venerdì 15 maggio 2009

9 maggio 2009 - Da Carmagnola al Col de Vars e ritorno in giornata

Ormai non manca molto alla data fatidica: 30 e 31 maggio, i giorni del Raid Provence Extreme, sono dietro l'angolo. E' con questo chiodo fisso che, già da una quindicina di giorni, stavo meditando ad un ultimo allenamento di quelli seri, lunghi, con la notte in mezzo da trascorrere in sella. La prima idea, spuntata quasi per caso nelle nebbie di un noioso pomeriggio di ufficio, prevedeva un giro che da Carmagnola mi avrebbe portata al Colle della Maddalena e, da lì, via Col de la Cuillole, Saint Martin Vesubie, Col de Turini ed altri, fino al mare, per poi rientrare via Langhe: peccato che avessi trascurato il piccolissimo particolare che, in mezzo a tutto ciò, c'è anche il Col de la Cayolle... Ovviamente chiuso, in questa stagione; anzi, scoprirò più avanti, chiuso per lavori fino al 2 giugno. Meno male che ci ha pensato Matteo a farmi aprire gli occhi! A dimostrazione della cura meticolosa con cui mi dedico alla pianificazione scientifica del viaggio...
Nessun problema; incassato il colpo, ho già in mente un'idea alternativa. Dalla Maddalena potrei andare al Col de Vars, scendere a Guillestre, svoltare per Embrun, girare attorno al lago di Serre Ponçon, passare a Barcellonette, risalire al Vars e da lì Briançon, Monginevro, Sestriere, Pinerolo, Bibiana, Montoso per gradire, Bagnolo, casa. Circa 520 km, a seconda delle alternative possibili nella zona del lago, per... Dislivello, boh, 7, 8 mila metri, a quel punto lì non fa gran differenza. Un programmino molto ambizioso, certo, ma in fondo non troppo distante, quanto ad impegno e sudore da spendere, da altri percorsi che più o meno ho già visto di poter portare a termine.
Ecco: se riuscissi nell'impresa, allora potrei avvicinarmi all'appuntamento di fine maggio, da quasi 600 km, con un po' di fiducia in più. La data prescelta per l'avventura, da incastrare tra una gara ed un viaggio e mille impegni sportivi già stabiliti, è il fine settimana del 9 e 10 maggio. Una volta tanto, caso più unico che raro, riesco a preparare lo zaino con un giorno di anticipo ed un po' di calma; ci metto un copertoncino di ricambio, il telo termico, una felpa, un berretto e guanti lunghi per la notte, luci, giacchino e bande rifrangenti, corredo di medicinali con antiinfiammatori, Muscoril e qualcosa per eventuali turbe del pancino, pappatoria in forma di barrette e cioccolato e gel energetici, soldini, documenti; in più, borsello anteriore da bici con giacca per la pioggia, macchina fotografica e telefono, e borsello sottosella con due camere d'aria e tutto il necessario per piccole riparazioni di difficoltà elementare. Purtroppo, manca l'elemento che sarebbe più prezioso in assoluto: la ragionevole certezza di trovare bel tempo, per me condizione indispensabile per affrontare sui pedali una notte in mezzo ai monti. Avventura sì, ma suicidio no... Non sarei preparata, né fisicamente né di testa, per una situazione del genere. Purtroppo MeteoFrance annuncia nuvole per sabato e peggio per domenica; idem, al di qua delle Alpi, Meteoitalia. Questo l'ultimo bollettino del venerdì. Ma il dubbio di poter rinunciare non mi sfiora nemmeno: ho deciso che vado e vado, punto e basta. "Torno domenica sera, non preoccupatevi", saluto così mamma e parenti vari, che ormai non si scandalizzano nemmeno più, e parto, fiduciosa che, se riuscirò almeno ad evitare la pioggia fino a domenica mattina, potrò poi andare a cuor leggero oltre il Monginevro. Infatti, da lì avrò comunque a disposizione vie di fuga per un precipitoso rientro a casa via pianura se la situazione dovesse davvero volgere al peggio.

Carica come un mulo da soma, mi chiudo il cancello di casa alle spalle sabato mattina, verso le sei e un quarto, col favore di un cielo appena velato, ma con l'animo listato a lutto per un guaio stupido combinato il giorno prima in ufficio; soprattutto, per la figuraccia barbina che poi ho dovuto affrontare in conseguenza. Confido che la bici porti consiglio e sollievo, ma per lunghi interminabili chilometri di pianura, fin quasi a Cuneo, non riesco a pensare ad altro; pedalo, pedalo, ma la testa è sempre lì, alla telefonata di ieri, quelle parole pesanti, "Non avrebbe dovuto succedere", e infatti è vero, non avrebbe dovuto succedere, non avrei dovuto commettere un pasticcio tanto idiota, non dopo cinque anni e mezzo di questo lavoro che in fondo non ha mai fatto per me. Se l'avesse fatto qualcun altro, avrei commentato "Ma questo la laurea come l'ha presa... Coi punti del Dixan?". E invece no, io l'ho presa con le mie risorse, quindi peggio ancora, non ho proprio scusanti!

Il parco verde e rigoglioso del Castello di Racconigi meriterebbe una foto nella luce del mattino, ma non ne ho voglia, non sono in animo. Anzi, non mi volto nemmeno a guardarlo, il castello; tiro dritto sotto il viale, tutto uno slalom tra buche e rattoppi di un asfalto che nemmeno il Terzo Mondo ci invidia. Cavallermaggiore, i pioppeti che recano ancora i segni dell'allagamento causato dalle piogge dei giorni scorsi, il fango che secca e si spezza con crepe profonde e nette; Savigliano, il negozio di bici nel capannone di periferia, il Maira gonfio d'acqua ancora grigia, torbida; un semaforo, prima pausa della giornata. Ancora rettilineo fino a Genola, ma non si passa in paese, solo in mezzo alla zona commerciale; poi ancora piattume fino a Levaldigi, l'aeroporto in mezzo alla campagna, ma senza aerei che partono o arrivano, peccato. Le montagne da qui dovrebbero già vedersi bene... Ma c'è una cappa grigia che avvolge tutto. Ancora piattissima piattura, Centallo; ancora una decina di km e finalmente Cuneo. E' solo qui, sul primo cavalcavia della giornata, che finalmente mi scrollo di dosso la malinconia: sarà che vedo la Bisalta, lo sento, mi si stampa in viso un sorriso da un orecchio all'altro, e chissà cosa penserà chi mi vede. Le montagne, le mie montagne! La Ridley non le aveva ancora viste così da vicino, lei che è nata a dicembre, in piena stagione di sci.

Il sole è calduccio, picchia qui sulla pianura. I monti però sono tutt'altro che limpidi e sgombri; anzi, c'è una coltre di nubi scure ad incappucciarli. Ma nulla sembra preoccuparmi sul serio, oggi, nulla che abbia a che fare con il mio viaggio. Magari il tempo mi sembra peggio di quel che è in realtà, perché sono ancora in pianura, da qui non posso giudicare; magari poi le nuvole si dissolvono, se ne vanno, chissà. Aggiro Cuneo per la strada che passa davanti all'Ospedale Carle; solo qui, dopo circa sessanta km, le prime tracce di pendenza. Borgo San Dalmazzo, Gaiola, Moiola: ancora saliscendi, traffico sì ma non troppo. Il cartellone luminoso all'uscita di Borgo annuncia solo alcuni lavori in corso: meno male, non dovrei trovare intoppi lungo la mia strada.
Temevo tanto il rettilineo da Festiona a Demonte, in leggera salita, uno di quei terreni su cui soffro l'impossibile: eppure in un attimo mi ritrovo nella via centrale del paese, con l'occhio che guizza tra le vetrine delle panetterie e dei bar, con particolare indugio su quella della celeberrima pasticceria Agnello. Ma chi si ferma è perduto, notoriamente, e in questo caso sarebbe pure condannato all'ingrasso. Procedo stoicamente; ormai la pianura è un ricordo, sono in valle, fa più fresco ma mi ci sento quasi a casa. E poi non sono sola: i camion di Lannutti oggi vanno su e giù in forze! Il loro telone verde è ormai di famiglia per me.

Procedo però con qualche sbadiglio di troppo: sarà che stamattina, a colazione, dopo i due etti e mezzo di tortellini ricotta e spinaci non ho preso il caffé. E' un senso di sonnolenza fastidioso, costante; spalanco le ganasce come i passerottini appena schiusi fanno col becco in attesa del vermiciattolo... Non dev'essere un bello spettacolo! Ma sì, in fondo è già da un po' che viaggio; potrei anche pensare di concedermi una sosta caffé, doppio ovviamente. Supero Aisone, azzeccando una volta nella vita il semaforo verde – ma non è che mi sia mai lasciata intimorire dal rosso, non in bici perlomeno. Ancora qualche km, Vinadio è già lì: sulla piazza centrale, accanto al distributore di carburanti, appoggio la bici al muro di un palazzo ed entro nel bar. Mi accoglie, dopo qualche istante, un signore anziano e simpatico: s'illumina quando mi vede in tenuta da ciclista, "Anche mio figlio va in bici, ieri è andato alla Maddalena, oggi là davanti a Demonte... Come si chiama...". Alla Madonna del Colletto: sono ancora belli gli occhi di quest'uomo, anche tra le rughe; brillano al nome del figlio. Chiedo un caffé doppio, ci annego due buste di zucchero; l'anziano mi chiede da dove arrivo, sussulta quando gli dico che son partita da Carmagnola e che vado al Vars... Tristemente profetico questo annuncio: mi fermo al Vars, perché è inutile che tenti di spiegare l'idea di un viaggio che nessuno potrebbe credere; non immagino ancora, ahimé, quanto ci sarà di vero in questa piccola bugia!
Resterei ancora un po' a chiacchierare; chissà quante cose ha da raccontare questo signore. Ma la strada chiama; lo sa, che io non posso resisterle. Così, zaino in spalla, ancora fuori, sotto un sole sempre più incerto, sotto gli occhi incuriositi di un gruppetto di persone sedute accanto al distributore, che per un attimo interrompono una dotta disquisizione sulle tariffe telefoniche. Col caffè doppio in corpo, spero mi passi la sonnolenza; sarà effetto placebo, sarà realtà, ma mi sento già meglio.

Di fronte al parco di Vinadio ed al Forte c'è un manipolo di ciclisti dall'aria poco agguerrita nonostante l'abbigliamento tecnico e le bici da cassaforte; mi sa che han voglia più di tintarella che di pedali. Breve discesa, passo davanti al bivio per il Colle della Lombarda: inesorabilmente sprangato, sia il colle che la salita al Santuario di Sant'Anna. Poi il falsopiano accanto alla Stura e le prime gallerie: le temevo, invece le salto senza fatica. Ad ogni piè, anzi pedale sospinto, mi è facile far la conta dei danni causati dalle piogge recenti ed abbondanti: ovunque si vedono tracce di frane, sulla strada o dall'altro lato della valle, alberi sradicati, spezzati e rotolati nel greto del fiume, tracce di lavori di contenimento fatti da poco. Piove, per ora solo in galleria; faccio lo slalom tra le pozze. Davvero, non me lo spiego: la salita alla Maddalena, dal lato italiano, è sempre stata per me una delle più indigeste, eppure oggi, malgrado lo zaino, non ho ancora abbattuto nemmeno un paio di santi. Supero Sambuco, raggiungo Pietraporzio; tengo d'occhio il cielo, che offre di tanto in tanto qualche francobollo di azzurro ma subito lo ritira, sdegnoso. Sul curvone che precede le Barricate mi superano due ciclisti più leggeri e veloci di me; come sempre, trattengo un po' il fiato... Per poi tornare a soffiare come un mantice quando ormai sono certa che non mi sentono più. Altrimenti rischio che chiamino il 118!

Le Barricate sono uno spettacolo che mi affascina tantissimo, ogni volta che le vedo, da quando, piccolina, venivo quassù a seguito degli adulti camminatori. Peccato che la galleria le nasconda alla vista, sono imponenti, quasi minacciose. La galleria tra l'altro è gelida ed in leggera salita. Quel che segue, poi, ormai lo conosco a memoria; Prinardo, il rettilineo del Villaggio Primavera, Argentera. Tutti chilometri che scorrono con inaudita leggerezza. Sarà merito dei tortellini al formaggio? O del caffé? Mah... Nell'ampio pianoro successivo, non c'è ancora traccia di campeggiatori; solo mucchi di neve, piccoli torrenti tra i pendii, una splendida fragorosa cascata. E si sentono le marmotte, le primissime: fischiano ossessive, vicine, ma non le vedo tra l'erba ancora secca di gelo. Povere bestie, temo che questa stagione non sia propizia per loro. Chissà se trovano già cibo a sufficienza.

Supero le voragini nell'asfalto di Bersezio, riempo la mia borraccia dal fondo muschiato ed attacco, finalmente, gli ultimi tornanti che portano su al colle, giusto in tempo per ammirare ed invidiare l'abilità di alcuni camionisti con i loro lunghissimi Tir. Un gruppo di scialpinisti torna verso le auto con gli sci in mano: che strano effetto... Ed io in bici! Curva dopo curva, raggiungo la Fontana di Napoleone, solo per accorgermi con tristezza che uno spigolo della vasca in pietra si è spaccato ed è caduto nella canaletta dell'acqua: effetto del freddo, o vandalismo?

