Auto che vanno e vengono, qualche pedone in giacca e valigetta, persino un paio di viandanti in bici: secondo i miei calcoli, dovrebbero essere le tre e un quarto di domenica mattina, ma c'è qualcosa che non mi quadra. "E' pericoloso far benzina al self service di notte; non c'è nessuno in giro, potresti essere aggredita!". Ma quando mai? Mezzo mondo si agita qui intorno! Ripongo la pistola del distributore, salto in auto, controllo sul telefonino la data e l'ora. Vuoi vedere che ho sbagliato a puntare la sveglia e l'ho messa alle sei anziché alle due? E magari oggi non è nemmeno domenica, è lunedì, e questo intorno a me è il traffico lavorativo dei giorni feriali? Eppure no; a meno che il telefonino non abbia preso, a sua volta, un abbaglio, ora e giorno del mondo concordano con i miei. Riempito il pancino alla Opel, si parte, destinazione Brianza, sotto una pioggerella leggera e fitta fitta. Le previsioni meteo l'annunciavano già dallo scorso martedì; per oggi, pioggia, senza speranza. Ed è un guaio: non solo per la gara, di cui dovrò preoccuparmi tra qualche ora, ma anche per la mia vecchietta a quattro ruote. C'è qualche strano contatto tra i comandi dei tergicristallo e dei fari: quando i primi sono in azione, gli abbaglianti, di tanto in tanto, fanno un lampeggio, così, per fantasia. Di per sé, nulla di preoccupante; però, quando mi ritrovo, in direzione della tangenziale di Torino, dietro all'auto dei Carabinieri, sudo freddo... Per fortuna, la Opel mette giudizio e rinuncia, in questa circostanza, ad esibirsi.
Comincio il viaggio sulle note beneaugurali di "I believe I can fly", intercettata per caso alla radio; lo concludo poco prima delle sei. Non possiedo né un navigatore satellitare, né tantomeno un banale atlante stradale, ma anche oggi il foglio volante con la stampa della cartina da Googlemaps ha fatto il suo sporco lavoro. Ho azzeccato sia la direzione "Milano Viale Zara" che l'uscita "Cinisello Balsamo – Sesto San Giovanni", che sono i miei incubi ricorrenti. Guai a sbagliare lì... Sarei stata catapultata direttamente all'inferno! Già la periferia di Torino è caotica ed incomprensibile, ma nei paraggi di Milano è davvero il delirio. Se sbagli direzione, sei un automobilista finito. Oggi è andata bene: SS36, uscita per Seregno San Salvatore. E, da lì, il primo assaggio dell'ottima organizzazione della gara: frecce ad ogni incrocio e ad ogni rotonda, che mi portano dritta al Palazzetto dello Sport di Via Alla Porada.
Lo spiazzo del parcheggio brulica di vita, nell'ombra. Silenzio, nebbia, pioggia lieve; il Palazzetto si vede a malapena. Abbandono la fida vettura e vado a recuperare il mio numero di gara: 130, tassativo, devo appuntarmelo sul petto. E vai a far capire che indosserò la giacca impermeabile e quindi lo nasconderò... Niente da fare, sulla gamba non va bene, bisogna appuntarlo sul petto. D'altronde, si chiama "pettorale". Per carità, non discutiamo. Me l'avevano detto, i bene informati, che le gare Fidal da questo punto di vista sono un po', ehm, "rigide", per usare un eufemismo. Un'ora dopo, sono pronta e scalpitante al via. Mi sono bastate le due precedenti esperienze di gare da 100 km per capire che tanti, tra i visi oggi qui intorno, sono ormai noti, anche se non saprei dar loro un nome. Ripenso con un sorriso al dialogo intercettato poco fa, al palazzetto, tra due accompagnatori non podisti: "Io li guardo, questi qua, li guardo in faccia, sono completamente pazzi, hanno degli occhi che fanno paura!". Chissà, forse è vero, siamo proprio così, invasati al punto da incutere timore. Ma non mi sento così minacciosa, tutt'altro; son qui un po' infreddolita, a scambiare quattro chiacchiere a destra e a manca per sciogliere la mia tensione in quella altrui. Maglietta e giacca GoreTex, pantaloncino tre quarti, guanti e berretto in pile, più lo zainetto sulle spalle: solo se fossi incappata in una splendida giornata di sole, avrei potuto provare a separarmene... Secondo la voce che tuona dall'altoparlante, la temperatura e le condizioni climatiche di oggi sono eccellenti per correre: sarà, ma a me tutto questo grigiume mette una gran tristezza, e poi correre con l'umidità appiccicata addosso non è il massimo delle mie aspirazioni. Ma questo passa il convento, oggi.
Lo sparo coglie tutti di sorpresa. Adoro le partenze delle cento chilometri... Ci si lascia scivolare avanti, con calma; ci si avvia al trotto, pian piano, dando ai muscoli tutto il tempo necessario per scaldarsi. Discorso diverso, è ovvio, per i corridori di punta, i candidati alla classifica, ma la massa se la prende con calma, anche se spesso l'euforia gioca qualche brutto scherzo, pure qui. Vai Gian, comincia l'avventura, e sarà lunga, molto molto lunga. Devi prendere subito il tuo passo, con calma; l'andatura che senti di poter sopportare a lungo, senza la minima fatica. Devi sforzarti di pensare a qualsiasi cosa, al lavoro, a casa, a Skipper, alle prossime gare, alla bici, ai massimi sistemi, qualsiasi cosa che non sia la corsa, perché la mente è la peggiore nemica. Già nei primi km si consolidano alcune posizioni: podisti singoli, coppie, gruppi che vedrò nei miei paraggi per qualche decina di km. Qualcuno corre in pantaloncino e canottiera, e già tremo per lui; qualcuno è ricoperto di cavetti e marchingegni vari, che neanche un malato terminale all'ospedale, bip bip che risuonano ovunque e che decidono per te quand'è che stai bene e quand'è che invece sei lì lì per scoppiare. Nella nebbia si distinguono capannoni dello stesso colore: officine meccaniche, mobilifici, magazzini, cortili e cani da guardia; poche auto, a quest'ora, le sette appena passate. Il primo cartello chilometrico è spietato: km 2/52. Già, perché la corsa percorrerà per due volte lo stesso anello di cinquanta km; ergo, ripasseremo di qua tra... Un bel po'. Novantotto km ancora. Ecco perché non ci devi pensare, Gian. Questa frase, tre semplici parole che possono distruggerti in un attimo. Basta che tu ti renda conto del significato, novantotto km, un'enormità; basta quello per tagliarti le gambe, subito, senza appello. Poco oltre, un podista che corre qualche metro avanti a me richiama, tutto serio, uno dei volontari: "Scusa... Quanto manca?". Scoppiamo a ridere tutti, qui intorno, perché, per ora, il fiato ci basta ancora, per ridere, e il petto non dà ancora spasmi di dolore, se si ride. "Novantasette km, circa!", esclama il ragazzo in casacca rifrangente.
Le gambe percepiscono un accenno di strada in salita. Il primo paese che raggiungiamo è Giussano: chissà se è il Giussano di quell'Alberto da Giussano di cui ho vaga ed incerta memoria scolastica. Molto vaga e molto incerta; non ricordo assolutamente chi fosse e cos'avesse combinato nella sua vita, ma m'è rimasto impresso il nome. Ad essere sinceri, non si può essere così certi che siamo usciti da un paese per raggiungerne un altro. Qui, capannoni e case si susseguono, senza soluzione di continuità, e la nebbia riempe gli spazi vuoti. Il cuoricino batte senza farsi sentire; le gambe trottano tranquille; la testa vaga, docilmente, altrove. Va tutto bene pur di distrarsi: anche il listino prezzi sulla vetrina della lavanderia – sette euro per far lavare un cappotto? Meno male che la giacca Windstopper si schiaffa in lavatrice! - anche le locandine con i titoli dei giornali locali. Anche scrutare condomini e ville a schiera, con l'occhio deforme dell'amministratore, e tentar d'indovinare le magagne, qui un tetto poco spiovente, lì intonaco che si stacca, laggiù un frontalino scrostato... "Scusa, in quanto tempo pensi di finire?". La domanda, a bruciapelo, mi precipita sulla terraferma. Quanto penso di impiegare? Boh, e che ne so io? Più o meno il tempo della precedente 100 km, insomma, spero di stare sotto le dodici ore, ma non ne ho la certezza. Come faccio a prevedere quel che mi accadrà in cento km? Non è umanamente possibile! Il collega che mi ha interpellata ha invece ben chiaro in mente il confine delle tredici ore; beh, allora, se è così, mi sento di potergli fare, come desidera, da lepre; salvo catastrofi, in tredici ore ce la dovrei fare anch'io. Mi pento immediatamente del mio buon cuore: il collega tira su la manica, squadra il cipollone che porta sul polso, strabuzza gli occhi per la pioggia e sentenzia: "Stiamo andando a 6 e 30", che poi, tradotto in versione comprensibile, significa sei minuti e trenta secondi per percorrere un km. E già a me questo modo di misurare la velocità sta un po' sul gozzo: da che mondo è mondo, per me, la velocità si misura in chilometri all'ora! Metri al secondo, al massimo, ma non è questo il caso. Insomma, ho acquisito così poche certezze, scaldando il banco alle superiori nelle ore di fisica, che ci tengo, a quelle poche! Non calpestatemele... Ma, quel che è peggio, mi dà orrendamente sui nervi sapere a che velocità sto viaggiando. Non sopporto i riferimenti al tempo che scorre: tant'è che distolgo persino lo sguardo se intuisco, nei paraggi, un campanile che potrebbe, per accidente, rendermi edotta sul momento della giornata in cui sto vivendo. Non mi servirebbe a nulla, valutare lo scorrere del tempo: non posso in alcun modo rincorrerlo, correre più veloce per agguantarlo; se anche mi rendessi conto che è tardi, non potrei far proprio niente per porre rimedio. Su una distanza del genere, posso solo correre spendendo quel tanto di energia che basta a svuotare lentamente il serbatoio, e facendo in modo che l'ultima goccia di carburante sparisca appena passata la linea del traguardo. Qualsiasi pedata sull'acceleratore consumerebbe carburante in più che poi verrebbe a mancare al momento buono, chissà, al settantesimo, ottantesimo km. Senza contare che, su un corpaccione pesante come il mio, il minimo allungo è, per i muscoli e le articolazioni, un'offesa che, qualche km più avanti, esigerà la sua vendetta. Insomma: prudenza, calma e sangue freddo.
Nonostante tutto, non mi sento di rimbrottare il podista che mi fa l'onore di considerarmi come lepre. Potere della lusinga: io, proprio io, che posso essere, una volta tanto, di riferimento a qualcun altro... Qui non ci risparmiano proprio nulla; se ad una rotonda bisogna svoltare a sinistra, non possiamo tagliare la rotonda, no; transenne in mezzo alla strada e solerti volontari armati di bandierina rossa. In effetti, con tutte le rotonde che ci sono da queste parti, se ogni volta potessimo seguire la corda anziché la circonferenza, finiremmo per correre novantacinque km anziché cento. Chiacchiero un po', anche se non voglio esagerare: il mio compagno di viaggio non sembra troppo incline, o forse gli manca il fiato. La prima ed unica salitella secca del giro, anche se molto breve, arriva intorno al decimo km, poco prima. Decimo km, significa che devi ancora correre nove volte tanto quel che hai già corso. Pura, elementare matematica. Un abisso: anche se, per ora, sto bene, la sola idea mi angoscia. Bisognerebbe poter spegnere il cervello, ecco. Lasciarlo alla partenza, in un'ampolla, insieme alla borsa con gli indumenti di ricambio ed il necessario per la doccia, e recuperarlo a fine gara. Perché le gambe, da sole, potrebbero svolgere tranquillamente il loro dovere; potrebbero correre, certo, accusando la stanchezza che cresce, ma l'accetterebbero senza pensarci, e continuerebbero a correre finché i muscoli non siano talmente ingolfati ed intasati da costringere alla resa. Fino a quel momento, però, andrebbero avanti senza pensare, senza angosciarsi nell'attesa spasmodica dei crampi, degli indolenzimenti, delle fitte qua e là.. Il cervello non riesce a fare a meno di elaborare intoppi, ostacoli, tragedie, e lo sforzo che a me tocca compiere per contrastare tutto questo è immane. Più mi costringo a non pensarci, più ci rimesto.
Il paesaggio, se così si può definire, non offre distrazioni. Verano Brianza, un nuovo paese di cui mi accorgo proprio perché leggo il cartello; casermoni, casette, capannoni, strade trafficatissime, proprio come tutto ciò che ho visto sinora. Ancora, Carate Brianza, stessa solfa. Anche negli abitati, il percorso è molto tortuoso; vie del centro e viuzze laterali, svolte continue, da mal di testa e disorientamento. Da queste parti, poi, passo con circospezione: ivi risiede un personaggio di mia conoscenza, la cui consorte mi ha bollata, tempo fa, come sfasciafamiglie... Ruolo che nego fieramente di aver mai ricoperto, nella mia pur vivace vita sentimentale: sfasciare famiglie non è mai stato il mio obiettivo, per il semplice fatto che poi mi sarebbe toccato tenere con me parte dei cocci, e lungi da me la sola idea! Al massimo, posso aver causato, in alcune occasioni, qualche crepa, che però poi, dopo il mio passaggio, in un modo o nell'altro è stata stuccata e riparata. Nella maggior parte dei casi, manco quello: troppo faticoso lavorare di piccone... Meglio dirigersi dove la strada è già spianata, molto meno faticoso, fastidioso e pericoloso! In ogni caso, oggi mi rammarico di non aver messo barba e baffi finti nello zainetto. Temo l'attentato kamikaze...
Carate alle spalle, almeno per il primo giro, e mi sento più tranquilla. Albiate, Sovico, Macherio: luoghi che certo non restano impressi nella memoria. Quel che resta impresso, senza dubbio, è lo spiegamento di forze radunato dall'organizzazione di questa corsa. Anche il più insignificante degli incroci è segnalato e presidiato da una o più persone, tra Vigili Urbani, Alpini e volontari di vario genere. E quanti sorrisi, quante feste ai ristori! Per un attimo, tutto questo aiuta ad attenuare l'ansia, perché a quest'ora, nei pressi del km 21, non c'è ancora dolore, solo ansia. Passo sul tappetino della mezza maratona senza avere idea di che ora sia: ancora quattro volte tanto quel che ho corso sinora. E mi sembra di correre già da un'eternità... Forse è la nebbia, questo grigio che assorbe e dissolve tutto. Se solo ci fosse qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere: ma no, nessuno; ormai siamo tutti sparpagliati, distanti l'uno dall'altro, anche se le stesse figure continuano a restare più o meno nei paraggi, più o meno lontane. Il podista che mi accompagnava s'è perso, non so con precisione quando e dove; in ogni caso, qui, mors tua, vita mea... L'unico, assoluto, inviolabile comandamento a cui devo obbedire è: correre un po' meno di quel che mi sentirei di correre, e con andatura il più possibile regolare. Niente soste; pochi metri al passo, dopo i banchetti dei ristori, per bere un bicchiere di Coca Cola o the, graditissimi. "Chi si ferma è perduto", sosteneva un tale che evidentemente aveva buona esperienza di ultramaratone. Lissone, Biassolo: sarà che è mattina, sarà che piove, fatto sta che il tifo è quasi inesistente, fatta eccezione per gli angeli custodi della corsa. Solo strade intasate di auto i cui proprietari, spesso, non hanno l'aria granché entusiasta di quel che sta accadendo. E probabilmente, nonostante le locandine della gara sparse ovunque, non lo capiscono. E, se lo capiscono, di certo non lo apprezzano.
Come sempre, non mi sono curata di consultare la mappa del percorso, prima del via. Così, al km 25, la sorpresa è perfetta: breve discesa lungo un muraglione e, in un attimo, eccomi catapultata in un altro mondo. Un meraviglioso parco, immenso, di cui non avrei mai sospettato l'esistenza. Per un attimo, ne resto quasi frastornata. Alberi altissimi, chiome sospese lassù metri e metri sopra la mia testa; verde, solo verde tutt'intorno, un contrasto radicale con tutto il grigio che mi ha accompagnata sinora. Afferro un po' di zucchero ed un bicchiere di Coca al ristoro, poi via di corsa, ancora. Km 25/75: Gian, un quarto... Devi faticare ancora tre volte quel che hai faticato sinora. E' dura. Per me, la prima metà di gara è un vero tormento. Non è il doping per andar più forte, quello che serve a me; è una forma di doping che mi ottenebri il cervello. Che non faccia pensare. Venticinque, trenta km, il confine più terribile, quando i primi dolori fanno capolino, ma la fine della giornata è ancora tragicamente lontana e disperatamente incerta. Fluttuo da uno stato di euforia irrazionale ad uno stato di altrettanto irrazionale paura di non farcela. Certo, poi a mente fredda si può anche pensare che via, è solo una gara, non è una tragedia, non è un caso di stato; ma, mentre sei lì, la gara è sola e tutta la tua vita, l'unica cosa che esiste e che conta, il sogno a cui aggrapparti con tutto te stesso. Il parco, ecco, in questo momento è un conforto eccellente. E' meraviglioso, ecco. Resto a bocca aperta, non solo per la mancanza di fiato. Nella mia ignoranza, credo di poter tirare ad indovinare ben poche specie tra questi alberi imponenti: vedo platani, ippocastani, querce, un sottobosco spesso poco curato di cespugli e pochi, timidi fiori; violette e nontiscordardime. Se non fosse per il trillo vivace di ogni sorta di uccelletti, e per quelle poche, quasi invisibili macchie di colore che spuntano tra l'erba, si direbbe una piovosa giornata autunnale. Eppure, nonostante il clima ben poco invitante, il luogo brulica di vita: podisti, famiglie a spasso con bambini e cani, tanti cani, di tutte le taglie, di tutte le razze e non razze. Incroci, diramazioni, strade e sentieri che s'incrociano: se non fosse per le frecce della gara, e le fettucce, ci sarebbe da perdersi, senz'altro. Nel parco scorre un corso d'acqua, credo sia il Lambro, che in un punto forma una cascatella
Fragore di motori, sembrerebbero moto lanciate a velocità inaudita: una, due, tre volte... Ma che diamine succede? Poi noto gli spalti, pian piano ricollego la memoria: ma sì, è ovvio, siamo a Monza; c'è l'autodromo! Come dimenticare lo spassosissimo personaggio della "Mmmmmmmmonaca di... Mmmmmmmmonza" nella parodia del trio Lopez, Marchesini, Solenghi? Non me ne voglia il Manzoni, ma la versione dei tre comici è indimenticabile... Quindi, c'è l'autodromo e qualche pilota si sta dilettando in sella al suo bolide.
