pero, non so chi sono, dove sono, dove voglio andare e perché... In compenso attacco bottone un po' con tutti e già in partenza vado in debito di ossigeno a furia di risate. L'età media anagrafica supera i trent'anni nella nostra banda, ma quella mentale non credo arrivi a tredici – quattordici... Si chiacchiera di un po' di tutto, dei miei buoni propositi di serio allenamento per il 2009, di forma fisica e ciccia, argomento su cui modestamente sono molto molto ferrata. Poi il fondovalle in leggera salita non manca di dare qualche bella bastonata sul cranio alla mia allegria: le gambe spingono meno, comincio a scalare rapporti, ad ansimare come un asino stanco, mi rassegno a veder partire ed allontanarsi i compari... Per fortuna, almeno Max e Fabio mostrano di aver pietà di me. Che orrore questo stradone ampio, appena appena in leggera salita, speriamo solo che finisca in fretta! Per fortuna, sono presto esaudita: svoltiamo a sinistra ed attacchiamo una salita su cui, finalmente, riesco a riconoscere la posizione sulla carta. Qui son già stata più di una volta; occhio e croce ci saranno quindici km di ascesa, forse qualcosa di più, verso il bivio per Colle Melosa, Termo Langan, che non ci toccherà, e poi verso Baiardo. Strada stretta, tranquilla, solo qualche Ape e pochi altri veicoli; strada che in breve ci solleva dalla pianura, mostrandoci così vicino il riverbero del sole sul mare. E' pallidino il sole oggi, ma c'è.

Sulle prime, frizzi e lazzi si sprecano. Esordisce Fabio, preoccupato per la situazione della sua sella e del canotto reggisella, che teme possano infliggergli la fine toccata a Fantozzi nella celeberrima scena del salto in bici alla bersagliera. Ci pensa un po' su e poi si lancia in una grave, profonda esternazione: "Dopo dieci anni di fidanzamento, mi sento pronto per nuove emozioni". A cui segue, davanti, un immediato rilancio d'andatura di Luca e Mik, evidentemente preoccupati. Io non so più dove sbattere la testa; i miei gregari sono una manica di depravati, e la capitana non è da meno, visto che ha già le lacrime agli occhi per le risate. Mik e Luca allungano, Fabio dietro: sarà l'ultima volta che Max ed io li vediamo, per l'intera salita. Dicono, dicono, ma poi son peggio dei bambini: uno attacca, l'altro risponde, il terzo insegue... Beati loro, che possono. Io no: mi rendo conto che ho già preso la salita con troppo sprint, sono già in affanno, sento le gambe indurirsi. La prima parte del resto è un po' più ripida. Cerco rifugio nelle chiacchiere, ma spesso mi manca il fiato, spesso è la preoccupazione di non farcela a farmi morire le parole in bocca. Pare incredibile, eppure a me ogni salita fa sempre paura. Devo concentrarmi sulla necessità di dosare le forze, rallentare un po', lasciare che le gambe si riprendano e ritornino agili, morbide. Così facendo, come sempre, perdo molto di quel che c'è attorno a me, perché non guardo il mare, né gli ulivi, né le poche case, non seguo le stradine che si perdono in mezzo al bosco, se non molto, troppo di rado. In compenso, tengo d'occhio le nuvole: se ne vedono un po' troppe; il cielo non è poi così blu, anzi, spesso diventa grigio, spesso su di noi cala l'ombra e porta un brivido sulla pelle nonostante la fatica della salita. La valle si stringe, toglie luce; la quota si alza, soffia un po' di brezza ed è fredda, anche se dietro di noi si vede il mare. Già, siamo un po' troppo lontani dal mare; io vorrei tanto il caldo...