L'ultimo chilometro prima del colle è spazzato da un vento gelido; intorno è ancora tutto bianco, il lago non si vede, ancora sepolto da uno strato di neve. Tutto tace, non c'è nessuno: tempo di indossare giacca e berretto e sono già in discesa, pensando che sì, tra poco pioverà, ma non ho intenzione di gettare la spugna solo per un sospetto. Discesa veloce, da brividi ma solo per il freddo; una comitiva di escursionisti protetti da spesse giacche a vento a Larche, qualche temerario ciclista in salita, qualche marmotta ancora intontita che resta a lungo immobile in mezzo alla strada prima di sparire in qualche invisibile buco nel terreno.
Come al solito, non c'è ombra di gendarme a sollecitare il rispetto del divieto di passaggio ai ciclisti; i semafori sono spenti, la frana non sembra aver voglia di scomodarsi, non oggi. Passo tranquilla, fino in fondo: al bivio per il Vars, svolto a destra, breve pausa per svestirmi e poi mi rimetto in cammino. Che emozione intensa, essere qui, ancora, dopo mesi e mesi. Eppure mi par d'esserci passata ieri: ormai sono le mie strade, queste; è casa mia. Anche qui, i primi chilometri, che di norma odio con tutto il cuore, scorrono e vanno via; il bivio per Tournoux, il ponte sul greto di un torrente che oggi, credo una delle rarissime volte da quando ci passo, accoglie un po' d'acqua, le due gallerie, il bivio per Saint Paul. Da qui si può dire che inizi la salita, a 8 km dalla cima, anche se poi quelli duri sono gli ultimi 5. Il cielo, boh, adesso non se ne vede più. Solo nuvoloni gonfi e scuri. Eppure non riesco ad essere preoccupata: sono semplicemente felice di essere qui. E' tutto bellissimo, anche se qualche goccia sta già scendendo: anzi, altro che qualche goccia, questa è una doccia in piena regola! Un minuto o poco più di solenne lavata, manco fossi finita sotto il getto di un irrigatore da giardino. Ma no, non è ancora ora: io sul colle ci arrivo, punto e basta! Poi mi sa che mi fermerò lì, tornerò indietro, perché la prospettiva della notte sui pedali in queste condizioni è un'idea che va al di fuori delle mie capacità di sopportazione. Certo, dovrei prima o poi vivere anche quell'esperienza. Ma poi? Se scendo a Guillestre e mi ritrovo sotto il diluvio, al freddo? Che faccio? Non sarei in grado di continuare. Sarebbe pericoloso e basta. No, va bene la fatica... Ma cacciarmi nei pasticci, no.

Ponticello, poche case, siamo a meno cinque. Sono pronta a stringere i denti... Ma non ce n'è bisogno, oggi le mie gambe accettano davvero ogni maltrattamento; anche qui, con la pendenza secca e costante, lavorano di buona lena, senza lagnarsi. Mi fa compagnia qualche motociclista avventuroso; ciclisti, per ora, nessuno. In un battibaleno sono su, al colle: il bar qui è aperto, ne approfittano due turisti tedeschi in cerca di conforto alimentare. Io no, devo decidere hic et nunc: Guillestre e l'ignoto, oppure indietro e casa? In realtà la risposta la conosco già. Sollevo la bici, la ruoto di 180°; mi metto la giacca e riparto. Piove. Beh... Almeno mi tolgo il dubbio.

Al primo tornante in discesa, incrocio una ciclista che sale con passo impressionante: molto alta, magrissima, tutta vestita di nero, maglia e pantaloni lunghi. Alla faccia del bicarbonato, che ritmo! Beata lei... Scendo abbastanza tranquilla grazie ai freni della Ridley, che anche sul bagnato non tradiscono. Il tratto finale, prima del bivio con la strada che va alla Maddalena, offre un momento di tregua dall'acqua, ma illusorio. Faccio appena in tempo a notare, in direzione di Jausiers, un cartellone giallo che annuncia la chiusura del Col de la Cayolle fino al due giugno: ah ecco... Non è colpa della neve bensì dei lavori in corso.

Mestamente riprendo la salita: 16 km al colle, poco più. Pioviggina. E mi basta superare i primi due tornanti ed infilarmi nel vallone, per scoprire, con sommo disappunto, che tira un odiosissimo vento contrario. E' forte, agita le fronde dei pini, respinge i miei sforzi per andare su; quando incrocio un camion, la somma dei due spostamenti d'aria fa paura. Solo una pausa alla prima fontanella sulla sinistra: riempo la borraccia e ci metto dentro un avanzo di maltodestrine di una busta raccattata a chissà quale gara di chissà quanti anni fa. Non so se servirà a qualcosa... Ma il gusto dell'acqua pura non lo sopporto più. E' già da un bel po' che sogno la Coca.
Riparto litigando con il vento e la pioggia sulle gambe, mannaggia a me che proprio oggi ho abbandonato i ¾; ripasso a Meyronnes, salgo ancora, e intanto faccio i conti per la sera: dunque, una campana ha appena suonato le quattro; sarò su alle cinque meno un quarto-cinque, poi con quest'acqua impiegherò una vita a scendere, e una tappa da Agnello già che ci ripasso davanti vuoi che non la faccia? Insomma, va a finire che una parte almeno della statale tra Cuneo e Carmagnola me la sciroppo al buio. E va bè, pazienza, di qualcosa bisogna pur morire prima o poi.

A Larche qualche anima viva ed infreddolita c'è, per quel poco che riesco a vedere attraverso le lenti degli occhiali bagnate. In realtà non penso che la temperatura sia poi così bassa; il guaio è che io sono bagnata e, come se non bastasse, il vento raffredda ancora la pelle. Eppure, anche ora, per l'ennesima volta nella giornata, ho la sensazione che le distanze si siano accorciate; di solito, da Maison Meane fino al colle, quei tre o quattro km mi parevano eterni... Incrocio qualche camion che, suo malgrado, contribuisce a farmi la doccia; guard rail e bastoni segnaneve a bordo strada divelti ed abbandonati giù per il pendio: dev'esserne scesa tanta di neve, quest'anno!

Un po' stufa ed infreddolita, arrivo finalmente al colle; intorno a me è tutto grigio e sembra già tarda sera, quando in realtà non saranno nemmeno le 5. Cerco un minimo riparo, del tutto illusorio, sotto lo spiovente del tetto del piccolo chiosco di liquori, ovviamente chiuso; solo per scuotere via un po' d'acqua ed aggiungere la felpa sotto la giacca. Da un camper parcheggiato sul piazzale scende un omino tutto intirizzito, chiuso nel suo giaccone: mi scruta un po' da lontano, mi gira intorno, poi conclude evidentemente che non mordo, perché cauto si avvicina: "Coraggiosa", osserva strabuzzando gli occhi... "Ma non fa troppo freddo?". Ecco, mannaggia a me che non conosco il francese. Altrimenti gli risponderei: "Ma no, si figuri, io vengo quassù ogni volta che piove, adoro il clima tropicale caldo-umido di questo posto"... Li mortacci tua, certo che fa freddo; fa un freddo porco, ma io son quassù e non posso fare altro che scendere! E non è coraggio... Il coraggio c'è quando puoi scegliere se fare o non fare qualcosa di rischioso o comunque disagevole, e scegli di farlo; io di scelte qui non ne ho, sono obbligata ad andar giù. Anzi, l'imperativo è sbrigarsi, perdere quota il più in fretta possibile, perché già solo a Pietraporzio la temperatura sarà più umana, il vento meno violento. Più mi fermo quassù, più mi raffreddo.
Lo spettacolo è inquietante: si vedono solo sfumature di grigio, l'asfalto, la neve sul lago, la nebbia, tutto grigio. Vado incontro alla Siberia, forse così la supererò più in fretta! Confido nei freni Cantilever, l'osso del collo qui dipende solo da loro! Infatti non mi tradiscono; nonostante la pioggia battente, fanno imperterriti il loro dovere. Uno, due tornanti: è un guaio cercare la traiettoria quando non si vede un cappero... Maledetta miopia. Ancora un tornante e strabuzzo gli occhi: ci sono ciclisti che salgono, in tenuta estiva... Non mi sembra che siano esattamente il ritratto del benessere, anzi, mi sembrano proprio male in arnese! Avranno al massimo un giacchino antivento leggero nelle tasche, ammesso che ce l'abbiano... Uno di loro, chiuso faticosamente il curvone, mi fa "Com'è su?". Ma dico io... Ci sei o ci fai? Come vuoi che sia, su, ad un chilometro e mezzo da qui? Diluvia, esattamente come qui! Di peggio sul colle c'è il vento più forte... Ma non sono certo in animo di restare qui a consigliar loro il da farsi: sono in quattro, che s'arrangino! Io me la squaglio... Tornante dopo tornante, scendo giù e di tanto in tanto ho l'impressione che l'intensità della pioggia si attenui, ma è solo un'illusione: dipende dalla direzione del vento.

Le buche in mezzo all'abitato di Bersezio sono ora dei veri laghi; lungo la strada che attraversa il pianoro incontro qualche viandante a spasso con gli ombrelli, chissà da dove arriva e dove va! Nuvole basse e sfilacciate avvolgono le cime, solo ad Argentera qualche traccia di vita. Il lungo rettilineo del Villaggio Primavera, quegli obbrobri costruiti chissà quando, lasciati lì a metà, a perenne monito; le barricate, la galleria, unico momento asciutto. Scendo con cautela, ma sicura della morsa dei freni; ancora Pietraporzio, Sambuco, le altre gallerie. Questa volta sta smettendo davvero: la giacca non cola più; il Goretex si asciuga in pochi minuti! Fosse vero... Ne ho abbastanza, per oggi, di pioggia. Beh, se smette potrei... Potrei, cosa? Forse salvare l'idea della notte in bici? Potrei forse salire alla Madonna del Colletto, poi tornare giù, magari andare verso Caraglio e Montemale e poi nel Saluzzese... La tentazione è forte. Ma, c'è un ma. Il cielo sta concedendo una tregua, ma non pare avere in animo di tornare sereno. Se non torni a casa subito, Gian, rischi che la pioggia riprenda, magari si estenda alla pianura, visto che le previsioni meteo per domani annunciavano un peggioramento; rischi di ritrovarti a dover comunque tornare per la via più diretta, la statale, con la visibilità ridotta ad un nulla, sia per te che per gli automobilisti. Insomma, rischi di farti passar sopra. Ne vale la pena? No, non ho ancora concluso la domanda che mi sono già data la risposta da sola.

La breve risalita di Vinadio mi riscalda un po' le ossa; le mani riprendono una parvenza di vita. Da lì ad Aisone c'è da pedalare un po'; idem verso Demonte. Ci arrivo dopo aver superato una Cinquecento ferma in mezzo alla corsia con le quattro frecce: l'ho superata lentamente, guardando nell'abitacolo per capire se qualcuno potesse avere bisogno di aiuto... Ma mi sono sbagliata: la madama al volante ha bisogno sì, ma di un ottimo psichiatra! Ma guarda tu se 'sta deficiente si deve inchiodare in mezzo alla strada per appendersi al telefonino... Insomma, donna al volante, ho detto tutto!

Adesso però niente eroismi. E' vero che sono le sei e mezza del pomeriggio passate da un po' e non mi restano molte ore di luce, e che sono a più di ottanta km da casa, ma sono anche fradicia, infreddolita ed affamata. Sì, anche affamata; è un bel po' che non metto nulla sotto i denti. Qui non fa più molto freddo, ma gli abiti umidi non aiutano. Insomma: una bella sequela di scuse per giustificare la sosta da Agnello. Appoggio la bici alla vetrina, con tutte le cautele, per la vetrina, non certo per la bici che non patisce; così da dentro potrò vederla. C'è un certo viavai sotto i portici; non si sa mai... Mi tuffo al caldo del bar, ordino una cioccolata calda bollente: il barista mi mette sotto il naso una tazza che potrei quasi tuffarmici a bagno; caldissima, buona da matti, farei già il bis ancor prima di aver dato fondo a questa. Mi scalda lo stomaco ed il cuore...
All'improvviso, un inconfondibile rumore di bici che si sposta. D'istinto, guardo fuori: c'è un tizio che ha per mano la mia Ridley! A rischio di ustione di terzo grado, mollo la tazza sul bancone e mi fiondo fuori, poco ci manca che gli metta le mani addosso: "Giù le zampe dalla mia bici, cosa diavolo sta facendo?". Mi guarda, impassibile: "Lì non deve stare". Ma dico io, pezzo di imbecille che non sei altro... "Scusi ma Lei è il proprietario del bar? No? E allora si faccia gli affari suoi e non si azzardi a toccare un'altra volta la mia bici!". Imbestialita, rimetto la mia Ridley dov'era prima, cioè appoggiata alla vetrina; rientro a finire in fretta e furia la mia cioccolata, sotto lo sguardo perplesso del barista che, evidentemente, non può capire la ragione della mia rabbia. Ma non riparto senza una piccola scorta alimentare: quattro dolcetti, due con la marmellata e due con il cioccolato, saranno il mio sostentamento fino a casa. Uno fa immediatamente una pessima fine: che buono... Spero che il pancino, per un po', smetta di reclamare.

Sotto gli occhi interrogativi dei turisti della domenica pomeriggio, improvviso un rapido spogliarello: via i pantaloni invernali, tra l'altro un vecchio paio di due taglie più grande rispetto alla mia; via la giacca fradicia; finisce tutto nello zaino, alla rinfusa. Sette e dieci, dal bar di fronte mi squadrano: tra un po' chiedo se qualcuno vuole dieci euro...
Riparto di gran carriera per la parte più odiosa del viaggio. Il cielo è ancora bigio, ma non piove più. L'asfalto è bagnato, l'aria pesante, carica di umidità. Falsopiano, tratti in leggera salita, vento contrario, inquietudine che sale: chissà fin dove riesco ad arrivare con un po' di luce? Ormai sono abituata a pedalare al buio, è vero, ma la strada tra Cuneo e Carmagnola fa paura già in pieno giorno... Borgo San Dalmazzo, il bivio a sinistra che taglia fuori l'abitato; a ritroso la strada di stamattina, le nuove rotonde della circonvallazione di Cuneo, l'Ospedale Carle, fino ad arrivare alla rotonda del Ponte dei Sospiri: pesto sui pedali come una forsennata; sono nel pieno del traffico serale, devo avere dieci occhi. Il giorno se ne sta andando; le nuvole lasciano spazio ad un po' di azzurro molto tenue, adesso. Malinconica mi lascio Cuneo alle spalle: guardo il cartello, 31 km a Savigliano. Bene dai Gian, Savigliano, prendila come meta intermedia. Di qui in poi è tutto piattume e lunghi rettilinei; vento, maledetto vento contrario, provo a forzare ma non serve a nulla, troppo forte, troppo teso contro di me. I rami degli alberi si piegano, lo spostamento d'aria causato dai veicoli più grossi è amplificato; l'ansia cresce, il timore di non farcela, non farcela poi a far cosa? Qualche decina di km in pianura? Solo passando nei paesi mi tranquillizzo un po': Centallo, Levaldigi, poi Genola che non arriva mai, ancora vento e rabbia e cuore che batte troppo forte. Mi fermo a bordo strada, indosso il giacchino e le bande rifrangenti, sistemo le luci. Telefono a casa: "controordine, rientro stasera, credo verso le dieci e mezza". Dall'altra parte, un semplice OK: beh, finalmente non c'è più nessuno che si stupisca, né che stia in pena per me. Riparto, appena più serena: è quasi buio quando arrivo a Savigliano, è buio del tutto quando supero la discoteca di Cavallermaggiore. Passo in mezzo al paese: per quanto posso, sfrutto le luci dell'illuminazione pubblica evitando la statale. Quasi mi diverto a guardar le facce del popolo del sabato sera che si sta accalcando all'ingresso di bar e birrerie... E mi sento immensamente felice di essere nei miei panni, non nei loro! Anche se ora mi rituffo sulla statale. Adesso sì, viene il bello. Da qui a casa ci saranno venti km, ma il primo tratto non si può definire "strada": è un'accozzaglia continua di rattoppi, rattoppi dei rattoppi, buche, fessure, a cui fare la massima attenzione servendosi solo della luce del manubrio e di quella frontale. Ho il cuore in gola: conto i metri che mancano all'imbocco della nuova circonvallazione di Racconigi. Le auto mi sorpassano con una certa cautela, indubbiamente superiore a quella che usano di giorno, ma io ho il terrore di cadere su questa specie di pista delle montagne russe; sarei rovinata...
La rotonda, finalmente. Qui sulla circonvallazione, l'asfalto è perfetto; non mi illudo che duri, ma forse per qualche mese dall'inaugurazione terrà. Non passa nessuno, la carreggiata poi è molto ampia; posso prendere fiato, ascoltare il buio, i grilli ed il fruscio dell'erba. In cielo, persino qualche stella; laggiù in fondo, piccole piccole, le luci di Carmagnola. L'ultimo tratto insidioso è proprio quello tra la fine della circonvallazione e la mia città: ma è solo un chilometro... Ci siamo, è fatta, anche stavolta m'è andata bene. Sono le dieci: meno di tre ore per ottanta e rotti km, non me lo sarei mai aspettato; potere della fifa! In tutto, 315 km per circa 3.400 m di dislivello in salita e meno di 16 ore. Per il momento, il naufragio del mio progetto di viaggio non riesce proprio ad affliggermi: e, se anche ci riuscisse, la porzione di risotto con i fagiolini, gentil pensiero di mia sorella, basterebbe senz'altro a lenirlo. Il tempo di meditare il giro in bici di domani... E si va a nanna. Con un pensiero fisso però: ci riprovo, oh se ci riprovo!

