giovedì 7 gennaio 2010

3 gennaio 2010 - A spasso sui monti di Arenzano

"Meno sette?". No, non è possibile; quel termometro lì è ciucco... Uno dei tanti pannelli luminosi lungo l'autostrada, più o meno all'altezza di Marene. Secondo la Opel, la temperatura è negativa, sì, ma di poco. Del resto, il cielo è limpidissimo, un affollamento di stelle all'ora di punta, e l'aria idem; si vedono le luci a grande distanza. Matteo è taciturno stamattina, caso più unico che raro. Sopporta con malcelata insofferenza il mio vizio di passare convulsamente da una stazione radio all'altra: il problema è che io ho bisogno che qualcuno, o qualcosa, mi tenga sveglia; altrimenti, mi addormento sul volante.
La prima luce del mattino ci accoglie già prima di Savona: "In una giornata così, può darsi che si veda la Corsica", sentenzia Matteo. Tappa in autogrill appena prima di uscire al casello di Arenzano: son quasi le otto, ormai è chiaro; una lingua di nuvole si avvicina dal mare; nuvole rosse come il fuoco, la stessa luce che infiamma la superficie dell'acqua, la costa, le montagne. Quando esco, Matteo mi trascina a guardare il mare: io resto sbigottita dai colori, ma lui, che è uomo pragmatico e geografo, mi mostra una sagoma che emerge dall'acqua. Sembra vicinissima, a pochi km dalla costa: ecco, aveva ragione; quella non può essere altro che la Corsica. Vedo così quest'isola per la prima volta: tempo fa, s'era pensato di andarci, portando la bici.... Ma poi non se n'è fatto nulla; almeno, non per me che, quando viaggio, preferisco poggiare il prezioso posteriore sul sedile dell'auto. Detesto dipendere da mezzi che non posso guidare io!

Parcheggiamo a Lerca, la Opel accanto al furgone di Matteo, che è qui da ieri. Già: il tapino, sfumati i due giorni da trascorrere in Costa Azzurra per colpa del mio incidente, ieri mattina è partito da casa mia, ha portato il furgone qui con sopra la bici ed è tornato a casa, sempre la mia, in bici. Giusto quei centotrenta km per gradire, con quel vento da uragano che soffiava in collina ed in pianura, una faticaccia improba. Dio fa gli asini e poi li accoppia, disse un giorno qualcuno...

Il freddo si fa sentire, anche se siamo al mare. Il pieno sole inganna, ma la pozza al centro dello spiazzo è gelata. Ben imbottiti, ci avviamo di buon passo lungo la strada principale del paese: il primo incontro della giornata è un cagnetto ispido, col pelo a ciuffi dritti, marrone, ed occhi e tartufo dello stesso colore. Lo prendo un po' in giro, s'offende, abbaia indignato. E poi un micio, nero, pasciuto, impassibile sullo zerbino davanti all'ingresso di casa. Un saggio: vive e lascia vivere. Risaliamo tra giardini, siepi e piante rampicanti sui reticoli; il sole si alza, ma un sottile strato di nuvole è già arrivato a velarne il calore. Nuvole alte, uno strato sottile, che non toglie nulla alla limpidezza dell'aria: non appena gli ostacoli lasciano spazio alla vista, si distinguono nitidi particolari lontanissimi. L'asfalto ci accompagna per un breve tratto, tra case nascoste da alberi e siepi, che si intuiscono solo dalle cancellate d'ingresso. Ci assale un ferocissimo cagnetto, di quelli piccoli e pelosi che somigliano ad uno strofinaccio da pavimento. La padrona, sconsolata: "Ho anche un dobermann, ma non è feroce come questo...".

Il passo un po' fiacco, e certo il panorama qui non incoraggia: attraversiamo l'orrendo cantiere, un po' più abominevole ogni volta che passo di qui. Un insulto alla montagna, al buon gusto, a qualsiasi minimo senso estetico. Attendo di vedere, la prossima volta, lo scempio completo di colori da pugno nello stomaco. A Matteo, più pragmatico, non sfugge la carcassa di una gru, divelta forse dal vento dei giorni scorsi. Poi, finalmente, ci lasciamo alle spalle la mostruosità ed imbocchiamo un sentiero. Una bella salita, lunga ed impegnativa, almeno per il mio stato di oggi, un po' larvale. E' pur vero che son passate meno di quarantott'ore dal mio volo parabolico prima sul cofano di un'auto e poi a terra... Ma non credo sia una buona scusa. Povero Matteo: dopo avergli fatto saltare i due giorni di vacanza in terra francese, ora lo costringo anche a far la muta, silente balia ad un rottame ambulante.
Un breve tratto di discesa ci porta nel paesino di Sciarborasca, accolti dai cani che girano liberi anche fuori dai cortili delle loro case e da un intenso profumo di pane che sfugge ai vetri appannati della panetteria. Della fatica per ora non ci accorgiamo, intenti a disquisire sulle teorie di alimentazione nell'ultramaratona, scovate in un libro che entrambi abbiamo letto recentemente. Teorie che, com'è ovvio, respingiamo entrambi con fermezza: sostengono che, in una corsa da 100 km, sia opportuno evitare di ingurgitare cibi solidi, per non sottrarre sangue ai muscoli... Ma per favore! Poi la pendenza s'impenna e ci mette a tacere; abbandoniamo un'altra volta l'asfalto per inerpicarci su un ripido sentiero.

Il bosco, i pini si fanno sempre più radi, poi in fretta scompaiono. Davanti agli occhi la parte alta della valle, pelata come una zucca. Niente alberi, solo erba e qualche minuscolo nevaietto. "E' spoglio così per sua natura, questo posto, o è opera degli incendi?". No, probabilmente è solo il vento. Ho solo i guantini da bici, salgo con le dita scoperte che, passo dopo passo, sono sempre più gelide ed insensibili. Che imbecille... E dire che li ho lasciati a casa volontariamente, i guanti lunghi! Proprio non pensavo potessero servire. Invece servono, eccome: mi trovo sul sentiero a schivare i rivoli d'acqua ghiacciati; ogni cascatella è oggi una custodia di ghiaccio per i fili d'erba. Il terreno crepita, gelato anch'esso, sotto le scarpe. Guardando il mare, la Corsica si vede ancora, nitida: anzi, le isole che si vedono son due; nella mia somma ignoranza, non saprei dare nome alla seconda. Mi soccorre Matteo: si tratta probabilmente di Capraia. Ok, Capraia, venduto.

Un salto di roccia nasconde una stalattite anomala: è storta, formata nel senso del vento, sembra la fotografia di un nastro di stoffa steso ad asciugare ed agitato da una corrente d'aria. Non posso farmi mancare una foto: ne approfitto anche per attingere alla busta di frutta secca, e naturalmente per condividerla con il compare, che sempre esige congruo tributo su qualsiasi genere alimentare che ci si porti dietro. Poi riprende la salita: ma il cielo ormai è vicino; a meno di sorprese, oltre la spalla d'erba, poco sopra di noi, la prima salita dovrebbe essere conclusa. Infatti, spunta una casermetta in pietra, con tanto di rudimentale recinto in legno; forse comincio a raccapezzarmi... A furia di passare e ripassare di qui, ho imparato che questa è l'Alta Via dei Monti Liguri. C'è gente a passeggio, in una giornata così rigida; "Si arriva in auto a Prariondo", osserva Matteo: ah... Ecco il perché.
Lo sterrato dell'Alta Via è tutto una lastra di ghiaccio, che quasi ci si potrebbe pattinare. Anche da quassù, splendida vista sul mare, sulle isole, sulla costa ed i monti imbiancati verso La Spezia, ma le mani sono gelate e fanno male da piangere. Provo a scuoterle, a batterle, a strofinarle, come si legge nei libri di alpinismo; rifiuto però ostinatamente l'offerta dei guanti del mio compare. Non sia mai... Matteo s'improvvisa chirurgo, tenta di risistemare alla bell'e meglio il cerottone che si è staccato dal mio mento: niente da fare, non tiene più. Pace: vorrà dire che, da questo momento, offrirò a chi m'incontra l'inquietante spettacolo dei miei tre punti ben in vista. Un lavoretto di punto croce niente male.
Un po' di slalom tra le pozze ghiacciate, in un ambiente che sembra irreale, immobile. Passo Prato Ferretto: indugiamo un istante, poi il capo spedizione ordina di andar giù, dritto, lungo un sentiero che inizia con alcuni gradini di terra trattenuta da assi di legno. Scendo più malferma che mai, con la paura di scivolare sul ghiaccio che si aggiunge a quella di inciampare, e le mani gelide ed insensibili che fanno poca presa sui bastoncini. Picchio le punte sulle pozze solidificate: resta appena un segno, come quello che lascia la pallottola sui vetri antiproiettile. Dev'essere parecchio sotto zero la temperatura, oggi...

Raggiungiamo una fontana, Fonte Spinsu: un solo zampillo d'acqua e, tutt'intorno, ghiaccio in forme arrotondate, simili a bolle che scintillano alla fioca luce del sole; fili d'erba e rami paralizzati nella loro prigione di cristallo. "Risaliamo subito di qua", ordina Matteo, indicando un sentiero sulla sinistra. Agli ordini. Però, non è possibile che il clima ordinario, da queste parti, sia quello che ci accoglie oggi. Tutto qui intorno è verde, sa di caldo; ci sono persino i fiori. Le temperature siberiane degli ultimi giorni devono essere per forza un'eccezione.

La nostra meta, adesso, è il Monte Argentea. Nome che io ho sempre pensato si pronunciasse con l'accento sulla prima e: invece, a giudicare da ciò che dicono gli autoctoni, si pronuncia "Argentéa". Chissà perché, da cosa deriva? Segue un lunghissimo sentiero in falsopiano, che attraversa numerose lingue di pietraia. Orrenda, per me, la pietraia; uno dei tanti terreni su cui mi sento più che mai precaria e malferma. Tendo ad avanzare a tre, quattro zampe; non mi fido delle pietre che illudono con sicuro appoggio e poi si muovono malandrine sotto il piede. A volte mi chiedo, davvero, che c'entro io con la montagna, io che non ho alcun equilibrio ed ho terrore di tutto, anche della mia ombra. Matteo, paziente, di tanto in tanto si gira ed aspetta.
Raggiungiamo una radura, in un momento in cui il sole fa sentire più forte la sua confortevole presenza. Monte Argentea, o.15 h, recita un cartello: lo seguo. Sgranocchiando cioccolato bianco con mandorle e miele, si arriva ad un rifugio, una costruzione in pietra dall'aspetto modernissimo, con tanto di pannelli solari e webcam. Davanti a noi, una punta tozza: seguiamo il sentiero, aggiriamo la vetta, fino ad arrivare a metterle le suole in testa: Matteo molto prima di me, che sul sentiero appena un po' più stretto incespico e rallento ancor di più. Vista spettacolare, da quassù, sia su Savona che su Genova; disteranno almeno trenta km, credo, ma sembrano vicinissime. Si vede persino l'isolotto di Bergeggi!
Un attimo di pausa alimentare per Matteo, di fotografia irriverente per me: prendo la buccia di banana e rifaccio il look alla madonnina di vetta, che assume così un aspetto decisamente hippy. Il tempo di una foto e rimuovo la creazione... Sarebbe forte la tentazione di lasciarla lì, ad esprimere disprezzo verso chi si sente per forza in dovere di piazzare croci e madonne in cima ad ogni montagna; però, osserva giustamente Matteo, non servirebbe: la prima folata di vento porterebbe via la buccia.

Scendiamo lungo un sentierino prima ripido, poi via via più comodo: itinerario che ci proietta in un attimo dalla luminosa vista sul mare ad un vallone scuro, tetro, dove colori dominanti sono il marrone ed il nero. Un sentiero che sembra non avere fine, che corre tra rocce aguzze, quasi lame precipitate dal cielo e conficcate nel terreno, e muretti a secco costruiti proprio a reggere il passaggio. Scende dolcemente, poi spiana, scende ancora; camminiamo e camminiamo, ma non ne vediamo la fine. Dall'Argentea si vedeva la Gava, ed è lì che dobbiamo andare a finire; la nostra marcia sembra però interminabile. Oggi poi io sono più goffa ed impacciata del solito, se possibile; il buon Matteo zampetta di sasso in sasso, io devo misurare ogni appoggio, puntare i bastoncini e sperare che l'appiglio tenga. Non sarei in grado di camminare in montagna senza il prezioso sostegno dei bastoncini. Non è proprio come avere due gambe in più, ma quasi. Anche qui, ghiaccio e pietra scivolosa; dietro ogni costone, ancora sentiero, ancora un altro costone. La luce del primo pomeriggio pare quella del giorno che già muore; sembra già tardissimo quando sbuchiamo sulla strada sterrata che conduce alla Gava. "Qui si potrebbe correre", sbeffeggia Matteo: vai, vai, se ci tieni. Per quanto mi riguarda, è già tanto se oggi mi trascino.
La temperatura è mutevole, o forse lo è la mia sensazione: in certi punti, vorrei quasi levarmi la giacca; in altri, brividi di freddo mi assalgono la schiena. Per quel che ne so, dovremmo tornare nei paraggi di una delle località che abbiamo già attraversato qualche ora fa; in direzione del Monte Rama, se ho ben capito, anche se quassù faccio ancora fatica ad orientarmi. Nella zona del Passo Gava, c'è un laghetto artificiale con una cascata: lo spettacolo che ci offre vale, da solo, la fatica del viaggio. Ai piedi della cascata, due alberelli sono completamente ricoperti di ghiaccio, dalla radice alla punta di ciascun ramo: sembrano creazioni di cristallo Svarowsky. Rimango a bocca aperta, mi avvicino per fotografarli; non avevo mai visto nulla del genere, soprattutto, non in Liguria, in faccia al mare! Oggi invece mi sono già imbattuta persino in alcune cascate di ghiaccio in miniatura...