Mi distraggono colpi secchi di fucile, prima lontani, poi sempre più ravvicinati, di quelli che scoppiano in testa e per un attimo fermano il battito del cuore. C'è qualcuno che spara nei paraggi della strada: quasi senza rendermene conto, allungo il passo, Max con me. All'ennesimo scoppio, alzo lo sguardo: poco sopra la strada, c'è un vecchio con una carabina; la impugna con una mano sola e fa fuoco, apparentemente a casaccio, verso l'alto, verso la chioma di un albero, e guarda di sotto in su. Questo è completamente andato: è il primo pensiero che mi balena in testa. Il secondo è filare via il più in fretta possibile, almeno oltre la curva, almeno da mettersi fuori della possibile traiettoria dei proiettili. Il terzo è il fortissimo desiderio di prendere quel disgraziato e collocargli il suo stesso medesimo fucile in luogo congruo...

Procedo con il cuore che batte all'impazzata: sarebbe una fine troppo troppo stupida, questa! Mi accorgo solo adesso che gli ulivi hanno lasciato il posto alla vegetazione d'alta quota, per quanto, da queste parti, alta quota significa circa mille metri. Mi sento davvero a casa quando riconosco un luogo già visitato tante e tante volte: il bivio da cui, a destra, si stacca la strada per Colle Melosa, certo adesso impraticabile per neve. C'è ancora qualche km in leggera discesa: tiro su la cerniera della felpa e mi lancio, come si confà ad un vero uomo... Ma anche i veri uomini ibernano: infatti, ci ripenso, mi fermo un attimo e mi imbacucco. Uffa, odio questa stagione, perché odio metter piede a terra troppo spesso durante le mie uscite; purtroppo, non c'è molta scelta. Così, rischio davvero un malanno, soprattutto ora che l'aria quassù è gelida ed il sole latita.

All'incrocio con la strada principale che va a Baiardo, ritroviamo i nostri amici velocisti, Mik, Luca e Fabio, in forma di stalagmite a due ruote. Ben vi sta: così imparate a darci quarti d'ora di distacco ad ogni salita, mentre Max ed io ce la prendiamo comoda.

Breve discesa allo splendido abitato di Baiardo, arroccato sulla cima di una collinona tondeggiante, e da lì giù per la lunghissima discesa verso Apricale, interminabile, gelida. Non c'è nulla da fare; impiegherò una vita a prendere confidenza con la bici nuova e, intanto, esagero con lo sfruttamento dei fantastici freni Cantilever: non azzecco una curva che è una; rischio la pelle un paio di volte per invasione della corsia opposta, ostinata aggravata e continuata; morale della favola, nell'era geologica che mi serve per giungere ad Apricale, Fabio ha avuto persino il tempo di prendere il caffé al bar. Che iattura.

Da Apricale ad Isolabona, fondovalle: tra un triangolo di Toblerone ed un consulto, si decide che di freddo se n'è preso abbastanza. Si va verso il mare, punto e basta; se il GPS ha qualcosa da ridire, sarà disattivato senza pietà. Via, di corsa, cercando di star dietro ai fuggitivi, prima Fabio, poi Luca: ma anche qui, la scarsa familiarità con la bici nuova fa sì che io accumuli distacchi enormi ad ogni minima curva, infliggendomi poi sforzi inenarrabili per riportarmi un po' più vicino alle loro ruote. Incredibile... Sento l'asfalto troppo troppo vicino, non piego nemmeno di mezzo grado, causo una pioggia di santi abbattuti dagli automobilisti costretti a schivare le mie ardite traiettorie. Meno male che Fabio, a Dolceacqua, propone una bella deviazione verso il cielo. E non manca di segnalarmi lo sguardo d'ammirazione ed interesse che mi giunge da parte di un autoctono al volante: sì, va bene che io ho la passione conclamata per gli uomini maturi... Ma questo è già proprio in via di decomposizione!