domenica 10 maggio 2009

6 maggio 2009, sera - Genova, camminata notturna a Punta Martin

"Due pezzi di quella lì con il pomodoro... Due di quella con il formaggio... E ancora due di farinata". Il mio cagnone e Matteo hanno una caratteristica in comune: per farli contenti, basta metter loro qualcosa di buono tra i denti. Con la differenza che per Skipper vado a caccia di biscotti a forma di osso, mentre con Matteo vado sul sicuro con un bel carico di focaccia. Che poi, diciamola tutta, stasera farà molto comodo anche a me. Io di pizze focacce & affini vado letteralmente matta e, per giunta, sono senza cena dopo un pranzo a base di pomodori con olio aceto e sale: ottimi ma non proprio energetici. Ormai ad Arenzano sono di casa; le focaccerie le becco a colpo sicuro. Anzi, le esploro con tale dedizione che all'appuntamento sul piazzale dei bus di Voltri, alle 19, riesco ad arrivare un po' in ritardo rispetto a Matteo. Puntualissimo, lui: è già lì con la bici, che in un attimo e qualche tribolazione meccanica scompare inghiottita dal bagagliaio della Opel. Si parte per gli ultimi, per me, km di auto: destinazione Acquasanta, il paese che un giorno al mio compare ciclopodista dedicherà una targa, "Qui visse Matteo...". Una stradina infame, minuscola eppure con un traffico degno della tangenziale di Milano all'ora di punta!

Sulla piazzetta del minuscolo paese, con vista sui bellissimi archi dell'imponente ponte della ferrovia, mettiamo in moto le ganasce per far sparire la prima rata di focaccia: meglio consumare prima quella al formaggio, sentenzia Matteo, che poi se s'asciuga non è più buona. Ho la bocca troppo piena per ribattere, ma, tra me e me, penso che questa roba qui sia talmente libidinosa che resterebbe ottima anche dopo due giorni!
Son quasi le sette e mezza quando abbandoniamo la Opel. Pieno alle borracce e via: passiamo di fronte al Santuario, che ovviamente non può che chiamarsi "Nostra Signora dell'Acquasanta", e ci arrampichiamo per un sentierino di cui mai avrei indovinato l'esistenza. Dal giardinetto della casa accanto, un grosso micio dal pelo lunghissimo ci squadra con aria interrogativa. Si litiga un po' con i rovi e s'arriva ai binari, da superare con atletico salto della ringhiera e rapida corsa dall'altra parte. Ma guarda tu... Non avrei mai e poi mai detto che in questo buco di posto, non me ne voglia Matteo che ci vive – lo sa, che mi ci trasferirei di corsa anch'io, in un posto così – ci fosse una stazione. E pare anche ben servita! Da lì in poi, il sentiero alterna tratti chiusi nel bosco a tratti che offrono una bella vista sulla vallata e sul mare; la pendenza per ora non si sente, la fatica nemmeno, distratta dal racconto della partecipazione di Matteo in Sardegna ad una sorta di raduno di speleologia, o qualcosa del genere, nel ponte del 1° maggio. Raduno ben riuscito sia dal punto di vista del lavoro che dell'esperienza personale, a quanto pare: però, tre giorni di festa e di forzata lontananza dalla bici io non li potrei mai e poi mai concepire!

Matteo è sempre di compagnia, chiacchiera volentieri anche quando io non ho più gran fiato per rispondergli. Superiamo una casa isolata in cui fa la guardia uno splendido pastore tedesco che ci accompagna per tutto il perimetro della recinzione.
Rumori di foglie e rami spezzati: dall'altra parte del canalone saltano via alcuni camosci, forse disturbati dal nostro passaggio. Per ora riesco più o meno a tenere il passo di Matteo, che si preoccupa di non esagerare: meno male, perché ho una gran voglia di camminare, ma non di far le corse come se fossi in gara. Qui il sentiero lo consentirebbe ancora, ma io preferisco distrarmi con i fiori ed i profumi portati dal vento. La temperatura è gradevole: pensavo, a dire il vero, che avrei trovato più caldo... Nel profondo della piana carmagnolese, oggi il sole era feroce, per non parlare poi della cappa di umidità!
Sembra di non guadagnare quota, eppure le luci del mare sono sempre più lontane, laggiù in fondo. Si vede la costa, mentre la luce pian piano perde d'intensità e noi sbuchiamo fuori dal bosco, su sentiero ormai scoperto che si fa via via più impervio. Osservo con invidia ed ammirazione Matteo che si muove da una roccia all'altra con sicurezza e passi leggeri, come se davvero non avesse peso, come se avesse per chissà quale inspiegabile ragione la certezza che non inciamperà e non cadrà: io invece inciampo e cado anche procedendo a quattro zampe. Ho dimenticato i guantini da bici e mi sto già scorticando le mani, preziose tanto quanto i piedi, in queste circostanze, se non di più. C'è davvero qualcosa che mi sfugge; l'equilibrio è una dote che non mi è stata consegnata, proprio mai, nemmeno un briciolo. Se su queste rocce provo a camminare in posizione eretta, come sarebbe appena normale, ho la sensazione di barcollare ed infatti rischio ad ogni piè sospinto un incontro molto, troppo ravvicinato con il sentiero; inoltre, più il tracciato si fa scosceso e leggermente esposto, più devo concentrarmi per non guardare altro che la punta dei miei piedi, a pena di sentire subito il senso di vertigini e le gambe molli. Ora che il gioco si fa duro, i duri rallentano a dismisura, anche perché ad ogni metro devo studiare prima dove mettere i piedi, poi dove piazzare le mani, spesso anche dove posare il didietro che, data la dimensione importante, è un ottimo punto d'appoggio con cui sollevare il mondo, o almeno me stessa. Il mio povero compagno d'avventura si allontana un po', poi si ferma desolato, aspetta con la pazienza di Giobbe, e la barba sul suo viso intanto s'allunga a vista d'occhio. Ogni tanto mi porge un appiglio caritatevole in più... Meno male che ci distrae il tramonto, la cerchia delle montagne sempre più scure, il sole che va giù, si nasconde dietro alle cime, fino a ridursi ad un minuscolo spicchio color rosso fuoco, che in un attimo ci lascia, pure lui. Non possiamo fare a meno di fermarci un attimo ad ammirare lo spettacolo. "Arriviamo in cima con la luce", Matteo è fiducioso: io un po' meno... Anche perché non so bene dove sia, la cima; ho rinunciato ad individuarla, anche perché tutto ciò che sembra cima non lo è, ne nasconde un'altra ed un'altra ancora. Qui il vento è più forte e gelido; in cima mi vestirò, per ora lascio che la pelle d'oca si faccia spazio sulle braccia, ho altro a cui pensare. In un paio di passaggi un po' delicati ed esposti, Matteo deve far ricorso a tutta la sua diplomazia per convincermi a passare in un certo modo, che poi è quello giusto: "Girati... Appoggia il piede qui... La mano là...". Se qualcuno potesse ascoltare, ma non vedere, giurerebbe che ci troviamo su un sesto grado, come minimo; invece, l'unica cosa che sia di sesto grado o superiore è la mia inettitudine quassù! Questa poi è la condizione di luce peggiore per me e per la mia miopia. Ma pare che ci siamo quasi. Ancora un paio di passaggi articolati: "Ma siamo poi sicuri che la discesa non è così?". Sono scettica... Matteo però mi assicura di sì e, una volta tanto, gli credo. Mi conviene, credergli: in fondo, se in questo istante non sono ancora in preda al terrore più cupo, è solo per la sua presenza, che ha sempre su di me un effetto calmante: a maggior ragione, oggi che so che lui è proprio a casa sua.
Finalmente la cima, Punta Martin: non perché sia stufa di salire, tutt'altro, ma perché significa la fine della mia tribolazione. Dovremmo aver fatto un salto di poco meno di 800 m di dislivello, circa. E' vero, è sorprendente: da qui in poi, siamo su un sentiero in mezzo al prato... Pare incredibile! Ed anche un po' beffardo. Matteo mi spiega che da qui faremo un giro: non cerco di capire, mi fido... Tanto io ormai qui potrei essere dovunque; mi godo le luci del mare e la luna, bellissima, alta, quasi piena. Dal vento freddo mi difendo con giacca e berretto. La mia guida prosegue sicura senza luce, mentre a me riesce già ben difficile vedere dove metto i piedi con l'aiuto della frontale, ovviamente a scrocco perché la mia è rimasta a casa. Doppia invidia. Il sentiero scende leggermente, si rituffa nella vegetazione; sarebbe da correre, se ne fossi capace, ma per carità! Anzi, non vedo l'ora che arrivi la seconda salita promessa: arriva infatti, ad una palina segnaletica, con una secca svolta a destra. Saliamo con il sottofondo di un cane che abbaia, inconsolabile; sembra molto vicino. Ci sono alcune luci sulla montagna, un po' più in basso rispetto a noi, forse c'è qualche casa. Siamo quasi su una strada, tanto è bello e dolce questo sentiero, ma mi sa che è troppo facile, perché all'improvviso Matteo taglia su per il prato e scompare nel buio. Ossignur, speriamo bene... Mi chiama, deve aver trovato la retta via; salgo anch'io, un po' titubante.
Alle volte si ha l'illusione di essere persi in un luogo dimenticato dal mondo, sperduto chissà dove... E invece no, come per magia ci si ritrova di fronte ad un tavolino da picnic. Ne approfittiamo per qualche attimo di riposo e tranquillità... Ed anche per far fuori quel che resta della focaccia: pomodoro e formaggio, nonché farinata. Io ho una fame che pare che non mangi da una settimana: l'ho sempre detto, che sono un motore poco efficiente; consumo davvero troppo. E sono mezza ibernata quando ci rimettiamo in marcia, dopo aver approfittato della fontanella. C'è ancora un brevissimo tratto di salita, appena sufficiente a farmi passare i brividi; da qui, boh... Si distinguono, alla luce della luna, tracce di sentieri che passano sulle cime di queste collinone arrotondate; Matteo mi fa notare, "Siamo dov'eravamo prima": ah sì? Ne prendo atto, potrei davvero essere ovunque.

La discesa è sempre troppo lunga per i miei gusti. Ad un tratto abbandoniamo il sentiero bello per scendere giù lungo un tratto più scosceso, che sembra puntare dritto verso il fondo di un canalone nero: mi consolano i segni dell'Alta Via, l'unica traccia di direzione in messo ai salti ed al fitto del bosco. Seguo la mia guida incespicando come sempre, guardando le pigne che vorrei raccogliere ma non è il momento, qualche insetto che illumino con il cerchio della frontale. Poi la via torna ampia ma... In un attimo in cui sono immersa nei miei pensieri, vedo Matteo fermarsi all'improvviso. Davanti a noi, ad una decina di metri di distanza, due punti luminosi, quasi immobili. Attimi interminabili, l'essere ignoto sembra spostarsi ma no, resta sul sentiero. Lì per lì non capisco: "Cos'è, un camoscio?". "No, una mucca"... In un istante sento mancare il sostegno delle gambe. Troppo vivo ancora il ricordo della mucca che ci ha "puntati", durante la notte della prova del Trail Valdigne in Val d'Aosta, il terrore di scappare ed il rischio, scampato per un pelo, di finire giù per un pendio troppo ripido. Adesso metto a fuoco anch'io: non c'è una sola mucca, ovvio; c'è la mandria, bestie quasi tutte a terra, che riposano, ma troppi occhi che ci fissano. Sono terrorizzata, muovo indietro qualche passo, ma Matteo mi fa notare che no, non è l'idea migliore. Basta fare il giro largo: mi prende per un braccio, cerca di tranquillizzarmi... Ma ho il cuore che scoppia, continuo a fissare le bestie, pronta a cogliere il minimo cenno di movimento: ma se anche lo cogliessi? Cosa potrei fare? Una mucca è di certo ben più ferma sulle zampe rispetto a me; se mi mettessi a correre, al terzo passo sarei già lunga distesa per terra e adios, sarei il primo caso di macellazione bovina al contrario. E poi c'è un'altra paura ancora peggiore, quella per Matteo. Ma lui non batte ciglio... Lo seguo col cuore in gola; dopo aver descritto un ampio arco, torniamo su quello che sembra essere il sentiero, ripido e scivoloso. Non lo è, perché non ci sono le tracce colorate sulle rocce; ma, spostandosi ancora un po' a sinistra, Matteo ritrova la traccia dell'Alta Via. Che senso dell'orientamento!