Di lì a poco, mi affiancano due podisti: "Ma tu stai correndo la 100?". Ebbene, sì... Sono pieni di sincera ammirazione, e simpaticissimi, anche; mi spiegano che loro sono impegnati nel primo allenamento lungo stagionale; ben quattro km e mezzo, al termine dei quali si premieranno con un pranzo luculliano. Chiacchierano volentieri, e non hanno idea di quanto la loro compagnia, per quei pochi km, mi riesca preziosa. Corro per un po' senza nemmeno pensare a quel che sto facendo, impegnata come sono a rispondere a tono a frizzi e lazzi; un occhio, di tanto in tanto, all'alternarsi del bosco, dei prati e di alcune splendide cascine. Le varie stradine hanno tanto di cartello con i nomi delle vie!
Al km 35, l'idillio si conclude, almeno per questo giro. Una porta mi sputa fuori dal parco, nel colmo del traffico. Lissone, Desio. Sono sola e sempre più demoralizzata. Non posso più far finta che le gambe non facciano male. Non è un dolore insopportabile, tutt'altro; ma come posso essere certa che non andrà aumentando, che non si tradurrà in crampo, in fitte all'addome di quelle che ogni tanto, malauguratamente, mi piegano in due? Trentacinque, quaranta km, ancora un abisso. Devo pensare alla metà, ecco. Arrivare al cinquantesimo km. Di lì in poi, si vedrà. Un volontario mi comunica che sono la quarta donna; per fortuna, ormai ho imparato a dare a queste stime di classifica, senz'altro calcolate in perfetta buona fede, il valore che hanno: uno zero tondo. Sarebbe bello, ma so bene che è impossibile che io sia quarta; dalla rapida analisi fisiognomica che ho condotto in griglia, appena prima del via, direi che sono ben più di tre le fanciulle che a me possono far mangiare la polvere come e quando lo desiderano. Ad ogni cartello chilometrico, m'impongo di pensare solo al prossimo, due km più avanti. Di due km in due km. Ormai da un po' sono spuntati anche i corridori della maratona, partiti due ore dopo di noi. Il percorso della maratona si sovrappone in parte a quello del primo giro dell'ultra, salvo per alcuni trati; ovvio, entrambi gli itinerari devono giungere a Seregno in modo tale che quel punto sia la conclusione della maratona, 42,195 km, ed allo stesso tempo la chiusuda dell'anello dell'ultramaratona, da 50 km. Passati i primi, i fenomeni, veloci come missili, le retrovie indugiano un po' più a lungo, mescolandosi con noi centochilometristi. Lissone, Desio, quarantesimo km, ed io arrivo a convincermi che la mia meta, per ora, sia tra dieci km. Cavalcavia, sottopassaggi, marciapiedi, incroci, semafori, vetrine di abiti, scarpe, elettrodomestici; la si potrebbe definire "ultramaratona urbana". Km 45, ristoro, 46, 48... Riconosco finalmente il parco del Palazzetto dello Sport di Seregno, che ho visto di sfuggita stamattina. L'arco è uno solo, segna la fine della sofferenza per i maratoneti, segna la metà, la terribile metà, per me. E' incredibile l'effetto psicologico di quel banale passaggio sul tappetino. Gian, significa che il peggio è alle spalle; significa che, da qui in poi, ogni passo sarà più vicino al traguardo che non alla partenza. "E via, un altro giro", esclamo tra gli applausi della piccola folla presente. "No, non è un altro giro – mi corregge un collega di fatica – quello che hai concluso è andato, non esiste più. Adesso c'è solo questo giro!". E' vero, sacrosante parole, è vero, c'è solo questo. Zucchero e Coca Cola al ristoro, uno spicchio di limone da ciucciare per scacciare la nausea. Da qui in poi, conta solo il prossimo ristoro. Cinque km al prossimo ristoro, le colonne d'Ercole. E ritrovo passo passo tutto quel che ho già visto: mi stupisco io stessa della quantità di particolari che mi è rimasta in mente. Km 2/52, ma stavolta il numero che conta, per me, è il secondo. Troppo, troppo, troppo presto per lasciarsi trascinare dall'entusiasmo: ma la mia lenta rimonta, cominciata già prima del quarantesimo km, continua. Ovvio, non ho velleità di classifica; non è per questo che raggiungo e mi lascio alle spalle, di tanto in tanto, qualche avversario, qualche gruppetto. E' solo perché la mia andatura non ammette variazioni, né in meglio, né in peggio; è la soddisfazione di non subire il tracollo, perlomeno, non ancora. Non certo perché mi sento più forte degli altri, ma semplicemente perché la capacità di correre molto a lungo e sempre allo stesso ritmo, sempre mordendo un po' il freno, è una delle mie poche buone caratteristiche ed è ciò che mi regala un senso di fiducia. Km 55, ristoro; dai Gian, adesso altri 5 km e c'è il prossimo. Uno sforzo sempre teso nel desiderio di quei pochi metri al passo dopo ogni banchetto, quel brevissimo eppure intenso attimo di riposo che concedo alle mie gambe. Guai se fosse più lungo; non potrei mai ripartire...
La salitella poco prima del km 60 mi conferma che, nonostante i timori, oggi è una gran giornata. Recupero qualche posizione e sono l'unica, tra i corridori che l'affrontano in questi momenti, a correre, tutto sommato senza problemi. Gli altri camminano, qualcuno sbuffa come una locomotiva, si volta, mi guarda perplesso, quasi indispettito. Passo avanti senza dire nulla, per timore che un incoraggiamento possa sembrare fuori luogo: imperscrutabili sono i percorsi mentali del podista in affanno. Ancora quaranta, Gian: poco meno di una maratona. Sei stanca, certo, ma vuoi non portare a termine una maratona? Il mio terrore è il dolore improvviso, acuto, quello che può spuntare da un momento all'altro e metterti KO per un bel po'; conosco l'esperienza, anche se, per fortuna, in gara mi è accaduto molto di rado. Meno trentacinque, meno trenta: ecco, trenta è un confine che mi infonde fiducia. Ancora trenta, ma settanta già fatti, dà una bella idea delle proporzioni. E poi, dovrebbe mancare poco al tratto di percorso nel parco: l'ingresso è in corrispondenza di un ristoro, che potrebbe essere già il prossimo, se non ricordo male. Stringo i denti ancora un po', fingo di non sentire i muscoli delle cosce che s'induriscono; respiro a pieni polmoni e m'illudo che sia ossigeno, e non l'orrido concentrato di gas di scarico ed ogni sorta di venefica emissiome. Effetto placebo: se ci credo, funziona!
Un altro splendido giro nel parco. Sola, questa volta, perché è pomeriggio; non saprei dire che ora è, ma credo primo pomeriggio, ora di pranzo e digestione. I podisti sono scomparsi, estinti; a quest'ora, incontro più anziani, in coppia, in gruppo, e poi gli immancabili abbinamenti di cane e padrone, e qualche cavallerizzo. Compaiono anche i primi assistenti in bici accanto ai corridori: non so quanto sia consentita la faccenda, ma non ha molta importanza... I cinque km tra un ristoro e l'altro cominciano a diventare lunghi; l'occhio cerca con cupidigia il cartello chilometrico, vorrebbe poter cogliere una successione molto più rapida. Dai Gian, ormai è fatta, salvo imprevisti. Devi solo continuare così, con calma. E' ovvio che le gambe fanno male, ma, del resto, lo dice persino l'incommensurabile Marco Olmo: se tu sei stanca, non è che gli altri siano freschi come roselline di campo. Qualcosa del genere. Sei tu quella che si sta rosicchiando la rimonta, adesso, guarda. Tanti camminano. Tanti hanno la testa china. Tu no, non ancora, e le curve secche degli incroci tra le stradine le affronti ancora con una buona elasticità. Devi solo fare attenzione a non esagerare, e devi mangiare. Ormai la bocca non accetta altro che zucchero e limone, oltre alle bevande. Ed il gel. Che meraviglia, questi alberi. I più strani di tutti son quelli che hanno la corteccia del platano, ma sono altissimi e slanciati: i platani che sono abituata a vedere io hanno, di solito, tronchi nodosi, enormi, ma tozzi e bassi...
Ormai voglio vedere la fine, solo più la fine. Ristoro nel parco, ancora cinque km. La pioggia di tanto in tanto si fa sentire, ma non so nemmeno più se sia la pioggia o la nebbia che s'appiccica addosso, Il rettilineo che precede l'uscita dal parco, uno splendido viale che però non nasconde le luci dei semafori che spuntano al di sopra del muro di cinta, è infinito, quell'ultimo km prima del ristoro, appena fuori la porta... Un anziano in bicicletta si avvicina sorridendo: "Ma state ancora correndo dalle undici di stamattina?". "Altro che dalle undici – gli rispondo, senza capire perché proprio le undici – dalle sette!". Quanti chilometri, rilancia. "Cento". "Trenta? Eh beh son tanti...". "Ma no, che trenta – m'infervoro – cento, ho detto!". La notizia lascia il mio interlocutore interdetto, come se ancora non fosse certo d'aver capito bene: poi s'illumina, in quattro pedalate è accanto alla moglie, venti metri avanti a me; "Hai sentito? - le riferisce, entusiasta – Cento chilometri!". La reazione della pingue matrona non ricambia il fervore: non distinguo le parole, ma il tono è quello di chi intende esprimere scetticismo e fastidio, per usare un eufemismo. Ma che importa...
Quindici km, Gian, solo più quindici km. Gambe dure, ma nessun problema serio, almeno per ora. Calma Gian, ancora calma, ancora tre ristori. Se proprio vuoi, se proprio non ce la fai più, potrai provare ad allungare negli ultimi 10 km. Ma per ora, calma. Mordi il freno. Ancora zucchero; ho fame, ma null'altro di quel che vedo sul banchetto del ristoro mi attira. I volontari sono più premurosi ed entusiasti che mai; vorrebbero darmi tutto e subito... "Un attimo, che riordino le idee e connetto", li prego. Uno di loro scoppia a ridere: "Ti è rimasto indietro il cervello?". "Sì, - replico divertita – m'è rimasto indietro nel momento in cui ho deciso di iscrivermi!". Un istante dopo, son già via col vento, ancora in mezzo al traffico, io e le mie zollette di zucchero che si sbriciolano in mano e si appiccicano alle dita. Il cuore che scoppia nel petto, il viso bagnato e caldo, le gambe che vorrebbero strappare le catene e correre a perdifiato: ma non posso, non ancora, non reggerei. Al prossimo ristoro, Gian, al prossimo ristoro. Ottantasei, ottantotto, il gazebo bianco, il banchetto. Ho appena superato un'altra donna, l'ho salutata; ne ho apprezzato molto la schiettezza: "Mi dispiace perché sei una donna – mi ha detto – ma complimenti, davvero, onore al merito". "Non ti preoccupare: il podio è lontano sia per te che per me... Ma io voglio solo finire!". Ed è vero, verità sacrosanta, voglio teletrasportarmi sotto l'arco, voglio l'eutanasia. Meno dieci. Non sto più nella pelle... Ancora un ristoro, l'ultimo, ancora una tappa da cinque chilometri. Il prossimo obiettivo sarà il traguardo! Desio, il sottopassaggio, il sovrappasso, l'ultimo ristoro. Poi il bagno di folla: la corsa passa in centro città, nell'ora dello struscio, i volontari a fare largo in mezzo alla gente, qualcuno che applaude, sorride, incita. Non ho più remore ormai, accada quel che vuole. Mi sembra di scoppiare dalla felicità; raccatto ancora un paio di avversari; uno di loro, accompagnato da due amici in bici, sembra provato, ma ancora corre. La ragazza che lo accompagna mi ricopre di complimenti: "Sei l'unica che ho visto correre con quel passo ancora così leggero, sembra che tu sia appena partita!". Se solo potesse immaginare la sferzata di energia che mi infonde con le sue parole... Mi accompagna per un pezzo, poi continua ad incitarmi urlando da lontano. Alzo lo sguardo per caso: inquadro, per la prima volta nella giornata, un orologio. Le cinque e mezza. E mancano, occhio e croce, tre km: stai a vedere che... Stento quasi a crederci, dopotutto quell'orologio potrebbe essere sballato, come capita abbastanza spesso agli orologi pubblici lungo la strada. Ma in fondo crederci mi costa poco... Ora o mai più: accelero, mando nelle gambe tutto il fiato che mi rimane. Come un'indemoniata, curva dopo curva, incrocio dopo incrocio: un volontario mi guarda passare allibito, poi dà di gomito al collega: "Secondo me questa fa un altro giro"... Non sento più nulla, né dolore né fatica né paura, nulla. Il parco del Palazzetto: ancora due avversari davanti a me, un uomo ed una donna, ma non ce n'è per nessuno; li raggiungo, scambio quattro battute, ci prendiamo in giro a vicenda. Posso anche permettermelo, un po' di spirito agonistico, adesso, e pazienza se quel che sto facendo è patetico e ridicolo. Parto con la foga di chi deve correre i cento metri piani, in apnea, a grandi falcate, come se fossi inseguita da una muta di rottweiler inferociti; testa bassa, non mi fermo più, gasata dalla piccola folla che a me sembra lo Stadio di San Siro nelle occasioni di tutto esaurito... L'ultimo salto, un urlo, il tappetino, la medaglia. Finita, tra i complimenti del volontario che mi mette addosso il telo termico. "Scusi – il mio unico pensiero – sa mica dirmi che ora sia?". Mi indica con il dito il cronometro piazzato sopra l'arco d'arrivo: 10h 50'. Pochi secondi di meno per il mio tempo ufficiale. Se me l'avessero detto ieri, che avrei potuto chiudere in meno di undici ore, sarei scoppiata a ridere...
Mi avvio verso l'auto, smanettando furiosamente sul telefonino per raccontare al mondo la mia avventura. Al mio piccolo mondo: a mamma, a Matteo, a pochi amici che, lo so, apprezzeranno la mia fatica. E a Franco e Graziano, con cui tra poco condividerò una succulenta pizza: per una volta che passo dalle loro parti, non posso e non voglio esimermi! Sono reduci, anche loro, da una giornata epica con duecento km di bici sotto l'acqua. Una doccia, e via: avrei persino diritto al premio di categoria, per la terza posizione; ma, ovviamente, quando sento chiamare il mio nome, mi trovo nel posto sbagliato al momento sbagliato, già al parcheggio, dopo la doccia. Tento di tornare indietro, ma la corsa sui tacchi, dopo la sfacchinata di oggi, è chiedere davvero troppo ai miei poveri arti inferiori. Peccato, perché la coppa è bella davvero, anche per il gradino più basso del podio. Provo a chiedere al banchetto dei premi, mentre le premiazioni vanno avanti, ma l'attesa si prolunga e la pizza aspetta. Poco importa il trofeo; vince la ragione della pappa e della compagnia. Salgo in auto che è già buio, son le sette passate, destinazione Villa Cortese. Non ho fame, per ora, ma so che tra poco si aprirà la voragine... E sarà meglio avere di che riempirla, altrimenti saranno guai!
domenica 21 marzo 2010
mercoledì 17 marzo 2010
17 marzo 2010 - Passeggiata notturna a Pra 'd Mill
Non smetterò mai di compiacermi dell'idea di chiudere l'ufficio al pubblico, il mercoledì pomeriggio. E' pur vero che, quasi sempre, si finisce per lavorare comunque, approfittando al massimo di un po' di tregua dal viavai dei clienti e dal telefono che squilla. Ma, talvolta, l'occasione è ghiotta per prendersi davvero qualche ora di libertà. Oggi, infatti, ho intenzione di bigiare: non l'ho mai fatto a scuola, ma da quando lavoro mi prendo spesso la rivincita. L'appuntamento con Matteo, di ritorno da una giornata lavorativa ad Aosta, è per le sette e mezza di questa sera, a Bagnolo Piemonte; da lì, saliremo insieme al Monastero di Pra 'd Mill, o perlomeno fino al punto in cui la strada sarà eventualmente interrotta dalla neve.