Il tempo, o meglio le ore di luce, stringono. Se Matteo teme di dover fare un breve tratto dell'ultima discesa al buio, significa che, come minimo, ci toccherà farci largo per l'intera discesa nel cuore della tenebra della notte, e non è che la faccenda mi riempa di gioia. Lui fa i conti, sempre, su se stesso; mai una volta che si ricordi che, quando ci sono io, i tempi vanno dilatati a dismisura, almeno raddoppiati.
Man mano che ci arrampichiamo, il vento rinforza e gela la faccia. Altro che togliere la giacca, tiro su la cerniera tutto quel che si può. I denti rotti dolgono al contatto con l'aria fredda. Mi arrampico alla bell'e meglio, calpestando terra pallida e gelata, ghiaccio, persino neve; ritrovo gli alberi cresciuti con le fronde nella direzione del vento, quasi fossero stati tagliati a metà nel senso verticale. E, in cima, alla fine della salita, altri pini marittimi rimasti bassi, tozzi, oppure piegati dal vento fin quasi a strapparne le radici dal suolo. Curioso che questi alberi crescano sul crinale più esposto, mentre giù, sul pendio, non c'è traccia di altro che di erba.

Con le ombre già lunghissime, benché non siano ancora le quattro del pomeriggio, cominciamo la lunghissima discesa verso Lerca. Lunghissima e travagliata. "Un'ora e un quarto", sentenzia Matteo. Uhm. Ormai ho imparato a non dargli retta quasi mai, e soprattutto quando esprime pronostici sui tempi. "Vuoi che non ci basti un'ora e un quarto, per scendere di mille metri?". Ecco, se fossi un uomo, porterei immediatamente la mano a luogo innominabile. Va bé dai, tre ore e sarà fatta. Se solo potessi chiedere l'arrivo in salita... Le discese finali sono interminabili, ancora peggio tollerate di tutte le altre. E poi il sole è ormai basso; la temperatura scenderà in fretta. Percorriamo un tratto di sentiero scosceso, un salto che ci riporta al bivio con l'altro sentiero già battuto all'andata: quello che ci ha condotti all'Argentea. Realizzo a malincuore che toccherà attraversare un'altra volta, a ritroso, le pietraie, e stavolta con l'affanno della sera che incalza. A pensarci bene, poi, il buio non dovrebbe rappresentare quel gran problema: abbiamo entrambi una luce nello zaino. Vero, ma farà freddo, e poi abbiamo già avuto, oggi, un incontro, per fortuna non troppo ravvicinato, con i cinghiali. Non vorrei fare il bis!

Cammina e cammina, sempre in piano o poco altro: eccolo, il motivo per cui ci vuole un sacco di tempo per scendere di mille metri. Elementare, Watson: se tocca percorrere un sacco di strada in cui non si perde quota, la faccenda diventa lunga assai. Raggiungiamo però finalmente la Fonte Spinsu, dove il ghiaccio si è ritirato appena un poco rispetto a questa mattina. Ma non c'è tempo per contemplarne la bellezza. Giù lungo il sentiero che ci porterà a Lerca: "Guarda, il paese è già laggiù, si vede benissimo", dice Matteo. E sai che sollievo: si vedeva benissimo anche la Corsica, stamattina, ma da qui a là ci sono duecento km! No, la marcia si preannuncia ancora lunga; non solo per la distanza in sé, ma anche perché il sentiero è ricoperto, per lunghi tratti, di un soffice strato di foglie secche. Il piede affonda e non sempre trova appoggio saldo; talvolta è una buca, o una pietra che si sposta e rotola via. La scarpa fende le foglie come una barca sulla superficie del mare, ma i miei passi sono lenti, guardinghi. Già su terreno facile, inciampo con tale facilità che qui devo stare con quattro occhi ben aperti. Lerca appare, poi sparisce dietro il costone della montagna; le sue luci già accese e vivide nell'aria cristallina. Un tornante via l'altro, ci rituffiamo in mezzo al bosco; una sola esitazione, il rumore di frasche e pietre smosse: sono di certo cinghiali, che allontaniamo a colpi di pietre sbattute l'una contro l'altra.

Poi accade... L'imponderabile. Il sentiero attraversa un corso d'acqua che probabilmente, in tempi normali, non è altro che uno dei tanti rivoli in cui si buttano senza cura le suole per passare di là. Solo che, è chiaro, oggi non appartiene ai "tempi normali" e quello che ci troviamo di fronte non è un rivolo, ma un vero e proprio torrente. Matteo individua immediatamente un passaggio tra le rocce, poco più a valle del sentiero: due salti agili ed è dall'altra parte. Io no. Una cosa del genere non la posso nemmeno pensare. Guardo una roccia, l'altra e l'altra ancora. Mi vedo saltare, atterrare, scivolare sulla pietra bagnata e cadere malamente in acqua, chissà come. Provo a seguire l'itinerario di Matteo, solo usando tutti gli appoggi che ho; mani, piedi ed anche il posteriore. Mi ritrovo seduta su una roccia; Matteo fa il possibile per farmi scendere lungo uno scalino: cerca di rassicurarmi, offre l'appoggio delle sue mani, ma il mio piede non arriva al fondo, ed io non riesco a fidarmi di far peso su di lui. Per me è già panico: interminabili minuti di trattativa, alla fine scendo quello scalino, ma la roccia successiva è troppo lontana; mi trovo bloccata su un isolotto di pietra, una situazione grottesca, perché davvero basterebbe un salto, ma io non posso, non ce la farei mai. Il mio povero compagno di viaggio le prova tutte, per rassicurarmi, ma io sono già oltre: non è più il misero neurone che controlla la situazione, è il terrore. Guardo la roccia su cui dovrei arrivare, guardo l'acqua: non mi sembra poi così alta... Prendo la drestica decisione, ci salto dentro; per un attimo mi manca il fiato, l'acqua è gelida. A mollo fino alle ginocchia, tento di spostarmi verso la meta ideale. Ma non ho tenuto conto di quanto forte possa essere la corrente di un torrente, anche se mi ci sono immersa solo così; trascina via le gambe. Tento di muovere un passo, ma per il piede non c'è più sostegno: il fondo scende, troppo rischioso; precipitosamente torno in retromarcia alla roccia di partenza. Matteo fa il possibile per aiutarmi, ma ormai io non lo seguo più: mi arrampico, maldestra, sulla stessa sponda del torrente da cui son partita; risalgo un po' più in alto, dove passa il sentiero. Bagnata per bagnata, lo supero così: ancora a mollo, fino alle ginocchia; il contraccolpo della corrente mi fa vacillare, ma c'è un tronco incastrato, col ghiaccio sui rami. Mi ci attacco con la disperazione delle formiche che, da piccola, salvavo con gli stecchini quando le trovavo galleggianti nell'acqua della vasca per l'irrigazione dell'orto: così, mani ben salde ed avvinghiate al tronco, mi tiro avanti, due passi e sono salva. Con le scarpe, le calze ed i pantaloni zuppi, ma salva.

Sui dieci minuti che seguono, cala un gelido silenzio. Matteo, forse arrabbiato, forse spaventato, forse tutt'e due: "Dovevi fidarti, ti avrei tenuta". Già, fidarmi. Col rischio di trascinare in acqua anche te, che pesi poi poco più di quel che peso io. E' vero, il salto va spiccato senza chiedersi come si atterrerà dall'altra parte, altrimenti non è un salto, diventa un rovinoso tonfo nell'acqua, Ma io ho il terrore, anzi so già che dall'altra perte non ricadrò in piedi. E' l'ennesima dimostrazione di come il minimo intoppo sia sufficiente a farmi perdere il controllo. E non mi spiego come mi riesca, in alcune situazioni di certo più rischiose, di manterere una calma glaciale, e poi in altre come questa, a dire poco ridicole, di sbandare, terrorizzarmi, scoppiare in lacrime come i bambini capricciosi. Non sarei davvero il cliente ideale per una guida alpina...

Matteo mi calca sulla testa la pila frontale. Cammino di buon passo; finché sono in marcia, non patisco il freddo ai piedi fradici. ben presto si fa buio; lui mi segue e si fa bastare il cono di luce che spunta dalla mia fronte: incredibile, io che stento a trovare la traccia così. Scruto con ansia le luci di Lerca; non riesco a capire quanto manchi ancora. E' il latrato dei cani che mi dà sollievo: forse manca poco, forse ci siamo. Il sentiero si tuffa giù per una ripida rampa: pochi minuti e siamo di ritorno all'immenso cantiere. Quel che avevo trovato così odioso all'andata, per un attimo mi apre adesso il cuore; ritrovo l'allegria che avevo smarrito nel torrente. Ora che è buio, sono felice di tornare nel bozzolo di lamiera della mia macchinina, ideale propaggine di casa, con la soddisfazione di quarantacinque km e 2.200 m di dislivello in salita. Quel che mi spiace è che ci tornerò da sola, perché Matteo stasera torna a casa, a Genova. All'incrocio con l'Aurelia, è fortissima la tentazione di girare a sinistra, seguire il suo furgone, accompagnarlo a casa o almeno ancora per un pezzo. Ma è ora di tornare con i piedi, finalmente asciutti, per terra. Sia pure a malincuore, giro a destra: è quella la direzione della realtà, e dalla realtà ci si può ogni tanto nascondere per un poco... Non per sempre.

giovedì 31 dicembre 2009

31 dicembre 2009 - Da Ceva a Savona di corsa, via Giovetti e Melogno

Sono trascorsi poco più di dieci giorni dalla mattana che mi ha portata, di corsa, da Ceva fino a Genova: e rieccomi un'altra volta qui, ancora a Ceva. La solita voce metallica del casello dell'autostrada, che mi saluta: "Arrivederci". Rispondo sempre, per educazione; si sa mai che il marchingegno si offenda e mi abbassi la sbarra sulla capote, per dispetto. Chissà poi perché al casello, sostantivo di genere maschile, è stata affibbiata una voce di donna, per giunta anche antipatica?
Son le cinque e trentacinque quando parcheggio l'auto nello spiazzo accanto all'ospedale. Questa volta non mi accoglie la neve, ma un cielo stellato che più limpido non si può; la temperatura è di ben nove gradi più alta rispetto a due sabati fa: -1°C, in luogo dei terribili -10 che quasi avevano fatto vacillare i miei propositi corsaioli. Quasi. La volta scorsa è stata davvero un'avventura: ottanta km di corsa a piedi, in autonomia, erano una distanza su cui davvero non avrei potuto fare pronostici. Ce la faccio, non ce la faccio, fin dove ce la faccio, e come? Tante preoccupazioni per nulla, perché poi quegli ottanta km, ottantaquattro per la precisione, son passati, uno dopo l'altro, con tanta fatica, ma conquistati. Con il ricordo, ancora fresco e bellissimo, di quell'esperienza, oggi parto un po' più tranquilla e cosciente di ciò che sto per fare.

Il rito è sempre lo stesso. Uccidere lo sbadiglio e, con esso, la tentazione di appoggiare la testa al sedile e riprendere il letargo interrotto con la sveglia alle tre e mezza. Controllare che nello zaino ci siano il telo termico, gli indumenti di ricambio per quando avrò finito la corsa, la giacca impermeabile, il portafoglio, la farmacia, la luce e la pappatoria. Indossare tutti gli strati di vestiario, le bande rifrangenti, le scarpe. Già, le fedelissime Nike. Qualcuno potrebbe pensare, a questo punto, che io abbia lo sponsor... Magari! Non ce l'ho; ho donato personalmente un quarto di fegato per comprare questo paio di calzature, ma non smetto più di pensare che ne è valsa la pena. Da qualche giorno, l'osso alla base del "mignolo", se così si può dire, del piede destro fa le bizze, è gonfio e duole al contatto con qualsiasi scarpa: le mie Nike però sono talmente morbide che sembra di indossare non una scarpa, bensì una calza. Infatti, mi basta muovere due passi per tirare un sospiro di sollievo: oggi il callo non sarà un problema. Non resta che mettere la chiave della Opel al sicuro. Poi, si parte.

La mia meta è, anche oggi, il mare. E' un'idea che mi affascina: partire da un luogo gelido e ben poco ospitale, nella stagione invernale, per raggiungere, dopo lunga marcia, altri lidi ben più accoglienti. E' quasi facile pensare di sobbarcarsi una faticaccia improba, se sai che alla fine sarai premiato dal tepore del sole, o ne hai almeno la speranza. Io credo nelle previsioni del tempo! L'intenzione è di raggiungere Finale passando dal Colle dei Giovetti e dal Colle del Melogno; una volta a Finale, se sarò in grado, vorrei tentare di correre almeno fino a Savona. Oltre, chissà: non appena Matteo avrà chiuso il negozio, con un po' di anticipo visto il giorno di vigilia, salterà sul furgone e mi raccatterà, arrivando da Genova, per poi riaccompagnarmi a Ceva e tenermi compagnia nel favoloso cenone di Capodanno a base di tortelli pronti, pane e formaggio. Conto su dieci, undici ore di tempo, suppergiù: vediamo quanta strada riesco a mettere sotto le suole.