Davanti a noi, un'altra collinetta: chissà se ci saliamo? La risposta arriva subito; no... Giriamo a sinistra, abbandoniamo l'Alta Via ed iniziamo una lunga discesa in mezzo al bosco, seguendo il perimetro di una proprietà recintata. Mi sembra di sentire ancora lo scampanìo delle mucche... Beh, se ci sono, spero che stiano oltre la rete, e che la rete basti a contenerne l'irruenza. Qui sotto la luna non aiuta più, troppo fitto il bosco; attraversiamo qualche traccia di ruscello che si sente, più impetuoso, in lontananza. Anche qui riesco a restare indietro, inciampandomi in qualsiasi cosa. Raggiungiamo una casa ancora illuminata, nonostante l'ora; due cani inferociti strepitano e ringhiano contro di noi... Spero che il padrone di casa non decida di uscire con la carabina! Per fortuna, poco dopo, l'asfalto, il mio amato asfalto. Di solito, chi apprezza i sentieri detesta il bitume; per me invece significa la fine delle difficoltà. Da qui si cammina, per qualche km, scendendo lungo la strada che alle nostre spalle raggiunge il Passo del Turchino: una delle mete di allenamento ciclistico di Matteo. Che fortunaccia sfacciata, lui esce di casa e sulla soglia si trova una salita! Altra ragione di invidia bruciante. Passiamo in mezzo ad un gruppo di case sonnacchiose, alle finestre però ancora qualche luce; tutt'intorno i pendii e la luce bianca della luna. In discesa, se non c'è da faticare, ci si raffredda in un attimo; ma non c'è tempo di soffrire troppo: si vede già Acquasanta, il ponte della ferrovia, sotto cui passiamo un attimo dopo, per chiudere l'anello. A dire il vero, avrei sofferto volentieri ancora un po'; mi spiace che sia già finita, mi spiace dover salutare Matteo e tornare a casa. Sono le due passate, il viaggio sarà lungo ed io ho già voglia di tornare, già penso quando potrò chiedere il bis, sempre che il mio compare abbia voglia di trascinarmi a spasso un'altra volta.

L'ultimo ostacolo è il posto di blocco dei Carabinieri a Voltri; ho l'assicurazione scaduta... Ma solo da oggi, cioè da due ore e mezza; sudo come non ho sudato in tutta la camminata, ma mi danno via libera. "Lei da dove viene?" "Vicino a Torino" "Ah, e come mai è a Genova?" "Per fare una camminata notturna sui monti". Il gendarme è perplesso ma, forse temendo un attacco di follia violenta, mi spedisce... Rientro a casa alle cinque, dopo un primo antipasto di sonno in autostrada; in ufficio alle otto, mezza rintronata, ma ne è valsa la pena!

1-2 maggio 2009 - Ricognizione Raid Vosgien Extreme - secondo giorno

Il secondo giorno non comincia sotto i migliori auspici: ieri sera abbiamo dimenticato di pagare la camera e, così, oggi ci tocca sprecare parte del beneficio della levataccia per rintracciare via telefono la titolare dell'albergo. Perdiamo mezz'ora buona; quando saltiamo in sella, ci accoglie un cielo un po' velato. Le previsioni di MeteoFrance annunciavano, per oggi, un po' di pioggia, almeno fino a giovedì; che dire... Speriamo che sbaglino. Infausto il meteo ed infausto l'umore del mio compare di viaggio, che fa finta di nulla ma ha al posto del viso un libro aperto: e non si tratta di un romanzo comico. Mah... Le necessità del corpo prevalgono subito su quelle dello spirito: passiamo davanti alla vetrina di una boulangerie e restiamo intrappolati dal suo campo gravitazionale. Dobbiamo integrare la magra colazione, avanzo di pane e marmellata, e procurarci scorte per la giornata, che, sulla carta, si annuncia lunga e faticosa.

Da Le Thillot ci spostiamo verso Saint Maurice s/Moselle, in un'alternanza di saliscendi e paesi ancora sonnacchiosi, ma, per ora, con il favore del sole. Da Saint Maurice saliamo, ancora una volta, al Ballon d'Alsace, finora il fulcro di tutte le nostre peregrinazioni; una salita che definire meravigliosa è poco. Strada ampia e liscia in mezzo alle pinete che ormai sono diventate la cornice naturale del viaggio; acqua che corre lungo la strada, acqua a profusione, tant'è che non ho difficoltà a fare il primo rifornimento della giornata; pochissimo traffico, automobilisti pacifici, qualche gruppone di boy scout un po' cresciutelli, escursionisti che, ad occhio, mi sembrano più da tavola che non da sentiero. Sento parlare una lingua strana ed indefinibile, una via di mezzo tra il francese ed il tedesco, però gli incoraggiamenti mi arrivano in chiarissimo francese e gli applausi, poi, sono internazionali!
Provo un profondo senso di pace, tanto da non sentire nemmeno più così gravoso il peso dello zaino, né la fatica della salita. Ieri l'ho pensato, oggi lo confermo, sono innamorata di questo posto, così come l'anno scorso mi sono innamorata delle strade della Provenza.

Quando la pineta lascia il posto ai pascoli, capisco che alla cima, se così si può chiamare, non manca molto. Ai 1.200 m circa del Col du Ballon d'Alsace ritrovo Mik in paziente attesa; si torna a scendere, direzione Maseveaux, attraversando gli abitati di Sewen e Niederbruck tra gli altri, da cui siamo già passati ieri. E qui, nell'interminabile tratto di falsopiano che segue la fine della vera discesa, accade l'irreparabile. A dire il vero, me lo sentivo già da un po': Mik, che da troppo tempo resta inspiegabilmente alle mie spalle anziché, come d'abitudine, duecento metri avanti, mi affianca, chiedendomi di rientrare stasera, in anticipo di un giorno rispetto a quanto previsto.

Nonostante i tanti tanti km, in bici ed a piedi, ed i tanti viaggi che abbiamo diviso da aprile dello scorso anno, cioè da quando abbiamo cominciato a pedalare insieme, Mik ed io non siamo mai stati grandi chiacchieroni, forse perché siamo entrambi, per carattere, abbastanza schivi e taciturni. O meglio: saremmo probabilmente più loquaci, perlomeno questo vale senza dubbio per me, se fossimo ciascuno in compagnia di una persona d'indole opposta, una persona che fa domande, ascolta volentieri, scherza, induce a raccontare e raccontarsi. Mi è accaduto spesso di pensare alla stranezza di questa situazione, e di chiedermi se fosse opportuno comportarsi in maniera diversa; però son fatta così, non riesco ad assumere un atteggiamento diverso da quello che sento, e men che meno vorrei passare per ficcanaso impicciona, fine che rischierei di fare se mi ostinassi a cercare la confidenza di chi non ama la confidenza. Io stessa, a parti invertite, ne sarei molto infastidita.
Nonostante tutto ciò, vedo bene, e non ci vuole una laurea in astrofisica per questo, che Mik è teso, come ammette lui stesso; mi accontento della sua scarna spiegazione, "Sono preoccupato", anche perché posso ben immaginare la ragione del suo stato. Non capisco, quello no, proprio non riesco ad immedesimarmi, ma del resto non sono affari miei. Certo, non sono felice di abbandonare anzitempo questo paese delle meraviglie: ma non sono nemmeno il tipo da puntare i piedi e costringere a restare, a tutti i costi, chi non è in animo di continuare.

Mi piacerebbe, solo, non perdere la giornata: insomma, rientrare sì, ma dopo un bel giro che mi faccia stancare per bene, oggi, e mi renda meno penoso il ritorno. Consultiamo la carta: l'idea è, da Maseveaux, percorrere un tratto del giro del Raid che va a Grosmagny e Giromagny e, da lì, sale dal terzo versante al Ballon d'Alsace. Dopodiché si ridiscende a Sewen, si ripercorre la stessa strada che ci siamo appena lasciati alle spalle e si punta verso Thann, per poi tornare a Cernay. Aggiudicato.

Ci avviamo dopo aver riempito le borracce alla consueta fontana di "eau non potable", con somma indignazione dell'autista di un furgone che ci assale a colpi di clacson: "Dev'essere velenosa davvero", conclude Mik. Poi lunghissimi km di saliscendi in mezzo alla campagna: i monti qui sono sullo sfondo; intorno a noi, distese di prati verdi o gialli di fittissimi fiori, cavalli e mucche al pascolo, borghi da attraversare, traffico sempre poco e disciplinato. Soffro tantissimo qui: non riesco a mantenere un'andatura decente, perdo terreno di continuo; ogni leggera risalita è peggio di un Mortirolo. E guardo i monti con apprensione: le nuvole lassù si stanno addensando e sono sempre più scure. Man mano che ci avviciniamo a Giromagny, la cappa di nubi si estende e si gonfia, avvolge anche il cielo sopra di noi; si leva un vento ancora leggero ma freddo, che non lascia presagire nulla di buono. Così, dopo esserci sciroppati venti e più km di piattume da Maseveaux a qui, facciamo appena in tempo ad imboccare la salita, che il cielo ormai livido di rabbia e di pioggia scarica su di noi il primo scroscio, accompagnato da rombi di tuono e fulmini. Qualche ciclista in fuga ci avvisa del diluvio che si sta abbattendo poco più avanti. Non stento a crederci. La decisione da prendere purtroppo è una sola: andare avanti significa finire sotto la tempesta, che, vista la situazione, potrebbe tranquillamente essere grandine. Non ci resta che battere in ritirata il più in fretta possibile, tornando indietro per la stessa strada e sorbendoci, un'altra volta, i venti km di saliscendi fino a Maseveaux. Più quelli che restano, in pianura, fino a Cernay. Ci saranno in tutto 40 km, poco più, da qui all'auto.
Non lesiniamo di pestare sui pedali: le nuvole nerissime si stanno estendendo con velocità impressionante verso la pianura; i Vosgi non si vedono più, già inghiottiti e neri come i nembi. Faccio del mio meglio, anche se le gambe si ribellano, anche se ora al disgusto per la pianura si aggiunge il dispiacere del giro abortito; più vado avanti e più odio queste impercettibili salitelle, queste brevi discese, cambi di ritmo continui ed incroci che ogni tanto sbaglio. Faccio buon viso a cattivo gioco, cerco di sorridere perché tanto prendersela con il meteo sarebbe inutile; combatto la fame sbocconcellando la seconda delle tre leccornie dolci che ho comprato stamattina in boulangerie. In compenso, il mio compagno di viaggio è visibilmente sollevato.

Vorrei riempirmi gli occhi delle montagne che ora non si vedono più. Vorrei almeno poter aggiungere ancora qualche breve tratto di salita, arrivare a Cernay da Maseveaux via Bourbach e Thann, ove la carta indica una salita... Ma il temporale incombe, la tristezza pure; tagliamo per la strada direttissima ed odiosissima, fino all'abitato di Guewenheim: qui, arriviamo quasi ad infilarci in una sorta di superstrada... Ma ho il sospetto, anche se non ho visto alcun segnale di divieto, che noi si stia per fare una gran boiata. Rapido consulto della carta e dietrofront sullo svincolo: dopo qualche breve ma faticosissimo km piatto, controvento, fino al centro del paesello, troviamo sulla destra una strada che ci condurrà, in una decina di km ed una brevissima salita, fino a Cernay. St André, l'ultimo assaggio di un paesino che davvero non può essere reale, così perfetto lindo ed ordinato, con colori delle case vivi che sembrano appena stesi, e colori così improbabili poi, lilla, verde acceso, blu! Poi il caos di Cernay, la zona industriale, infine la Y. Ed il tuono che ci raggiunge mentre ci cambiamo, e la pioggia che ci dà giusto il tempo per chiuderci in auto prima di avere finalmente sfogo.

E' il primissimo pomeriggio; ripartiamo, dopo un pieno di carburante e di Coca Cola per il viaggio, come sempre con un sorriso a nascondere la malinconia, torniamo in Italia e ci accoglie il sole. Con un pensiero fisso di saluto e congedo, che poi non uscirà in parole: questa volta non ti dico "Alla prossima"... Perché mi sa tanto che non potrà esserci, una prossima. Così è la vita, a volte!

martedì 5 maggio 2009

1-2 maggio 2009 - Ricognizione Raid Vosgien Extreme - primo giorno

I Vosgi. Sono mesi che ci rimugino. La scorsa estate, un mio conoscente, validissimo ciclista da ultradistanza, il buon Rudolf, si è lanciato nell'avventura del Raid Vosgien Extreme, una prova ciclistica in autonomia, stile randonnée, da 540 km e 13.000 m di dislivello, all'incirca. Roba da nulla per lui che è abituato a ben di peggio: roba da matti per me che, come al solito, corro sempre più con la fantasia che con i pedali. I Vosgi: non so nemmeno dove siano, io, i Vosgi. So che sono montagne: questo mi basta. A "sinistra" di Basilea, mi dice Rudolf: ok, bisognerebbe sapere esattamente dove si trova, Basilea... Basterebbe consultare una cartina. Ma in fondo tutto ciò non ha molta importanza: per me i numeri sono più che sufficienti.
Nel 2008 non ho potuto partecipare, a causa della sovrapposizione con una gara di corsa in montagna in Valle d'Aosta, a cui ero già iscritta. Per il dono dell'ubiquità, sto lavorandoci su... Ma al momento non ne dispongo ancora. Ho però una memoria ferrea per quel che mi interessa: se qualcuno mi chiede cos'ho mangiato oggi a colazione, è probabile che non me ne ricordi; ma se mi chiede il calendario gare... Lo snocciolo a raffica!
L'idea di andare a provare il percorso era già nell'aria lo scorso autunno, poi rinviata per impegni vari ed inconciliabili dei due candidati, i soliti noti, Mik ed io. Con l'avvento del 2009, s'è pensato di fissare, con largo anticipo, la data fatidica al fine settimana del 1° maggio: venerdì, sabato, domenica, tre giorni sono il minimo indispensabile per una trasferta così impegnativa, mille km di auto tra andata e ritorno, più quelli da pedalare.