Fabio imbocca allegramente un ponticello, abbreviando di qualche anno la vita residua, presumibilmente già breve, dell'anziano pilota dell'auto che arriva nell'altro senso: poi via, tutti in salita, ora si torna a fare sul serio. Qualche rampa, qualche tornante, la strada che sale, finalmente l'asfalto illuminato di sole. Chissà dove va a finire questa stradina? In mezzo a case e case, pare. Max ed io come al solito restiamo indietro, a litigare coi pedali i rapporti e le rampe; scruto la collina a caccia di una possibile traccia del nostro futuro, ma è impossibile capire quale sarà la nostra meta. Strappi, tratti in piano, ancora strappi, cattivi ed improvvisi; Fabio a più riprese annuncia che "questo è l'ultimo", ma mente sapendo di mentire... E' comprensibile lo stupore dei cani da guardia nei giardini, alla vista di cinque strani individui variopinti, semoventi e starnazzanti. Villette, villoni, le più arretrate propaggini della vita di riviera, e poi innumerevoli affittacamere, sperduti quassù nel nulla. E mimose in fiore, e raggi caldi di sole, pazienza se faccio tanta fatica. Ci provo lo stesso, butto giù un dente, mi alzo sui pedali, e di qui la mia mente è tutta concentrata sul battito del cuore, il ritmo del respiro, un complicato gioco di equilibrio per capire se ce la farò o se le gambe s'inchioderanno. Ce la faccio: non a tenere le ruote dei fuggitivi, questo no, ma ad arrivare in cima in modo decoroso, con un pizzico d'orgoglio tutto mio. Sfilo accanto a Fabio, Mik e Luca, filo giù verso la discesa e un po' gongolo... Niente giacca, questa volta si resiste. Anche perché, dopo qualche km, basta discesa; Fabio ci guida verso sinistra, su per un'altra rampa. Fiera protesta di Luca, che vede vanificato il proprio paziente lavoro di pulizia della bici: oh insomma, cosa sono queste delicatezze? La butti sotto la doccia ed è come nuova, anzi, se vuoi te la lavo insieme alla mia! Segue profondo dibattito sul tema "il lisoformio come detergente per le parti meccaniche", altro tema su cui posso dire la mia, finché la pendenza non mette tutti a tacere. Questa volta, però, provo a vendere cara la pelle: è un periodo buono, questo; come sempre, io raggiungo il mio picco di forma a gennaio-febbraio, salvo poi registrare una caduta libera dei già magri risultati. Magnanimi, i colleghi mi permettono d'illudermi: potrebbero mollarmi lì come una cozza attaccata allo scoglio, invece no; mossi a pietà, mi consentono di giocare all'inseguimento, sbuffando, a suon di lacrime e sangue. E, quando le gambe stanno per cedere, arrivano parole di complimento ed incoraggiamento che hanno su di me l'effetto di una sferzata. Dentro di me, posso sfoderare un sorriso a 32 denti, anche se nella realtà me ne restano solo 29... Memorabile la volata finale, ispirata da Fabio e coronata da un fragoroso verso animalesco, forse un raglio d'asino, in mezzo al gruppuscolo di case!

Luca, Fabio ed io invertiamo la rotta per andare incontro a Max, che è rimasto un po' indietro: scendiamo, scendiamo e scendiamo ancora, ma di Max nemmeno l'ombra... Possibile? Ma dov'è finito? Non ci resta che fare ricorso a San Telefonino: Max, dove cavolo sei? Presto svelato l'enigma... Poco prima della vetta, una strada si staccava sulla sinistra e saliva su con una rampa paurosa. Max ha giustamente pensato che quegli squilibrati dei suoi colleghi non potessero andare a cacciarsi altrove... Ed ha imboccato la rampa. Va bè, pazienza, dice Max; voi andate per la vostra strada, io vado per la mia e torno al mare. Chiudiamo il collegamento un po' vergognosi e mortificati: almeno uno di noi avrebbe dovuto restare a presidio del bivio, ma ci siamo fatti prendere dalla foga...