Così meditando, mi avvio di corsa lungo la direzione di Ormea. Sono le sei meno un quarto: avrò davanti a me un paio d'ore di buio. Si fa per dire: quasi non mi accorgo di essermi lasciata alle spalle le luci della città e quelle del casello della Torino Savona; in mezzo ad un cielo limpidissimo brilla una luna tonda, o quasi, accecante come un faro da stadio. Un sorriso a trentadue denti, la cartolina di una bellissima cascina costruita un po' più in alto, sulla collina, la facciata bianca e squadrata che riverbera la luce della luna, è l'inizio della mia avventura. Mi costringo, fin da subito, ad un costante esercizio di pazienza. La strada è lunga, lo zaino pesante. Non posso permettermi di correre così come mi sentirei di fare. Dagli esperti di corsa, o sedicenti tali, ne ho sentite e lette di tutti i colori: bisogna fare passi brevi, per ridurre il salto e così il peso sul ginocchio; no, invece la corsa con il passo breve non va bene, perché allunga il contatto del piede col terreno; insomma, chi più ne ha più ne metta. Quale fondamento scientifico abbiano queste e mille altre affermazioni perentorie, lo ignoro; sarà qualunquismo, ma alla fine, secondo me, la ricetta è una sola: lasciare che le gambe vadano come vogliono, finché ne hanno, e non pensarci più. Solo, tirare il freno, non esagerare con l'entusiasmo, perché il minimo spreco di energie, su queste distanze, si paga caro. Pensare a tappe: davanti a me non ci sono gli ottantacinque km fino a Savona; per ora, ci sono i dodici della prima tappa, fino a Bagnasco.

Risalgo di buon passo lo stradone di fondovalle. La luna distingue i profili della montagna, nero contro nero, e il grigio della neve che ricopre i pendii: qui s'è fermata, ben più che in pianura. I rami spogli degli alberi sono prigionieri di un'immobilità quasi irreale; non un fruscìo di vento, solo il rumore lontano del fiume che scorre giù, al fondo del vallone. Corro lungo il guard rail, cerco le forme delle costellazioni: ne saprò riconoscere, sì e no, due o tre. Mi distrae un semaforo che impone il senso unico alternato, l'unico intoppo in questo tratto di strada larga e, già a quest'ora, parecchio frequentata. Mi conforta il pensiero che sia mercoledì mattina: è improbabile che si tratti di traffico di nottambuli da festa, assonnati o, peggio, ubriachi o strafatti; spero che i volanti siano saldamente in mano a gente che va a lavorare, o magari a sciare, insomma, che qualche ora di sonno alle spalle ce l'ha. Avevo anche considerato l'idea di partire da Bagnasco, anziché da Ceva, in modo da evitare il tratto di stradone: però, così facendo, avrei forse rischiato l'incontro ravvicinato con qualche bestio, che so, cinghiali, o anche solo cani di cascina, poco propensi a lasciarmi proseguire. Simili incontri, preferisco gestirli alla luce del sole! La strada tra Ceva ed Ormea, nelle primissime ore del mattino, non è poi così frequentata. Infatti, percorro i primi km in tutta tranquillità; ascolto i rumori della notte che sembra ancora fonda, anche se sta per finire. Le scarpe pestano ogni tanto un po' di neve, che cede, non è ghiacciata. In mezzo agli alberi, s'intuisce una casa qua e là, dal quadratino di luce gialla. Accendo il faretto che porto in mano solo quando sento avvicinarsi un'auto alle spalle: sono già visibile come un albero di Natale, in tema con il periodo, ma meglio abbondare. Vedermi, mi vedono eccome; non c'è un'auto che non rallenti, incrociandomi o passandomi accanto. Sono lunghi rettilinei, curve appena accennate; accanto a me corrono i binari della ferrovia.

A Nucetto, i primi cenni di vita: un bar illuminato, una tazza sul bancone attraverso i vetri appannati. A ben pensarci, non sarebbe affatto male un cappuccino caldo... Ma è troppo presto per pensare alle pause. Finestre che s'accendono, camini che fumano. Se fosse estate, forse potrei sentire il tintinnio delle posate della colazione, ma ora no, è tutto sprangato. Auto ancora abbandonate nei cortili, scintillanti di gelo: tra poco, qualcuno abbatterà santi e madonne per scongelare il parabrezza. Ancora una stazione di servizio, voci dal bar; un passaggio a livello, una strada che s'arrampica chissà dove. La linea bianca a bordo strada è la mia guida; il sale scricchiola sotto le suole.

All'ultimo accenno di curva, poco prima di Bagnasco, alla mia sinistra una striscia di azzurro rompe il nero uniforme del cielo. Mi si allarga il cuore: è sempre una sensazione stupenda, di sollievo e di gioia, quando mi accorgo che arriva il giorno. Benché io provi spesso ad affrontarlo, a rubargli un po' di spazio e di vita, il buio non è il mio elemento; insinua ansia, tensione, forse per i suoi rumori di cui non puoi vedere la fonte... O forse perché non ha rumori, e tu infossi la testa tra le spalle e ti aspetti che qualsiasi cosa ti cada addosso da un attimo all'altro. Quella striscia di azzurro mi toglie un vero macigno dallo zaino. Bagnasco;: tutti i cani del paese abbaiano all'unisono, furiosi, corrono all'impazzata su e giù per i cortili. Noto ora per la prima volta, passando tra le case, un paio di dipinti sui muri, dedicati al paese del "Bal do Sabre"; immagino si tratti di una danza, a giudicare dalle immagini, ma mi riprometto di documentarmi, quando sarò a casa.

Ecco, i primi dodici km sono andati. Obiettivo della seconda tappa, il Colle dei Giovetti, tra nove km. Mi lascio alle spalle le case di Bagnasco; passo sullo stretto ponte sotto cui scorre una corrente impetuosa; intravedo la ruota di un mulino, chissà se è tuttora funzionante. Sembra incredibile: basta cambiare mezzo di locomozione e, d'improvviso, luoghi che hai già attraversato più e più volte, in bici o in auto, diventano strade, boschi, paesi e montagne sconosciuti. Il viaggio a piedi, anche se di corsa, è eterno, vero. Però regala scorci e particolari che altrimenti vanno persi.
E' giunto ora il momento forse meno poetico, ma certo più impellente dell'intera giornata: la ricerca del luogo più idoneo per una sosta tecnica. Urge approfittare degli ultimi scampoli di buio. Un tratturo alla mia sinistra sembra fare al caso mio... Sono questi i momenti in cui occorre decidere senza esitazione ed agire senza indugio. Mi ci fiondo: com'è ovvio, in quel preciso istante, tutti il traffico a motore dell'intera Valle Tanaro, alta, bassa e media, si concentra lungo la strada dei Giovetti. Così, brache in mano, caracollo un po' più in là, dietro ai pioppi ed ai cespugli, nella speranza che i cani che sento latrare in lontananza non decidano di avvicinarsi e far colazione con il mio fondoschiena. Rischierebbero come minimo un'impennata del colesterolo, povere bestie.

Si sa che, quando ci si libera di un peso, la vita torna a sorridere. Riprendo a correre: poche centinaia di metri ed attraverso l'ultima frazione prima del colle, l'abitato di Massimino; perlomeno, l'ultima frazione visibile dalla strada principale. Ovunque, cataste di legno, composte con precisione da geometra; cataste di tronchi o di ceppi già squadrati, a forma di parallelepipedo o con la punta, a triangolo; profumo di legno fresco di accetta, profumo di legno bruciato nel camino. Neve, tanta neve per terra, anche se già da qualche giorno non ne cade più; neve spostata, accumulata e sporca. La salita vera comincia qui, con il primo tornante che avvolge il cortile di una casa. Il cielo è quasi chiaro, coperto di nubi che prima non c'erano; soffice coltre rosa, sembra quasi voglia far neve, davvero. Una luce fioca rischiara le cime degli alberi imbiancati, ma non arriverà qui, su questo lato della valle, che tra qualche ora. Man mano che corro e salgo, posso però vedere le cime dall'altro lato, quelle che godono dei raggi diretti del sole e s'illuminano man mano, dall'alto verso il basso. Al km 4, brilla l'acqua di una bella fontana: sembra quasi irreale imbattersi in uno zampillo così vivace, qui dove l'acqua sembra esistere solo in forma solida, immobile fotografia di ghiaccio e neve.

Scende di gran carriera il camion che sparge il sale; una cascata di granelli che schizzano giù dal cassone, rimbalzano, ricadono sull'asfalto e sulle mie scarpe. Sale e fanghiglia umida rendono la strada quasi più scivolosa dello stesso ghiaccio. La corsa adesso si fa più affannata: è salita, e si sente. Ma ormai conosco il mio cuoricino. Sulle prime rampe, e per un bel po' di tempo, soffre, il poveretto; come sempre, ha bisogno di una prima salita, lunga, e poi di una discesa, per riprendersi. Patisce, tossisce, sembra non volerne sapere di accelerare il battito. Sulla prima salita della giornata, se ascoltassi lui, ogni volta direi che non è aria, che è il caso di mollare tutto e tornare in branda, che non ce la farò mai ad arrivare in cima, né tantomeno a proseguire. Ho imparato a convivere con questa sensazione. Cerco di non curarmene e corro, anche se la mia corsa, in salita, è una forma di movimento che dà un vantaggio minimo, in termini di velocità, rispetto alla camminata, ma in compenso causa uno spreco ignobile di energie.
Grandi cartelli quadrati indicano i km percorsi da Bagnasco. Quando arrivo a quota cinque, cedo alla tentazione: da questo momento in poi, alternerò tratti al passo e tratti di corsa, per risparmiare un po' le gambe in vista della lunghissima sfacchinata. Il passo è una sorta di marcia affrettata e maldestra, un'empirica ricerca del migliore compromesso tra la lunghezza del passo, la rapidità del gesto e l'affaticamento dei muscoli. E poi dicono che io mi alleno alla carlona... Non è vero, io conduco veri e propri esperimenti scientifici! Che poi non capisca un accidente di quel che vien fuori da questi esperimenti, è un'altra storia... Languo alla vista delle cime illuminate dal sole: sono sempre le altre, mai questa! La vallata è inondata di rosa e di foschia sottile, che sfuma i contorni degli alberi e delle case. Taglio le curve, le percorro tutte nell'interno, fidandomi forse un po' troppo dell'assenza di traffico a quest'ora mattutina; meno male che il rombo del camion spargisale si sente da lontano: eccolo, il novello Schumacher dei pesi massimi che torna su. Approfitto di lui, e degli altri veicoli che incontro, per riprendere il trotto, quasi a voler salvare la reputazione di fronte a chi mi incontra quassù: come se a qualcuno dei viandanti potesse cambiare qualcosa, se io corro o cammino... Correndo e camminando, costringo le gambe a quei cambi di ritmo che tanto detesto, ma a cui mi devo abituare, sognando la Nove Colli Running. Attingo ad un paio di quadretti della mia riserva di cioccolato: una tavoletta da un etto, cioccolato bianco con mandorle e miele. Oltre a questo, ho un sacchetto da due etti e mezzo di frutta secca ed un paio di gelatine di frutta.

Non mi serve il cartello del km 8, per sapere che sono ormai in cima. La conosco bene, questa strada. C'è un edificio, non so se un ristorante o un albergo, con un'insegna consunta,. "Belvedere": non ho mai capito se sia ancora in attività, ma qui intorno non ho mai visto movimento. E poi, il profumo: corro per un tratto in mezzo ad una fittissima pineta, che riempe le narici del caratteristico profumo, quello buono e forte dell'essenza che mia mamma, quand'ero piccola, metteva in boccetta negli armadi per profumare maglioni e pantaloni. Se penso ai cassetti di casa mia, stipati di roba buttata lì a casaccio, altro che profumo... E' già tanto che non ci nidifichino i pipistrelli!

Inizia ora la lunga discesa verso Calizzano. Dovrebbero essere all'incirca dieci, undici km, ma solo sette o otto di vera discesa. Giù per i tornanti, anche qui tagliando le curve, ma con un po' di cautela in più, perché qualche auto, adesso, passa. Si allargano i raggi del sole: ma, sotto di me, la piana è già nascosta sotto una spessa coltre di nebbia, che sembra di veder le nuvole dall'aereo, anche se io sull'aereo non sono mai salita. Corro e richiudo la cerniera, perché la discesa fa spendere meno fatica, anche se alle gambe fa male come e più della salita; mi infilo le cuffie nelle orecchie e do libero sfogo alla musica del lettore Mp3. Mi guardo intorno, mi guardo i piedi; anche il granello di sale ha la sua minuscola ombra .
Un abbaio perentorio mi riporta alla realtà: uno, due, tre, addirittura quattro abbai con voci diverse, quattro cagnotti che spuntano fuori dalla boscaglia, dietro un guard rail. Mi si lanciano contro: mi fermo, ma solo per un attimo, solo il tempo di capire dai loro occhioni buoni che non hanno intenzioni bellicose, tutt'altro. Tendo loro le mani: il primo ad avvicinarsi è il più piccolino, di corpo e credo anche di età; un botolino a pelo raso, fulvo, il musetto aguzzo, il tartufo curioso che esplora le mie dita e trasmette alla coda un segnale di fiducia. Riprendo a correre, mi fermo ancora, torno a tendere le mani; non ci vuole molto perché altre due bestiole cedano alla tentazione di una carezza. Dispenso coccole su musi e teste; corro in compagnia, due mi precedono, due mi seguono, di tanto in tanto si fermano, non li sento più, poi rotolano oltre i miei piedi a valanga, saltellanti, giocherelloni. Alla fine capitola anche l'ultimo, forse il più anziano, un bel cagnone di taglia media, dal pelo nero e grigio e dalla folta coda ritta come un vessillo. Coccole anche per lui. Chissà da dove spuntano? Una casa ed un padrone li hanno di sicuro; tre di loro portano un collare e tutti sono belli, non certo denutriti, ben curati. Mi chiedo solo perché un padrone così premuroso lasci i suoi animali liberi su una strada che non sarà forse di grande passaggio, ma è comunque frequentata dalle auto.
Scendo l'ultimo tornante prima dell'abitato di Caragna: un uomo si affaccia al cancello di un cortile. I cagnotti sono rimasti su, prima del tornante: ad un richiamo, schizzano giù tutti e quattro, tagliando per il prato e gettandosi festosi addosso a quello che individuo come il padrone. "Le hanno dato fastidio?", mi domanda preoccupato. "Ci mancherebbe altro... Io adoro i cani!", rispondo. E, alla dolcezza con cui la mano dell'uomo accarezza il pelo delle sue bestiole, un papà orgoglioso, mi rimangio il rimprovero per averle lasciate incustodite.
L'abitato è immerso nell'ombra, derubato della luce del sole dalle nuvole che aleggiano a mezz'aria. Anche qui, grigio e neve sporca; un'anziana si affaccia sulla soglia di casa, ramazza un po' di strada davanti al gradino, per togliere immondizia che solo lei vede; la scopa non porta via nulla... Mi sono spesso domandata a cosa servissero le mezze porticine che, in certi luoghi, sono poste davanti alle porte vere e proprie d'ingresso dalla strada alle case, solo adesso, con la neve, lo immagino: sono forse una protezione in più dagli schizzi, dal fango, dall'acqua che si sollevano dall'asfalto quando passa un'auto? O dalla stessa neve? case dal sapore antico, ingressi a volta nei cortili; microscopiche aiuole addosso alle pareti, in cui langue una rosa sfiorita e gelata dall'inverno; orti in cui tutte le verdure prendono l'unico colore del gelo. Poi la campagna brinata, un lungo tratto di strada in piano, si passa su un torrente di poca acqua e ghiaccio, e un rudere di muri su cui campeggia un cartello. Vietato entrare. Ma entrare dove? Di questo edificio è rimasta a malapena la facciata; non ci si può entrare, non c'è alcun luogo in cui entrare; al massimo si può passare oltre la porta e ritrovarsi allo stesso modo fuori.