Ogni volta, in questi casi, mi riprometto di presentarmi all'appuntamento preparata, di studiare almeno un po' le carte, gli itinerari, il piano di viaggio. Ma poi va sempre a finire che, sapendo di poter contare sulla meticolosità dell'Ing, mi lascio prendere dalla pigrizia e guidare dalla sua traccia GPS. E finisco per salire in sella senza avere la più pallida idea di dove, quando, perché. Tanto le gambe son sempre pronte a tutto, più o meno. Questa volta però, lo giuro, avevo le migliori intenzioni del mondo: il mercoledì sera avrebbe dovuto essere dedicato a consultare la mappa preparata da Mik, a capire e mettermi in testa le tappe, insomma, ad avere almeno un vago concetto di ciò che stavo per andare a combinare. La realtà è stata un po' diversa; il mercoledì pomeriggio l'ho passato a combattere l'alluvione in cantina ed a pulire i tombini del cortile per far defluire l'acqua, mentre il mercoledì sera se n'è andato su una sedia del Pronto Soccorso accanto alla nonna, poi ricoverata per accertamenti... Insomma, come al solito ho finito per preparare il bagaglio in fretta e furia e ritrovarmi catapultata sull'auto di Mik, mezza addormentata e tutta rintronata, giovedì sera poco più tardi delle sei, in partenza per il grande viaggio. Già bellissimo di per sé, almeno fin quando son riuscita a restare più o meno sveglia: Torino, la Val d'Aosta, il traforo del Gran San Bernardo con lo spettacolo delle cime ancora cariche di neve nella luce del tramonto, la Svizzera, l'autostrada che scorre sotto le ruote ed accompagna i pensieri, l'attesa, l'ansia. Sapevo che sarebbe bastato poco. Sono partita con l'angoscia, un po' di senso di colpa: mia nonna non ha nulla di grave, non ha bisogno d'assistenza in ospedale, ma so di essere ben egoista a partire lasciando a casa una situazione comunque scombussolata. Sono partita perché mi sarebbe spiaciuto rendere vano tutto il gran lavoro di preparazione di Mik, ed anche perché a questo viaggio tenevo tanto, troppo per lasciare che un caso beffardo, un gioco di coincidenze, mi costringesse a casa. Ma quel che vedo ora intorno a me prevale su tutto, cancella tutto: poche ore di viaggio ed io non sono già più presente a me stessa ed alla mia vita di ogni giorno. Ancora una volta, ho saltato il confine, sono già nel mio Paese delle Meraviglie: da qui si vede tutto il resto, sì, ma è sfocato, lontano. Egoismo, superficialità, immaturità? Forse. Ma me lo tengo stretto, tutto questo. E' troppo bello guardare i ripidissimi pendii bianchi e pensare che quest'estate tornerò a calpestarne i sentieri, ascoltare la musica e dividere una pizza ridendo al pensiero che l'autovelox immortali il buon Mik alle prese con il volante e le chiazze di pomodoro, aver voglia di arrivare ed allo stesso tempo sperare che il viaggio non finisca mai. Un po' sono preoccupata, a dire il vero: i chilometri, tanti, in bici ed a piedi che ho accumulato tutti insieme quest'anno si fanno sentire, lasciano già da qualche tempo uno strascico di fiacca e fiato corto; chissà se ce la farò, e come.

Martigny, Berna, Basilea, è mezzanotte passata quando giungiamo in albergo a Mulhouse. Per me si tratta solo di spostarmi, in stato di sonnambulismo, dalla Y di Mik al materasso; gli strascichi del trambusto dei giorni precedenti, le poche ore di sonno della notte prima, fanno il resto. Coma profondo fino al suono, troppo presto, della sveglia.

La partenza del nostro itinerario non coincide con quella del percorso del Raid Extreme Vosgien, fissata a Luxeuil Les Bains. Per comodità, Mik ha scelto per il via il luogo che richiedesse, per quanto possibile, il viaggio in auto più breve e che offrisse un minimo di accoglienza turistica; a quanto pare, infatti, la regione dei Vosgi è tutto, fuorché popolosa. Meno male.

Saltiamo in sella a Cernay, una quindicina di km da Mulhouse, al mattino di venerdì, di buon'ora. Curioso, qui la luce del giorno si fa vedere prima, che non dalle nostre parti: elementare, mi fa notare Mik che è ben abituato ai viaggi a tutte le latitudini, siamo più a nord. Il cielo non è limpidissimo; l'aria è fredda, cristallina. Lasciamo l'auto nella periferia del paese, tra villette in tinta pastello, tutte linde, ordinatissime, con il loro giardinetto e le auto parcheggiate davanti, con i fiori e senza recinzione; un'atmosfera irreale, da set della pubblicità del Mulino Bianco, da fiaba. I primi km sono dolcissimi saliscendi ai margini delle montagne, proprio ai piedi di questi rilievi che paiono più colline tondeggianti, verdi verdissime, com'è verde la campagna quaggiù, dove la stagione primaverile sembra essere appena spuntata, con i primi timidi fiori. Si va a caccia della prima salita, con lo zaino sulla schiena che pesa come se fosse pieno di macigni, le gambe che ancora si lamentano per lo sgarbo della corsa in montagna della scorsa domenica, ma il cuore che balla la tarantella per l'emozione di essere qui. Ci attende, secondo le informazioni fornite dai creatori del Raid, una strada in "mauvais état", e chissà se ho azzeccato il verso dell'accento. Siamo in Francia, ma i nomi dei paesi hanno una netta connotazione tedesca: Uffholz, Wattwiller, Wuenheim, dove finalmente, dopo una decina di km dal via, la strada comincia a pendere. E' malconcia, in effetti, ma non tanto da impensierire chi, come noi, è abituato ad asfalti ben peggiori... Quelli italiani! I copertoncini da 28 della Ridley, poi, si fanno un baffo delle buche e delle crepe e delle pietre e dei tratti di sterrato. Ci ritroviamo all'improvviso nel fitto buio di una meravigliosa pineta, un ambiente insolito per la quota a cui ci troviamo: saremo a trecento metri sul livello del mare, eppure la vegetazione è molto simile a quella che, sulle nostre montagne, si trova oltre i mille metri. Alberi, il torrente che scorre sulla sinistra, la strada che sale dolce a curve e controcurve: e non un'anima. Una, forse due auto che incontro in diversi chilometri di salita: una decina, pù o meno, fino al Col Amic, quota 800 e rotti. Un attimo di tentennamento da parte del GPS, poi si imbocca la discesa, come al solito Mik avanti ed io dietro: non posso che gioire al vedere questa discesa così ampia, bella, con asfalto perfetto, facile da affrontare a cuor leggero persino per me. Fa freddo, i manicotti ed il giacchino non bastano a tener lontani i brividi, ma non importa, la calata sul fondovalle non può essere lunga. Goldenbach-Attenbach, un po' di pianura ma poca, e poi si torna a salire, ancora curve, ancora verde, pinete e poi pascoli a perdita d'occhio, mucche e cavalli e pecore, splendide malghe in legno e pietra, acqua che scorre ovunque a bordo strada, quiete, immutabile quiete. Questo sembra sempre più un paese di fiaba. Sento la fatica, gravosa, sento le gambe che ad ogni salita stentano a tornare "in temperatura", i muscoli che tirano, lavorano incerti e malvolentieri; forse patisco un po' il caldo che già si sente in salita, dove il vento non raffredda e si sente solo il sole che picchia. O forse sono cotta e basta. Discesa su Masevaux; la salita successiva inizia dal minuscolo abitato di Sewen e ci porterà su al Col du Ballon d'Alsace, poco meno di 1200 m di quota. Salita che soffro fin da subito, non per colpa delle pendenze ma proprio per il mio stato un po' traballante; che bella, però... Nasce in un villaggio minuscolo con il campanile svettante, la guglia sottile; sale a stretti tornanti secchi fino alla diga che contiene uno degli innumerevoli laghi di cui è costellata questa regione; poi spiana ed ancora sale, a strappi, a rampe cattive, nel fitto della vegetazione, fra i tronchi di pini svettanti e nudi fin quasi alla cima, mi fa sperare in un po' di pietà dietro ad ogni curva, pietà che non arriva mai, chissà se vincerà la strada o vincerò io. So che la vetta non può essere lontana, che le quote qui non sono alte e che, se la pendenza è questa, allora la cima arriverà in fretta... Mi han sorpassata due ciclisti, uno è sempre là davanti, in vista, soprattutto quando il bosco lascia il posto ai pascoli ed alle prime tracce di neve che quassù ancora resiste. Ballon d'Alsace. Mi chiedo cosa si intenda per "Ballon", visto che si tratta di un termine usato anche per altri luoghi qui intorno: so che c'è una corsa in bici chiamata "Les 3 Ballons"; vorrà dire cima, qualcosa del genere. Mi sa di "cima tonda"... In effetti le montagne qui son fatte così; non c'è ombra di roccia né di asperità, solo verdi panettoni. Sarà la fame che mi suggerisce la visione?

Altro bivio e lunga discesa, interminabile, verso un giro ad anello che ci riporterà, stasera, allo stesso punto da cui siamo appena passati. Zona di miniere, questa; infatti, dopo lunghi chilometri di stradone, appena addolcito dalla pazienza incredibile dei pochi automobilisti da queste parti, ci ritroviamo a veleggiare su strade secondarie, in mezzo a paesi dall'aspetto più che mai disabitato. Pochi anche i ciclisti, pochi e tranquilli. Mi colpisce una ragazzina, d'una decina d'anni al massimo: esce da un cortile in sella ad una bella bici da corsa formato mignon, mi sorpassa con gran sparata, poi leva le mani dal manubrio e si rassetta la coda di capelli... Resto a bocca aperta, io che in anni ed anni non ho mai imparato a pedalare senza mani; tiro dritto divertita, sperando però nella prossima salita, perché questi lunghi falsipiani attraverso la campagna, pur bellissima, mi stanno uccidendo lentamente. Le colline però sono lì, sempre più vicine; ho fiducia.

A Plancher Les Mines dovremmo, in teoria, fermarci a dormire questa sera, secondo il programma di viaggio. Però... Nell'unico albergo del villaggio, non c'è più posto per uno spillo. E non c'è altro nelle vicinanze, né hotel né camere. Mik ed io consultiamo la carta: a questo punto conviene completare l'anello, tornare al Col des Croix dove siamo passati già una volta e scendere a Le Thollis, l'unico paese che sembra un po' più consistente degli altri, qui nei dintorni. Forse lì qualcosa troveremo. Altrimenti, per me non è un problema buttarmi a dormire in qualche prato: non sarebbe la prima volta... Ma Mik respinge la proposta indignato: piuttosto si pedala tutta la notte fino all'auto! Già, facciamo gli smargiassi adesso, ma in cuor mio faccio gli scongiuri, speriamo di trovare almeno un pagliericcio!

Ultima tappa alla fontana e si riparte, per quella che vorremmo fosse l'ultima salita. Ma, ancora una volta, scopriremo, nostro malgrado, di essere stati troppo fiduciosi. Sulla carta, manca poco, trenta o quaranta km, anche perché abbiamo corretto il tiro rispetto alla tappa prevista in origine per oggi. Mik aveva messo a preventivo 230 km: a me sarebbe tanto piaciuto, rispettare quel conto... Ma già sapevo che, anche nella migliore condizione possibile, per me sarebbe stata utopia, con lo zaino pesante sulle spalle e la necessità di frequenti soste, vuoi per controllare l'itinerario, vuoi per cercare la pappatoria. Direzione Col du Mont De Fourche: da lì, torneremo al Col des Croix. Caratteristica del Raid Vosgien Extreme è di avere un percorso molto contorto, che richiede di passare più volte negli stessi punti, salendo ai colli da ogni possibile ed immaginabile versante. Ergo, per essere fedeli alla mappa di navigazione, dal Col des Croix dovremmo ridiscendere e ripassare a Plancher Les Mines, ipotesi che invece abbiamo già scartato perché poi non sapremmo dove rifugiarci per la nanna. Dal Col des Croix, con breve discesa, saremo invece a Le Thollis.
Poco prima dell'attacco della salita, Mik si ferma d'improvviso: ha notato un negozietto di alimentari. Uno stambugio, grande quanto un box auto, spoglio, con pochi piani di scaffale, pochissima mercanzia, generi alimentari messi lì quasi a casaccio insieme a detersivi e varie altre merci; un bancone basso, di legno, su cui passa tutto, i soldi, le cibarie senza confezione, le mani. Io certo non mi scandalizzo, anzi mi ci sento a mio agio, alla perfezione: ho sempre detestato la maniacalità per l'igiene... E a che ci serve il sistema immunitario, se ogni tanto non lo alleniamo un po'? Mik ghermisce una grossa pagnotta che avrà, occhio e croce, lo stesso peso specifico della ghisa; l'accompagneremo con un'ampolla di marmellata di albicocche, perché non c'è altro. Il pagnottone, quasi una baguette obesa, finisce in una borsina di plastica. E poi incameriamo una pizza che pare mummificata lì sopra, su una mensola, da chissà quale era geologica: non importa, oggi tutto fa brodo; abbiamo una fame tale che potremmo cannibalizzarci a vicenda. La madama del negozio ce la taglia in due; provvederemo noi a strapparne una metà ancora in metà, appena fuori dal negozio, per conservare invece l'altra metà per la sera. E' incredibile, quanto ci si possa ridurre a soffrire la fame in questi viaggi: sembra che il corpo capisca da sé che deve chiedere, chiedere ad ancora chiedere, per il presente ed anche per quel che l'attende in futuro; sembra che lo sappia, che è meglio fare scorta. Mi sento una marmotta che deve metter su grasso per affrontare il lungo letargo invernale... E dire che la riserva adiposa a me non manca di certo!