Però, grazie al fatto che è mercoledì, io posso concedermi qualcosa in più. Un ultimo allenamento di media lunghezza, in vista della 100 km di Seregno della prossima domenica. Il piano è presto definito. Abbandono l'auto a Moretta, intorno alle cinque del pomeriggio; Bagnolo dista da qui poco più di venti km. Considerata la leggera salita ed il fatto che avrò una certa zavorra, due ore e mezza dovrebbe essere una stima prudenziale della durata del viaggio. Lo zainetto pesa: ci metto dentro il necessario per cambiarmi quando arriverò a Bagnolo, più un secondo cambio per la fine della scarpinata, più una giacca, che non si sa mai, ed un po' di pappatoria. Oltre all'indispensabile gilet rifrangente, che però indosserò più tardi, all'imbrunire. La temperatura oggi è, finalmente, piacevolissima: sole tiepido, aria limpida ed immobile; indosso due magliette con le maniche corte, più i manicotti e l'inseparabile paraorecchie di pile, perché fidarsi è bene...
Parto al trotto in direzione di Villafranca Piemonte: curva e controcurva intorno all'edificio del vecchio casello ferroviario, ristrutturato con cura, e poi il lungo rettilineo in mezzo alla campagna. C'è il traffico del tardo pomeriggio, auto e camion non mancano. Davanti a me, il Monviso, che, da questo punto di osservazione, ha ancora un profilo molto simile a quello che si vede dalla finestra di casa. Solo il Visolotto sembra più tozzo e largo in punta. Qualche viandante in bici da corsa mi lancia un'occhiata, forse per via della maglietta da bici con il logo della Jolly, squadra amatoriale abbastanza nota nella zona. Guardano con l'aria di chi si domanda se per caso io abbia rotto la bici.
Leggera salitella al ponte sul Po ed eccomi a Villafranca, a correre sotto i portici, a scatenare le ire di un cagnetto appollaiato sul balcone di casa. Attraverso il paesello, passo sotto la tettoia in centro paese: inevitabile la curiosità del crocchio di anziani, che smettono per un attimo di disquisire di calcio. Tiro dritto in preda ad una strana euforia: sarà il sole, sarà questo adorabile tepore. Supero la rotonda, direzione Cavour.
Passo accanto alla baléra, la discoteca: con mia sorpresa, vedo il cortile affollato di lunghissime Limousine parcheggiate in bell'ordine una accanto all'altra. Strabuzzo gli occhi: è in atto un parcheggio... In retro! Prodigio della natura: mi vergogno di esistere, io che tribolo a compiere la stessa manovra con la mia piccola Corsa, e guarda 'sto tizio come se la cava in agilità con quella specie di tronco di sequoia secolare con le ruote...
Da ciclista, ho sempre odiato la pianura con tutto il cuore, forse perché come passista valgo proprio poco e sudo sette camicie per sostenere un'andatura appena appena decente. A piedi, però, è tutta un'altra musica. A piedi posso distrarmi, guardarmi intorno, soffermarmi sui particolari. Sono anni che passo di qui, viaggiando su ruote, ma questa sera mi sembra di trovarmici per la prima volta. E' bellissima, questa campagna, nella luce calda che digrada verso sera; è piatta, ma non monotona, è spezzata da file di alberi, gelsi, pioppi e chissà cos'altro. Tronchi in fila, come soldatini, tutti tranne uno, che non ne vuol sapere e decide di pendere come gli pare. Cascine, molte ristrutturate con gusto e cura, con l'arco in mattoni d'ingresso alla corte, i pesanti portoni in legno, e chissà che meraviglia poter varcare le soglie. Viali d'ingresso sorvegliati da piloni e da piccole targhe da cui il tempo ha cancellato la data. Cani che latrano, acqua che scorre nei canali, il corso regolato dalle chiuse. Le borgate: San Giovanni, san Luca. Casaforte di Marchierù: ne ho spesso notato il cartello, non sono mai stata a vederla. Dovrei procurarmi una piantina delle stradine secondarie; la prossima volta, passerò di lì. Ma la strada principale non mi dispiace; c'è sì un po' di traffico, ma nulla di intollerabile. Rettilineo, accenno di curva, altro rettilineo. Le montagne crescono a dismisura, sempre più alte, più imponenti; il Monviso s'è girato, ora, non è più lui: man mano che procedo, si gira su un fianco, resta solo, perde il Visolotto, si riduce ad un'irriconoscibile piramide, sempre più piccola. Cresce invece la Rocca di Cavour; a Villafranca era appena una sfumatura; pian piano si delinea, massa più scura delle montagne scure alle sue spalle. Chilometro dopo chilometro, la forma appuntita che si vede sulla vetta della Rocca si delinea, sembra quasi un baldacchino; non sono mai stata lassù in cima, non saprei di che edificio si tratta, ma, anche lì, mi riprometto di colmare la lacuna. Non me l'aspettavo così lunga, la strada verso Cavour. Il guaio è che ogni mezza curva nasconde un rettilineo, e quello svela un'altra curva. Seguo le auto che mi sorpassano; le vedo allontanarsi ancora molto. Il bivio per il Canile di Cavour, della Lega del Cane; lì sì, ci sono stata eccome; una struttura stupenda, gestita da persone di vero cuore, anche se è e resta pur sempre un canile, non la famiglia che ogni randagio meriterebbe di avere. Un pensiero al mio adorato Skipper, che a quest'ora se ne sta pacifico in ufficio, sulla cuccia, o forse già a casa, sul lettone.
La mia ombra è già lunghissima quando arrivo alla rotonda di Cavour. Attraverso il paese, un semaforo e qualche incrocio: prima di proseguire, meglio fermarsi un attimo ed indossare il giacchino rifrangente. Non appena il sole si ritira, la temperatura scende; avverto già da un po' il brivido sulle braccia. Il gilet servirà anche a riscaldarmi un po'.
Da Cavour, la strada verso Bagnolo procede in leggera, impercettibile salita. Ancora la stessa bella campagna, i frutteti, oche in un cortile, ma il fianco della montagna ormai incombe. Si accendono pian piano le luci di Bagnolo e le altre, isolate, disperse sul ripido pendio. Ultima tra tutte, la luce blu intenso, lassù in alto: forse è una croce, ma non ne sono certa; il blu così vivace è uno dei colori che, ai miei poveri occhi di miope senza speranza, creano più problemi nel distinguere i contorni.
Le insegne delle imprese di estrazione e lavorazione della pietra mi confermano, ancor prima del cartello del paese, che sono arrivata a Bagnolo. Matteo ha già avvertito, via messaggio, che la coda in tangenziale a Torino gli causerà un po' di ritardo. Nessun problema; sono le sette, poco più: vorrà dire che, alla strada già percorsa, aggiungerò ancora un po' di salita, verso Montoso, magari fino all'abitato di Villar. La prima, lunga rampa delle tante rampe che conducono lassù.
Proseguo la mia corsa sotto gli occhi interrogativi degli avventori del bar. Mi spiace che, questa volta, per ovvie ragioni di spazio e trasporto, non ho potuto portare beni di conforto con cui accogliere Matteo: però, se non ricordo male, appena prima della rotonda per Montoso, c'è una panetteria. E sono appena passate le sette... Ci arrivo a naso, piena di speranza: ne ricevo invece un metaforico, solenne cazzottone sul naso. Il negozio è ancora illuminato, ma la porta desolatamente sprangata con un pannello. CHIUSO. Ma porc... Che delusione per i miei succhi gastrici! Sì, perché una buona dose di fame ce l'ho anch'io... E in tasca ho solo un avanzo di barretta ed un fondo di sacchetto di frutta secca. Pazienza, tiremm'innanz. Alla rotonda, a destra, poi su, in salita, verso Villar. Ci sarebbe un bel marciapiede, ma io ormai sono viziata: quello è in porfido, ed io odio correre su qualcosa che non sia il mio adorato asfalto. Le mie ginocchia esigono il bitume, non c'è niente da fare. Il passo s'accorcia, il respiro si affanna; ormai è buio, notte fatta; più mi allontano dalle luci della città, più mi accorgo delle stelle. Anche se, per vederle, devo piegare il collo all'indietro e superare la barriera della montagna, alta e dritta proprio di fronte a me. Incontro ben due podisti che corrono in senso contrario: uno con passo stanco e pesante, nonostante la forza di gravità giochi a suo favore; l'altro che sembra inseguito da una muta di rottweiler affamati, tanto tuffa in avanti quei piedi, tanto si sbraccia in modo convulso. Questo, mi sa, è uno di quei discesisti folli da sentiero. Nessuno dei due apre bocca, il mio cenno di saluto cade nel vuoto. Di villa in villa, questa dev'essere zona residenziale; raggiungo la chiesa di Villar e faccio dietrofront, una volta tanto con l'occhio all'orologio, ma solo per evitare di lasciare Matteo in attesa. Gli do appuntamento al lavatoio, appena prima della rotonda per Montoso, arrivando dal centro di Bagnolo; ci arrivo io con un po' di anticipo: ne approfitto per cambiarmi maglia e canotta: suscito non poca curiosità nei viandanti... Poi mi siedo comodamente sul bordo della vasca, curando di non finirci dentro; pochi istanti ed il furgone bianco si materializza davanti a me.
Ne scende Matteo, tutto corrucciato per il ritardo: mannaggia alla sua mania di cospargersi il capo di cenere per motivi che non stanno né in cielo né in terra. Sei un po' in ritardo, e allora? Mica dobbiamo bollare il cartellino! Non credo che i monaci, per questo, smantelleranno il monastero senza aspettarci...
Un attimo più tardi siamo in marcia verso Pra 'd Mill. In marcia, questa volta: conosco il mio pollo, cioè, la mia salita... E mi accontento di percorrerla di buon passo, senza strafare. Imbocchiamo il primo bivio sulla sinistra: si potrebbe anche passare da Villar, ma, così, tagliamo un pezzetto di strada principale. Una decina di km di salita, poco meno. Camminiamo lungo il corso d'acqua e le gaggie; la luce della frontale illumina di tanto in tanto due occhietti piccoli, tondi e gialli: sentinelle del popolo felino che ci tiene d'occhio. Breve tratto in mezzo alle case, al tintinnio di posate ed ai profumi della cena; poi, la vera salita comincia. Curve, tornanti e rampe in mezzo alla vegetazione; qualche cascina, qualche casa isolata, cani a cui non par vero di potersi scatenare al passaggio di un'anima. L'aria è quasi tiepida, il cielo terso e senza luna, solo una miriade di lucciole. La pianura che s'allontana, man mano che calchiamo asfalto. Siamo entrambi senz'acqua, uno più sbadato dell'altra; ma ricordo che, più in su, accanto ad una cappelletta, dovremmo trovare una fontana. La vegetazione è fitta; castagni e cespugli d'ogni foggia, fili d'erba su cui scorrono rivoli d'acqua improvvisati: ci sarà neve che si scioglie, più in alto. Lontano, cupo e quasi inquietante, il fischio di un animale notturno, senz'altro un volatile; un fischio breve, ad intervalli di qualche secondo. Fruscii improvvisi di lucertole, forse topolini; ogni rumore giunge all'orecchio, soprattutto stasera che Matteo resta imbronciato e taciturno, ancora tutto preso nello sviscerare le cause più profonde, recondite ed ancestrali del suo ritardo all'appuntamento. Mannaggia, ma non ti basta semplicemente pensare che sei incappato nella coda e finirla lì? Non mi pare il caso di infliggersi le frustate con il gatto a nove code per così poco... E non è che, rimestandoci sopra, riuscirai a tirare indietro le lancette dell'orologio.
Così riflettendo, raggiungiamo l'incrocio con la strada che scende a Bagnolo per altra via, alla luce di un vivace lampione. Ancora circa tre km alla nostra cima. Passiamo accanto alle ultime case, le più isolate: posso immaginare l'inquietudine dei proprietari, nel sentire i cani che latrano a quest'ora, in questo posto dimenticato dal mondo. Alcuni castagni bellissimi, dal tronco enorme; ancora qualche tornante, la cappelletta con la fontanella e, infine, l'ultima curva secca. Tracce di neve, strada sconnessa, fango; da qui, un lungo tratto a mezza costa, nel fitto del bosco, ci conduce ad una sorta di colletto. E' come il passaggio, a teatro, ad un'altra scena sul palcoscenico: la vegetazione si apre; davanti a noi restano le montagne, che il riverbero della neve stacca con contorni netti dal cielo nero, ed un bellissimo firmamento di stelle. Lo dice persino Matteo, sembra di essere sospesi fuori dal mondo. E' una sensazione splendida eppure inquietante, da brivido lungo la schiena; il silenzio è assoluto, tanto da picchiare in testa; il freddo, ora che la strada leggermente scende, ghermisce la faccia ed i muscoli. L'unico legame con il mondo dei vivi resta il cavo dell'energia elettrica, che ci corre accanto, saltando da un palo all'altro. La valle è talmente bella che ci sarebbe da stendere una stuoia, un sacco a pelo, e fermarsi qui, immobili, ad ammirarla. E' poco ecologista il mio pensiero, ma trovo stupendo che in un luogo del genere si arrivi con una comoda strada più o meno asfaltata. Altrimenti, stasera, non sarei qui. Al bivio, una strada sterrata sulla destra conduce ad un agriturismo. Verrebbe voglia di andare a chiedere se hanno posto... Non credo d'essere dura e pura a sufficienza da adattarmi ad una notte in bivacco, ma insomma, una cameretta spartana a mille metri di quota sarebbe un buon compromesso per guardare le stelle.
Avanti, invece, si va al monastero. Procediamo ancora un po', sempre in discesa, nelle anse del pendio, fino a raggiungere l'ingresso vero e proprio dell'area del monastero. Da lontano, improvvisi, i latrati dei cani: tutt'altro che Chiuaua, a giudicare dai tonanti vocioni. Io mi fermo all'istante: non ho certo terrore irrazionale dei cani, tutt'altro, ma so anche che è notte e che stiamo invadendo il loro territorio; ci sono tutte le premesse affinché un buon cane da guardia decida di compiere fino in fondo il suo dovere. Memore dell'incontro ravvicinato notturno con i maremmani a guardia del gregge, decido di non sfidare la sorte un'altra volta. Matteo non è convinto, vorrebbe proseguire ancora un po', ma io sono irremovibile. Metti poi che al cane indispettito si aggiunga il frate munito di fucile a pallettoni... Perché si sa, all'occorrenza bisogna porgere l'altra guancia, ma, se possibile, è meglio evitare di porgere anche la prima!
Controvoglia, Matteo cede alle mie insistenze e fa dietrofront. Ci allontaniamo, seguiti dalle vibrate proteste dei cani, che pian piano si spengono nella valle. Risaliamo fino al colletto: se non altro, ci scaldiamo un po'. Poi, da lì, via di corsa, o meglio, al placido trotto. Con un occhio, da parte mia, alle crepe nell'asfalto: domenica prossima si corre la 100 km di Seregno; non vorrei sinistrarmi una caviglia. Da quassù, le luci della pianura si vedono fino a lontanissimo confine, tanto è limpida la sera. Scendiamo a Bagnolo non per la stessa strada percorsa in salita, bensì per l'altra, quella che va giù con pochi tornanti e passa in mezzo a diverse cascine. Anche qui, gli ululati si scatenano, rimbalzano da un'aia all'altra, ci seguono anche quando siamo ormai lontanissimi. Da quassù, è difficile credere che questa strada conduca a Bagnolo; il paese resta a lungo nascosto, per la conformazione del pendio. Sembra che la strada scenda giù, nel nero, nel nulla. Invece, di lì a poco, incrociamo un fuoristrada che sale e, appena oltre la curva, siamo in vista del campanile di Villar. In lontananza, le luci disegnano il profilo della Rocca di Cavour. Ci ritroviamo allo stesso bivio da cui abbiamo attaccato la salita, anzi, quadrivio, per essere precisi. Torniamo, verso destra, in direzione di Bagnolo. Un guizzo proprio davanti a noi: la folta, lunga coda di una volpe schizza via in un'istante, in mezzo agli arbusti. La inseguo con la luce della frontale, ma è già scomparsa. Ultimi metri verso lo stradone; la ruota in legno di un mulino, che all'andata non avevamo notato. Un attimo dopo, la frontale torna nello zaino, non serve più. Sarà pur vero, come sostiene Matteo, che ormai sarei in grado di camminare e correre indefinitamente, come il pupazzetto delle pile Duracell, ma le mie terga sul sedile del furgone, per questa sera, le appoggio molto, molto volentieri! Ed a Moretta, alla Opel, mi ci riporta lui...