Il freddo qui è pungente, carico di umidità. Chissà se, e quando, il sole riuscirà a penetrare fra le nuvole basse. Percorro il rettilineo che precede l'abitato di Calizzano: si scivola persino sui giunti metallidi del ponte, tocca passarci con cautela. Supero il distributore, i palazzi della via; la splendida pineta sulla destra, tronchi dritti come fusi e, sotto le chiome, solo prato, lindo, pettinato e scuro, perché gli aghi son troppo fitti perché la luce vi possa passare. Ancora, i cartelli che segnaono i km percorsi da Bagnasco. Siamo a venti: al ventottesimo sarò in cima al Colle del Melogno. Per ora, si corre: la pendenza è minima, anche se basta già a mandare il cuore in affanno. Uno spartineve parcheggiato a bordo strada, munito di catene. L'abitato di Frassino: qualcuno è intento a spalar via neve dal cortile. Percepisco a distanza il profumo del pane: proviene da una botteguccia, piccola ma invitante; "Torte verdi, torte dolci, pane, pizza", recita il cartellone all'ingresso: una tentazione unica per la mia fame che già ora, troppo presto, è prepotente. Tentazione che respingo a fatica. Un anziano infagottato procede a passi lenti e prudenti lungo la strada scivolosa; anche le griglie dei cortili disegnano merletti bianchi di neve.

Anche qui, quando la salita si fa seria, preferisco alternare passo e corsa. Ne approfitto per attingere al sacchetto di frutta secca; l'importante è non fermarsi. Procedo un po' a marcia da bersagliere e un po' di corsa, quando la pendenza diminuisce appena, sulla strada sempre umida, talvolta invasa da una lingua di neve crostosa. Più salgo, più è ghiaccio: fili d'erba imprigionati in un sarcofago trasparente e scintillante; ghiaccio che riveste i muretti e le pietre, come il cioccolato che cola sul bordo della Torta Sacher. Non resisto alla tentazione: attraverso apposta la strada, stacco un pezzo di stalattite, da mordere a mò di ghiacciolo. Non è acqua che disseta, sembra quasi di non aver bevuto nulla. Le auto scendono caute sull'asfalto viscido; in lontananza, il rumore di una motosega che pian piano si avvicina: oltre una curva, un uomo è intento a tagliare ciocchi da un tronco e caricarli sull'Ape. Scorrono veloci i chilometri: ancora un po' di frutta secca, un paio di messaggi per rassicurare mamma e per comunicare a Matteo la mia posizione. "Sono abbastanza lenta", gli scrivo; almeno, questa è la mia impressione. Poi scorgo il muraglione dei Forti: ecco, un'altra tappa è passata, conclusa. Lo spiazzo sul colle è un acquitrino, ghiaccio e neve in via di scioglimento, fango, ombra e freddo; il camino della locanda è un pennacchio imperioso di fumo. Non posso sentirlo, ma lo immagino, il profumo dei primi piatti che circolano lì dentro. Ci sono già stata, qualche volta, ma solo per un fugace panino. Quassù d'inverno fa sempre un freddo assassino; per fortuna, a piedi lo si patisce un po' meno. E poi, oltrepassato il forte attraverso l'imponente porta di pietra, colonizzata anch'essa da vegetazione e colate di ghiaccio, sembra di ritrovarsi all'improvviso in un altro mondo. Pochi passi e si vede il mare, pochi metri ed è luce più calda, limpida, gialla. Anche se oggi c'è foschia verso il fondovalle, e nuvole spesse color cemento, spinte dal vento, che sembrano voler passare proprio dal bivio con la direzione di Pian dei Corsi. Avrei voluto scendere proprio da lì, da Pian dei Corsi; però, avvicinandomi dall'alto, mi rendo ben conto che quel versante della montagna è avvolto dalle nuvole e spazzato dal vento. No, è escluso: io ho voglia di tepore, di sole, per quanto possibile.
Appena prima del bivio, dal cortiletto di una casa affittacamere si affaccia, grintoso, un volpino: dietro di lui, a superba difesa, un maestoso San Bernardo, che con il suo abbaio grave ed imperioso conferisce credibilità al lungo, squillante, querulo discorso del suo minuscolo collega. Mi inchiodo; il bestione si avvicina, annusa la mano che gli porgo, scodinzola; poi, soddisfatto, se ne torna pigramente a sdraiarsi contro il muro di pietra, che restituisce un po' di calore dei pallidi raggi di sole.

Procedo lungo la strada principale: come piano B, scenderò verso Eze e Calice, per raggiungere Finale da lì. La discesa è lunga, interminabile: vorrei approfittarne per riposare un po', mentre le gambe continuano a correre, ma mi accorgo d'essere sempre più insofferente. Provo a distrarmi con il paesaggio: le cisterne di raccolta dell'acqua, in cui si specchiano il cielo e le nuvole; il mare laggiù in fondo, grigio come gli sbuffi di nebbia sospesi quassù; fiori, alberi carichi di cachi, arance, limoni; gruppi di case, profumi di pietanza. Intuisco sul pendio della montagna serpentine di strade, forse sterrate. Incontro un ciclista in mountain bike ed un arzillo signore dalla chioma d'argento, in maglietta e pantaloncini da mare, che sale spedito con gli skiroll. Ancora un po' di frutta secca, poi tento la strada della radio; ma quassù le stazioni che riesco a captare sono ben poche: così, alterno senza problemi i ritmi da discoteca di Radio M2O alla musica classica trasmessa dalla Rai. E mi godo il tepore del sole, un po' abbacchiato ma pur sempre gradevole, e mi riempo gli occhi dei colori che, sul versante opposto, non si faranno vedere fino a primavera. Le gambe, per ora, reggono bene.

La deviazione per Calice Ligure arriva dopo un'eternità. Non ne potevo più di quella discesa così monotona. Si scende ancora, ma per una strada secondaria. Un paio di tornanti mi ripiombano nel fitto umido della boscaglia; attraverso l'abitato di Eze, nell'ora deserta del pranzo. Mi tormenta la sete: la borraccia è vuota; punto con concupiscenza le arance ed i cachi che pendono dai rami: sono lì, quasi a mia disposizione... Molti non saranno raccolti, cadranno a terra e marciranno lì. Eppure non me la sento di allungare la mano. Ma il succo di un'arancia sarebbe il piacere più semplice e gradito, in questo momento d'improvvisa difficoltà.
Orti, giardini e fiori coltivati sui gradini strappati alla montagna e sorretti dai muretti a secco; ulivi e frutteti. Fa caldo ormai: per quanto mi spiaccia fermarmi, qui sotto, a Calice, tra pochi tornanti, è necessario che io vada a caccia di una fontanella e che mi levi di dosso qualche strato di troppo. Ormai sono al mare. Lo sento e lo respiro a pieni polmoni. Al paesino di Calice arrivo poco dopo, nei paraggi di un complesso immobiliare, nuovo ed orrendo, che ribattezzo immediatamente "casa della Barbie", viste le agghiaccianti tinte pastello. Uno dei tanti abominii di qualche fantasioso architetto che vuole lasciare il segno: e bisognerebbe lasciarlo su di lui, il segno... Il segno di un ferro da stiro abbattuto sul suo cranio! L'aborto edilizio ha però un vantaggio: offre una fontanella. Mi fermo un attimo, levo la giacca, riempo la borraccia e bevo come se non bevessi da dieci anni; ingollo un fruttino, poi ributto tutto alla rinfusa nello zaino, che ora diventa definitivamente un macigno. Due giovanii fidanzati portano a spasso un cuccioletto nero, una mamma rimprovera il figlio che vuol fare qualcosa che la farà stare in pensiero due giorni. E che mai sarà?

Riparto verso Finale, lungo un tratto di strada in leggera discesa, un po' troppo caotico per i miei gusti. Corro tra capannoni, magazzini ed il viadotto dell'autostrada sopra la testa; case abbarbicate tra la strada ed il torrente, numeri civici in ceramica, motorini e motocarrozzette che sfrecciano ovunque. Inutile cercar di guadagnare il marciapiede, tanto finisce subito. In dubbio se passare a Finalborgo, decido di non abbandonare la via vecchia per la nuova; mi ritrovo ad una rotonda familiare, nei pressi del casello dell'autostrada; ormai in pieno caos marittimo, m'infilo in Finale da lì. E cerco di approssimare una stima dei km percorsi finora: potrebbero essere cinquantacinque o sessanta, chissà. Non so nemmeno di preciso che ora sia: di certo è primo pomeriggio. Attraversare l'abitato mi dà angoscia e tensione: correre da un marciapiede all'altro, tra le auto ed i semafori, nel centro del paese, è rischioso ed odioso; mettere un piede in fallo, storcersi malamente, è un attimo. E poi, anche qui, devo resistere alla tentazione delle pizze all taglio. Slalom tra auto, motorini, scalini d'ingresso: finalmente tutto sparisce, arrivo al lungomare. Mi viene in mente un solo aggettivo, anche se è banale: bellissimo! Il cielo qui è tutt'altro che terso, anzi; è nuvoloso, grigio, soprattutto verso Savona. E il mare sembra arrabbiato: onde lunghe, schiumose, quasi minacciose per me che sono abituata alla placida immobile campagna piemontese. Tira un vento che scompiglia le palme, ma qualche raggio di sole qua e là buca la coltre di nubi. La temperatura, ora che ci faccio caso, è confortevole: un termometro segna nientemeno che sedici gradi. Il lettore Mp3 finisce in tasca: qualcuno dovrebbe provvedere a mettere il silenziatore al mare, altrimenti non si sente nulla!
La tensione si allenta, ora che posso correre sulla passeggiata. In spiaggia una fila di orme; attendo l'onda che le raggiungerà per cancellarle. Arriva, prima che io passi oltre la galleria. Qui la passeggiata aggira l'ostacolo e si protende a picco sul mare: mi arrivano in testa gli schizzi di un'onda malandrina, un po' più alta delle altre. Strilli e schiamazzi di un paio di turiste un po' avanti con l'età biologica, ma evidentemente un po'indietro con quella cerebrale: una signora dall'aspetto elegante, seduta sulla panchina con un libro in mano, le squadra con una muta occhiata che vale più di mille parole. Sapesse, signora, quanto sono d'accordo con Lei!
Poco fa ho dato un'occhiata al cartello che indicava le distanze: le cifre le ho già scordate, ma, se non altro, adesso so che troverò prima Noli e poi Spotorno. Avrò percorso l'autostrada un'infinità di volte, ma non ho mai mandato a memoria l'ordine dei paesi della costa; è proprio vero che la mente incamera le informazioni solo quando ne ha utilità. Questo è il caso: dopo sessanta e più chilometri di corsa, sapere a che punto si è rispetto alla meta diventa, a dire poco, vitale. Anche se, tutto sommato, non posso certo dire d'essere distrutta. Sono solo un po' tormentata dalla fame. Varigotti: significa che sono vicina al punto forse più suggestivo dell'intero viaggio. Infatti, già dall'abitato, vedo il lungo rettilineo che passa accanto ad un imponente anfiteatro di roccia bianchissima; a piedi, posso godermi lo spettacolo in tutta la sua bellezza, sperando che altrettanto non decida di fare qualche automobilista: altrimenti. la mia sindone resterà nei secoli spiaccicata sul parapetto di pietra. Oltre il parapetto, giù, si sentono gli schiaffi delle onde sulla parete di roccia, tonfi sordi che quasi fatico ad attribuire all'acqua del mare. Le onde sono davvero rabbiose, come il vento. Mi sorpassano due ciclisti, si lanciano baldanzosi in salita; uno schiaffo invisibile li ricaccia giù in sella, ferma la loro corsa, tra un attimo investirà anche me. E' la prima volta che penso alla pioggia, oggi. Naso all'insù, il sole è sparito: sulla mia testa, una cappa di nuvole alte, scure, sempre più scure, curioso contrasto con il bianco delle pareti a picco, e poi il sibilo del vento. I gabbiani non se ne curano: un esemplare, grosso, bello cicciuto, se ne sta sul parapetto, fissa il mare; si getta giù, in volo, solo quando gli arrivo ad un metro di distanza, e non pare spaventato. Altri due sono appollaiati, irriverenti, sulle reti che riparano la strada dal crollo di sassi. In questo tratto, alcuni semafori bloccano, all'occorrenza, la circolazione, in caso di pericolo di frana: pericolo più che reale, a quanto sembra; ricordo che, tempo fa, l'Aurelia è rimasta a lungo interrotta proprio per porre rimedio ai danni di una frana. Strillano, i pennuti. Un pescatore s'è arrampicato su uno scoglio, in posizione quanto mai precaria: spero per lui che sappia nuotare, e che, indossando gli scarponi, ci riesca, alla bisogna!