Risaliamo con le pive nel sacco; al bivio incriminato, troviamo Mik che, cosa inaudita, è tornato pure lui un po' indietro, forse preoccupato d'essere stato abbandonato in mezzo al nulla. No, la rampa no, io non la voglio: tiro dritto... Ma i colleghi restano lì, incerti. A nulla vale il mio sguardo implorante... Oh insomma, volete proprio la rampa, e allora beccatevi la rampa. L'affronto io per prima, arrivando in cima per miracolo senza che la bici si corichi per terra ed i muscoli si strappino dalle ginocchia: passato il salto, la pendenza torna umana. Non così la strada, irta d'insidie, crateri, liane che pendono dal bosco, addirittura un lago enorme che occupa l'intera strada e mi costringe ad un'opera di alto equilibrismo per passare a piedi lungo il bordo. Insomma, destinazione ignota, percorso ad ostacoli, ma siamo proprio sicuri? Se ci riacchiappa Max, ci cambia i connotati... Il bello è che non sappiamo dove andremo a finire... Anzi, può anche darsi che non si vada da nessuna parte e tocchi tornare indietro! E' il pensiero che tormenta Fabio: "Se questa mulattiera finisce, il guaio è che ci tocca tornare indietro!". No, osserva Luca... Il guaio è che, se questa strada finisce, incontriamo Max! Tutti a cospargerci il capo di cenere per l'equivoco, ma ormai è fatta, inutile piangere sul bivio sbagliato. Rampe, buche, sassi, sabbia, ancora sassi buche rampe e sabbia, finché, dopo mille peripezie, riaffioriamo su una strada che sembra un po' meno indegna del nome che porta. Strada che scende da Perinaldo verso non so dove, ma è evidentemente la stessa discesa che abbiamo già fatto una volta. Infatti, dopo una dose di Toblerone, si riparte e s'arriva nello stesso punto in cui si stacca la salita su cui c'è stata l'involontaria scissione del gruppo.

Incredibile ma vero, nel tratto di discesa ricompare Max: manco ci fossimo dati appuntamento... La sua ira funesta non si abbatte su di noi, ma siccome 'ccà nisciun èffess', la pecorella smarrita rifiuta sdegnosamente di ritentare la salita di San Romolo. Ci separiamo allora un'altra volta, volontariamente; approfitto di un attimo di pausa dei miei colleghi per prendere un po' di vantaggio sulle rampe. Vorrei tentare di far bene un'altra volta, come prima... Ma stavolta tra i miei colleghi si scatena la bagarre. Mi sorpassa Fabio, a velocità impressionante, una scheggia impazzita rispetto a me che sono in piedi sui pedali e quasi ferma. Poi passano Luca e Mik, un po' staccati: ma contro Fabio così lanciato non c'è storia... Ora che queste curve le conosco già, vado comunque su più serena, anche se le gambe non mi concedono il bis: pazienza, faccio quel che posso, mi accontento di tenere il nemico sott'occhio, anche se ad una certa distanza. Le case, il ponticello, il bivio, la cima, tutto compare più in fretta se te l'aspetti già. E poi la discesa, folle, che culmina in un tratto dentro paese, quasi alla riviera, con pendenze inimmaginabili: i cartelli indicano 20%... Meno male che non lo sapevo, ma mi prende lo stesso il panico. E la furia omicida. Adesso che faccio? La bici nuova mi aiuta molto per la frenata, non per la gestione del mezzo, a cui non sono abituata; alla fine il terrore ha il sopravvento. Mi fermo, non so bene come; scendo cautamente di sella, mi avvio a piedi. Il tratto ripidissimo purtroppo è lungo; provo un paio di volte a risalire in sella, ma non c'è nulla da fare, il senso di vuoto è troppo accentuato. La banda sarà giù in fondo da un po'; chissà quanto stanno sghignazzando, ne avranno le scatole piene di aspettarmi... Me ne vergogno, mi arrabbio, ma non c'è niente da fare! Una madama assiste perplessa al mio ultimo tentativo di salire in sella e suggerisce, saggiamente, "Signorina, ma scenda a piedi!". Effettivamente, non ha tutti i torti...