Però, grazie al fatto che è mercoledì, io posso concedermi qualcosa in più. Un ultimo allenamento di media lunghezza, in vista della 100 km di Seregno della prossima domenica. Il piano è presto definito. Abbandono l'auto a Moretta, intorno alle cinque del pomeriggio; Bagnolo dista da qui poco più di venti km. Considerata la leggera salita ed il fatto che avrò una certa zavorra, due ore e mezza dovrebbe essere una stima prudenziale della durata del viaggio. Lo zainetto pesa: ci metto dentro il necessario per cambiarmi quando arriverò a Bagnolo, più un secondo cambio per la fine della scarpinata, più una giacca, che non si sa mai, ed un po' di pappatoria. Oltre all'indispensabile gilet rifrangente, che però indosserò più tardi, all'imbrunire. La temperatura oggi è, finalmente, piacevolissima: sole tiepido, aria limpida ed immobile; indosso due magliette con le maniche corte, più i manicotti e l'inseparabile paraorecchie di pile, perché fidarsi è bene...
Parto al trotto in direzione di Villafranca Piemonte: curva e controcurva intorno all'edificio del vecchio casello ferroviario, ristrutturato con cura, e poi il lungo rettilineo in mezzo alla campagna. C'è il traffico del tardo pomeriggio, auto e camion non mancano. Davanti a me, il Monviso, che, da questo punto di osservazione, ha ancora un profilo molto simile a quello che si vede dalla finestra di casa. Solo il Visolotto sembra più tozzo e largo in punta. Qualche viandante in bici da corsa mi lancia un'occhiata, forse per via della maglietta da bici con il logo della Jolly, squadra amatoriale abbastanza nota nella zona. Guardano con l'aria di chi si domanda se per caso io abbia rotto la bici.
Leggera salitella al ponte sul Po ed eccomi a Villafranca, a correre sotto i portici, a scatenare le ire di un cagnetto appollaiato sul balcone di casa. Attraverso il paesello, passo sotto la tettoia in centro paese: inevitabile la curiosità del crocchio di anziani, che smettono per un attimo di disquisire di calcio. Tiro dritto in preda ad una strana euforia: sarà il sole, sarà questo adorabile tepore. Supero la rotonda, direzione Cavour.
Passo accanto alla baléra, la discoteca: con mia sorpresa, vedo il cortile affollato di lunghissime Limousine parcheggiate in bell'ordine una accanto all'altra. Strabuzzo gli occhi: è in atto un parcheggio... In retro! Prodigio della natura: mi vergogno di esistere, io che tribolo a compiere la stessa manovra con la mia piccola Corsa, e guarda 'sto tizio come se la cava in agilità con quella specie di tronco di sequoia secolare con le ruote...
Da ciclista, ho sempre odiato la pianura con tutto il cuore, forse perché come passista valgo proprio poco e sudo sette camicie per sostenere un'andatura appena appena decente. A piedi, però, è tutta un'altra musica. A piedi posso distrarmi, guardarmi intorno, soffermarmi sui particolari. Sono anni che passo di qui, viaggiando su ruote, ma questa sera mi sembra di trovarmici per la prima volta. E' bellissima, questa campagna, nella luce calda che digrada verso sera; è piatta, ma non monotona, è spezzata da file di alberi, gelsi, pioppi e chissà cos'altro. Tronchi in fila, come soldatini, tutti tranne uno, che non ne vuol sapere e decide di pendere come gli pare. Cascine, molte ristrutturate con gusto e cura, con l'arco in mattoni d'ingresso alla corte, i pesanti portoni in legno, e chissà che meraviglia poter varcare le soglie. Viali d'ingresso sorvegliati da piloni e da piccole targhe da cui il tempo ha cancellato la data. Cani che latrano, acqua che scorre nei canali, il corso regolato dalle chiuse. Le borgate: San Giovanni, san Luca. Casaforte di Marchierù: ne ho spesso notato il cartello, non sono mai stata a vederla. Dovrei procurarmi una piantina delle stradine secondarie; la prossima volta, passerò di lì. Ma la strada principale non mi dispiace; c'è sì un po' di traffico, ma nulla di intollerabile. Rettilineo, accenno di curva, altro rettilineo. Le montagne crescono a dismisura, sempre più alte, più imponenti; il Monviso s'è girato, ora, non è più lui: man mano che procedo, si gira su un fianco, resta solo, perde il Visolotto, si riduce ad un'irriconoscibile piramide, sempre più piccola. Cresce invece la Rocca di Cavour; a Villafranca era appena una sfumatura; pian piano si delinea, massa più scura delle montagne scure alle sue spalle. Chilometro dopo chilometro, la forma appuntita che si vede sulla vetta della Rocca si delinea, sembra quasi un baldacchino; non sono mai stata lassù in cima, non saprei di che edificio si tratta, ma, anche lì, mi riprometto di colmare la lacuna. Non me l'aspettavo così lunga, la strada verso Cavour. Il guaio è che ogni mezza curva nasconde un rettilineo, e quello svela un'altra curva. Seguo le auto che mi sorpassano; le vedo allontanarsi ancora molto. Il bivio per il Canile di Cavour, della Lega del Cane; lì sì, ci sono stata eccome; una struttura stupenda, gestita da persone di vero cuore, anche se è e resta pur sempre un canile, non la famiglia che ogni randagio meriterebbe di avere. Un pensiero al mio adorato Skipper, che a quest'ora se ne sta pacifico in ufficio, sulla cuccia, o forse già a casa, sul lettone.
La mia ombra è già lunghissima quando arrivo alla rotonda di Cavour. Attraverso il paese, un semaforo e qualche incrocio: prima di proseguire, meglio fermarsi un attimo ed indossare il giacchino rifrangente. Non appena il sole si ritira, la temperatura scende; avverto già da un po' il brivido sulle braccia. Il gilet servirà anche a riscaldarmi un po'.
Da Cavour, la strada verso Bagnolo procede in leggera, impercettibile salita. Ancora la stessa bella campagna, i frutteti, oche in un cortile, ma il fianco della montagna ormai incombe. Si accendono pian piano le luci di Bagnolo e le altre, isolate, disperse sul ripido pendio. Ultima tra tutte, la luce blu intenso, lassù in alto: forse è una croce, ma non ne sono certa; il blu così vivace è uno dei colori che, ai miei poveri occhi di miope senza speranza, creano più problemi nel distinguere i contorni.
Le insegne delle imprese di estrazione e lavorazione della pietra mi confermano, ancor prima del cartello del paese, che sono arrivata a Bagnolo. Matteo ha già avvertito, via messaggio, che la coda in tangenziale a Torino gli causerà un po' di ritardo. Nessun problema; sono le sette, poco più: vorrà dire che, alla strada già percorsa, aggiungerò ancora un po' di salita, verso Montoso, magari fino all'abitato di Villar. La prima, lunga rampa delle tante rampe che conducono lassù.
Proseguo la mia corsa sotto gli occhi interrogativi degli avventori del bar. Mi spiace che, questa volta, per ovvie ragioni di spazio e trasporto, non ho potuto portare beni di conforto con cui accogliere Matteo: però, se non ricordo male, appena prima della rotonda per Montoso, c'è una panetteria. E sono appena passate le sette... Ci arrivo a naso, piena di speranza: ne ricevo invece un metaforico, solenne cazzottone sul naso. Il negozio è ancora illuminato, ma la porta desolatamente sprangata con un pannello. CHIUSO. Ma porc... Che delusione per i miei succhi gastrici! Sì, perché una buona dose di fame ce l'ho anch'io... E in tasca ho solo un avanzo di barretta ed un fondo di sacchetto di frutta secca. Pazienza, tiremm'innanz. Alla rotonda, a destra, poi su, in salita, verso Villar. Ci sarebbe un bel marciapiede, ma io ormai sono viziata: quello è in porfido, ed io odio correre su qualcosa che non sia il mio adorato asfalto. Le mie ginocchia esigono il bitume, non c'è niente da fare. Il passo s'accorcia, il respiro si affanna; ormai è buio, notte fatta; più mi allontano dalle luci della città, più mi accorgo delle stelle. Anche se, per vederle, devo piegare il collo all'indietro e superare la barriera della montagna, alta e dritta proprio di fronte a me. Incontro ben due podisti che corrono in senso contrario: uno con passo stanco e pesante, nonostante la forza di gravità giochi a suo favore; l'altro che sembra inseguito da una muta di rottweiler affamati, tanto tuffa in avanti quei piedi, tanto si sbraccia in modo convulso. Questo, mi sa, è uno di quei discesisti folli da sentiero. Nessuno dei due apre bocca, il mio cenno di saluto cade nel vuoto. Di villa in villa, questa dev'essere zona residenziale; raggiungo la chiesa di Villar e faccio dietrofront, una volta tanto con l'occhio all'orologio, ma solo per evitare di lasciare Matteo in attesa. Gli do appuntamento al lavatoio, appena prima della rotonda per Montoso, arrivando dal centro di Bagnolo; ci arrivo io con un po' di anticipo: ne approfitto per cambiarmi maglia e canotta: suscito non poca curiosità nei viandanti... Poi mi siedo comodamente sul bordo della vasca, curando di non finirci dentro; pochi istanti ed il furgone bianco si materializza davanti a me.
Ne scende Matteo, tutto corrucciato per il ritardo: mannaggia alla sua mania di cospargersi il capo di cenere per motivi che non stanno né in cielo né in terra. Sei un po' in ritardo, e allora? Mica dobbiamo bollare il cartellino! Non credo che i monaci, per questo, smantelleranno il monastero senza aspettarci...
Un attimo più tardi siamo in marcia verso Pra 'd Mill. In marcia, questa volta: conosco il mio pollo, cioè, la mia salita... E mi accontento di percorrerla di buon passo, senza strafare. Imbocchiamo il primo bivio sulla sinistra: si potrebbe anche passare da Villar, ma, così, tagliamo un pezzetto di strada principale. Una decina di km di salita, poco meno. Camminiamo lungo il corso d'acqua e le gaggie; la luce della frontale illumina di tanto in tanto due occhietti piccoli, tondi e gialli: sentinelle del popolo felino che ci tiene d'occhio. Breve tratto in mezzo alle case, al tintinnio di posate ed ai profumi della cena; poi, la vera salita comincia. Curve, tornanti e rampe in mezzo alla vegetazione; qualche cascina, qualche casa isolata, cani a cui non par vero di potersi scatenare al passaggio di un'anima. L'aria è quasi tiepida, il cielo terso e senza luna, solo una miriade di lucciole. La pianura che s'allontana, man mano che calchiamo asfalto. Siamo entrambi senz'acqua, uno più sbadato dell'altra; ma ricordo che, più in su, accanto ad una cappelletta, dovremmo trovare una fontana. La vegetazione è fitta; castagni e cespugli d'ogni foggia, fili d'erba su cui scorrono rivoli d'acqua improvvisati: ci sarà neve che si scioglie, più in alto. Lontano, cupo e quasi inquietante, il fischio di un animale notturno, senz'altro un volatile; un fischio breve, ad intervalli di qualche secondo. Fruscii improvvisi di lucertole, forse topolini; ogni rumore giunge all'orecchio, soprattutto stasera che Matteo resta imbronciato e taciturno, ancora tutto preso nello sviscerare le cause più profonde, recondite ed ancestrali del suo ritardo all'appuntamento. Mannaggia, ma non ti basta semplicemente pensare che sei incappato nella coda e finirla lì? Non mi pare il caso di infliggersi le frustate con il gatto a nove code per così poco... E non è che, rimestandoci sopra, riuscirai a tirare indietro le lancette dell'orologio.
Così riflettendo, raggiungiamo l'incrocio con la strada che scende a Bagnolo per altra via, alla luce di un vivace lampione. Ancora circa tre km alla nostra cima. Passiamo accanto alle ultime case, le più isolate: posso immaginare l'inquietudine dei proprietari, nel sentire i cani che latrano a quest'ora, in questo posto dimenticato dal mondo. Alcuni castagni bellissimi, dal tronco enorme; ancora qualche tornante, la cappelletta con la fontanella e, infine, l'ultima curva secca. Tracce di neve, strada sconnessa, fango; da qui, un lungo tratto a mezza costa, nel fitto del bosco, ci conduce ad una sorta di colletto. E' come il passaggio, a teatro, ad un'altra scena sul palcoscenico: la vegetazione si apre; davanti a noi restano le montagne, che il riverbero della neve stacca con contorni netti dal cielo nero, ed un bellissimo firmamento di stelle. Lo dice persino Matteo, sembra di essere sospesi fuori dal mondo. E' una sensazione splendida eppure inquietante, da brivido lungo la schiena; il silenzio è assoluto, tanto da picchiare in testa; il freddo, ora che la strada leggermente scende, ghermisce la faccia ed i muscoli. L'unico legame con il mondo dei vivi resta il cavo dell'energia elettrica, che ci corre accanto, saltando da un palo all'altro. La valle è talmente bella che ci sarebbe da stendere una stuoia, un sacco a pelo, e fermarsi qui, immobili, ad ammirarla. E' poco ecologista il mio pensiero, ma trovo stupendo che in un luogo del genere si arrivi con una comoda strada più o meno asfaltata. Altrimenti, stasera, non sarei qui. Al bivio, una strada sterrata sulla destra conduce ad un agriturismo. Verrebbe voglia di andare a chiedere se hanno posto... Non credo d'essere dura e pura a sufficienza da adattarmi ad una notte in bivacco, ma insomma, una cameretta spartana a mille metri di quota sarebbe un buon compromesso per guardare le stelle.
Avanti, invece, si va al monastero. Procediamo ancora un po', sempre in discesa, nelle anse del pendio, fino a raggiungere l'ingresso vero e proprio dell'area del monastero. Da lontano, improvvisi, i latrati dei cani: tutt'altro che Chiuaua, a giudicare dai tonanti vocioni. Io mi fermo all'istante: non ho certo terrore irrazionale dei cani, tutt'altro, ma so anche che è notte e che stiamo invadendo il loro territorio; ci sono tutte le premesse affinché un buon cane da guardia decida di compiere fino in fondo il suo dovere. Memore dell'incontro ravvicinato notturno con i maremmani a guardia del gregge, decido di non sfidare la sorte un'altra volta. Matteo non è convinto, vorrebbe proseguire ancora un po', ma io sono irremovibile. Metti poi che al cane indispettito si aggiunga il frate munito di fucile a pallettoni... Perché si sa, all'occorrenza bisogna porgere l'altra guancia, ma, se possibile, è meglio evitare di porgere anche la prima!
Controvoglia, Matteo cede alle mie insistenze e fa dietrofront. Ci allontaniamo, seguiti dalle vibrate proteste dei cani, che pian piano si spengono nella valle. Risaliamo fino al colletto: se non altro, ci scaldiamo un po'. Poi, da lì, via di corsa, o meglio, al placido trotto. Con un occhio, da parte mia, alle crepe nell'asfalto: domenica prossima si corre la 100 km di Seregno; non vorrei sinistrarmi una caviglia. Da quassù, le luci della pianura si vedono fino a lontanissimo confine, tanto è limpida la sera. Scendiamo a Bagnolo non per la stessa strada percorsa in salita, bensì per l'altra, quella che va giù con pochi tornanti e passa in mezzo a diverse cascine. Anche qui, gli ululati si scatenano, rimbalzano da un'aia all'altra, ci seguono anche quando siamo ormai lontanissimi. Da quassù, è difficile credere che questa strada conduca a Bagnolo; il paese resta a lungo nascosto, per la conformazione del pendio. Sembra che la strada scenda giù, nel nero, nel nulla. Invece, di lì a poco, incrociamo un fuoristrada che sale e, appena oltre la curva, siamo in vista del campanile di Villar. In lontananza, le luci disegnano il profilo della Rocca di Cavour. Ci ritroviamo allo stesso bivio da cui abbiamo attaccato la salita, anzi, quadrivio, per essere precisi. Torniamo, verso destra, in direzione di Bagnolo. Un guizzo proprio davanti a noi: la folta, lunga coda di una volpe schizza via in un'istante, in mezzo agli arbusti. La inseguo con la luce della frontale, ma è già scomparsa. Ultimi metri verso lo stradone; la ruota in legno di un mulino, che all'andata non avevamo notato. Un attimo dopo, la frontale torna nello zaino, non serve più. Sarà pur vero, come sostiene Matteo, che ormai sarei in grado di camminare e correre indefinitamente, come il pupazzetto delle pile Duracell, ma le mie terga sul sedile del furgone, per questa sera, le appoggio molto, molto volentieri! Ed a Moretta, alla Opel, mi ci riporta lui...
domenica 14 marzo 2010
14 marzo 2010 - Di corsa da Ceva alle Manie, via Melogno
La giornata nasce, al buio pesto delle quattro e mezza del mattino, con una bella illusione. Le mani non congelano all'istante sulla maniglia di metallo, né sul ferro del cancello; la neve, quel poco che ne è rimasto, non crepita più sotto i piedi. La superficie dell'acqua di cui è colmo uno dei tanti secchi sparsi per il giardino è appena una velina di ghiaccio, che si dissolve a sfiorarla. Potremmo essere intorno agli zero gradi, forse addirittura uno, ad essere proprio ottimisti. Il mormorio di un motore: chi è che può aggirarsi nei paraggi a quest'ora? Luce di fari dall'altra parte del giardino della casa accanto; è la cugina che rientra dopo una nottata "in girùla". Mi vien da ridere: ieri sera, cioè qualche ora fa, l'ho vista di sfuggita mentre abbassavo le tapparelle e me ne andavo a nanna; erano neanche le nove e mezza. Ah, questi giovani d'oggi... Che fisico, che resistenza! Ce l'avessi io, quella capacità di ignorare il sonno... Nelle notturne in bici ed a piedi potrei soffrire molto meno, potrei tirare mattina senza dover crollare a dormire sul ciglio della strada.