Si vede, in lontananza, l'isola di Bergeggi, grigia com'è grigio tutto, ora. Nei tratti da cui si vede la spiaggia, le onde fanno il ricciolo, il cavallone in miniatura; le maniche a vento, tese come se fossero inamidate. A Noli, ben pochi sono i coraggiosi che azzardano quattro passi, intabarrati in cappotti e cappucci. La temperatura in sé sarebbe ancora mite, ma l'aria che sferza la pelle fa venire qualche dubbio anche a me: sarà il caso di rimettere la giacca? Per ora, mi limito ad una velocissima sosta per bere alla fontana. La pancia brontola, reclama le sue spettanze; il guaio, caro il mio stomaco, è che di spettanze ne restano poche; tocca tirare la cinghia. Da Noli a Spotorno è quasi un attimo, uno schiaffo per gli occhi; spiccano solo le brutture, i palazzoni orrendi costruiti senza alcun gusto, addossati alla montagna che sembra quasi scavata per far loro posto. La passeggiata, con la luce del pomeriggio che sembra già quella della sera inoltrata; niente acqua dal cielo, per ora, ma chissà se tiene. Sono io, che non tengo più: a questo punto la fame si fa davvero prepotente. E le gambe sono stanche, che a me piaccia o no. Mi rassegno a percorrere duecento metri al passo, attingendo a piene mani alla busta della frutta secca; anziché passare nel centro di Spotorno, resto sulla strada di circonvallazione: sempre meglio la compagnia delle auto, che quella della folla. Stanchezza. Chissà quanto potrei correre ancora? Stanchezza è una condizione molto lontana dallo sfinimento; è quel momento in cui, si dice, la testa si sostituisce alle estremità inferiori e ti porta oltre le loro possibilità. Mah. Questi gloriosi proclami mi lasciano qualche perplessità. Sono io la prima ad amare le faticacce senza fine, ma, quando non ce n'è più, non ce n'è più; puoi avere una volontà di acciaio, di diamante, ma se le gambe ti mollano sei spacciato, punto. E se invece riesci ancora a trascinarti avanti, è perché forse avevi sopravvalutato la crisi. E' pur vero che le crisi arrivano e se ne vanno, questo l'ho già provato sulla mia pelle più di una volta; si passa con una facilità incredibile dalla sensazione di morte imminente a quella di "il mondo è mio!". Però arriva, prima o poi, quel confine oltre il quale non si può andare.
Non è ancora il mio caso, almeno fino all'isolotto di Bergeggi. Qui la marcia è ancora piacevole; il vento non molla, ma io mi sono imbozzolata nella giacca, ho indossato guanti e berretto, insomma sono ben protetta. Grotta di Bergeggi: chissà se interessa a Matteo... Già, lui, oltre a praticare la superficie terrestre a piedi e su due ruote, pratica anche gli anfratti infernali. La speleologia è uno sport da squilibrati, sostiene un amico; in effetti, sono d'accordo: la sola idea di tumularmi, mia sponte, in un cunicolo profondo chissà quanto, senza luce, senza spazio, magari anche senz'aria – a me l'aria manca già in una stanza chiusa ed affollata – sembra una pura e semplice follia, un atto di masochismo. Vero, Matteo non ha l'aspetto né l'atteggiamento di uno squilibrato; però, si sa che i peggiori pazzi criminali, nella vita di ogni giorno, di solito appaiono gli ideali vicini della porta accanto...

Le ciminiere di Vado Ligure mi dicono che potrei essere in dirittura d'arrivo. Forse. Difficile stabilire qual è la fine, se non sai con precisione quale sarà la tua meta. So che oggi Matteo è in negozio, ma non ho la più pallida idea dell'ora a cui chiuderà. E' il 31, ma, per quel che ne so io, potrebbe anche aver deciso di aprire con l'orario normale, quindi fino alle sette e mezza. A Porto Vado, le raffiche di vento sono violente e dirette in faccia: un ostacolo non tanto per la corsa, quanto per il respiro. Già in condizioni normali, alla visita medica sportiva, la mia spirometria restituisce puntualmente risultati poco confortanti. Mi concedo qualche decina di metri al passo e scrivo un messaggio via telefonino a Matteo per chiedergli un'idea dei suoi orari. Saranno quasi le quattro, ma questo posto spettrale sembra l'anticamera dell'apocalisse: le nuvole sono compatte, pesanti, sempre più scure, sembra vogliano piombare e schiacciare la terra da un attimo all'altro; tutt'intorno, le strutture del porto, i container rugginosi, fumo, rumore di metallo, di motori. Angosciante. E non sarà meglio per un bel po': dopo Vado c'è Savona, da attraversare tutta, da parte a parte. Mi intestardisco a correre ancora, un po' sul marciapiede, un po' sulla strada, tra sciami di passeggiatori festivi, ragazzini sui pattini, madame con le borse della spesa, e più di una volta rischio d'inciampare. Poi, proprio sotto il cartello con la scritta nera in campo bianco, "Savona", getto la spugna e mi metto a camminare. Il frastuono di clacson e voci è assordante; me ne isolo, tanto che quasi non lo sento più. Savona è la città natale di mio padre; ma, sarà perché non ho mai conosciuto i miei nonni paterni né alcun componente della famiglia, sarà perché il rapporto con il genitore non è certo idilliaco, non mi ci sento in alcun modo legata. La trovo orrenda ed invivibile, proprio come qualsiasi altra città, di pianura e di mare, turistica o anonima, calda o gelida che sia.
Da un cortile spunta il muso di un bel cane: razza indefinibile, corporatura alta e snella, pelo corto, bianco, a chiazze nere. Sembra spaesato; mi si avvicina timoroso. Gli porgo la mano; lo segue un altro cane, che ha qualcosa del pastore tedesco, anche lui timido, incerto. Sta proprio sul binario di scorrimento del cancello automatico, che all'improvviso comincia a chiudersi. Si chiude pian piano ma inesorabilmente: sembra che non ci sia alcun dispositivo di sicurezza che individua la presenza del cane. A poco più di un metro dalla chiusura, la bestiola volta il muso verso la pesante plancia di metallo che sta per colpirlo, si rattrappisce ma non si muove: mi sveglio dalla mia immobile sorpresa, butto un braccio nello spazio che resta, dall'alto verso il basso. Per fortuna, il cancello non s'è accorto del cane, ma si accorge di me; si arresta, torna indietro. Ricaccio i cani all'interno del cortile, con voce e maniere brusche, non certo per far loro paura, ma solo per allontanarli dal pericolo; poi riprendo la mia marcia, con il cuore in gola per la tensione.

La risposta di Matteo arriva con un po' di ritardo: del resto, l'immaginavo; già a mezzogiorno mi aveva detto di avere il negozio pieno di gente. Buon per lui. "Mando via gli ultimi clienti e parto; sono a Savona alle 17.30". Ossignùr! Ma io non voglio mica mandarlo in rovina! Il cliente non si caccia via, mai... Io posso andare ancora avanti, indefinitamente; ci s'incontrerà in un punto qualsiasi tra Savona e Genova. Povero Matteo, lo costringo troppo spesso a fare i salti mortali; un giorno o l'altro, mi manderèà al diavolo. Però il suo messaggio mi riporta il buon umore, anzi direi l'euforia. Sono contenta di vederlo, e poi so che lui apprezza queste mattane, ha la pazienza di sentirmi sfogare, lasciarmele raccontare, insomma si lascia investire da quella specie di esaltazione che mi invade dopo ogni impresa un po' folle, senza cercare di sottrarsi; ha la pazienza di un santo.
Seguo la strada principale, le indicazioni per Genova; di lì a poco, mi ritrovo alla Fortezza. Traffico, luci natalizie, frotte di persone dal passo affrettato, cariche di borse, pacchi, pacchettini; gli ultimi preparativi per il cenone di Capodanno. E il mio, di cenone, come sarà? Forse una pasta, o i tortelli, forse yogurt, di certo pane e formaggio, e poi un po' di frutta. Magari una latta di legumi, se mi va. Per fortuna, Matteo è di bocca buona; se avesse qualche pretesa culinaria, del resto, avrebbe smesso di frequentare casa mia da un po'... Io odio star seduta a tavola più del minimo indispensabile; anzi, se non ho ospiti, i miei pasti li consumo non a tavola ma davanti al computer. Non m'interessano i piatti elaborati, né i cibi che si digeriscono in una settimana; se ho voglia di vera goduria alimentare, mi basta tuffare il cucchiaio nella Nutella. Passo oltre il porto: qualcuno s'accorge di me, mi squadra con aria interrogativa. Tre uomini di mezz'età si affollano intorno ad una barca: uno di loro, quello col petto più gonfio e la coda da pavone, dev'essere il proprietario... Tè, furbacchione, occhio al redditometro!

Oltre il faro, riprendo a correre. Si fa sera, ormai. Matteo uscirà al casello di Albisola, mi farà uno squillo in quel momento. Infatti, lo squillo arriva, poco prima della galleria, ora che il vento sembra essersi placato. Le gambe son tornate alla corsa senza battere ciglio; quasi quasi, varrebbe la pena di andare ancora oltre... Ma gli occhi scrutano con ansia ogni sagoma di veicolo che s'avvicina. Il furgone bianco infine compare, puntualissimo, s'accosta pian piano. Attraverso di corsa l'Aurelia, lo raggiungo. Salgo e... Non c'è che dire, Matteo sa sempre come arrivare al cuore di una donna. Magari passando per lo stomaco: mi porge un meraviglioso pandolce genovese, un delizioso agglomerato di canditi, uvetta e pinoli con il peso specifico della ghisa. Con la fame che ho patito in tutto il giorno, e ottantasette km mal contati di marcia, non avrei potuto sognare di meglio. Qualche esitazione, più che altro per pura formalità, e poi, poste le gambe a riposo, metto in moto le mascelle. Sono convinta che, se i duecento km della Nove Colli Running dovessi correrli con le ganasce, conquisterei il record del mondo!

venerdì 25 dicembre 2009

19 dicembre 2009: da Ceva a Genova, di corsa

Con la luce spenta in cucinino, tiro su pian piano la tapparella, per non fare troppo rumore; non credo che la massima ambizione dei vicini sia quella di essere svegliati di soprassalto alle due e mezza del mattino. Non si sente alcun rumore, e già questo è un pessimo segno: le notti carmagnolesi, di solito, s'accompagnano ad un suono continuo, sordo, che nasce forse da qualche stabilimento industriale; di tanto in tanto, poi, la corsa del treno. Un silenzio così immobile può voler dire una sola cosa: neve. L'alone di luce del lampione, all'altezza del mio naso, dall'altra parte della via, illumina una miriade di fiocchi bianchi, in moto pigro verso l'asfalto. Non c'è che dire, l'ideale per una vera atmosfera natalizia: cosa che mi fa orrore al solo pensiero.

Rimugino tra una cucchiaiata di Nutella ed una sorsata di caffé: ma sarà poi il caso di partire lo stesso? Anche con questo tempo? Tendo l'orecchio; mi sembra di percepire in lontananza il rombo di motori; forse i trattori per la pulizia delle strade sono già all'opera. Vale la pena di correre questo rischio? Me lo domando, ma so benissimo che la risposta è già arrivata da un pezzo. La parte razionale di me fa il suo minimo sindacale di lavoro; prova ad insinuare il dubbio. Un po' come il cane da guardia che si limita ad un paio di latrati d'ordinanza, quando passi davanti al cancello di casa sua, e poi torna soddisfatto alla cuccia e si riaddormenta al sole. Il suo dovere l'ha fatto; da lì in poi, potresti sfilargli la ciotola da sotto il naso; non se ne accorgerebbe nemmeno. Le previsioni meteo, per oggi e domani, hanno promesso temperature siberiane, ma giornate limpide e serene: vero, in questo momento sta nevicando, ma presto smetterà. Deve smettere. Incredibile, quanto io sia capace di convincermi della bontà di ciò in cui voglio credere. Infatti, verso le tre e venti, quando metto il naso in cortile, per terra è tutto bianco, la temperatura è gelida... Ma dal cielo non cade più nulla.
Con le mani doloranti per il freddo che morde le falangi nude, a fatica apro il lucchetto e sfilo la catena che chiude il precario cancello. Intanto ripasso la lista del bagaglio: la luce frontale c'è; la giacca da bici nera e l'altra giacca impermeabile ci sono; cioccolato, barrette, un paio di magliette per cambiarmi una volta giunta a destinazione, ci sono. Le solite trenta manovre per estrarre la Opel dal cunicolo; un giorno o l'altro, qualche fanale resterà contro il muretto, è solo questione di tempo. Le leggi dell'ottica mi sono oscure; gli specchietti ci sono, sì, ma riescono solo a confondermi le idee, e poi, possibile che un'auto in retromarcia non percorra mai una linea retta, bensì una serpentina?