Il pagnottone finisce nel mio zaino, la mezza pizza pure; la marmellata spetta a Mik. Sbraniamo l'altra mezza pizza con la ferocia con cui una tigre dilania la sua preda; pizza con funghi e cipolle e chissà quale altro indefinibile ingrediente: come si suol dire, energia a pronta assimilazione... Poi però è ora di ripartire. Comincia il toto-ora di arrivo: le sette e mezza, le otto? Non siamo lontani... La salita è tranquilla, come tutte deserta, da meditare; come sempre, non so quanto sia lunga, ma ormai ho capito che qui non posso aspettarmi quindici km di ascesa, con le quote massime che si raggiungono. Manca poco... Ma anche stavolta la jella ci mette lo zampino, sotto forma di cartina stradale troppo stretta: cosicché ci convinciamo di dover passare proprio per due villaggi che si chiamano La Montagne e La Rosiere, apparentemente piazzati lungo la nostra strada. Ad un bivio, deviamo per una ripida discesa sconnessa, in mezzo ai campi ed a poche cascine da cui non trapela cenno di vita umana; a La Montagne effettivamente arriviamo, e vediamo anche il bivio per La Rosiere, solo che il bivio è verso sinistra mentre, secondo noi, dovrebbe stare a destra. Ohibò: dove cavolo siamo finiti? Quella su cui stiamo viaggiando sembra piuttosto una stradina di servizio dei pascoli e dei piccoli paesini che punteggiano queste splendide colline. Proseguiamo ancora un poco, mentre il proverbiale nuvolone di Fantozzi pensa bene di piazzarsi proprio sopra le nostre teste e scaricare una breve doccia; ci ripariamo sotto lo spiovente del tetto di una cascina e rimuginiamo sul da farsi. Ci sono, incredibile dictu, due anime qui: Mik s'ingegna, mostra la carta, chiede dove dobbiamo andare per andare dove dobbiamo andare. Ci suggeriscono di scendere ancora, troveremo una strada che ci porta a La Rosiere; ma noi, testoni, l'indicazione per il paese l'abbiamo vista poco fa; decidiamo di ignorare il consiglio e tornare indietro di un km, che ahimé, è un km di distanza ma a momenti anche di dislivello, mannaggia paletta! Due rampe assassine prima del bivio, un'altra sorella delle precedenti subito dopo, e meno male che fino a La Rosiere ci son solo due km. Il problema è che, raggiunto l'abitato, ne sappiamo quanoto prima: contavamo di sbucare su una strada più significativa, ma non è affatto così. La mia idea è che il primo errore sia stato abbandonare la salita verso il Col du Mont de Fourche prima di aver effettivamente raggiunto il colle: riguardando la mappa col senno di poi, avremmo dovuto tenerci sulla strada principale, che percorre un'ampia curva verso destra, mentre quel che abbiamo fatto in realtà è stato "tagliare" la curva, con l'aggravante che in mezzo ci sono discese e salite molto ardue. Si vede che per le stradine di servizio non val la pena di sprecare asfalto a far tornanti!
A Corravillers finalmente ci immettiamo su uno stradone che, in altre circostanze, odierei: ma questa volta ne sono lieta e sollevata; perlomeno ora abbiamo una vaga idea di dove ci troviamo! Qualche curvone ci porta su al Col du Mont de Fourche, che avremmo dovuto raggiungere dalla direzione opposta; lì trovo Mik che mi indica la strada, a destra, e mi raccomanda di aspettarlo se dovessi incontrare qualche bivio. E' qui che comincio ad avere la sensazione che il mio compagno di viaggio abbia qualcosa che non va: siamo entrambi abbastanza taciturni e restii a parlare dei cavoli nostri, o anche solo a manifestare quel che proviamo in gesti ed atteggiamenti; però ormai lo conosco da un po', quel tanto che basta a percepire qualcosa di insolito nell'aria, e non positivo, qualcosa che non ha nulla a che fare con la stanchezza fisica della giornata, ma che lo preoccupa e lo tiene lontano da qui, anche se fisicamente è ben presente sulla sella. Chissà. Forse, da buona amica, dovrei provare a chiedere cosa c'è che non va: ma non mi viene, proprio non mi viene; mi sentirei troppo impicciona, pensando poi quanto detesto, io stessa, che si ficchi il naso negli affari miei. Mi distraggo poi con l'occhio ai nuvoloni, che han girato intorno per mezza giornata ed ora sembrano ben decisi ad accumularsi tutti quassù. La strada sale leggermente, scende, poi sale ancora, nascosta in mezzo a boschi e laghetti; ogni tanto, per terra, la distanza al prossimo GPM: ma sono GPM con una ventina di metri di dislivello in tutto! Spero che la meta finale giunga più rapidamente della pioggia, perché altrimenti qui si finisce sotto un fortunale! Mi raggiunge Mik, si allontana, ci ritroviamo poi sul Col de Croix. Sotto di noi, la visione ora confortante di Le Thollis, che, al confronto dei microscopici paesini attraversati oggi, sembra una metropoli. La breve discesa, due o tre km, ci riserva ancora un'insidia, sotto forma di mucca placidamente piazzata in mezzo alla strada: grossa, imponente, pelo lucido come tutte le mucche di queste zone, bianca e nera, soprattutto inamovibile. Dopo rapida riflessione, decido che è meglio passarle davanti piuttosto che dietro, che almeno scongiuro il rischio di beccarmi un calcio: scampato pericolo. Finalmente arriviamo; un paio di vasche in paese, giusto per dare un'occhiata intorno, ed al secondo tentativo troviamo una sistemazione per la notte. Finalmente, davvero, perché sarà colpa della notte precedente in cui s'è viaggiato e dormito poco, sarà stato il primo caldo di oggi, sarà stato lo zaino pesante, non so, fatto sta che sono davvero distrutta ed ho solo voglia di buttarmi a dormire. Dovremmo aver macinato tra i 180 ed i 190 km; quanto al dislivello, la mia stima arriva a malapena a 2.500... Ma Mik, indignato: "Saranno almeno 4000! Se dici 2500, le mie gambe si offendono!". Doccia, magra cena a pane, marmellata ed un quarto di pizza: a questo punto, quello che su al Col du Mont de Fourche era solo un dubbio è diventato una certezza inconfutabile: Mik è più taciturno del solito, ha un muso lungo così; è evidente che sullo stomaco ha non solo un rospo, ma un'intera colonia di rospi, tutta la popolazione di uno stagno; è assente, con la testa altrove. Mah. Chissà perché, anzi, il perché lo posso ben immaginare; di più, posso dire che la cosa non mi stupisce e che, anzi, avevo già avuto il sentore che qualcosa del genere sarebbe presto accaduto. Mi spiace vederlo così. Come sempre, però, opto per la riservatezza: anche perché, onestissimamente, sono a pezzi; se fino a poco fa avevo considerato l'ipotesi di una passeggiata, visto che saranno al più tardi le nove e mezza, ora chiedo solo il materasso, il piumone, la nanna. Abbandono la testa sul cuscino, volto la schiena a tutto; il ticchettio convulso dei tasti del telefonino sotto le dita del mio tormentato compagno di viaggio diventa un rumore di sottofondo, lontano, ed in un attimo sparisce nel nulla.

lunedì 4 maggio 2009

26 aprile 2009 - Trail des Balcons d'Azur

"Il certificato medico... O la tessera?"
Oh capperi, lo sapevo. Mai una volta che la mia testaccia dura, utile solo come supporto per i capelli, si ricordi di provvedere a tutto. E dire che venerdì ho persino ricevuto la mail di promemoria dall'organizzazione: "Chi non ha inviato il certificato medico al momento dell'iscrizione dovrà presentarlo alla consegna dei numeri di gara", più o meno è quanto riesco a capire con il mio scarno francese. Ma, come sempre, ho nascosto la testa nella sabbia: "Ma sì, l'avrò mandato di sicuro, 'sto certificato". Invece no, e adesso me lo chiedono. "Sì ce l'ho la tessera... Non ce l'ho qui, ma ce l'ho!". Forse spiazzata dalla mia reazione in inglese, la madama alza bandiera bianca e mi consegna il pettorale: 37. Raggiante, l'ho scampata: mi dileguo con il bottino prima che qualcuno ci ripensi. Tocca a Mik andare a caccia del suo titolo per la corsa: con tecnica ormai collaudata, gli passo quei pezzi della dotazione obbligatoria da regolamento che lui non ha, ossia fischietto e telo termico. Anche se a me nessuno ha chiesto di controllare lo zaino. Torna, anche lui, di lì a poco: a lui il certificato medico l'han proprio fatto esibire... Lo dico sempre io che 'sto ragazzo è troppo magrolino e pallido, non ispira fiducia!
L'atmosfera è tutt'altro che frenetica: non sembra d'essere nell'imminenza di una corsa. Con il cielo plumbeo che incombe sulle nostre teste, ed il conforto, si fa per dire, delle previsioni meteo, non mi stupisce affatto che molta gente abbia guardato fuori dalla finestra ed abbia scelto di rituffarsi tra le coperte. E' ancora quasi buio, benché manchi poco alle sette; il mare davanti al porticciolo di La Napoule sembra il parcheggio di un ipermercato nei giorni di punta dello struscio: barche, barchette, barconi, uno spettacolo che, lungi dall'essere attraente, mi fa pensare, per deformazione professionale, al redditometro che s'impennerebbe al solo pensiero di acquistare un affare del genere! Ma no... Se anche ne avessi i soldini, l'acqua proprio non fa per me; preferisco la terraferma, anzi, più in su possibile rispetto al mare.
Pioviggina appena, mentre Mik ed io ci lasciamo scorrere addosso i minuti che ci separano dal via. C'è gente di tutti i tipi, fisici scolpiti e un po' meno scolpiti, corridori pronti a partire con se stessi come unico bagaglio ed altri carichi come muli, personaggi in canotta e pantaloncini o vestiti come l'Omino Michelin. A proposito, io ho già indosso la giacca impermeabile e non penso proprio che la leverò. Tanto il cielo non lascia speranze.
Per la partenza, ci raduniamo sotto l'arco gonfiabile proprio sulla spiaggia, sotto il suggestivo castello: siamo talmente pochi che potremmo essere niente più di una variopinta combriccola in gita domenicale. La voce dell'annunciatore brontola in sottofondo, ma solo, com'è ovvio, in francese: non si capisce un'acca. Spero che non stia dicendo nulla di fondamentale. Mi guardo intorno nervosamente: so che stamattina prenderà il via anche Matteo, con sua mamma, al percorso non competitivo da 17 km, ma non ricordo a che ora... Sarà ancora in campeggio. Mi avrebbe fatto piacere incontrarlo prima della partenza, ma non posso pretendere che il mondo intero sia a mia disposizione! Il guaio è che Matteo ormai è il mio portafortuna per le mattane, anche se quella di oggi non è poi una gran mattana; in fondo sono solo 51 km.

Conto alla rovescia, tre due uno partiti: il gregge di pecoroni si sposta faticosamente zampettando nella sabbia, imbocca la scalinata che porta sulla strada, poi un'altra lunga scalinata ove si crea un inevitabile ingorgo. Che dire... I primi due minuti sono per me una piacevole sorpresa; benché sia partita di corsa ed in salita, oggi non ho quel senso di soffocamento angosciante che di solito mi coglie in questi tragici momenti. Del rallentamento, poi, non posso che esser soddisfatta; qualche minuto di ritardo non cambierà certo il destino della mia corsa e, in compenso, mi permetterà di recuperare il primo "picco" del mio povero cuoricino bistrattato. In fila, disciplinati, si chiacchiera: quasi incredibile... Se fossimo in Italia, ci sarebbe chi sgomita per passare un metro avanti, chi sbuffa e chi bestemmia, chi se la prende con il governo ladro. La lunghissima scalinata ci conduce su un brevissimo tratto di asfalto; altro ingorgo: questa volta tocca infilarsi nel sottobosco, scivolando nel fango di una minuscola traccia, per poi avviarsi di corsa lungo un tratto veloce, leggero saliscendi. Il sentiero è già fangoso ed insidioso, le pietre rese scivolose dalla pioggia, l'affanno è tanto: sono già quasi ultima; lo so, lo sapevo, non avrei potuto aspettarmi nulla di diverso, ma fatico comunque a contenere l'agitazione. E ovvio che, in una gara così veloce, 51 km per 2.400 m di dislivello, sarò molto svantaggiata; non corro, non sono capace di correre su sentiero, e in più oggi piove. Sento persone alle mie spalle e mi sforzo di accelerare il passo; corricchio nei tratti in piano, ma proprio non ce la faccio se anche solo la strada sale leggermente. Ad ogni buona occasione, qualcuno mi passa avanti, e del resto non mi balena per l'anticamera del cervello l'idea di tentare di impedirlo: sarebbe folle, assurdo.
Ben presto siamo già lontani dalla vista del mare, persi in un ambiente che, a due passi dalla costa, sembra non conoscere la presenza umana: vegetazione fitta fitta di piante di mare, di pini, di fiori coloratissimi e di intensi profumi, limone sopra tutti, pigne sparse lungo il sentiero, umidità greve, appiccicosa. La vegetazione così bella e rigogliosa fa netto contrasto con la giornata dall'aspetto tristemente autunnale; ormai piove, a scrosci, e gli occhiali già da un po' sono finiti in tasca, inutilizzabili. Vedo in modalità "bassa definizione", come l'ha definita Mik in una passeggiata di neve dello scorso inverno; vedo colori e contorni sfocati, posso mettere a fuoco un brevissimo tratto di sentiero davanti a me, poi basta, nulla più. Provate un po' voi a dover decidere dove appoggiare il piede, se sapete che lì sotto c'è una roccia sola, e ne vedete due, e non potete capire qual è quella vera e qual è il doppione! Correre così è angosciante, oltre che rischioso. Come se non bastasse, spesso il sentiero s'infila nel sottobosco così fitto che tocca avanzare piegati, con le mani a proteggere la faccia, perché le spine qui in mezzo abbondano. Sono i passaggi che trovo più odiosi: la prossima volta, se ci sarà, mi porto il machete! Sarà già questo il modo di curare i sentieri? Lì sotto è buio, tremendamente buio; avanzo ad intuizione quando non riesco a vedere. A volte il sentiero non si vede più, al suo posto un ruscello limaccioso, e allora bisogna procedere a gambe larghe, un piede su una sponda l'altro sull'altra, come vedo fare a due fanciulle che mi precedono e mi mollano lì a litigare con il fango e la mia cecità. Forza Gian, questo non è che l'inizio. Prima salita tranquilla, costante, da percorrere con buona lena; chissà Mik dove sarà già a quest'ora. Gli scrosci si susseguono, si placano, poi riprendono; in alcuni tratti esposti soffia un vento rabbioso che piega i rami degli alberi e fiacca la resistenza dei corridori, anche se per ora non si può proprio dire che faccia freddo. Tratti di sentiero stretto si alternano a tratti di strada carrozzabile su terra rossa, quasi come quella dei campi da tennis; interminabili agonie nel buio triste del bosco e passaggi in cui si vedrebbe il cielo, se ci fosse, ma almeno si ruba un po' di luce. In salita come sempre recupero qualche posizione, in discesa le restituisco tutte con gli interessi. Corro per quanto posso, per quanto io detesti la corsa su sentiero, corro pianissimo per risparmiare i muscoli delle gambe ed intanto spero nella prossima salita; corro perché sono qui e non ho alternativa, anche se piove, anche se c'è fango, anche se vedo solo ombre intorno a me. Un paio di volte riesco persino a sbagliare strada; il guaio è che qualsiasi ombra che si muova ed abbia vagamente colore bianco, per me, è indistinguibile rispetto alle balise... Meno male che qualche anima pia si preoccupa di richiamarmi all'ordine.