La bella illusione della partenza si sgretola in un istante, come un malfermo castello di carte, non appena estraggo la zampa dal finestrino, al casello di Ceva, per pagare il pedaggio. Stavolta la mano congela, eccome, e una folata d'aria gelida invade il caotico abitacolo. Non è possibile, rimugino sconsolata. Non c'è niente da fare, questo posto è l'apertura terminale del tubo digerente del mondo, climaticamente parlando. Rapida e spietata la sentenza: -7°C. Fantastico, non avrei potuto desiderare di meglio. Significa che congelerò almeno per i primi venti km, quando già mi ero ingenuamente fidata delle promesse del calendario, metà marzo. Pazienza: la consolazione è che farà chiaro presto.
Abbandono la Opel nel piazzale accanto all'ospedale, a quest'ora in buona parte occupato dai camion con le tendine tirate in cabina. Ronfano della grossa, i loro autisti. Sono pronta in un attimo: zaino ben stretto sulle spalle e in vita, perché non balli; rifrangenti ovunque, modello albero di Natale tardivo, faretto in mano, alle sei meno un quarto si parte. Per dove, non lo so con precisione. So che Matteo oggi è di corvée come accompagnatore in grotta, dalle parti delle Manie, e che dovrebbe essere libero più o meno a metà pomeriggio; ci sentiremo via cellulare per capire dove incontrarci. Al momento, non mi preoccupo: è bellissimo partire senza un'idea precisa di quanto e fino a quando avrò da scarpinare. In ogni caso, la prima tappa ideale è Bagnasco. Mi avvio al trotto lungo la strada principale; non appena mi lascio alle spalle le luci del casello dell'autostrada, mi accorgo, solo ora, di un cielo nero stellato che più non si può. L'ultima volta in cui sono passata di qui a piedi, la vallata era illuminata a giorno dalla luna; oggi no, non ce n'è traccia, solo puntini scintillanti ed aria limpida e gelida. Tanto fredda che, in un attimo, mi ritrovo con il mento e le labbra gelidi al punto da far male; non parliamo delle mani, pure protette dai guantini in simil-seta sotto i guanti in pile. Anche i polpacci, lasciati scoperti dai pantaloni ¾, hanno perso sensibilità... La neve rimasta a bordo strada è durissima e scivolosa, devo fare attenzione a dove poggio i piedi.
Il cielo mostra ben presto una sfumatura appena più chiara del nero pesto della notte. In questi giorni, alle sei e mezza si può dire che sia già giorno; con la prima, debolissima scia di luce, riesco a distinguere alla mia destra il fondovalle, le chiazze appena percettibili della neve, i tronchi degli alberi. Mi accompagnano i versi sgraziati delle cornacchie; i rumori ed i segni della vita animale, i cinguettii, stridono con la temperatura ancora così disperatamente rigida. Un fruscio convulso a sinistra: alzo il naso e riesco appena a scorgere un bell'animale slanciato, credo un capriolo, che mi osserva per un istante e poi si inerpica su per il pendio, oltre la rete paravalanghe.
La luce del sole è il miglior conforto. Il freddo resta pungente, ma ora si sopporta meglio, anche se le gambe sembrano tempestate da centinaia di minuscoli spilli. Poco traffico, oggi; qualche auto con gli sci sul tettuccio, qualche furgone del mercato. A Nucetto, i primi cenni di vita umana: una finestra illuminata, profumo di legna che arde nella stufa, ma il bar è ancora chiuso. Ovvio, non è che ci sia gran massa di avventori in questo mucchietto di case all'alba. E' solo che la sala illuminata, la saracinesca alzata, sarebbero un po' di compagnia in quei pochi secondi del mio passaggio. E' già operativa, in compenso, l'area di servizio all'uscita del paese.
Accanto alla strada, quindi insieme a me, corrono i binari su cui non ricordo d'aver mai visto passare un treno. Lungo questo interminabile rettilineo, scandito dai cartelli chilometrici, soffia un venticello leggero ma gelido; tiro su il collare di pile a riparare la bocca ed il naso, con lo spiacevole effetto collaterale degli occhiali che si appannano. Mai luogo fu più inospitale della Valle Tanaro, a parte la vicina Valle Bormida: un interminabile inverno fatto di ombra, umidità che impregna il midollo, gelo siberiano da staccar le dita delle mani. Il panorama però è dolcissimo: le cime qui intorno son tutte rosa. L'ultima "S" in fondo al rettilineo, poi ancora un rettilineo, più breve, verso Bagnasco. Il mio passaggio, di corsa lenta, scatena le ire dei tre o quattro cagnoni, di buona stazza a giudicare dalle voci, nel cortile di una cascina a mezza altezza sul pendio alla mia destra; li vedo, ombre scure che schizzano impazzite da un capo all'altro della recinzione che non distinguo ma immagino ci sia. Altrimenti, a quest'ora, avrei già i loro denti nei miei polpacci! Anche i tre splendidi pastori tedeschi che abitano il giardino dell'ultima casa isolata prima di Bagnasco hanno qualcosa da ridire, e lo dicono con gran strepito, e continuano ancora quando io son già lontana, all'ingresso del paese.
Al semaforo, svolto a sinistra, direzione Finale, come indica il cartello, con troppo ottimismo. Finale, da qui, è ancora lontana anni luce. Sono tormentata dal freddo, alle mani, alle braccia, alla schiena; è strano, ho già affrontato di peggio, ma oggi non gira. Supero il ponticello stretto; i campi sono bianchi di gelo, la neve sciolta e ricongelata in mezzo alla strada rende insidioso anche il passaggio a piedi. Il pancino reclamerebbe una sosta, ma proprio non me la sento; mezza congelata come sono, fermarsi sarebbe un vero supplizio. Meglio rimandare; più avanti troverò qualche altro luogo idoneo alla sosta. Se solo potessi immaginare cosa mi costerà quest'errore... Neve ovunque, sui prati, sulle cataste di legna pericolosamente pendenti, a cappuccio sui paracarri, sui tetti delle case di Massimino. Vecchi attrezzi agricoli consunti dal tempo e dall'umidità stridono con una villetta moderna, dal prato ben curato e pettinato. Incontro un uomo dall'aspetto burbero, intabarrato con giacca, berretto e stivaloni, che trasporta un secchio e risponde, un po' sconcertato, al mio saluto. Sono appena entrata in Liguria, ma non si direbbe; il freddo, nonostante la salita, non dà tregua. Bisognerebbe potersi cambiare almeno la maglia alla pelle, ogni venti km, ma come potrei trasportare il bagaglio? Già così, lo zaino è gonfio e pesante, e ci ho messo solo un ricambio per quando avrò finito la mia fatica. Stringo i denti. Dal primo tornante secco in poi, alterno passo e corsa; il peso del mio ingombrante lato B non concede prestazioni atletiche particolarmente brillanti. Calare di dieci chili, o crescere in altezza di dieci centimetri: per come sono fatta io, vedo la seconda alternativa decisamente più realizzabile. A proposito, avrei anche fame, ma dovrei levare i guanti per frugare nello zaino, e togliere lo zaino che funge da calda protezione per la schiena; non ci penso nemmeno. Osservo con desiderio le montagne tutt'intorno, illuminate dal sole; ne vorrei un po' anche per me, ma non c'è speranza; questa salita, al mattino presto, è tutta ostinatamente in ombra. Non mi resta che scrutare la linea della strada, davanti a me, quando il bosco si apre appena un po', e valutare, ad occhio, quanto manca al colle. In realtà, basta leggere i cartelli chilometrici, ma la percezione della distanza spesso ha ben poco a che fare con la fredda matematica. Tempo e chilometri possono dilatarsi o restringersi a dismisura, a seconda delle circostanze, della condizione fisica e di quella dei pensieri.
Nulla muove tra gli alberi; passano un paio di auto, rallentano, tirano oltre. Per quanto non abbia un'andatura brillante, non credo di dare l'impressione di chi si trova qui per sbaglio; l'abbigliamento, almeno quello, è quasi professionale. Non c'è traccia di vita animale né vegetale, non una gemma, non un fiore, nulla, solo ghiaccio che lentamente si scioglie e si allunga seguendo la pendenza della strada. Significa che la temperatura è positiva, anche se di poco, ma non riesco ad accorgermene; il freddo non vuol saperne di mollarmi. L'ultimo chilometro prima del colle è più aperto e luminoso; la neve alta accumulata a bordo strada forma veri e propri muretti. Sulla facciata dell'albergo in cima al colle, solo una finestra ha la tapparella alzata.
Ma è qui che ha inizio il mio dramma. La panza, messa a tacere all'inizio della salita, reclama imperiosamente il suo sfogo, e non pare disposta a concedere dilazioni. Ma possibile? Mi vengono in mente gli ultimi versi della canzone di De Andrè, Carlo Martello: per il povero Re Carlo, "le avventure in codesto reame" sembrano "risolversi tutte con grandi...", passeggiatrici, ecco. Ma per me non è che si risolvano in modo molto più glorioso, ecco. Anzi: magari si risolvessero; potrei trovare pace solo se sul colle, per magia, si materializzasse uno di quei parallelepipedi colorati, alti e stretti, con la porticina e, all'interno, la voragine che tutto ingoia e fa sparire... In un'altra stagione, il problema non si porrebbe neppure; qui intorno ci sono ettari di bosco pronti ad accogliere il sollievo delle viscere dei podisti. Ma oggi, ogni centimetro quadrato di terra è sepolto sotto mezzo metro di neve, ad andar bene. Ed è neve che non regge il peso della persona: provo un paio di volte a salire sul manto, sprofondo fino al ginocchio. Rimane, davvero, solo la strada. Ma il mal di pancia, per quanto tormentoso, non riesce a vincere il pudore, quell'unico che credo mi sia rimasto ben radicato, che chiede riservatezza assoluta durante le sedute sul trono. Chilometri e chilometri di discesa, tornanti, alberi, parapetti di pietra e neve. Il sole, sì, qui e là lambisce la strada, ma i miei sensi son tutti concentrati negli occhi, a caccia di un angolino un po' appartato con la stessa implacabile attenzione con cui un periscopio setaccerebbe la superficie del mare a caccia della nave nemica. Nulla, di nulla, di nulla. Il pendio è sempre scoperto ed esposto, e comunque inaccessibile per via della neve. Più volte mi fermo in preda agli spasmi, convinta che "basta, adesso mi fermo qui e se qualcuno mi vede pazienza". Poi riparto. Che situazione imbarazzante... Ecco, in questi istanti comprendo a fondo quale sia il significato di "relatività del tempo". Nemmeno mi accorgerei di sentirlo scorrere, se stessi bene; ma ora lo sento eccome, scorre con lentezza esasperante...
Caragna, le poche case della frazione; una botteguccia già aperta, da cui esce una donna anziana, curva, robusta, coperta da un golf di lana ma con i polpacci nudi sotto la lunga gonna scura di panno. Ci osserviamo, l'una marziana per l'altra, ma è solo un istante. Continuo la mia corsa, stringo i denti, riprendo l'osservazione del territorio: se inventassero un nuovo sport, il "WC-watching", potrei ambire al podio. Poco più avanti, appena passato il ponte sul fiume, l'irripetibile occasione, tra una cascina ed un agriturismo che sembra chiuso. Qualche cespuglio che mi offre un po' di riparo dalla vista dei pochi automobilisti...
Riparto di corsa, poco dopo; va un po' meglio, ma mi sento tutt'altro che rinfrancata. Mi accorgo, ora sì, del freddo che, nei pochi minuti di pausa, mi ha gelato sulla pelle gli abiti bagnati, e del sole che, qui in fondo alla valle, nella gola, non arriva ancora. Il pancino non cessa il suo dolore acuto, come di una contrattura; ogni falcata mi costa un lungo sospiro, per cercare di respirare senza interessare troppi muscoli nella zona. Intorno a me, l'inverno è ancora pieno: nessuna traccia nemmeno dei pochi fiorellini che ho incontrato lungo la salita; i colori sono sempre il grigio ed il marrone, i profumi non si sentono, cristallizzati a terra. Ho una fame che mi rode, ma mi disgusta la sola idea di buttar giù qualcosa.
Al trotto, cercando di non pensare, raggiungo Calizzano. Potrei anche fermarmi in un bar... Ma no: in fondo non ne ho bisogno, adesso. Ho male, e basta, inutile tergiversare. Direzione Finale: sotto un sole finalmente presente, pallido ma c'è, mi avvio lungo la salita: a destra il cimitero e la pineta, a sinistra il capannone dei mezzi spartineve invernali. Corro ancora, fino alla prima frazione: poi il dolore si fa troppo intenso, c'è qualcosa che non va, mi sento le braccia molli, la testa che gira. Sotto l'occhio interrogativo di una comitiva di sciatori – c'è gente che improvvisa percorsi di sci di fondo qui intorno – sfilo via, al passo, lungo la strada principale, più svelta che posso, cercando però di tenere a bada il malessere. Gli occhi per un po' vedono spirali blu, poi pian piano tornano alla luce abbagliante del sole finalmente limpido. Avrei necessità di un'altra sosta, ma qui è la stessa storia: come nella discesa dei Giovetti, non c'è traccia di un posto idoneo, nemmeno l'ombra. Vorrei almeno riprendere a correre, ma la debolezza che sento addosso mi consiglia caldamente prudenza. Via, di passo veloce. Mi distraggo osservando le stalattiti: vere e proprie cascate di guglie rovesciate, alcune sottili, altre imponenti, tutte sgocciolanti, perché la temperatura sembra voler salire un po'. Giochi di luce e scintillii; le reti metalliche che riparano la strada dalla caduta di sassi sono merletti che brillano al sole, inglobate dal ghiaccio. Faggi spogli a perdita d'occhio, fitti, poche auto, silenzio. Devo raggiungere il bar in cima al colle, è la mia unica speranza di potermi riprendere un po'. Devo arrivare su, confortare lo stomaco con qualcosa di ben caldo, approfittare di un bagno civile. Speriamo solo che sia aperto, quel bar.
Mentre cammino con tutta l'energia che riesco a dedicare al passo, mi cade l'occhio su una stranissima formazione naturale. Strabuzzo gli occhi, la guardo e la riguardo, mi avvicino e mi allontano: i tronchi di due faggi, due alberi distinti ed indipendenti, sono collegati tra loro, a poco più di due metri da terra, da un grosso ramo, quasi un tronchetto, fuso ad uno dei tronchi per ciascuna estremità. Quasi un ponte, un passaggio sospeso tra le due piante. Scatto qualche foto: conosco una persona che certo potrà illuminarmi sulla natura di questo curioso fenomeno. A questo punto, manca meno di due km al colle. Ben presto, mi trovo a sinistra i muri in pietra del Forte, i cartelli perentori che indicano la zona militare, nonché il cartello "MELOGNO", semisepolto da un cumulo di neve più alto di me. Attraverso il piazzale, verso l'edificio che ospita la trattoria: un filo di fumo sale dal comignolo; speriamo bene... Sì, sollievo, la porta si apre. Entro al calduccio, mi godo una meravigliosa cioccolata calda, densa al punto tale che il cucchiaino ci sta in piedi da solo, ed un attimo di pausa; metto nello zaino una lattina di Coca Cola. E' un'eresia, lo so, proprio io che sono più tirchia di zio Paperone: comprare una lattina al bar equivale a dissanguarsi. Ma è un caso disperato; so già che la Coca rimetterà un po' in sesto il pancino martoriato. E mi avvio verso il mare.
Il passaggio sotto la volta del Forte, come sempre, è l'ingresso in un altro mondo. Ormai lo so e non me ne stupisco più. Dal metro e mezzo di neve alla terra, nuda quasi ovunque, inondata di sole tiepido. E il mare sullo sfondo, e il caldo sulla pelle. Basta il primo chilometro di discesa, di corsa, in questo stato e, al bivio, mi sembra già di sentirmi meglio. Il piano prevede la discesa al mare da Pian dei Corsi. Infatti, al bivio svolto a sinistra. Ma un'auto oltremodo rumorosa e variopinta fa nascere in me un orrendo sospetto, rafforzato dal cartello, che di qui non riesco a leggere, con un grande cerchio rosso in campo bianco. Mi avvicino: la mia funesta impressione è confermata. La strada di Pian dei Corsi, oggi, 14 marzo, è chiusa al traffico, qualsiasi traffico, sia di veicoli che di pedoni: c'è il rally.