Richiudo garage e cancello curando di non fare troppo rumore; il rischio è che qualche vicino di casa mi scambi per un malintenzionato e mi accolga a fucilate. Chissà poi perché è normale rientrare alle tre e mezza da una notte brava, e non lo è uscire alle tre e mezza per un giorno da leoni.
Se c'è una cosa che mi è chiara fin da subito. È che non sarà una passeggiata. E non parlo dell'ambizione podistica che ho in mente per oggi. Quella, sì, sarà tutt'altro che una passeggiata: ho pensato di partire, di corsa, da Ceva, ed arrivare a Genova, per coniugare un allenamento su lunga distanza, circa ottanta km, ad una sorpresa da colpo apoplettico per il povero Matteo, già oberato di lavoro in negozio sotto Natale. "Vorrei tentare una mattana – gli avevo già annunciato – ma ti dirò di che si tratta, se e quando l'avrò portata a termine". Mi conosce bene, ormai, ma non credo abbia intuito il senso recondito delle mie parole.
Più arduo dell'impresa sportiva in sé, però, sarà il preambolo. Mi bastano cento metri di strada per capire che la Opel, sulla patina di neve e ghiaccio e senza gomme termiche, è semplicemente ingovernabile. Il pedale del freno, meglio dimenticarlo; quanto alle curve, a più di trenta all'ora non si gira, semplicemente si scivola dolcemente di lato. Dolcemente, a patto di non incontrare sulla propria traiettoria uno di quei demenziali cordoli di cemento con cui qualche mente illuminata ha ben pensato di strozzare le due corsie, già sacrificate, della strada che porta al casello della Torino Savona.
La città è deserta: si muovono solo i mezzi spartineve, appena usciti dai loro depositi, ancora ingolfati e tossicchianti. In autostrada, la situazione non migliora, anzi. La patina di neve nasconde quasi del tutto le righe bianche che delimitano le corsie; in più, come se non bastasse, ci si mette anche la nebbia. Viaggio nel nulla, a venticinque, trenta all'ora, strabuzzando gli occhi per scorgere, uno dopo l'altro e solo uno per volta, i tratti bianchi alla mia sinistra. Unghie conficcate nel volante, nervi a fior di pelle; una sorta di terrore controllato: il cuore batte all'impazzata, eppure il pensiero è più che mai fermo su un unico proposito. Certo, un osservatore esterno potrebbe pensare che mi trovo in difficoltà, per non dire che mi trovo a far fronte ad un certo qual rischio, insomma che sto affogando nel guano, ma... Niente panico. Come spesso mi capita di pensare quando realizzo di essermi cacciata in un guaio: "Tanto ormai sono qui... Non ho altra possibilità se non quella di tirare dritto". Dritto, più o meno, perché la vecchia bagnarola sembra essersi dotata, per magia, di servosterzo ed ogni altra diavoleria di quelle che permettono di muovere il volante con un dito: di solito ci vogliono i bicipiti di un camionista lituano, ma non quando si viaggia su una lastra di neve ghiacciata.
Attraverso la nebbia fitta si intravedono i lampeggianti arancioni dei primi mezzi spartineve, che accennano appena adesso a mettersi in movimento e per ora fanno la gimcana solo nelle aree di servizio. Lo credo; avran pensato: "Prendiamocela comoda, che tanto non ci sarà alcun deficiente che si mette in viaggio a quest'ora ed in queste condizioni". Errore, uno c'è, anzi, una! Il mio viaggio è una lunghissima agonia. L'idea di raggiungere Ceva per le quattro e mezza è una pia illusione, ormai. Rimugino conti su conti: ottanta km a piedi, in autonomia, richiederanno dieci, undici ore; partendo alle quattro e mezza, avrei potuto raggiungere il negozio di Matteo giusto in tempo per la riapertura pomeridiana. Se tardo, boh... Mal che vada, il pomeriggio è lungo; dovrò rassegnarmi a rivedere la tabella di marcia.

Sono le cinque e ventinove quando spengo il motore della Opel, parcheggiata sotto una provvidenziale tettoia di fronte ad un grande piazzale bianco e deserto, a Ceva. Le braccia che quasi dolgono per la tensione della guida, un sospirone di sollievo al pensiero che, se non altro, le gambe saranno più facili da comandare. I termometri che ho potuto leggere, al casello dell'autostrada e qui in paese, sono più o meno concordi nell'annunciare la nuova glaciazione: meno nove, meno dieci. Stipo nello zaino il telo termico, la giacca GoreTex, un paio di maglie ed una felpa per cambiarmi quando sarò giunta a destinazione; addosso ho una canotta traforata, un pile alla pelle con collo alto, una maglietta con le maniche corte sopra, un gilet e la giacca da bici invernale più spessa che ho. Oltre al berretto di pile, due paia di guanti, calze invernali al ginocchio e pantaloni lunghi, un po' sottili per la verità, ma tanto le chiappe non patiscono. Movimenti frenetici: non devo lasciarmi il tempo per domandarmi se tutto questo ha un senso o no; altrimenti, è la fine. Sonno e freddo pungente sono lì in agguato; fortissima la tentazione di appoggiare la testa al sedile, imbozzolarmi nel piumone e riprendere il sonno interrotto troppo presto. Non sia mai. Spalanco la portiera, mi butto fuori; controllo in modo quasi ossessivo di avere con me tutto il necessario: in una giornata così, dimenticare qualcosa potrebbe essere drammatico. Nel piazzale, due ambulanti del mercato trasferiscono merci da un camioncino all'altro; qualche quadratino di luce fa già capolino sulle facciate dei palazzi. A fatica riesco ad infilare il gancetto dello zaino nell'anello metallico della chiave dell'auto; le dita sono già quasi inservibili. Due paia di guanti, quelli sottili di simil-seta, già sforacchiati in più punti, e quelli un po' più spessi, che non se la passano molto meglio.

Via di corsa, per fortuna in salita: il freddo aggredisce in un attimo mani, piedi e faccia. Primi passi di una lunghissima galoppata, beh insomma, galoppata da ronzino; sono le sei meno un quarto e già qualche auto si mette incerta in movimento, su per i due ampi curvoni che vanno verso la rotonda dell'autostrada. Crepitio di ruote sul ghiaccio; qualche passante intabarrato, nascosto da enormi cappucci da cui non spunta un naso, ma solo una nuvola di fiato, passi frettolosi e sommessi gemiti per il gelo. Qualche cappuccuio si volta verso di me, ma solo per un breve istante; per lui, di sicuro, io non sono altro che il residuo immateriale di qualche incubo notturno interrotto. In compenso, le mie gambe patiscono tutto il peso della mia concretezza: i muscoli infreddoliti sono rigidi, refrattari, anche se la salita vale a dar loro un minimo di brio, ed una vampata di calore lungo la schiena. Tra giacchino e nastri rifrangenti, credo di essere ben visibile; non devo però dimenticare che un'auto, in queste condizioni, non può permettersi brusche frenate: ergo, devo drizzare le orecchie ed essere ben pronta a saltare via dalla strada non appena avverto un motore alle mie spalle. Non posso pretendere che il pilota standard sia pronto a reagide alla presenza di un podista, di notte in pieno inverno, lungo uno stradone.

Alla rotonda, svolto a sinistra, direzione Montezemolo. Passi ancora incerti: qui, la strada è stata più o meno pulita, ma la neve impastata con il sale ed il ghiaino non è certo un fondo d'appoggio più affidabile del ghiaccio. Correre, devo correre, questo è poco ma sicuro; l'alternativa è congelare, ancor più di quanto già non stia accadendo. Mi lascio alle spalle le luci della città: d'ora in poi, alberi e capannoni e case isolate sono solo sagome incerte. Tutt'intorno è grigio, il riverbero della luce sulla neve, che arriva da chissà dove e sembra amplificata. Silenzio pesantissimo. Di tanto in tanto, un alone di luce che si avvicina lentissimo, di fronte a me o alle mie spalle, allungando la mia ombra; qualcuno forse diretto al lavoro, qualcun altro con gli sci sul tettuccio. Tutti alzano gli abbaglianti, rallentano, poi tirano dritto; io corro quasi in mezzo alla strada, mi sposto solo all'occorrenza, per evitare, ove possibile, le lastre di neve schiacciata e gelata. Ancora nessun cenno di vita nei piedi; sembra che il sangue non ci arrivi più. Non arriva nemmeno alle mani; le dita sono rigide, gonfie, per quanto io le scuota. Ce la farò? Conosco bene l'itinerario, per averlo già percorso in bici; se non altro, ho già un'idea più o meno precisa delle distanze. Se non altro, schiena, torace ed orecchie sono caldi. Odio il freddo alle orecchie. Il collare di pile rimanda verso l'alto il mio fiato, che si condensa sugli occhiali. Mi distraggo pensando alla riviera: è lunga, Gian, ma prima o poi ci arrivi... Prima o poi verrà giorno. E' così opprimente il buio.

Alla rotonda, imbocco la strada che va verso Sale Langhe, a sinistra. Vado a memoria: con le lenti degli occhiali bagnate, è ben difficile decifrare il cartello stradale, anche se i caratteri sono giganti, a prova di miope. Qui realizzo subito, con orrore, che questa strada non è stata pulita affatto: la coltre di neve è lì, proprio come ce l'ha disposta Madre Natura; pochi centimetri, ma di crosta dura e scivolosa. L'impronta che lascio è appena accennata. Leggera salita; la luce della frontale, al suo livello minimo, illumina un alone, pochi metri davanti a me. Approfitto dei solchi tracciati dalle ruote di qualche automobilista temerario; il manto bianco è spesso intaccato dalle orme nitide di animali. Lepri, gatti, forse volpi, chissà; le tracce più profonde, però, appartengono senza dubbio a qualche bestia più pesante. Cinghiali, credo. Altre impronte che corrono lungo la strada, poi spariscono verso i capannoni. Fruscii improvvisi nella boscaglia; il cuore mi schizza in gola, eccolo qui il coraggio. Punto il fascio di luce contro i cespugli, non vedo nulla. Confesso, però, che le luci dell'abitato mi fanno tirare un sospirone di sollievo: qualche capannone, qualche casa isolata si alternano alle viti che sembrano file di merletti bianchissimi. Le prime luci alle finestre; qualche cane svegliato di soprassalto ad ora inurbana, qualche auto parcheggiata e sepolta, tempestata di brillantini di ghiaccio. Corro di buon passo, per quanto la salita ed il pensiero della lunga distanza mi permettano; in cielo, per ora, nessuna stella, ma non mancano le luminarie natalizie. Ricordo di aver letto da qualche parte una considerazione tragicamente realistica: per undici mesi l'anno, ci imbottiscono di esortazioni al risparmio energetico, e poi guarda qui, sotto le feste, alla faccia del risparmio. Luci a profusione, colori intermittenti, sguaiati che nulla hanno a che vedere con il silenzio discreto del buio in un piccolo paese qual è Sale Langhe, con la sua minuscola stazione ferroviaria, la via principale, qualche bottega ancora chiusa. E nessuno in giro, nemmeno un'anima, a piedi; solo un paio di auto, due vecchi fuoristrada di quelli che non s'impressionano per la neve, per le pendenze, per le strade difficili. Altro che i moderni, pretenziosi e prepotenti SUV.

Oltre il paese, la strada si arrampica con alcuni tornanti; un po' di sana fatica che mi riscalda le ossa. Non capisco se siano ancora le nuvole, a nascondere le stelle, o quella nebbia che ha funestato il mio viaggio in autostrada. Da qui in basso, però, la vista è ampia e limpidissima: sto prendendo quota sulle luci di Sale Langhe; passa il treno, credo il primo della giornata. Qualche lampione mi permette di risparmiare la luce della frontale; devo però prestare attenzione a non scivolare sul sale: non si può dire che la strada sia stata pulita, ma certo di sale non s'è fatta economia! Sembra una battuta di dubbio gusto, ma di lì a poco raggiungo un'altra Sale: San Giovanni, stavolta. Da qui in avanti, è buio pesto sul serio. Ricordo un lungo tratto di salita dolce, più o meno dritta, prima dell'immissione sulla strada alta tra Murazzano e Montezemolo; infatti, corro per un bel po'. Difficile trasferire a piedi l'idea di distanza che arriva dalla bici. Non riesco a regolarmi. Però ho la netta impressione che la notte stia volgendo il termine. La foschia che mi avvolge sta digradando dal nero più pesto verso il grigio. Latrati rabbiosi di cani che devo proprio avere mortalmente offeso: nascono chissà dove, giù dai pendii, da cortili che nemmeno riesco a vedere, e mi seguono a lungo, pur senza muoversi dal limite del loro territorio. Per la verità, in qualche momento ho il sospetto che la fonte del poderoso abbaio mi si stia avvicinando. Tendo l'orecchio: se il bestione spuntasse nei miei paraggi, non potrei fare altro che immobilizzarmi. Sì, potrei forse rifilargli un pezzo di cioccolato, ammesso che il fondente o il nocciolato Novi siano di suo gradimento; se gli offrissi la barretta, mi morderebbe di sicuro, se non altro per lo sdegno.

Ma non c'è nessuno alle mie calcagna. Immersa in una bolla di ovatta, raggiungo l'incrocio con la strada alta che conduce a Montezemolo. Scopro con un certo disappunto che la pulizia del fondo stradale, anche qui, lascia a desiderare. Guato a destra ed a sinistra, freneticamente, a caccia di un buon posticino per una sosta tecnica: ci ho già provato, qualche km fa, ma naturalmente, nell'istante in cui mi accingevo all'arduo compito, ho sentito sopraggiungere un'auto. L'unica, o quasi, che abbia incontrato lungo l'intera salita, ovviamente nel momento meno opportuno. Ma ora o mai più: a certe attività è più discreto dedicarsi con il favore delle tenebre. Terribile, però, sfiorare la chiappa e rendersi conto che non s'è sentito nulla. Non è possibile, chi mi ha fregato la chiappa? No, non è un furto; il prezioso carico di adipe è ancora al suo posto, solo che è talmente congelato da aver perso la sensibilità. Sarebbe l'occasione ideale per farmene tagliar via qualche fetta, a mò di prosciutto, senza percepire dolore.