Colori forti, verde intenso delle piante, rosso mattone della terra e dei picchi rocciosi che sembrano enormi funghi anche quelli di colore rossastro, acceso, caldo. Non tardo ad accorgermi che questo percorso non fa proprio per me; i tratti da correre sono lunghi, interminabili, ed io sono di una lentezza esasperante. Qualcuno intorno a me c'è ancora, ma pochi... E non è bastato il conforto del bicchiere di Coca Cola tracannato al primo ristoro.

Non saprei dire quanto tempo sia passato dal via, quando mi piombano addosso i primi due corridori del percorso competitivo da 32 km. So solo che, da questo momento, le mie difficoltà e le mie paure crescono a dismisura. Basta poco, quando già si vacilla, per arrivare davvero ad un pelo dal baratro e cascarci dentro. Io son già alle prese con il mio equilibrio precario, con gli occhi inutili o quasi... Ora, a parte i primi ed alcuni gruppi che hanno, sul resto dei partecipanti, un notevole vantaggio, la mia corsa diventa una sofferenza; ogni momento tocca farsi da parte, lasciar passare chi sopraggiunge di corsa, fermarsi ripartire fermarsi ripartire, con sommo strazio per i muscoli ed il morale. Sono a dire poco furiosa: ma qual è quella mente ignobile che ha pensato bene di sovrapporre due percorsi, ad una sola ora di distanza tra le partenze, su sentieri dove passa una persona per volta? E' un incubo per chi deve cedere il passaggio, ed anche per chi si trova di continuo la strada bloccata! Sale l'ancoscia, orecchie dritte a captare il passo veloce, il respiro affannoso di chi s'avvicina, frenetica ricerca di un francobollo di spazio su cui fermarsi e ripartire. Ancora, ed ancora: adesso basta... Non è colpa di chi corre la 32 km, ci mancherebbe, ma non è nemmeno colpa mia! A questo punto, chi arriva non è certo più in lotta per la classifica... Non mi sposto più, basta; sarà chi vuole strada a dover pazientare finché avrà occasione e spazio per prendersela.

Pochi attimi mi regalano un po' di pace e tregua; che spettacolo però quando il sentiero mi sputa fuori da un odioso tratto di marcia forzata nel bosco, proprio sulla radura accanto ad uno splendido specchio d'acqua verde. Pazienza se poi c'è da superare un cumulo di grossi massi tondeggianti, facendo ricorso ad un'abilità da scalatore che proprio non ho. Me lo ricorda il polpaccio destro, che si contrae dolorosamente all'improvviso al primo accenno di movimento insolito. Mi aggrappo ai massi a pelle di leone: il corridore dietro di me li passa in tre balzi... C'è chi può!

Il supplizio della sovrapposizione dei percorsi mi accompagna fino al km 20, con il contorno di preoccupazione, di stanchezza, di pioggia che ormai scorre persino nelle vene al posto del sangue. Come se non bastasse, ci si è messo anche il telefonino; era in tasca, spento, s'è acceso da solo, è impazzito; emette suoni inconsulti, seleziona i tasti da solo, ne fa insomma una per colore. E non riesco neppure a spegnerlo! Dovrei togliere la batteria, ma non è proprio il momento... Lascio che sbraiti da solo; in fondo l'energia non è mica eterna: prima o poi la carica si esaurirà!

Arrivo al bivio in mezzo alla folla, senza accorgermene. I volontari, solerti, ci smistano: van tutti a sinistra... Io sola, a destra. Sola, davvero, nel nulla: una vera liberazione. Finalmente respiro, finalmente non c'è più nessuno che mi assilla. Sono ultima, e allora? Ora posso fare davvero il mio passo. La carrozzabile su cui sto correndo scende con pendenza quasi impercettibile, lentissima, sempre più giù accanto alle acque impetuose di un torrente, tra boschi e torri di rocce e terra rossa; fango, sabbia e pensieri, un po' alla corsa ma più spesso lontani, ad altri luoghi, altre persone, altre corse, altri sogni. Approfitto delle fontanelle per fare il pieno alle borracce; benché stia diluviando ormai da ore, la sete c'è ed è tanta. Quasi mi stupisco del fatto che le mani non siano per nulla intirizzite, anche se, stringendo i pugni, l'acqua che ha inzuppato i guantini cola giù a catinelle. Di tanto in tanto, sembra quasi di scorgere un raggio di luce: ma è senz'altro uno strano gioco degli occhi stanchi ed appannati.
Finalmente, dopo l'infinito tratto da correre, raggiungo il bivio dove ha inizio una nuova salita. Ci sono due volontari infreddoliti che mi chiedono se io sia l'ultima: presumo di sì... Ma come faccio a saperlo con certezza? Inizia qui un'altra lunga salita, per quanto possa essere lunga una salita da quattrocento, quattrocentocinquanta metri di dislivello al massimo, ripida e fangosa, anzi sempre un po' più fangosa. Dopo il Pic de l'Ours, la salita precedente, è la volta del Pic de Cap Roux. Il sentiero, a circa metà salita, sbuca su uno spiazzo ove passa una strada asfaltata: me lo ricordo alla perfezione, questo luogo, non appena riemergo dai meandri del bosco; ci sono stata in bici, pochi mesi fa. Altro bicchiere di Coca e si riparte, ancora verso l'alto, verso le sferzate del vento che sbattono addosso ancor più violenta la pioggia ormai incessante. Le raffiche, in certi punti esposti, sono talmente forti da sbilanciare la già precaria posizione che si può conquistare ancorati al fango od alle rocce scivolosissime, in salita e soprattutto in discesa. Corro dove posso: non sui sentieri più ripidi, non sulle insidiose pietraie. Ho perso ormai da un po' la nozione del tempo; non ci sono nemmeno le ombre, l'intensità della luce a darmi l'idea: pare che oggi sia una sera perenne!

Nella lunga discesa che segue, prima come sempre su sentiero scosceso e poi su interminabile mulattiera tutta da correre, commetto il mio grave errore. E' difficile da spiegare, ma è una sorta di sdoppiamento della personalità. La parte razionale sa perfettamente che non posso ancora essere vicina all'arrivo; anche se non ho un orologio, mi rendo ben conto che non ho camminato abbastanza, non ho faticato abbastanza per essere già nei paraggi del cinquantunesimo chilometro; insomma, visto che siamo in tema, deve ancora passarne, di acqua, sotto i ponti e sulla mia giacca! La parte ottimista però vede il mare, o meglio lo intuisce, vede la strada in costa, i paesi lungo il mare che disegnano la linea della spiaggia. Il mare no, non lo vede perché non può distinguerne il grigio dal grigio uniforme del cielo, ma sa che c'è. E fa un affrettato due più due che in questo caso di certo non fa quattro: ora si scende verso La Napoule! Sì, un par di cavoli... Corsa e ancora corsa, sempre lenta e misurata, sentiero ampio interrotto solo per un chilometro da un tratto su strada asfaltata, occhi puntati a scrutare la montagna, intuire una linea di passaggio, un'irregolarità nel fitto della vegetazione che possa far pensare ad un sentiero. Di tanto in tanto, un morso di barretta o una ciucciata di gel energetico; come sempre, sto mangiando troppo poco, ma non ho voglia d'altro. Si scende fin quasi in riva al mare, anzi no, proprio in riva al mare; un sentierino che diventa sempre più impervio e sacrificato tra i rovi, s'infila sotto la strada, sbuca in spiaggia, proprio su una piccola spiaggia dall'aspetto tristissimo, cumuli di rifiuti a farle da contorno, onde grigie e rabbiose che schiaffeggiano gli scalini sulla sinistra, dove si sale per raggiungere il punto di controllo. Poi si torna un po' indietro, si riattraversa il fitto del sottobosco, che davvero comincio ad odiare fieramente. Qui incontro alcuni personaggi che devono ancora giungere al controllo: proprio ultima non sono... Ma qualche sventurato l'avevo già ripescato nell'ultima salita. Salita, anche qui, ancora salita, verso destra; regolare, dolce, ma tutta uno slalom tra le pozze. Ormai non me ne preoccupo più; ci tuffo i piedi senza troppa delicatezza, tanto, più fradici di così... Si sale ancora. Non è finita. Ovvio, Gian, che non è finita, te l'avevo detto io. Cosa pensavi, d'esser così fenomeno da poter macinare cinquantun km senza accorgertene? Beh ma se non è finita, questa comunque sarà l'ultima salita... Pia illusione. Altro lungo traverso a mezza costa, tutto da correre, e poi il bivio verso il Pic de l'Ours: me ne stupisco; al Pic de l'Ours siamo già passati. Infatti, poco più avanti, si lascia il sentiero principale in favore di un altro, che piega tutto verso destra e riporta in vista della costa, del mare.
La discesa però punta verso una valle che, a vedere da quassù, non sbocca al mare. Quindi, anche se il cuore vorrebbe potersi illudere che sia finita – ma perché oggi lo desidero così tanto? - mi sa che non è finita affatto, non ancora. La strada, sterrata ma ampia e liscia, scende inesorabilmente a fondovalle, costringendomi ancora alla corsa. Le gambe per ora non fanno male, ma sono appesantite, irrigidite. Chissà quanto dureranno ancora. So che non lontano avanti a me ci sono altri due o tre corridori, ma non riesco a vederli, né aguzzando la vista lungo la strada sotto di me, né seguendo con lo sguardo improbabili linee di sentieri in mezzo ai boschi delle montagne che incombono su di me. Del resto, senza occhiali non ho speranza. Ancora e sempre sotto la pioggia che martella, mi trascino poco convinta giù per la strada: ecco, là in fondo c'è l'incrocio con una strada asfaltata. Se si gira a destra, può darsi che si vada verso il mare... Invece no. A sinistra, verso una cancellata. Come... Devo entrare qui dentro? Ma qui c'è un capannone, sembra il cortile di un'azienda, possibile? Incollo come sempre il naso alla balise; se avessi il fiuto del mio cagnone, mi sarebbe utile. Dal riparo dello spiovente del capannone, spuntano sotto il diluvio due loschi figuri: mi chiedono il numero e mi indicano... La salita. Mi volto, tutto quel che vedo è una ripidissima pietraia in mezzo al bosco, con una corda nel mezzo, appesa lassù chissà dove, non vedo. Mi si ferma il cuore... Quella? Ma questi son dei pazzi furiosi... Gian qui non puoi, non devi pensare, buttati. Mi butto, mi aggrappo alla corda che è l'unico appiglio possibile, tiro con tutte le mie forze, cerco di salire e scivolo di continuo sulle pietre che rotolano sotto le mie suole, cado, riprovo, cado ancora, salgo pian piano, due passi avanti ed una scivolata indietro, con il terrore di voltarmi e vedere sotto, di mollare la presa e non poter fermare la caduta. Panico, non lo controllo più, scoppio a piangere: tra i singhiozzi convulsi che non mi lasciano respirare, le lacrime che mi levano quel poco di vista, continuo a trascinarmi rabbiosamente su, attaccata alla corda, agli arbusti che più in alto segnano qualcosa che sembra una traccia di sentiero. La mano destra sanguina, forse mi sono ferita cadendo, ma non sento nulla, solo paura, voglia disperata di scappare da qui. Ma non ho scelta, non posso fare altro che continuare, ancora, sperando che sia davvero finita, ma non lo voglio pensare, perché poi ci sarà un'altra delusione. La vetta, si vede il mare, ma è un'anticima, ce n'è un'altra davanti. Le case, le borgate vicine, forse è finita davvero, l'autostrada laggiù in fondo, il pianto che non vuole smettere. Meno male che non c'è nessuno qui intorno, Gian, nessuno che ti veda, dai, cammina, guarda il sentiero laggiù, questa volta è finita per forza. Vorrei tanto che ci fosse una persona qui con me... Vorrei vederlo salire il sentiero, come già ha fatto alle Porte di Pietra, e pazienza se questa volta non mi portasse la Coca Cola, basterebbe che mi portasse una parola. Ma non è possibile; oggi, Gian, te la devi cavare da sola.
Rabbia, impotenza, zig zag del sentiero, il mare sempre più vicino, il rumore delle auto e del treno che non sono mai stati così piacevoli, le lacrime che forse han voglia di asciugarsi, facciamo finta che sia stata solo la pioggia a bagnare la faccia. Asfalto sotto i piedi, le ultime balise in direzione del porto. Riesco ancora qui a sbagliare strada, perché, giù dalla banchina in terra accanto alla strada, mi sembra di vedere una traccia di sentiero ed un segnale rosso e bianco... Mi butto giù nel fango, ci arrivo, non è una balise, è solo una scatola buttata lì; risalgo faticosamente, rispunto sulla strada e chissà cosa pensa chi mi vede spuntare da in mezzo ai rovi mentre passa in auto. Trovo la traccia, attraverso il porto, la spiaggia, grigia come il mare ed il cielo. Salgo e scendo rampe di scalini, tante, troppe, su e giù; il castello è là in fondo e sembra sempre lontano. Pescatori mi osservano passare, perplessi e forse un po' scocciati. Finalmente la spiaggia da cui siamo partiti: sento la voce di un altoparlante, ma qui c'è solo un arco abbattuto per terra, non c'è nessuno... Mi fermo, delusa e perplessa: possibile che sia già finito il tempo massimo? Possibile che non ci sia proprio più nessuno? Dove devo andare adesso? Mi fermo, desolata, sotto la pioggia... Poi imbocco una scalinata in mezzo ai tavolini vuoti di un bar; ah ecco... L'arrivo è sulla strada, non più in spiaggia. Fine: non ritiro nemmeno la maglietta, non tocco il ristoro, voglio solo andare via. Fine del supplizio anche per il povero Mik che, interrotta la sua corsa per un problema al ginocchio, ha dovuto attendermi fino ad ora: nove ore e mezza per i miei 51 km. Si torna a casa: spero che mia sorella, dalla sua cena tra amici di ieri, mi abbia lasciato qualche avanzo!