Bene: non mi resta che seguire la strada principale, giù verso Finale; vorrà dire che imboccherò poi il bivio per Eze e Calice, itinerario di certo più tranquillo e panoramico. Via, di corsa, mi godo il caldo ed il lento ritorno delle forze. Non tardo a dare fondo alla lattina di Coca, graditissima. E sarebbe davvero una situazione idilliaca... Se solo le auto da rally non avessero prescelto questa strada, tra l'altro aperta al traffico ordinario, per dare spettacolo al di fuori dalla competizione. Le sento arrivare alle spalle, rombano fragorosamente: so che quei motori sono conciati in modo tale da produrre un fracasso d'inferno anche se viaggiano ai venti all'ora, ma questi filano davvero come indemoniati, impostano le curve a filo del guard rail, oppure le tagliano clamorosamente in centro strada. Il terrore si dipinge sui volti degli ignari automobilisti della domenica, ed anche sul mio. Per ben due volte, in una strettoia, li sento arrivare sparati alle mie spalle: mi sbraccio all'indirizzo delle auto che stanno salendo, persino un pulmino; mi capiscono, inchiodano: i rallysti passano ad un pelo da me e dal muso delle loro vetture; guai se non si fossero fermati... Ho fiducia nelle capacità automobilistiche di un pilota di rally, ci mancherebbe; penso che, se non fossero più che abili ed accorti, si sarebbero già uccisi tutti. Però, in effetti, non è così ovvio prevedere che, lungo la discesa del Melogno, si possa incontrare una persona a piedi. E speriamo che a nessun ciclista venga la fantasia di passar di qui...
La lunghissima discesa trova un piccolo diversivo al bivio per Eze. La neve è un lontano ricordo, ciononostante, qualche mucchietto ne resta anche qui. Il bosco è fitto, sgombro, emana profumo di umido e di verde, finalmente. Ancora una sosta, improvvisa ed impellente, ma qui la faccenda è molto meno drammatica. Di angoli appartati ce n'è a iosa!
Raggiungo Eze, le case dai muri chiari illuminate dal sole, alberelli carichi di limoni e, finalmente, i primi, timidi fiori. Le mimose, che, una settimana dopo la festa della donna, cominciano appena a fiorire: i doveri contrattuali quest'anno sono stati trascurati, anzi, bellamente ignorati. Un tornante via l'altro, profumi di pranzo; a Calice ritrovo la fontanella ove già mi ero fermata tempo fa. E' il momento di restare in maglietta, gilet e manicotti; via la felpa, via i guanti, via il berretto.
La strada da Calice al mare è piatta e noiosa ed antipatica, perché molto trafficata. E poi, me ne rendo conto con orrore, solo ora: in una giornata come questa, così tiepida ed invitante, la Riviera sarà preda dei turisti. No... Mi sfugge un gemito, mentre alzo gli occhi al cielo, sconsolata, ed incrocio l'altissimo viadotto dell'autostrada. Ai primi capannoni della zona industriale, il timore diventa realtà: gente, gente dappertutto, troppa, chiassosa, un'invasione. C'è qualche centro commerciale, qualche spaccio di mobili e di calzature; il passaggio pedonale è ostaggio della massa informe, che avanza ondeggiante, che fa impressione. E, quando ormai speravo che tutto si fosse risolto... L'ennesima fitta alla pancia. Non so più se ridere o piangere: come me la cavo, adesso? Qui siamo in mezzo al mondo... Come faccio? Cerco un bar? E quante altre soste mi toccheranno ancora? Mentre rimugino in preda all'angoscia, raggiungo, tra un turista e l'altro, l'ingresso di Finalborgo. E non mi pare vero: quasi non credo ai miei occhi, lui è lì, bellissimo, invitante, tutto per me... Il parallelepipedo rosso Sebach! Allora i miracoli esistono davvero...
Ne esco finalmente rinfrancata e piena di speranza. Dunque: passare in Finalborgo, nemmeno per idea, escluso; mi affaccio sotto l'arco, c'è tanta gente che la sola vista mi dà la nausea. Supero, a mio rischio e pericolo, il ponticello e la rotonda: una bella boccata di puro smog e sono già a Finale. Dovendo scegliere, preferisco il caos delle auto a quello degli esseri umani. Anche nelle auto ci sono esseri umani, ma sono isolati tra loro e rinchiusi da un adeguato strato di lamiera.
Attraverso Finale che, oggi, forse per la prima volta assume i tratti di una cittadina turistica di mare. Ma il profumo incontenibile di pizza calda, che evade dalla vetrina di un negozio di pizza al taglio, per la prima volta nella mia vita non mi attrae; anzi, mi disgusta. Devo star proprio male, anche se la salita lungo la strada in centro paese mi riesce senza difficoltà. Slalom tra auto e motorini e ciclisti, finché raggiungo, finalmente, la passeggiata sul mare. Respiro a pieni polmoni, qui: l'acqua è placida come un'olio, la spiaggia brulica di vita. Ogni genere di vita: chi passeggia ancora con giacca e stivali, chi mette in mostra le proprie pallide nudità, chi gioca a palla, chi accompagna il cane. La stessa passeggiata è affollata. Corro finalmente di buona lena, ristabilita e senza gran fatica; solo, di quando in quando, inveisco silenziosamente contro i branchi di tre o quattro persone, di solito troppo pingui, che camminano affiancati, occupando tutto lo spazio della passerella, senza curarsi minimamente del fatto che io stia viaggiando verso di loro. Peggio per voi, sappiate che io non mi fermo! Solo all'ultimo, con malagrazia, si spostano. Le orecchie captano parlata piemontese e parlata milanese: eccoli qui, gli abitanti della nebbia che migrano a sud. Proprio come me.
Nel lungo tratto verso Varigotti, osservo una coppia di mezz'età che accompagna due splendidi cani, due segugi, sugli scogli bagnati, e la piccola boa di un sub che riemerge per un attimo e poi torna giù a caccia di chissà che. Qualche nuvola impercettibile, in lontananza.
A Varigotti trovo finalmente una fontanella per placare l'arsura; le due precedenti erano chiuse... Odori di pizza e di pesce, ma tutto ciò che mi sento di mangiare, ora come ora, è la frutta secca che mi sono portata appresso. Ananas secco, per la precisione, ghiotto, buonissimo. Sento un bisogno anomalo di dolce e di acqua. Fendo la folla, riparto verso il mio tratto preferito: le bellissime pareti e gli scogli che, tra Varigotti e Spotorno, scendono a picco sul mare. Con la luce di questo sole c'oggi, lo spettacolo è abbagliante, davvero maestoso. Peccato che qui si possa correre solo sull'Aurelia: non c'è spazio per farci stare la passeggiata. Lungo la breve risalita, osservo le peripezie di due giovani che si arrampicano su per una roccia a picco sul mare; sono già quasi in cima. Guardo giù, con timore reverenziale; l'acqua è verde, limpidissima, placida. Scatto una foto alla roccia che sembra una testa d'uomo, di profilo: è nota, quell'immagine. Corro e mi sento, finalmente, bene, anche se credo di aver accumulato un discreto ritardo sulla tabella di marcia. Sono già le tre passate e non ho ancora settanta km nelle gambe...
Quando sono quasi a Noli, il cellulare annuncia il messaggio di Matteo: mi avvisa che sarà libero per le quattro, quattro e mezza, e mi chiede quale sia il mio programma. Io posso andare più o meno ovunque: concordiamo per incontrarci lungo la salita che da Spotorno sale alle Manie. Noli, altro bagno di folla, altra fontanella; allungo il passo, ora che vedo la fine. Ancora un po' di lungomare, poi il cartello "Spotorno" che arriva quasi troppo in fretta. C'è gran fermento: l'Aurelia, per quel che posso capire, è chiusa a tratti. Sento il rombo dei motori da rally: non è possibile, anche qui... Coda di auto, interminabile. Mi avvicino ad uno dei personaggi in casacca rifrangente che dirigono il traffico: "Mi scusi, la strada per Le Manie?". "Guardi, deve prendere quella via lì, in salita, sempre dritto. Ma – aggiunge dopo avermi squadrata un istante – a piedi?". "Sì certo, a piedi!". Vista la confusione che regna qui intorno, mi sa tanto che questo è comunque il mezzo di trasporto più efficace, in quest'istante. Attraverso la strada, salto un basso muretto; con mia gran meraviglia, il gesto atletico non è nemmeno troppo legnoso. Poi, affronto la salita di petto, di corsa: le prime rampe sono ripide davvero. Respiro a pieni polmini, però, il profumo del mare. Curva dopo curva, mi ritrovo in pochi minuti, e in poca distanza, ad ammirare il mare dall'alto. Una bici mi passa accanto; per un attimo, resto interdetta: c'è in sella una persona che tutto potrebbe essere, fuorché uno scalatore; pedala con leggerezza e senza alcun fiatone... L'arcano è presto svelato: è una bici "a pedalata assistita"! Ecco, perché...
I raggi del sole sono già più gialli ed obliqui. Mi ostino a correre sulle rampe, o meglio, a portare un piede avanti l'altro nel gesto della corsa, ma il risultato è patetico. Troppo ripida, la strada. E troppo vuoto il pancino. Mi rassegno a camminare, sempre di buon passo, con i primi brividi della brezza sulla pelle, ed a ingurgitare, a mò di oca, qualche pezzetto d'ananas, che mi impiastriccia le mani e la faccia. Un occhio sempre oltre la prossima curva, in attesa di veder comparire il furgone bianco di Matteo. Vorrei che mi vedesse ancora correre, ma è inutile fingere; qui, al massimo, posso alternare tratti al passo a tratti di corsa. C'è un certo viavai di auto, ma nessuna traccia del vecchio Volkswagen.
A Voza sono un po' incerta sulla direzione; sono già passata di qui, in bici, ma altri facevano da navigatore per me. Opto per girare a destra: ancora salita dura, passo e corsa. Sempre dritto, perché il bivio che incontro mi porterebbe ancora giù, a Spotorno. Salgo ancora, di buona lena, incontro auto e moto, respiro. Mi sorpassa un ciclista in mountain bike, che accompagna un bel cagnone al guinzaglio; mi sa che è un aiuto indebito. E, subito dopo, da una viuzza laterale, spunta il furgone bianco. Eccolo, è Matteo.
Per oggi, è la fine della mia fatica. Settantadue km, più o meno, molto molto sofferti. Ora tocca a lui, è già tutto programmato, anche se io lo apprendo ora. Andremo entrambi a Ceva, passando per il Melogno: lungo la salita, io guiderò il furgone, mentre lui salirà in bici. Dobbiamo affrettarci, prima che faccia buio. Sono un po' perplessa: io non l'ho mai guidato, un catafalco del genere; non so se ne sarò in grado. E poi, la salita del Melogno non è esattamente il luogo più agevole dove far pratica... Ma vince la curiosità. Fermi in coda tra Finale ed il casello dell'autostrada, Matteo scarica la bici e parte. Io supero l'ingorgo, pian piano, con santa pazienza, e do inizio all'opera di tortura e distruzione delle marce e della frizione. Povero VW: io mi diverto, ma lui mica tanto, mi sa... Curva, controcurva; raggiungo Matteo, lo supero con tutti i crismi, una mano sul volante, l'altra a smanettare sull'autoradio. Lo attendo più avanti, al bivio per Eze, unico slargo disponibile; mi passa a fianco come un missile. Però, che bello: ora che sono discretamente demolita, con la coscienza a posto e la consapevolezza di "aver già dato", trovo piacevole e divertente un'attività che, altrimenti, mi renderebbe incontenibilmente furiosa: stare a guardare mentre qualcun altro fatica!
Rimetto in moto, riparto, raggiungo Matteo che mena sui pedali come un forsennato. Qualche auto da rally è ancora in giro; una che cerca di portarmi via una fetta di cofano... Questi sono tutti pazzi! Non trovo altro luogo idoneo al parcheggio del DC9, fino al bivio per Pian dei Corsi, che poi significa quasi in cima. Quassù le nuvole avvolgono il colle e la strada: chi l'avrebbe mai detto... La nebbia scende, fitta, fredda e rapida, a chiudere la visuale sulla curva da cui dovrei veder spuntare Matteo: cavoli, speriamo che gli automobilisti lo vedano... La preoccupazione cresce fin quando non lo vedo, o meglio lo intuisco appena, spuntare. Riavvio, lo seguo in cima al colle: quel mattoide c'è arrivato a tempo di record... Lo recupero e, su sua insistenza, conservo il posto di comando per la discesa, e poi per salita e discesa dei Giovetti, fino a Ceva. Ormai lo domino alla perfezione, il bestio. Ci trasferiamo sulla Opel, rimasta pazientemente lì in attesa; direzione Carmagnola, entrambi affamati. Per fortuna, il ristoro non dovrebbe mancare: ieri ho svaligiato il supermercato...
La bella illusione della partenza si sgretola in un istante, come un malfermo castello di carte, non appena estraggo la zampa dal finestrino, al casello di Ceva, per pagare il pedaggio. Stavolta la mano congela, eccome, e una folata d'aria gelida invade il caotico abitacolo. Non è possibile, rimugino sconsolata. Non c'è niente da fare, questo posto è l'apertura terminale del tubo digerente del mondo, climaticamente parlando. Rapida e spietata la sentenza: -7°C. Fantastico, non avrei potuto desiderare di meglio. Significa che congelerò almeno per i primi venti km, quando già mi ero ingenuamente fidata delle promesse del calendario, metà marzo. Pazienza: la consolazione è che farà chiaro presto.
Abbandono la Opel nel piazzale accanto all'ospedale, a quest'ora in buona parte occupato dai camion con le tendine tirate in cabina. Ronfano della grossa, i loro autisti. Sono pronta in un attimo: zaino ben stretto sulle spalle e in vita, perché non balli; rifrangenti ovunque, modello albero di Natale tardivo, faretto in mano, alle sei meno un quarto si parte. Per dove, non lo so con precisione. So che Matteo oggi è di corvée come accompagnatore in grotta, dalle parti delle Manie, e che dovrebbe essere libero più o meno a metà pomeriggio; ci sentiremo via cellulare per capire dove incontrarci. Al momento, non mi preoccupo: è bellissimo partire senza un'idea precisa di quanto e fino a quando avrò da scarpinare. In ogni caso, la prima tappa ideale è Bagnasco. Mi avvio al trotto lungo la strada principale; non appena mi lascio alle spalle le luci del casello dell'autostrada, mi accorgo, solo ora, di un cielo nero stellato che più non si può. L'ultima volta in cui sono passata di qui a piedi, la vallata era illuminata a giorno dalla luna; oggi no, non ce n'è traccia, solo puntini scintillanti ed aria limpida e gelida. Tanto fredda che, in un attimo, mi ritrovo con il mento e le labbra gelidi al punto da far male; non parliamo delle mani, pure protette dai guantini in simil-seta sotto i guanti in pile. Anche i polpacci, lasciati scoperti dai pantaloni ¾, hanno perso sensibilità... La neve rimasta a bordo strada è durissima e scivolosa, devo fare attenzione a dove poggio i piedi.
Il cielo mostra ben presto una sfumatura appena più chiara del nero pesto della notte. In questi giorni, alle sei e mezza si può dire che sia già giorno; con la prima, debolissima scia di luce, riesco a distinguere alla mia destra il fondovalle, le chiazze appena percettibili della neve, i tronchi degli alberi. Mi accompagnano i versi sgraziati delle cornacchie; i rumori ed i segni della vita animale, i cinguettii, stridono con la temperatura ancora così disperatamente rigida. Un fruscio convulso a sinistra: alzo il naso e riesco appena a scorgere un bell'animale slanciato, credo un capriolo, che mi osserva per un istante e poi si inerpica su per il pendio, oltre la rete paravalanghe.
La luce del sole è il miglior conforto. Il freddo resta pungente, ma ora si sopporta meglio, anche se le gambe sembrano tempestate da centinaia di minuscoli spilli. Poco traffico, oggi; qualche auto con gli sci sul tettuccio, qualche furgone del mercato. A Nucetto, i primi cenni di vita umana: una finestra illuminata, profumo di legna che arde nella stufa, ma il bar è ancora chiuso. Ovvio, non è che ci sia gran massa di avventori in questo mucchietto di case all'alba. E' solo che la sala illuminata, la saracinesca alzata, sarebbero un po' di compagnia in quei pochi secondi del mio passaggio. E' già operativa, in compenso, l'area di servizio all'uscita del paese.
Accanto alla strada, quindi insieme a me, corrono i binari su cui non ricordo d'aver mai visto passare un treno. Lungo questo interminabile rettilineo, scandito dai cartelli chilometrici, soffia un venticello leggero ma gelido; tiro su il collare di pile a riparare la bocca ed il naso, con lo spiacevole effetto collaterale degli occhiali che si appannano. Mai luogo fu più inospitale della Valle Tanaro, a parte la vicina Valle Bormida: un interminabile inverno fatto di ombra, umidità che impregna il midollo, gelo siberiano da staccar le dita delle mani. Il panorama però è dolcissimo: le cime qui intorno son tutte rosa. L'ultima "S" in fondo al rettilineo, poi ancora un rettilineo, più breve, verso Bagnasco. Il mio passaggio, di corsa lenta, scatena le ire dei tre o quattro cagnoni, di buona stazza a giudicare dalle voci, nel cortile di una cascina a mezza altezza sul pendio alla mia destra; li vedo, ombre scure che schizzano impazzite da un capo all'altro della recinzione che non distinguo ma immagino ci sia. Altrimenti, a quest'ora, avrei già i loro denti nei miei polpacci! Anche i tre splendidi pastori tedeschi che abitano il giardino dell'ultima casa isolata prima di Bagnasco hanno qualcosa da ridire, e lo dicono con gran strepito, e continuano ancora quando io son già lontana, all'ingresso del paese.