Altrettanto arduo è riscaldare, un'altra volta, mani e piedi, che nella pur brevissima sosta sono ibernati all'istante. La strada è un tappeto di brillantini di ghiaccio; i tronchi degli alberi, anch'essi bianchi, sembrano minacciosi tentacoli. C'è un po' di movimento in più, ora che circolano gli studenti. Dovrei scorgere il generatore eolico, da queste parti: sono sicura che ci sia... Ma oggi è mimetizzato nella nebbia. Un leggerissimo venticello gelido s'infila giù per il collo della giacca, nonostante il collare di pile.
Montezemolo si sta appena appena risvegliando dal torpore della notte gelida; qualche anziano incespica tra neve e ghiaccio per raggiungere la botteguccia del paese. Camini che fumano, un gatto che mi osserva perplesso dall'angolo di un precario ballatoio in legno. Il castello finalmente in via di ristrutturazione. E poi la rotonda: in altri tempi, affollata di centauri... Oggi ci sono due anziani con il giornale sottobraccio. Ormai è chiaro. Imbocco lo stradone che va giù a Millesimo: molto meno sgradevole percorrerlo a piedi, che non in bici. Ghiaccio ovunque: rischio uno scivolone nel momento in cui il piede ricade su uno dei giunti metallici del ponte, viscido come il sapone. Ma uno spettacolo attira d'improvviso la mia attenzione: uno spicchio, rosso color del fuoco, spunta appena oltre il costone della montagna, delineandone il contorno altrove confuso dalla nebbia. E' proprio la foschia fitta che mi permette di fissare, senza timori per la retina, il sole che sorge; nebbia, il disco rosso che spicca nel grigio e, più su, i contorni della foschia che si sfilacciano, proprio come fiocchi di cotone. Uno spettacolo impareggiabile, che per un attimo mi fa dimenticare persino il freddo pungente, la faccia e le mani che dolgono.

La lunga galleria è uno dei momenti di sollievo più intensi che abbia mai vissuto. Non su può certo dire, in assoluto, che qui dentro faccia caldo; ma, in confronto alla Siberia che c'è fuori, qui si sta quasi bene. I muscoli sembrano un po' più disposti a fare il loro dovere; il naso riprende sensibilità; riesco persino a sorridere, senza che i muscoli del viso si contraggano in una smorfia dolorosa. Ma ho già il terrore del trauma da fine galleria... Trauma che mi si abbatte addosso, ma meno sconvolgente di quanto pensassi; forse perché, nel frattempo, s'è levato un pallidissimo sole. Certo, la discesa non aiuta; anche di corsa, la discesa raffredda i muscoli e lascia via libera a quel tremendo fremito gelido che sale lungo la schiena. La luce, poi, non si concede certo in abbondanza in questa vallata stretta, incassata; ombra e ghiaccio la fanno comunque da padrone. A Millesimo, come ogni sabato, c'è il mercato: ecco, credo che la sofferenza dell'ambulante, intesa proprio come sofferenza fisica per il gelo, sia infinitamente superiore alla mia; io che, in pochi minuti di immobilità, mi riduco ad un budino tremolante ed anche in casa circolo con la mutanda di lana dal polso alla caviglia, rigorosamente sepolta sotto tre o quattro strati di altri indumenti, inorridisco. Puoi vestirti quanto ti pare, ma, fermo dietro alla bancarella, non hai difesa alcuna contro il gelo.

All'uscita del paese, i primi segni di un po' di stanchezza. Sono affamata: di tanto in tanto, sbocconcello un cubetto di cioccolato, ma l'operazione è complicata. Richiede di sfilare i guanti, a prezzo poi di congelarsi le dita della mano. Mi sembra di ripercorrere le gesta degli alpinisti costretti a bivacchi a quote e temperature inumane... Nel mio piccolo, oggi, basta scoprire la mano per meno di un minuto, per ritrovarmela rossa e dolorante. Meno otto, sentenzia il termometro sulla piazza del paese.
La strada che porta verso Carcare è più caotica: auto che vanno e vengono, sia lì che sugli arditi viadotti della vicinissima autostrada. La risalita mi concede un po' di calore e stuzzica la fame. E' un luogo tristissimo, questo fondovalle, grigio ed opprimente. Del resto, oggi le tonalità del grigio sono gli unici colori che posso incontrare. Mi consolo pensando che non manca molto al mare, o meglio: non manca molto al Cadibona; oltrepassato quello, posso dire di essere al mare, anche se da lì a Savona mancano ancora dieci km.
Accanto alla strada statale, in questo tratto corre l'autostrada; attaccati ai piloni, cartelloni di pubblicità elettorale recentissimi si mischiano a quelli di chissà quante legislature fa. Il sole è sparito dietro le montagne; solo nei paraggi di Carcare, a circa due km dal paese, torna a fare capolino, con qualche raggio pallido, che solo l'immaginazione riesce a rendere appena tiepido. Man mano che il mattino avanza, aumenta il caos di auto: nemmeno il freddo scoraggia l'inarrestabile turista da centro commerciale. Mi si accappona la pelle al solo pensiero, e stavolta non è colpa del freddo.

A Carcare. svolto a destra, direzione Altare. E' un tratto trafficato; di qua si arriva al casello dell'autostrada: non si può dire che sia il meglio per i polmoni... Ma sarà breve. Il sole filtra tra i pendii ed i rami degli alberi, ma la faccia è gelata, tanto che le labbra fanno quasi male. Sistemo meglio il collare di pile, ma non c'è difesa; basta guardare l'asfalto, è una distesa di brillantini. E il ghiaccio crepita sotto le suole, quando mi azzardo ad avvicinarmi un po' troppo a bordo strada. Ad Altare, passo in centro paese; a malincuore, perché oggi la galleria sarebbe un vero sollievo, ma non mi ci posso infilare a piedi. Così, risalgo il viale di platani, o meglio, di quel che rimane delle povere piante scapitozzate malamente. Ho la sensazione che chi esegue simili potature, ma sarebbe meglio dire simili scempi, sia un grande esperto in tanti campi, ma di certo non in botanica. Ma ben presto mi accorgo che non è salute correre con il naso per aria: bisogna prestare attenzione ai dossi, anche a piedi; i punti in cui il dosso è verniciato sono scivolosissimi. A dispetto della temperatura proibitiva, il paese brulica di vita, tra negozietti di alimentari, panetterie, cartolerie. C'è anche un edificio antico, imponente, sembra un castello: ecco, tutti particolari che, passando in bici, non ho mai notato, troppo impegnata a farmi largo nel traffico cercando di portare a casa la pelle.

Oltre l'abitato, la strada sale ancora, fino alle due strette gallerie che segnano il colle. Confesso che non vedo l'ora di passare dall'altra parte: gli ultimi metri di salita mi sembrano eterni; sento d'improvviso una gran fatica addosso. Tento di esorcizzarla con una porzione di cioccolato fondente: non posso proprio permettermi di essere stanca, qui. Per quel che ricordo dalla cartina stradale, dovrei essere a metà: quaranta km percorsi, quaranta da coprire. E' pur vero che la maggior parte della salita è alle spalle. Ora mi attende la lunga discesa verso Savona: dodici km, più o meno, fino al mare. Ma qui è già tutta un'altra vita. Pochi balzi e sono all'abitato di Cadibona, che è lunghissimo, con le case tutte disposte lungo la strada statale. Da qui, ci sono almeno un paio di stradine secondarie che portano a Savona: però, viste le condizioni della via principale, mi sa che le altre siano ancora terreno di neve e ghiaccio. Meglio non rischiare.
Poso per caso gli occhi su un orologio: sono le undici, più o meno, ammesso che il tabellone sia attendibile. Alla fontanella, tento di bere un sorso d'acqua, il primo della giornata: macché... Quando apro il rubinetto, ne scende solo una goccia, triste e raminga. Pazienza, cercherò una fontanella in riva al mare. Riparto immediatamente. La discesa, purtroppo, non è mai indolore; le ginocchia fanno sentire le proprie rimostranze, soprattutto il destro, tormentato da un doloretto ancora leggero ma costante. Guai, però, a poggiare il piede appena di storto, magari per evitare una buca o una pozza: il poveretto strilla, una fitta, quasi un bruciore, brevissimo ma intenso. Speriamo bene... Non voglio e non posso pensare di non farcela, oggi. Tengo troppo a fare la sorpresa a Matteo. In realtà, proprio il pensiero della faccia che farà il poveretto è la mia più forte ragione per reggere questa faticaccia, oggi. Già un paio di volte sono comparsa nei pressi del suo negozio in bici: ma quella è quasi routine ormai; troppo scontato. Ottanta km a piedi, invece, fanno ancora la loro porca figura!
Così rimugino mentre seguo le curve e controcurve di questa strada che, vista con la calma della corsa a piedi, è bella davvero. Incassata in una stretta valle, scende dolcemete e corre parallela ad un torrente, a cui nella mia somma ignoranza non so dare nome. Ancora freddo ed ombra, perché il sole quaggiù chissà quando arriva, se arriva. La boscaglia è fitta ed intricata; giù, nel torrente, le rocce hanno un bel contorno di ghiaccio. Silenzio interrotto solo dal passaggio di poche auto e qualche bus di linea. Su, in alto, i rami e quel che resta delle chiome rinsecchite degli alberi sono immobili: non c'è un alito di vento, Qualche abitazione, qua e là, abbarbicata sul fianco della montagna, a cui si accede per stradine talmente pendenti da sfidare le leggi della fisica, o almeno quelle del moto delle automobili. Eppure ci sono tracce del passaggio di pneumatici. Per me ci vorrebbero corde, ramponi e piccozza per salire a piedi!
Accanto alla strada, i rivoli d'acqua che di solito corrono giù lungo i fili d'erba sono oggi lucenti stalattiti. Per non parlare delle cascate d'acqua che scendono giù da due tubi posti sotto le campate del bellissimo ponte della ferrovia, in mattoni: da quei tubi, pendono lunghissimi coni di ghiaccio, impressionanti, imponenti; sembrano spade, e meno male che puntano fuori dalla verticale della strada, sopra il torrente. Non vorrei trovarmici sotto, se decidessero di staccarsi! Ancora una volta mi rammarico di non avere con me la macchina fotografica; unica consolazione, con questo gelo, le batterie avrebbero di certo reso lo spirito.
Una casa, sulla destra, costruita proprio a picco sul torrente: tant'è che il marciapiede appena fuori della soglia è una sottile plancia di cemento sospesa sul salto, e l'accesso alla strada statale è un ponticello poggiato su pilastrini sulla cui solidità non giurerei. Ma bisogna anche ammettere che io non sono esattamente amica dell'altezza e del vuoto. Un uomo, non proprio peso piuma, passa proprio in questo momento sul ponticello, spingendo una carriola stracolma di ciocchi di legno: volto lo sguardo per non assistere alla tragedia... Poco oltre, sul torrente si slancia un ponticello costituito da assicelle di legno tenute insieme da corde, di quelli che oscillano quando ci passi sopra; sarà si e no un paio di metri sulla superficie dell'acqua, ma anche lì non andrei a poggiare i piedi... Le rocce nel torrente, umide e striate di neve, sembrano marmi lustri di un bel pavimento.

I km verso Savona sembrano non scorrere mai, e sì che sto viaggiando di buon passo. Speravo nel conforto del clima marittimo, ma per ora non ne ho traccia; anzi, il collare di pile è ricoperto di grumi di ghiaccio. E la sofferenza non finisce alle prime case della città; tocca ancora percorrere il lungo viale che porta all'Aurelia, irto di semafori, auto parcheggiate malamente ovunque e passeggianti del giorno di festa che occupano l'intero spazio della pista ciclabile e pedonale senza nemmeno essere sfiorati dall'idea di lasciarti una fessura per il passaggio. Son passata in un attimo dal silenzio glaciale della valle che sale al Cadibona al caos insopportabilmente chiassoso del traffico: clacson, motorini fracassoni, urla, improperi, perché si sa, ciò che distingue l'indole del Ligure DOC non è propriamente la pazienza. E, in questo, direi che la mia metà di geni savonese prevale senza dubbio!
La pista ciclabile corre accanto al letto del Letimbro, che in questo periodo si prende ben poco dello spazio a sua disposizione; gli strilli dei gabbiani si sentono a fatica in mezzo al rumore che qui regna sovrano. Devo lasciarmi alle spalle questo posto, il più in fretta possibile. Al cospetto di quell'orrore architettonico che è il palazzo del Tribunale, mi appoggio al parapetto lungo il fiume per levare un paio di strati: via il giacchino rifrangente e via un gilet, ma non la giacca invernale. Qui i termometri oscillano tra i due ed i tre gradi: siamo a mezzogiorno, in riva al mare... Lo zaino è anch'esso ricoperto di ghiaccio. Afferro la borraccia, faccio il gesto di bere: non ne scende nulla... Eppure era piena almeno per metà! La scuoto, sento un crepitio. Ecco cos'era quel rumore ritmico, tac tac tac, che sentivo poco fa... E' ghiaccio! Non c'è acqua nella mia borraccia, c'è una granita! Va bè, ho capito, non si beve, nemmeno stavolta.
Passo il ponte che conduce alla fortezza; attraversare la statale è impresa ad altissimo rischio di morte, ma, se non altro, da lì in poi, la sofferenza è finita. Sono fuori! Corro lungo il porto: trovo, finalmente, una fontanella. Spenta la sete, almeno per un po', posso tornare a godermi il paesaggio. In porto è ferma una nave da crociera: immensa, smisurata, grande quasi da far paura; ponti e ponticelli, oblò, persone piccole come formichine. Che fenomeno dev'essere, colui che l'ha parcheggiata lì dove si trova. E poi il mare. L'avrò accanto per i prossimi trenta km. Già, a proposito; questo signifca che alle spalle ne ho già cinquanta, forse anche qualcosa in più. Da ciclista, l'Aurelia è uno spauracchio, uno dei luoghi più sgradevoli su cui poggiare le ruote; da podista, l'affronto oggi per la prima volta, ma direi che si comincia bene, benissimo. Corro tra la scogliera ed un mare luminoso, placido; l'unica nota stonata è che il marciapiede, anche qui, è invaso da neve e ghiaccio. La temperatura è certo più confortevole di quanto non lo fosse sei ore fa nei dintorni di Ceva, ma è comunque insolitamente rigida per la Riviera. Per non parlare della vista sui rilievi che si affacciano sulla costa, imbiancati da una spruzzata di neve.