Scornata ed arrabbiata, con me stessa ovviamente, raggiungo il gruppo, come sempre in paziente attesa. Nessuno irride... Sono troppo misericordiosi! Ci tuffiamo da Bordighera lungo l'Aurelia: un inferno di traffico, come sempre; panico allo stato puro per me che, alla mia mancanza di equilibrio, aggiungo la paura degli autisti della domenica, della massa di gente per strada, dei semafori, del caos. Meno male che la salita di Coldirodi ci salva almeno dall'attraversare tutta Sanremo: salva me, soprattutto, dalla cotta tremenda che m'è piombata addosso nel tentativo di mantenere, sui saliscendi dell'Aurelia, un'andatura decente. Non che io sia mai un fenomeno, ma quel tipo di tracciato mi distrugge in pochi minuti le gambe e l'entusiasmo: Coldirodi è una salita breve e dolcissima, ma ai miei quadricipiti in questo momento pare peggio del Mortirolo. Meno male che c'è Fabio a tenermi compagnia, c'è il mare, c'è il tepore della riviera. E presto ci si rituffa verso la costa, dentro quel carnaio che è Sanremo – la mia misantropia qui scoppia in tutto il suo vigore; vorrei che sparisse da qui qualsiasi forma di vita umana, subito... Ma mi sa che è più semplice se mi affretto a sparire io. Passo quindi accanto alla passeggiata, alla piazza da cui un paio di volte ho preso il via alla Granfondo Carlo Dapporto; riconosco il viale d'uscita e sto già meglio. Passa un motorino, Fabio si lancia all'inseguimento: Luca si fa scappare un commento di disapprovazione... E poi, con somma coerenza, si lancia pure lui. Io no... Non avrei speranza, e poi qui è già molto se riesco a stare in piedi dribblando tutti gli ostacoli, fissi e mobili.

Finalmente, via dall'Aurelia un'altra volta, via dalla caciara, dalle damazze impellicciate, dagli schiamazzi dei marmocchi, dai clacson sfrenati; si sale al Poggio. E' tutto il giorno che dichiaro di voler fare le ripetute sul Poggio... Beh, le ripetute non le avrò, ma almeno una volta le ruote lassù le porto!
Vorrei provare ancora una volta a salire bene, con buon ritmo, ma sento che fiato e gambe non mi accompagnano più. Questa volta è Luca che si presta a fare da lepre, ma la mia fatica è davvero tanta, anche se mi sforzo di mascherarla chiacchierando un po'. Me la ricordo corta, questa strada, ma sarà corta davvero? Arrivo su o crollo prima? Dai Gian, ancora uno sforzo, spingi ma non troppo, il Poggio è già qui. Stavolta mi fermo un attimo anch'io, per buttar la faccia sotto l'acqua della fontana. Manca ormai solo qualche km all'auto, ma non posso fare a meno di mangiare ancora una dose di cioccolato: sono in riserva fissa già da un po'...

Ha davvero dell'incredibile l'arrivo di Max che ricompare, per la seconda volta, dal nulla. Se ci fossimo dati appuntamento qui, non saremmo stati così precisi... Arriva, lui, dalla strada di Ceriana. A questo punto, bene o male, si può dire che abbiamo iniziato e terminato la giornata tutti insieme: restano infatti pochi chilometri ad Arma, alle auto. In tutto, poco meno di 30 km e circa 2.600 m di dislivello.

Anche questa volta non avrò la mia agognata passeggiata in spiaggia; in cambio, però, posso assistere al collaudo, da parte di Mik, della bici di Luca munita di pedivelle PowerCranks. Le proverei io stessa, se solo la sella di quella bici non fosse smisuratamente alta per me.

Poi è l'ora dell'abbiocco, dell'autostrada, del rientro. Ma al mare è solo un arrivederci: mi sa che il prossimo fine settimana saremo ancora nei paraggi!