Al semaforo, svolto a sinistra, direzione Finale, come indica il cartello, con troppo ottimismo. Finale, da qui, è ancora lontana anni luce. Sono tormentata dal freddo, alle mani, alle braccia, alla schiena; è strano, ho già affrontato di peggio, ma oggi non gira. Supero il ponticello stretto; i campi sono bianchi di gelo, la neve sciolta e ricongelata in mezzo alla strada rende insidioso anche il passaggio a piedi. Il pancino reclamerebbe una sosta, ma proprio non me la sento; mezza congelata come sono, fermarsi sarebbe un vero supplizio. Meglio rimandare; più avanti troverò qualche altro luogo idoneo alla sosta. Se solo potessi immaginare cosa mi costerà quest'errore... Neve ovunque, sui prati, sulle cataste di legna pericolosamente pendenti, a cappuccio sui paracarri, sui tetti delle case di Massimino. Vecchi attrezzi agricoli consunti dal tempo e dall'umidità stridono con una villetta moderna, dal prato ben curato e pettinato. Incontro un uomo dall'aspetto burbero, intabarrato con giacca, berretto e stivaloni, che trasporta un secchio e risponde, un po' sconcertato, al mio saluto. Sono appena entrata in Liguria, ma non si direbbe; il freddo, nonostante la salita, non dà tregua. Bisognerebbe potersi cambiare almeno la maglia alla pelle, ogni venti km, ma come potrei trasportare il bagaglio? Già così, lo zaino è gonfio e pesante, e ci ho messo solo un ricambio per quando avrò finito la mia fatica. Stringo i denti. Dal primo tornante secco in poi, alterno passo e corsa; il peso del mio ingombrante lato B non concede prestazioni atletiche particolarmente brillanti. Calare di dieci chili, o crescere in altezza di dieci centimetri: per come sono fatta io, vedo la seconda alternativa decisamente più realizzabile. A proposito, avrei anche fame, ma dovrei levare i guanti per frugare nello zaino, e togliere lo zaino che funge da calda protezione per la schiena; non ci penso nemmeno. Osservo con desiderio le montagne tutt'intorno, illuminate dal sole; ne vorrei un po' anche per me, ma non c'è speranza; questa salita, al mattino presto, è tutta ostinatamente in ombra. Non mi resta che scrutare la linea della strada, davanti a me, quando il bosco si apre appena un po', e valutare, ad occhio, quanto manca al colle. In realtà, basta leggere i cartelli chilometrici, ma la percezione della distanza spesso ha ben poco a che fare con la fredda matematica. Tempo e chilometri possono dilatarsi o restringersi a dismisura, a seconda delle circostanze, della condizione fisica e di quella dei pensieri.
Nulla muove tra gli alberi; passano un paio di auto, rallentano, tirano oltre. Per quanto non abbia un'andatura brillante, non credo di dare l'impressione di chi si trova qui per sbaglio; l'abbigliamento, almeno quello, è quasi professionale. Non c'è traccia di vita animale né vegetale, non una gemma, non un fiore, nulla, solo ghiaccio che lentamente si scioglie e si allunga seguendo la pendenza della strada. Significa che la temperatura è positiva, anche se di poco, ma non riesco ad accorgermene; il freddo non vuol saperne di mollarmi. L'ultimo chilometro prima del colle è più aperto e luminoso; la neve alta accumulata a bordo strada forma veri e propri muretti. Sulla facciata dell'albergo in cima al colle, solo una finestra ha la tapparella alzata.
Ma è qui che ha inizio il mio dramma. La panza, messa a tacere all'inizio della salita, reclama imperiosamente il suo sfogo, e non pare disposta a concedere dilazioni. Ma possibile? Mi vengono in mente gli ultimi versi della canzone di De Andrè, Carlo Martello: per il povero Re Carlo, "le avventure in codesto reame" sembrano "risolversi tutte con grandi...", passeggiatrici, ecco. Ma per me non è che si risolvano in modo molto più glorioso, ecco. Anzi: magari si risolvessero; potrei trovare pace solo se sul colle, per magia, si materializzasse uno di quei parallelepipedi colorati, alti e stretti, con la porticina e, all'interno, la voragine che tutto ingoia e fa sparire... In un'altra stagione, il problema non si porrebbe neppure; qui intorno ci sono ettari di bosco pronti ad accogliere il sollievo delle viscere dei podisti. Ma oggi, ogni centimetro quadrato di terra è sepolto sotto mezzo metro di neve, ad andar bene. Ed è neve che non regge il peso della persona: provo un paio di volte a salire sul manto, sprofondo fino al ginocchio. Rimane, davvero, solo la strada. Ma il mal di pancia, per quanto tormentoso, non riesce a vincere il pudore, quell'unico che credo mi sia rimasto ben radicato, che chiede riservatezza assoluta durante le sedute sul trono. Chilometri e chilometri di discesa, tornanti, alberi, parapetti di pietra e neve. Il sole, sì, qui e là lambisce la strada, ma i miei sensi son tutti concentrati negli occhi, a caccia di un angolino un po' appartato con la stessa implacabile attenzione con cui un periscopio setaccerebbe la superficie del mare a caccia della nave nemica. Nulla, di nulla, di nulla. Il pendio è sempre scoperto ed esposto, e comunque inaccessibile per via della neve. Più volte mi fermo in preda agli spasmi, convinta che "basta, adesso mi fermo qui e se qualcuno mi vede pazienza". Poi riparto. Che situazione imbarazzante... Ecco, in questi istanti comprendo a fondo quale sia il significato di "relatività del tempo". Nemmeno mi accorgerei di sentirlo scorrere, se stessi bene; ma ora lo sento eccome, scorre con lentezza esasperante...
Caragna, le poche case della frazione; una botteguccia già aperta, da cui esce una donna anziana, curva, robusta, coperta da un golf di lana ma con i polpacci nudi sotto la lunga gonna scura di panno. Ci osserviamo, l'una marziana per l'altra, ma è solo un istante. Continuo la mia corsa, stringo i denti, riprendo l'osservazione del territorio: se inventassero un nuovo sport, il "WC-watching", potrei ambire al podio. Poco più avanti, appena passato il ponte sul fiume, l'irripetibile occasione, tra una cascina ed un agriturismo che sembra chiuso. Qualche cespuglio che mi offre un po' di riparo dalla vista dei pochi automobilisti...
Riparto di corsa, poco dopo; va un po' meglio, ma mi sento tutt'altro che rinfrancata. Mi accorgo, ora sì, del freddo che, nei pochi minuti di pausa, mi ha gelato sulla pelle gli abiti bagnati, e del sole che, qui in fondo alla valle, nella gola, non arriva ancora. Il pancino non cessa il suo dolore acuto, come di una contrattura; ogni falcata mi costa un lungo sospiro, per cercare di respirare senza interessare troppi muscoli nella zona. Intorno a me, l'inverno è ancora pieno: nessuna traccia nemmeno dei pochi fiorellini che ho incontrato lungo la salita; i colori sono sempre il grigio ed il marrone, i profumi non si sentono, cristallizzati a terra. Ho una fame che mi rode, ma mi disgusta la sola idea di buttar giù qualcosa.
Al trotto, cercando di non pensare, raggiungo Calizzano. Potrei anche fermarmi in un bar... Ma no: in fondo non ne ho bisogno, adesso. Ho male, e basta, inutile tergiversare. Direzione Finale: sotto un sole finalmente presente, pallido ma c'è, mi avvio lungo la salita: a destra il cimitero e la pineta, a sinistra il capannone dei mezzi spartineve invernali. Corro ancora, fino alla prima frazione: poi il dolore si fa troppo intenso, c'è qualcosa che non va, mi sento le braccia molli, la testa che gira. Sotto l'occhio interrogativo di una comitiva di sciatori – c'è gente che improvvisa percorsi di sci di fondo qui intorno – sfilo via, al passo, lungo la strada principale, più svelta che posso, cercando però di tenere a bada il malessere. Gli occhi per un po' vedono spirali blu, poi pian piano tornano alla luce abbagliante del sole finalmente limpido. Avrei necessità di un'altra sosta, ma qui è la stessa storia: come nella discesa dei Giovetti, non c'è traccia di un posto idoneo, nemmeno l'ombra. Vorrei almeno riprendere a correre, ma la debolezza che sento addosso mi consiglia caldamente prudenza. Via, di passo veloce. Mi distraggo osservando le stalattiti: vere e proprie cascate di guglie rovesciate, alcune sottili, altre imponenti, tutte sgocciolanti, perché la temperatura sembra voler salire un po'. Giochi di luce e scintillii; le reti metalliche che riparano la strada dalla caduta di sassi sono merletti che brillano al sole, inglobate dal ghiaccio. Faggi spogli a perdita d'occhio, fitti, poche auto, silenzio. Devo raggiungere il bar in cima al colle, è la mia unica speranza di potermi riprendere un po'. Devo arrivare su, confortare lo stomaco con qualcosa di ben caldo, approfittare di un bagno civile. Speriamo solo che sia aperto, quel bar.
Mentre cammino con tutta l'energia che riesco a dedicare al passo, mi cade l'occhio su una stranissima formazione naturale. Strabuzzo gli occhi, la guardo e la riguardo, mi avvicino e mi allontano: i tronchi di due faggi, due alberi distinti ed indipendenti, sono collegati tra loro, a poco più di due metri da terra, da un grosso ramo, quasi un tronchetto, fuso ad uno dei tronchi per ciascuna estremità. Quasi un ponte, un passaggio sospeso tra le due piante. Scatto qualche foto: conosco una persona che certo potrà illuminarmi sulla natura di questo curioso fenomeno. A questo punto, manca meno di due km al colle. Ben presto, mi trovo a sinistra i muri in pietra del Forte, i cartelli perentori che indicano la zona militare, nonché il cartello "MELOGNO", semisepolto da un cumulo di neve più alto di me. Attraverso il piazzale, verso l'edificio che ospita la trattoria: un filo di fumo sale dal comignolo; speriamo bene... Sì, sollievo, la porta si apre. Entro al calduccio, mi godo una meravigliosa cioccolata calda, densa al punto tale che il cucchiaino ci sta in piedi da solo, ed un attimo di pausa; metto nello zaino una lattina di Coca Cola. E' un'eresia, lo so, proprio io che sono più tirchia di zio Paperone: comprare una lattina al bar equivale a dissanguarsi. Ma è un caso disperato; so già che la Coca rimetterà un po' in sesto il pancino martoriato. E mi avvio verso il mare.
Il passaggio sotto la volta del Forte, come sempre, è l'ingresso in un altro mondo. Ormai lo so e non me ne stupisco più. Dal metro e mezzo di neve alla terra, nuda quasi ovunque, inondata di sole tiepido. E il mare sullo sfondo, e il caldo sulla pelle. Basta il primo chilometro di discesa, di corsa, in questo stato e, al bivio, mi sembra già di sentirmi meglio. Il piano prevede la discesa al mare da Pian dei Corsi. Infatti, al bivio svolto a sinistra. Ma un'auto oltremodo rumorosa e variopinta fa nascere in me un orrendo sospetto, rafforzato dal cartello, che di qui non riesco a leggere, con un grande cerchio rosso in campo bianco. Mi avvicino: la mia funesta impressione è confermata. La strada di Pian dei Corsi, oggi, 14 marzo, è chiusa al traffico, qualsiasi traffico, sia di veicoli che di pedoni: c'è il rally.
Bene: non mi resta che seguire la strada principale, giù verso Finale; vorrà dire che imboccherò poi il bivio per Eze e Calice, itinerario di certo più tranquillo e panoramico. Via, di corsa, mi godo il caldo ed il lento ritorno delle forze. Non tardo a dare fondo alla lattina di Coca, graditissima. E sarebbe davvero una situazione idilliaca... Se solo le auto da rally non avessero prescelto questa strada, tra l'altro aperta al traffico ordinario, per dare spettacolo al di fuori dalla competizione. Le sento arrivare alle spalle, rombano fragorosamente: so che quei motori sono conciati in modo tale da produrre un fracasso d'inferno anche se viaggiano ai venti all'ora, ma questi filano davvero come indemoniati, impostano le curve a filo del guard rail, oppure le tagliano clamorosamente in centro strada. Il terrore si dipinge sui volti degli ignari automobilisti della domenica, ed anche sul mio. Per ben due volte, in una strettoia, li sento arrivare sparati alle mie spalle: mi sbraccio all'indirizzo delle auto che stanno salendo, persino un pulmino; mi capiscono, inchiodano: i rallysti passano ad un pelo da me e dal muso delle loro vetture; guai se non si fossero fermati... Ho fiducia nelle capacità automobilistiche di un pilota di rally, ci mancherebbe; penso che, se non fossero più che abili ed accorti, si sarebbero già uccisi tutti. Però, in effetti, non è così ovvio prevedere che, lungo la discesa del Melogno, si possa incontrare una persona a piedi. E speriamo che a nessun ciclista venga la fantasia di passar di qui...
La lunghissima discesa trova un piccolo diversivo al bivio per Eze. La neve è un lontano ricordo, ciononostante, qualche mucchietto ne resta anche qui. Il bosco è fitto, sgombro, emana profumo di umido e di verde, finalmente. Ancora una sosta, improvvisa ed impellente, ma qui la faccenda è molto meno drammatica. Di angoli appartati ce n'è a iosa!
Raggiungo Eze, le case dai muri chiari illuminate dal sole, alberelli carichi di limoni e, finalmente, i primi, timidi fiori. Le mimose, che, una settimana dopo la festa della donna, cominciano appena a fiorire: i doveri contrattuali quest'anno sono stati trascurati, anzi, bellamente ignorati. Un tornante via l'altro, profumi di pranzo; a Calice ritrovo la fontanella ove già mi ero fermata tempo fa. E' il momento di restare in maglietta, gilet e manicotti; via la felpa, via i guanti, via il berretto.
La strada da Calice al mare è piatta e noiosa ed antipatica, perché molto trafficata. E poi, me ne rendo conto con orrore, solo ora: in una giornata come questa, così tiepida ed invitante, la Riviera sarà preda dei turisti. No... Mi sfugge un gemito, mentre alzo gli occhi al cielo, sconsolata, ed incrocio l'altissimo viadotto dell'autostrada. Ai primi capannoni della zona industriale, il timore diventa realtà: gente, gente dappertutto, troppa, chiassosa, un'invasione. C'è qualche centro commerciale, qualche spaccio di mobili e di calzature; il passaggio pedonale è ostaggio della massa informe, che avanza ondeggiante, che fa impressione. E, quando ormai speravo che tutto si fosse risolto... L'ennesima fitta alla pancia. Non so più se ridere o piangere: come me la cavo, adesso? Qui siamo in mezzo al mondo... Come faccio? Cerco un bar? E quante altre soste mi toccheranno ancora? Mentre rimugino in preda all'angoscia, raggiungo, tra un turista e l'altro, l'ingresso di Finalborgo. E non mi pare vero: quasi non credo ai miei occhi, lui è lì, bellissimo, invitante, tutto per me... Il parallelepipedo rosso Sebach! Allora i miracoli esistono davvero...
Ne esco finalmente rinfrancata e piena di speranza. Dunque: passare in Finalborgo, nemmeno per idea, escluso; mi affaccio sotto l'arco, c'è tanta gente che la sola vista mi dà la nausea. Supero, a mio rischio e pericolo, il ponticello e la rotonda: una bella boccata di puro smog e sono già a Finale. Dovendo scegliere, preferisco il caos delle auto a quello degli esseri umani. Anche nelle auto ci sono esseri umani, ma sono isolati tra loro e rinchiusi da un adeguato strato di lamiera.
Attraverso Finale che, oggi, forse per la prima volta assume i tratti di una cittadina turistica di mare. Ma il profumo incontenibile di pizza calda, che evade dalla vetrina di un negozio di pizza al taglio, per la prima volta nella mia vita non mi attrae; anzi, mi disgusta. Devo star proprio male, anche se la salita lungo la strada in centro paese mi riesce senza difficoltà. Slalom tra auto e motorini e ciclisti, finché raggiungo, finalmente, la passeggiata sul mare. Respiro a pieni polmoni, qui: l'acqua è placida come un'olio, la spiaggia brulica di vita. Ogni genere di vita: chi passeggia ancora con giacca e stivali, chi mette in mostra le proprie pallide nudità, chi gioca a palla, chi accompagna il cane. La stessa passeggiata è affollata. Corro finalmente di buona lena, ristabilita e senza gran fatica; solo, di quando in quando, inveisco silenziosamente contro i branchi di tre o quattro persone, di solito troppo pingui, che camminano affiancati, occupando tutto lo spazio della passerella, senza curarsi minimamente del fatto che io stia viaggiando verso di loro. Peggio per voi, sappiate che io non mi fermo! Solo all'ultimo, con malagrazia, si spostano. Le orecchie captano parlata piemontese e parlata milanese: eccoli qui, gli abitanti della nebbia che migrano a sud. Proprio come me.
Nel lungo tratto verso Varigotti, osservo una coppia di mezz'età che accompagna due splendidi cani, due segugi, sugli scogli bagnati, e la piccola boa di un sub che riemerge per un attimo e poi torna giù a caccia di chissà che. Qualche nuvola impercettibile, in lontananza.