La fame si fa sentire con prepotenza. Devo razionare i viveri: sono partita con due tavolette di cioccolato da settanta grammi l'una, più una barretta; la prima tavoletta se n'è già andata. Stacco qualche quadretto dalla seconda. Oltrepasso la galleria e mi ritrovo ad Albisola: ottima occasione per constatare che la pavimentazione della Passeggiata degli Artisti, fatta di mattonelle lucide e colorate – possibile che sia ceramica, visto che Albisola è una delle patrie della ceramica? - non è la superficie più idonea da calpestare con scarpe di gomma quando nevica e la temperatura scende sotto zero. Più di una volta rischio di volare per terra; occhio e croce, gli altri sparuti personaggi che si aggirano tra aiuole e palme non se la cavano molto meglio. Appena possibile, svicolo sull'asfalto, con gran gioia degli automobilisti, soprattutto nella strettoia del viale. Posso leggere loro nel pensiero: si domandano perché mai io non corra sul marciapiede, anche se il vocabolario che vorrebbero usare per esprimere le loro perplessità è un tantino più colorito.
Albisola risveglia nei miei ricordi pensieri di ormai parecchi anni fa: l'epoca in cui ero molto giovine e seriamente fidanzata, quando m'è capitato di passare qualche giorno di festa qui, a non fare altro che passeggiare, stare in riva al mare o a casa di un amico del moroso. Non è che vi fossi costretta, per carità, anzi forse in qualche caso è stato anche piacevole; ma non ho impiegato molto a capire che quella non era la vita per me. Oggi, l'idea di dedicare un giorno di vacanza a qualcosa che non sia lo sport è qualcosa che non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello; se capita, a volte, per causa di forza maggiore, il mio già precario equilibrio psicofisico arriva pericolosamente vicino al crollo. Qualsiasi relazione sociale è legata a doppio filo e subordinata alla bici o alla corsa o alla montagna; non rinuncio a mezza virgola delle mie passioni, mai e poi mai.

Testa bassa, avanti, tra leggere salite ed altrettanto morbide discese, guai a sostenere che la strada in riva al mare è tutta piatta. Ormai l'ordine dei paesi l'ho imparato a memoria, finalmente, dopo decine di trasferte in terra ligure: quindi, si va a Celle. Mi godo la brezza leggera, anche se il collare di pile resta ben chiuso intorno al collo. Lo sguardo spazia lontano, lungo la costa: laggiù da qualche parte c'è Genova, ma chissà qual è la mia meta. Di qua, non riesco ad individuarla. A Celle, mi lascio distrarre per un attimo dalla vetrina del negozio Olmo, vestita a festa natalizia; poi sfilo in centro, domandandomi se per caso non ci sia una via alternativa a questa strettoia. Non lo so, ma non ha importanza: non posso permettermi deviazioni; vorrei raggiungere Genova ad un'ora ragionevole, in modo da non rientrare a casa troppo tardi stasera. E poi i km sono già tanti. Anche troppi, a giudicare da quanto sono irrigidite e dure le mie gambe. Anche la schiena dà qualche segno di impazienza: lo zaino è ben fissato, comodo, collaudatissimo, ma è anche pesante. Un po' di salita ed ancora mare, colori, persino fiori; respiro a pieni polmoni questo profumo che mi piace così tanto, forse perché arrivo dal regno della nebbia. Mi sorpassano due o tre coraggiosi ciclisti: nulla rispetto agli eserciti in tutina aderente che di solito si riversano sull'Aurelia. Con passo un po' rallentato, raggiungo Varazze; il supermercato sembra aperto... Avrei una gran voglia di Coca Cola, ma il solo pensiero di ingollare una bevanda che sia meno che bollente mi terrorizza. Tiro dritto, sprezzante, in paese e poi lungo la passeggiata a mare. Anche qui, con mio sommo disappunto, dovunque volga lo sguardo, vedo carampane impellicciate: mi verrebbe voglia di prenderle tutte e buttarle a mare, al pensiero di quanti animali siano stati uccisi per il ridicolo esibizionismo di queste... Queste... Insomma, il termine non si può scrivere per rispetto alla decenza, ma a buon intenditor poche parole. Un'altra fontanella, troppa grazia. Ma sarà davvero sete, o solo voglia di concedere alle gambe qualche istante di tregua? La risalita a Piani d'Invrea è bellissima, inondata di sole, ma i muscoli sono sempre meno reattivi. Possibile? Qui non siamo ancora a settanta km. Come è possibile che abbia corso due gare da cento km e che oggi sia ridotta così, ben prima? Beh insomma, qualche ragione a mia discolpa, a ben guardare, ce l'ho. Cento km in gara si corrono senza zaino, con punti di ristoro ogni cinque km, con il conforto dell'assistenza; io ho macinato un sacco di strada al gelo, portandomi sulle spalle tutto l'occorrente e senza fermarmi mai, o quasi. Sembra incredibile, ma quei cinquanta metri che in gara percorro al passo ad ogni ristoro, per riuscire a vuotare un bicchiere senza versarmelo addosso, sono importanti per un minimo di recupero. Oggi, a parte la pausa tecnica e l'altra pausa per svestirmi, ho sempre e solo corso. Però fin qui è stato bellissimo: ho viaggiato con la tranquillità di un Buddha, mi sono goduta metro per metro. Non c'è niente da fare, non sarò mai capace di avventure affascinanti al limite dell'umana sopravvivenza; amo la fatica, ma che sia comoda e sicura. Oggi ho avuto, appunto, la fatica: ma avrei potuto gettare la spugna in qualsiasi momento e trovare, più o meno in ogni paese, un treno che mi avrebbe comodamente riportata a Ceva. Insomma: amore ed odio per la civiltà!

Getto la spugna sulla passeggiata di Cogoleto. Inutile insistere con la corsa: a quel ritmo, le gambe non ce la fanno più. Passiamo al piano B: camminata veloce, più veloce che si può. Una sorta di marcia. Certo, potrei attingere alla mia fornitissima scorta di farmacia; se fossi iin gara, l'avrei già fatto da un pezzo. Ma oggi forse non è il caso. Occhio e croce, da qui a Genova Prà mancheranno quindici km, forse meno. Poco più di due ore, a questo passo. Potrei arrivare intorno alle quattro e mezza al negozio di Matteo; in fondo, va bene così. Anziché proseguire lungo l'Aurelia, dalla passeggiata di Cogoleto imbocco la strada pedonale e ciclabile che ripercorre l'itinerario della vecchia ferrovia, gallerie comprese, uno splendido passaggio lungo il mare. Qui le onde sono un po' più arrabbiate: forse s'è alzato un po' di vento che sferza la schiuma sulle rocce. Mi piacerebbe andare a calpestare un po' di sabbia, ma non è il momento; non ho proprio voglia di perdere tempo.

A costo di rovinare un po' il gusto della sorpresa, anticipo a Matteo il mio arrivo con un messaggio sul cellulare: siamo sotto Natale e so bene che il suo negozio è preso d'assalto; se lo avviso all'ultimo, rischio di creargli problemi o magari di dover aspettare al gelo. Di entrare in negozio no, non se ne parla proprio; un gesto così plateale non è nelle mie corde. Mi faccio da parte mentre cammino a passo spedito e smanetto sulla tastiera del telefono; mi sorpassa qualche temerario in mountain bike. Incredibile come le gambe, che proprio non ne volevano più sapere di correre, non abbiano invece alcun problema a marciare a questo ritmo. Fendo la folla della passeggiata di Arenzano, anziani, famiglie, bambini, cani, con gli occhi ormai credo fissi ed iniettati di sangue: come la fiera quando sente ormai la preda vicinissima, senza più il rischio di sbagliare il colpo. Forse per questo, il bellissimo tratto di strada che ancora manca a Voltri mi sembra infinito. Molti mi guardano incuriositi: nessuno immagina da dove arrivo, questo è poco ma sicuro.

Ancora mare, gallerie, splendidi palazzi signorili; in lontananza, lo osservo già da un po', un grosso cubo verde, chissà che razza di edificio; un pugno nell'occhio nella striscia indistinta della città di Genova. Una curva che nasconde un'altra curva ed un'altra ancora; il sole che lentamente si abbassa sull'orizzonte e si porta via anche quel poco di calore che mi aveva concesso sinora. Un'occhiata alla spiaggia, risicatissima: mi attirano i ciottoli tondi e neri levigati dalle onde; quasi quasi ne vorrei prendere uno per ricordo. Già: ma mi ritroverei ben presto in mano un ciottolo grigio, opaco. Sono neri e lucidi e belli solo perché bagnati dal mare.
Così vicina alla fine, confesso che gli ultimi km mi pesano davvero tanto: non è stanchezza, in realtà, è solo ansia di arrivare laggiù. Tanto che, poco prima di Voltri, riprendo a correre: su e giù dal marciapiede, cercando di evitare il ghiaccio. Per magia, proprio a Voltri mi rituffo nel caos totale del pomeriggio dell'ultimo sabato prima di Natale. Traffico infernale sulla strada ed anche sui marciapiedi: ma non ho dubbi, preferisco affrontare il caos dei motori piuttosto che quello delle madame cariche di borse, dei mariti stanchi e svogliati ed afflitti che corrono loro dietro, dei branchi di ragazzini vocianti. Sul marciapiede non c'è posto per correre e si rischia la vita! Quindi m'infilo ostinatamente tra le colonne di auto in coda ai semafori; respiro gas di scarico a pieni polmoni, vanificando in un attimo tutto il beneficio dell'aria carica di iodio. Posso anche permettermi, da pedone, di fare un sonoro pernacchione ai pedoni che vorrebbero la precedenza sulle striscie. Tiè, aspetta e taci!

All'improvviso sento chiamare ad alta voce il mio nome: "Giancarla!". Possibile? L'ho udito davvero, o è il primo segno di allucinazione da stanchezza? "Giancarla!". Mi volto, chiedendomi chi diavolo può avermi riconosciuta, conciata a metà tra uno spaventapasseri ed un terrorista islamico, a quasi duecento km da casa. Beh, c'è da dire che questo abbigliamento per me è quasi la norma, e che di certo conosco più persone a Genova che non a Carmagnola... E' Silva! La super ciclista che ho conosciuto alla Mezza Maratona di Arenzano quest'autunno. Che sorpresa! Quattro parole e poi via: la strada sale ancora, supera il bivio per il Turchino, supera il casello autostradale. Se continuo così, con il mio slalom scriteriato tra le auto, va a finire che, ironia della sorte, ci lascio le piume proprio a pochi passi dall'obiettivo.
Forse anche le gambe sentono che ormai è fatta. Non si lamentano più, corrono e basta. Lunghissimo, eterno il rettilineo in fondo al quale lampeggia la croce verde della farmacia: è quello il mio riferimento per ritrovare la via del negozio di Matteo. Il freddo è tornato pungente; morde le mani e la faccia. Sono le quattro e mezza, più o meno, proprio come previsto. All'imbocco di via Murtola, con il cuore a mille e non solo per la corsa, faccio squillare il cellulare di Matteo: un attimo dopo, me lo vedo arrivare di corsa incontro. La sua espressione è la migliore ricompensa di tanta fatica. Avevo bisogno di tentare un allenamento lungo e, per riuscire, avevo bisogno di un motivo. La sua ammirazione, il più forte dei motivi. Ottantaquattro km, dirà la carta.

Purtroppo abbiamo solo pochi minuti. Lui richiamato dal dovere, io dal treno, che non so esattamente quando partirà. So solo che ce n'è all'incirca uno ogni ora: ma il foglietto con gli orari e le coincidenze, compilato diligentemente ieri sera, è rimasto là dove l'avevo lasciato, sul tavolo in cucina. Poco male. Saluto Matteo, a malincuore, e mi avvio per l'ultimo km di corsa verso la stazione di Voltri, che ho individuato poco prima, passandoci davanti. Il cielo sta cambiando colore, dall'azzurro al blu intenso, rosso fuoco sul mare. Raggiungo la stazione, treno alle 17.25: mezz'ora di attesa in uno stanzone sporco, senza sedie, ma, se non altro, caldo. C'è troppa gente perché io trovi il coraggio di cambiarmi; i bagni ovviamente sono sigillati. Così, mi ritaglio un angolino di pavimento, il meno sudicio, per sedermi ed allungare le gambe; se restassi in piedi, come sempre dopo una fatica, che sia da dieci o da cento km, sarei preda dei capogiri in un attimo. Lì, appoggiata al muro, lo zaino sulle ginocchia, l'espressione ebete di soddisfazione, le mani fasciate solo dai sottoguanti laceri, devo avere un aspetto ben diverso da quello che si attribuisce di solito al tipico, rigoroso, rispettabile dottore commercialista. Ma, del resto, la mia immagine è l'ultima delle mie preoccupazioni. Sotto lo sguardo perplesso di un compito viaggiatore con vestito bello e valigia, appoggio la testa al muro e me ne resto lì, immobile, ad ammirare i colori violenti di uno splendido tramonto ed un luminoso spicchio di luna. Tra coincidenze, ritardi e freddo pungente, sarò a Ceva alle sette e mezza, a casa un'ora dopo. Molto meno massacrata del previsto e con una bellissima avventura in più da ricordare e da ripetere, il più presto possibile.