25 aprile 2009: Turini andata e ritorno

Capita molto, ma molto di rado che il tarlo del dubbio s'insinui a tentar di sforacchiare la corazza del mio convinto ateismo. Succede, ad esempio, quando Mik mi offre, sua sponte, più o meno, di partire da casa alle cinque e un quarto del mattino. Cioè, per lui, del fondo della notte fonda. Allora un dio da qualche parte esiste... E mi ama! Che Mik stia mettendo giudizio? O che stia perdendo il senno pure lui? Dipende dai punti di vista. Fatto sta che questa volta siamo in due, Max ed io, contro uno a voler saltare in auto ad ore antelucane, per raggiungere Nizza, anzi precisamente Saint Laurent du Var, ad un orario sensato per riuscire a pedalare duecento e rotti km col favore della luce. E di qui a laggiù ci vogliono almeno tre ore, anzi di più. Certo, da sola o con il buon Max sarei partita alle quattro e mezza... Ma suvvia Gian, sforzati, fai un piccolo esercizio di diplomazia. Conta fino ad unmilionesettecentotrentamilaventisei e respira forte. Ci vuol pazienza, con i ciclisti...
Saltiamo in sella alle otto e mezza circa, lagnandoci già per la temperatura, che speravamo ben più confortevole. Tira un vento freddo che fa rizzar la pelle d'oca sulle parti scoperte: poche, per quanto mi riguarda... Ormai ho imparato che quest'anno il caldo me lo posso sognare; quindi, Costa Azzurra o no, ho comunque scelto i pantaloni ¾ felpati ed i manicotti. Si parte tra i capannoni: supermercati, magazzini di mobili, elettrodomestici, bricolage, chi più ne ha più ne metta, un sole un po' velato a scaldar la schiena. E slalom tra i crateri di questo disgraziatissimo asfalto, tentando di seguire la ruota di Mik ma non troppo: ho sempre paura di far qualche mossa azzardata e toccare la bici di chi mi precede. Verrebbe fuori un bell'ammucchio, per carità! Almeno non all'inizio del giro!
Siccome poi lo spirito è forte ed asceticamente votato alla bici, ma l'occhio è debole ed ogni tanto cade, capita per caso che io osservi un particolare che mi fa temere, per il povero Mik, un accadimento irreparabile prima di sera... Ma taccio, per non preoccupare inutilmente il malcapitato, che tanto non potrebbe far nulla per risolvere il problema.
Vaghiamo un po' senza meta tra le rotonde, a caccia di un fantomatico ponte che effettivamente poi esiste; passato il Var e gli insidiosissimi binari, svoltiamo a sinistra. Tra un po' si dovrebbe incontrare il bivio che ci porterà via dallo stradone: lo spero bene, perché di pianura e di vento ne ho già abbastanza. Al primo tentativo, finiamo nel cortile di un'officina Renault: ritenta, sarai più fortunato; torniamo indietro di poche decine di metri, contromano sullo stradone, ed imbocchiamo, questa volta, la retta via. Una bella strada secondaria, con rampe di tutto rispetto e tornanti che in un attimo ci portano su in alto, in vista della piana del fiume; strappi e tratti a pendenza più dolce, in un'alternanza che fa soffrire in modo ignobile le gambette. Mik è già sparito nel nulla, mentre Max come sempre ha pietà di me ed evita di scappare via.
Saliamo tra fiori e profumi, in fondo gli unici cenni di una primavera che anche qui stenta a dare segni di vita; Castagniers è il primo piccolo centro abitato che attraversiamo. Di tanto in tanto, Mik si raccoglie in paziente attesa nei pressi di qualche bivio... Chissà perché non raccoglie il mio suggerimento di portarsi dietro la Settimana Enigmistica! Potrebbe approfittarne per allenare, oltre ai garretti, anche le meningi.
L'ascesa è allietata, o forse al contrario turbata, da un intenso profumo di sugo, qualcosa tipo ragù, ben poco francese: sarà qualche italiano con la casa in Costa Azzurra, che fa tanto stile, ma chi caspita è che cucina il sugo di carne a quest'ora del mattino? Allora non sono l'unica amante delle colazioni pesanti... Solo che io, vegetariana convinta, stamattina alle quattro e mezza mi sono spazzolata i tortelli ricotta e spinaci.
Salite brevi, discese brevi, giungiamo ad Aspremont, piccolo e grazioso paese ormai illuminato da un bel sole tiepido; da lì altro bivio, sinistra, lunga e blanda discesa fino ad un paesello che è una contraddizione in termini: Chateauneuf-Villevieille. Il Chateau a dir la verità non lo vedo, ma son troppo impegnata a guardare dove metto le ruote. Attraversiamo l'abitato, scendiamo ancora, ma Mik ordina l'altolà: il GPS sentenzia che siamo fuori strada. Andiamo avanti, torniamo su? La seconda; qualche centinaio di metri e torniamo nel paese. Un cartello un po' ambiguo indica Bendejun, che è sulla nostra rotta; certo che questa strada è tale per modo di dire. E' minuscola, dissestata e sporca di sabbia e pietrisco: se ne accorge ben presto Max. Un sibilo inconfondibile: gomma a terra. Maremma! Pausa imprevista ma, devo ammettere, anche gradita; il sole c'è, anche se incerto, e riscalda un po' le ossa. Qualche auto, qualche bici, che traffico per una stradina così! E poco più avanti, posto rimedio al fattaccio, superiamo un cortile da cui si lancia all'inseguimento un cagnone: feroce all'apparenza, mi lecca la mano non appena gliela porgo per accarezzarlo.
Ormai siamo in “zona Turini”, beh, quasi: Coaraze è ancora distante dalla vetta, ma è uno dei paesi che richiamano immediatamente uno dei versanti della salita. Lunga e dolce marcia di avvicinamento verso Peira Cava, bella ascesa nel paesaggio tipico di queste “montagne di mare”, bianche di terra e verdi di vegetazione rigogliosa e clima secco. Quasi sempre... Anche oggi il giro della cima ce lo possiamo scordare: si vede già da qui, che la neve c'è ancora, troppo bassa.

Al Col St Roch arrivo un po' affaticata, ma non posso permettermi di andare in crisi: anche perché il colle per noi è finto; è un quadrivio, ma noi dobbiamo imboccare la strada che continua a salire. 8 km a Peira Cava, 15 al Turini, anche se l'ascesa vera è più breve; i chilometri finali prima del colle sono lunghi, interminabili saliscendi. Insomma, il solito colle finto.
Ci tocca, purtroppo, una sgradita sorpresa: a quanto pare, oggi quassù è in corso un rally, o qualcosa del genere. Il colle è affollatissimo di auto e spettatori, alcuni interessati all'aspetto sportivo dell'avvenimento, altri ben più ispirati da quintali di costine e cascate di vino e birra. Anche la più squallida delle piazzole casca a pennello per un picnic! Proseguo e taccio; la mia pena è un po' alleviata dai tornanti che da qui si susseguono stretti e secchi, solo un basso parapetto in pietra a nascondere un po' l'effetto del vuoto, la vallata che si apre ampia. Taccio perché non mi va di ammettere la fiacca, nemmeno a me stessa. E mi distraggo scaricando la stizza sulle auto che intasano questo paradiso, qui dove speravo di trovare un po' di pace; un sacco di gente che con la montagna non ha nulla a che vedere, che porta quassù le proprie chiappe solo perché ci ha messo sotto un motore, che starebbe meglio a far grasso ad un tavolino del Mc Donald's o tra gli scaffali di qualche megamercato di pianura... Ovunque, ma non qui! Odiosi perché vogliono rubarmi la mia strada, perché vorrebbero prendersela a suon di clacson e gestacci, ma no, mi spiace, io sto qui e non mi sposto. Da Peira Cava in avanti, poi, metà della carreggiata è occupata dai gazebo delle squadre che assistono ciascuna auto in corsa: accozzaglia di persone in tuta da meccanico, attrezzi, compressori, cerchi, pneumatici, braciole, bottiglie di vino, di Coca, marmocchi urlanti. Povero il mio Turini... Se potessi ti scrolleresti di dosso tutto questo ciarpame, lo so, tutti giù a fondovalle li faresti rotolare. Come ornamento per le tue pendici, quassù, solo la neve che ancora resiste ai raggi di un sole finalmente tiepido. Lo so, sono intollerante. Anche questa gente, in fondo, è qui per divertirsi, come me: ma io non porto quassù fumo e frastuono, al massimo si sente solo il mio respiro affannoso, anzi ogni tanto, quando marca proprio male, non si sente quasi più nemmeno quello.
Max va a caccia di una pompa che possa gonfiare un po' meglio la camera d'aria sostituita dopo la foratura: con tutto questo armamentario d'attrezzi in giro, ci sarà ben qualcosa che fa al caso suo, no? A quanto pare, no... Proprio niente che si adatti alla valvolina. Procediamo con quattro occhi per uno, tanta è la gente che si muove a mò di gregge di pecoroni a destra ed a manca, senza guardare nulla; poi ci sono anche le auto che vanno su e giù tra i box. Tutto ciò, per arrivare in cima e sentirci dire che no, non possiamo scendere dalla strada che avremmo voluto imboccare. Chiusa per rally. Andiamo bene... Siamo perplessi. Mik, per inciso, è pure mezzo ibernato, chissà da quanto tempo ci aspetta quassù. Che fare? Non resta molta scelta, se non tornare indietro. Prospettiva che mi turba soprattutto perché tocca riattraversare la bolgia infernale, in discesa stavolta. Amen... S'ha da fare, non indugiamo, si parte, con qualche rischio in più di prima, perché ora la velocità è superiore. Nel marasma, siamo ignorati o, peggio, trattati con fastidio dai conduttori dei bolidi fracassoni – fracassoni sia gli uni che gli altri. Il Col St Roch è una liberazione... Da lì in poi, le strade nostra e del rally si dividono. Torniamo alla quiete, ripercorriamo i nostri passi, e si sa che il ritorno è sempre più breve, più rapido, meno doloroso: ormai la strada la si conosce, non fa più paura. Scrutiamo gli orologi per capire se, una volta tornati nei pressi del punto di partenza, avremo ancora il tempo di aggiungere un'appendice, magari un'altra salita. A ritroso, Coaraze, Bendejun, Chatoneuf-Villevieille, Aspremont, Castagniers, Saint Jeannet. Ed io sto, con mia gran sorpresa, molto meglio di quanto non mi sentissi questa mattina, o anche solo poche ore fa. Saranno più o meno le sei del pomeriggio, il sole è ancora alto e tiepido sulla pelle.

Qui ci separiamo: Max preferisce tornare subito verso l'auto, a St Laurent du Vars, mentre Mik ed io abbiamo in mente di aggiungere al giro ancora un'appendice. Raggiungere Vence... E magari salire al Col de Vence, meno di dieci km per, boh, 900 m di dislivello da qui? Sepoffà. Anche perché non ho ancora alcuna voglia di rientrare; mi sento come se potessi ancora procedere indefinitamente. Finché non mi si esauriscono le scorte di pappatoria e non mi assale la fame! Evento più che possibile, visto che oggi ho mangiato decisamente poco per i miei gusti.

Arrivare a Vence non è un problema; c'è qualche km di saliscendi, molto blando, niente di che, solo un po' di traffico, il sole già basso sulla schiena. Nel paese, come da copione, ci perdiamo: dove diamine è finito il bivio per il colle? E chi ne ha la più pallida idea... Proseguiamo un po' verso Grasse, poi torniamo indietro; stavolta, in questo senso, addocchiamo il cartello. E troviamo la strada: 9 km, col sole che va giù. Mik sparisce subito: non faccio in tempo a raccomandargli di non attendermi in cima... E' il caso che io mi dia una mossa, perché qui stasera si fa notte. La pendenza qui non è mai accentuata, ci sarà qualche tratto al 7-8%; vero che sono stanca, ma è anche l'ultimo sforzo. Anzi no, non è nemmeno vero che sono stanca; dovrei esserlo, ma al momento mi sento benone. Strada ampia, curvoni dolci che si vedono su contro la collina brulla; i cartelli chilometrici che si susseguono tutto sommato abbastanza in fretta, -8, -7, -6... Ombre sempre più lunghe, colori caldi ed intensi, vento che qua e là s'infila nella valle e soffia e mette i brividi. E fame, tanta fame: vorrei farne a meno, invece mi trovo, a pochi km dalla cima, a dover addentare una barretta che avrei voluto conservare per la corsa di domani. Mi alzo in piedi sui pedali, vorrei accelerare un po' ma senza esagerare. Alla penultima curva incrocio Mik che scende: meno male, ci ha pensato da solo, a non restare ad ibernare lassù. Al colle manca poco, meno di un km: ci salgo per toccata e fuga, tira vento e fa un gran freddo; mi vesto, di gran carriera, ridiscendo verso Vence.

Come d'accordo, Mik mi aspetta in paese. Ora si pone il problema di rientrare all'auto, a Saint Laurent du Vars. Dovrebbe esserci una via diretta da qui... Già, ma chissà dove! Il sole ormai sta per salutarci; è ora di sbrigarsi, se vogliamo evitare di farci venir buio addosso. Ma si sa, che chi lascia la via vecchia per la nuova, spesse volte nel liquame si ritrova. Basterebbe ripercorrere la strada fatta all'andata, dopo aver salutato Max, ma no, noi abbiamo fretta e ci lanciamo giù per una stradina che, in mezzo alle case, scende verso il mare. O meglio; ci sembra che scenda verso il mare. Invece no: scende, un bel po', e poi risale. Fantastico! Ridiamo per non piangere, frustiamo i muscoli ancora un po', risaliamo fino ad una strada più ampia, che mi sa di retta via, finalmente. E chiediamo, questa volta, informazioni! Sì, siamo a buon punto; un losco figuro che parla italiano ci illumina: cinque km e saremo a Saint Laurent. Cinque km di discesa, vento improvvisamente rabbioso, prime gocce di pioggia e nuvoloni neri ancor più neri al tramonto, che preparano per noi la giornata di domani. Correremo sotto il diluvio, così ha promesso MeteoFrance, che non mente mai, soprattutto quando annuncia sfiga. Ma ora non ha grande importanza; conta che abbiamo faticosamente riguadagnato l'auto, con oltre 190 km e enne mila m di dislivello nelle gambe, boh, e che non ci resta che concederci una lauta cena a base di pane, Gorgonzola, Asiago, yogurt, dolce con la crema e Coca Cola. Il Gorgonzola è il segreto dei campioni... Ma non ditelo a nessuno!