A Varigotti trovo finalmente una fontanella per placare l'arsura; le due precedenti erano chiuse... Odori di pizza e di pesce, ma tutto ciò che mi sento di mangiare, ora come ora, è la frutta secca che mi sono portata appresso. Ananas secco, per la precisione, ghiotto, buonissimo. Sento un bisogno anomalo di dolce e di acqua. Fendo la folla, riparto verso il mio tratto preferito: le bellissime pareti e gli scogli che, tra Varigotti e Spotorno, scendono a picco sul mare. Con la luce di questo sole c'oggi, lo spettacolo è abbagliante, davvero maestoso. Peccato che qui si possa correre solo sull'Aurelia: non c'è spazio per farci stare la passeggiata. Lungo la breve risalita, osservo le peripezie di due giovani che si arrampicano su per una roccia a picco sul mare; sono già quasi in cima. Guardo giù, con timore reverenziale; l'acqua è verde, limpidissima, placida. Scatto una foto alla roccia che sembra una testa d'uomo, di profilo: è nota, quell'immagine. Corro e mi sento, finalmente, bene, anche se credo di aver accumulato un discreto ritardo sulla tabella di marcia. Sono già le tre passate e non ho ancora settanta km nelle gambe...
Quando sono quasi a Noli, il cellulare annuncia il messaggio di Matteo: mi avvisa che sarà libero per le quattro, quattro e mezza, e mi chiede quale sia il mio programma. Io posso andare più o meno ovunque: concordiamo per incontrarci lungo la salita che da Spotorno sale alle Manie. Noli, altro bagno di folla, altra fontanella; allungo il passo, ora che vedo la fine. Ancora un po' di lungomare, poi il cartello "Spotorno" che arriva quasi troppo in fretta. C'è gran fermento: l'Aurelia, per quel che posso capire, è chiusa a tratti. Sento il rombo dei motori da rally: non è possibile, anche qui... Coda di auto, interminabile. Mi avvicino ad uno dei personaggi in casacca rifrangente che dirigono il traffico: "Mi scusi, la strada per Le Manie?". "Guardi, deve prendere quella via lì, in salita, sempre dritto. Ma – aggiunge dopo avermi squadrata un istante – a piedi?". "Sì certo, a piedi!". Vista la confusione che regna qui intorno, mi sa tanto che questo è comunque il mezzo di trasporto più efficace, in quest'istante. Attraverso la strada, salto un basso muretto; con mia gran meraviglia, il gesto atletico non è nemmeno troppo legnoso. Poi, affronto la salita di petto, di corsa: le prime rampe sono ripide davvero. Respiro a pieni polmini, però, il profumo del mare. Curva dopo curva, mi ritrovo in pochi minuti, e in poca distanza, ad ammirare il mare dall'alto. Una bici mi passa accanto; per un attimo, resto interdetta: c'è in sella una persona che tutto potrebbe essere, fuorché uno scalatore; pedala con leggerezza e senza alcun fiatone... L'arcano è presto svelato: è una bici "a pedalata assistita"! Ecco, perché...
I raggi del sole sono già più gialli ed obliqui. Mi ostino a correre sulle rampe, o meglio, a portare un piede avanti l'altro nel gesto della corsa, ma il risultato è patetico. Troppo ripida, la strada. E troppo vuoto il pancino. Mi rassegno a camminare, sempre di buon passo, con i primi brividi della brezza sulla pelle, ed a ingurgitare, a mò di oca, qualche pezzetto d'ananas, che mi impiastriccia le mani e la faccia. Un occhio sempre oltre la prossima curva, in attesa di veder comparire il furgone bianco di Matteo. Vorrei che mi vedesse ancora correre, ma è inutile fingere; qui, al massimo, posso alternare tratti al passo a tratti di corsa. C'è un certo viavai di auto, ma nessuna traccia del vecchio Volkswagen.
A Voza sono un po' incerta sulla direzione; sono già passata di qui, in bici, ma altri facevano da navigatore per me. Opto per girare a destra: ancora salita dura, passo e corsa. Sempre dritto, perché il bivio che incontro mi porterebbe ancora giù, a Spotorno. Salgo ancora, di buona lena, incontro auto e moto, respiro. Mi sorpassa un ciclista in mountain bike, che accompagna un bel cagnone al guinzaglio; mi sa che è un aiuto indebito. E, subito dopo, da una viuzza laterale, spunta il furgone bianco. Eccolo, è Matteo.
Per oggi, è la fine della mia fatica. Settantadue km, più o meno, molto molto sofferti. Ora tocca a lui, è già tutto programmato, anche se io lo apprendo ora. Andremo entrambi a Ceva, passando per il Melogno: lungo la salita, io guiderò il furgone, mentre lui salirà in bici. Dobbiamo affrettarci, prima che faccia buio. Sono un po' perplessa: io non l'ho mai guidato, un catafalco del genere; non so se ne sarò in grado. E poi, la salita del Melogno non è esattamente il luogo più agevole dove far pratica... Ma vince la curiosità. Fermi in coda tra Finale ed il casello dell'autostrada, Matteo scarica la bici e parte. Io supero l'ingorgo, pian piano, con santa pazienza, e do inizio all'opera di tortura e distruzione delle marce e della frizione. Povero VW: io mi diverto, ma lui mica tanto, mi sa... Curva, controcurva; raggiungo Matteo, lo supero con tutti i crismi, una mano sul volante, l'altra a smanettare sull'autoradio. Lo attendo più avanti, al bivio per Eze, unico slargo disponibile; mi passa a fianco come un missile. Però, che bello: ora che sono discretamente demolita, con la coscienza a posto e la consapevolezza di "aver già dato", trovo piacevole e divertente un'attività che, altrimenti, mi renderebbe incontenibilmente furiosa: stare a guardare mentre qualcun altro fatica!
Rimetto in moto, riparto, raggiungo Matteo che mena sui pedali come un forsennato. Qualche auto da rally è ancora in giro; una che cerca di portarmi via una fetta di cofano... Questi sono tutti pazzi! Non trovo altro luogo idoneo al parcheggio del DC9, fino al bivio per Pian dei Corsi, che poi significa quasi in cima. Quassù le nuvole avvolgono il colle e la strada: chi l'avrebbe mai detto... La nebbia scende, fitta, fredda e rapida, a chiudere la visuale sulla curva da cui dovrei veder spuntare Matteo: cavoli, speriamo che gli automobilisti lo vedano... La preoccupazione cresce fin quando non lo vedo, o meglio lo intuisco appena, spuntare. Riavvio, lo seguo in cima al colle: quel mattoide c'è arrivato a tempo di record... Lo recupero e, su sua insistenza, conservo il posto di comando per la discesa, e poi per salita e discesa dei Giovetti, fino a Ceva. Ormai lo domino alla perfezione, il bestio. Ci trasferiamo sulla Opel, rimasta pazientemente lì in attesa; direzione Carmagnola, entrambi affamati. Per fortuna, il ristoro non dovrebbe mancare: ieri ho svaligiato il supermercato...
domenica 7 marzo 2010
6 marzo 2010 - Bici in Langa: un vero amore non si spegne mai
"Ciao Tittone, Gian se ne va... Oggi è il giorno della riscossa!". Il povero Skipper, strappato così alle braccia di Morfeo, il pelo tutto scompigliato dalle mie manifestazioni di affetto, apre appena un occhio, emette un grugnito cavernicolo, dopodiché riabbatte il testone sul mio cuscino. Non importa un accidente, a lui, della mia riscossa; tutto quel che gli interessa è riscuotere la sua pappa. Ma stamattina ho già provveduto a riempirgli la ciotola, e lui a svuotarla. Ora ronfa beato sul lettone.
Ormai son passati più di due mesi dal fortunatissimo Capodanno in cui il mio giretto in bici si è concluso con volo parabolico sul cofano di una Opel Corsa: siamo a marzo e mi ritrovo con meno di quattrocento km nelle gambe. Onta e disonore, dopo anni ed anni di onorata carriera e percorrenza annua a cinque cifre. In parte, la mia inerzia è stata colpa della stagione siberiana, o forse solo dell'inverno normale che sembra anomalo dopo anni di inverni tiepidi; in piccola parte, però. A fermarmi è stata soprattutto la paura. Non è che mi siano mancate le occasioni per pedalare un po', magari nelle ore centrali della giornata, meno gelide; però, ogni volta, mi sono lasciata travolgere dai pensieri più assurdi e catastrofici, truculente immagini di cadute, di incidenti, di fratture che mi avrebbero costretta all'immobilità per chissà quanto tempo, o anche peggio. Così, quasi sempre, ho finito per indossare le scarpe da corsa e via, a piedi. Quelle poche volte in cui, invece, sono saltata in sella, ho vissuto ore e chilometri di angoscia, con la sensazione di dover precipitare per terra da un attimo all'altro, di sentire la bici che perde i pezzi, di essere travolta; angoscia amplificata dal freddo, dall'umido, dalle giornate uggiose. Sono arrivata a credere che non sarei più salita in sella, e persino a pensare di liberarmi delle bici. Per fortuna, in tutto ciò, ho deciso di sospendere il giudizio: almeno fino alla prima giornata di tepore e sole.
La primissima è stata, infatti, lo scorso martedì; due orette di pedalata strappate all'ufficio, sotto un sole caldo che nulla c'entrava con il clima dei giorni immediatamente precedenti e di quelli a venire. Partita a pedalare con tutto il mio carretto di fobie, rientrata leggera, in senso metaforico s'intende; contenta come una Pasqua, con il primo segno di leggera abbronzatura impresso dai pantaloni sotto il ginocchio. Ed ho cominciato a scrutare le previsioni meteo per il fine settimana: disastrose, ferali, per la domenica, ma più che mai gaudiose per il sabato, a patto di coprirsi bene. Così, ieri ho preso la gran decisione, e sapevo che non mi sarei tirata il bidone, questa volta.
Stamattina il cielo è di un blu incantevole; il sole sta appena sorgendo e, in fondo alla via, tra due ali di palazzi, si distinguono già le montagne, un azzurro uniforme che tra poco sarà il bianco della neve. Ne dev'essere caduta una quantità notevole nei giorni scorsi; il manto è uniforme, fin giù, verso la pianura. Del resto, per domani le previsioni l'han promessa anche qui... La prima luce è violentissima; crea riflessi abbaglianti sulle vetrate dei palazzi. La tentazione vorrebbe che io schizzassi fuori subito: ma sono le sette e, poco fa, in giardino, ho potuto notare, con un certo disappunto, che l'acqua della pioggia dei giorni scorsi, raccolta nei vari secchi e contenitori, è gelata. Uno strato sottile di ghiaccio, che si rompe a toccarlo con un dito, ma c'è. L'aria è tagliente. Mi costringo ad infliggermi ancora un paio di "Sole 24 Ore" arretrati, in attesa che il sole mostri un po' più di convinzione. Con il tepore sulla schiena, la temperatura a zero gradi riesce un po' più sopportabile. Alle otto in punto, saluto il mio idolone peloso e me ne vo. Corazzata da inverno ma non troppo: canotta traforata, pile con il collo alto, una maglietta a maniche corte sopra il pile ed un giacchino antivento sopra tutto. Pantaloni ¾ che una volta erano felpati ed ora sono sottili al punto da perdere quasi i brandelli. Copriscarpe, guantini di seta e guanti di pile sopra; infine, fascia per le orecchie e giacca Gore Tex nel borsello da manubrio, che non si sa mai. Per la gioia dei vicini di casa, gran trambusto in cantina per gonfiare le ruote e tirar fuori la bici, restituita proprio ieri dalle sapienti mani del meccanico. Con un rimbrotto: "Era in decomposizione"... Una volta s'arrabbiava, povero meccanico, lui che tiene così tanto alle sue creature, come fossero tutte figlie sue. Si struggeva, smaniava, mi rimproverava in malo modo. Poi deve aver capito che è tutto inutile, io da quel lato lì non ci sento: pulizia e cura del mezzo meccanico sono amenità che non mi riguardano; non ho voglia né costanza di preoccuparmene. Quando il rumore di ferraglia che la bici produce mentre pedalo supera un certo limite di decibel, semplicemente vado da lui, il mago della brugola, e gli affido l'ammasso di fango e detriti vari sotto cui, scava scava, con un po' di fortuna, si potrà ritrovare il mio velocipede.
Oggi la bici brilla al sole, proprio come canta De Gregori in una delle pochissime canzoni che il mio neurone riesce a sopportare. Poche, proprio poche: non ho il cranio per saper apprezzare le altre. "Canzone impegnata", per me, non è una connotazione positiva... Via, si parte, subito con il sole basso in faccia, che abbaglia. In un attimo sono in campagna, giusto per accorgermi che la temperatura non è esattamente sahariana. Non c'è pozza che non sia ghiacciata; ghiaccio anche nelle bealere, brina sull'erba. Non male, per essere a marzo. Tutt'intorno la corona delle montagne, come se fossero vicinissime – e in effetti, per fortuna, lo sono: da qui, appena fuori Carmagnola, si vedono digradare verso sud. E va tutto bene finché resto lungo la stradina delle cascine: la faccenda si fa ardua quando invece sbuco sulla strada statale. Per i prossimi dieci km almeno, avrò il sole, basso ed accecante, proprio in faccia. E pazienza, per me non è un problema, anzi; il guaio è che l'avranno in faccia anche gli automobilisti a cui toccherà l'ingrato compito di sorpassarmi. Speriamo che mi vedano... Nel dubbio, io accelero: è contro i miei sacri principi di ciclista da turismo, lo so, ma qui si tratta di portare a casa la pellaccia. Mi sposto il più possibile a bordo strada ogni volta che alle spalle sento avvicinarsi un motore, sperando di non essere travolta; la mia fiducia nel genere umano automobilistico è quasi nulla. Soprattutto da quando ho sperimentato, qualche settimana fa, l'esperienza della coda all'ASL di Torino, allo sportello per il rinnovo delle patenti, per mia mamma: ero in compagnia di un bel po' di simpatici soggetti che candidamente si lagnavano di revoche di patenti, a loro dire, immeritate. Tanti costretti a sottoporsi ad esami vari, compreso l'esame del capello, che dubito siano richiesti a chi è stato cuccato per semplice eccesso di velocità. Mi sa che ci sono di mezzo gomiti alti, nasi aspiranti et similia. Col cavolo che un pilota in quello stato, e con la luce violenta proprio negli occhi, si accorge del ciclista... Per fortuna, stamattina circolano solo automobilisti senza vizi, perché supero indenne Ceresole ed all'ultima rotonda prima di Sommariva Perno arrivo viva e vegeta; un po' ibernata, questo sì, ma è inevitabile. Il freddo punge però solo nei tratti all'ombra; altrove, i raggi sono forieri di teporino e conforto. A patire sono soprattutto i piedi, nonostante i copriscarpe. Le ho già provate tutte: calze spesse, doppie calze, copriscarpe, scarpe invernali. Non c'è nulla da fare; le mie povere appendici inferiori si congelano a pochi metri da casa et voilà, si scongelano quando rientro, con molto comodo. La leggera salita verso Sommariva Perno, finalmente in direzione tale da non avere più il sole negli occhi, mi concede un minimo di calore prima della discesa, ed anche, in centro paese, una zaffata di profumo di pane fresco. Qui mi si tenta, mi si vuol mettere in difficoltà...
Superate le prime curve, con vista spettacolare su Langhe e montagne, svolto a destra, verso Pocapaglia. Il tratto di strada più gelido della giornata, quello che precede il bivio per Valle Rossi; è il più freddo sempre, anche nei giorni di bel tempo, forse perché corre al fondo di una valletta in ombra per buona parte del mattino. Guardo con orrore la stradina che si stacca sulla destra e sale su, a Pocapaglia, con una pendenza da rampichino: orrore... L'ho affrontata una volta sola, faticando non poco a tenere la ruota anteriore incollata all'asfalto; non è stata un'esperienza piacevole. Per me, una salitella più blanda, due tornanti all'ombra che mi riportano sulla bella balconata verso la collina. Bivio per Macellai, in mezzo alle ville; semaforo verde, incredibile dictu. Il rettilineo verso Pollenzo è da sempre malridotto, con l'asfalto, come si dice da queste parti, "grottoluto" e pieno di buche. Ma il tremore del manubrio oggi è quasi gradito, perché risveglia un po' di circolazione nelle dita intirizzite. Oltre la rotonda, l'ultimo tratto di strada che davvero mi preoccupa: un chilometro prima del bivio per La Morra, carreggiata stretta e caotica e passaggio su uno dei tanti ponti sul Tanaro. La luce si fa pian piano più forte; confido che la salita, tutta esposta al sole, sia una goduria per le mie ossa infreddolite. Infatti è così, grazie anche alla pendenza che è subito impegnativa. La prima salita degna di questo nome della giornata: son così contenta che mi verrebbe da affrontarla di slancio... Solo che il mio slancio durerebbe si e no duecento metri, mentre La Morra è a qualche chilometro, cinque o sei. Meglio prenderla con cautela e godersi il panorama: le montagne, immancabili, e poi Bra e la pianura. Sembra di avere un binocolo, tanto sono nitidi oggi i dettagli. Caldo sul viso e sulle orecchie, sotto la fascia di pile. Fatico un po', per arrivare a Rivalta: però, pensavo peggio, molto peggio, dopo tanto tempo di inattività ciclistica quasi totale. Le auto occupano quasi per intero la piazzetta: sarà ora di messa, nell'orrenda chiesa che qualche architetto con ambizioni da artista ha tirato su proprio qui. Proseguo la salita, ora più morbida, tra frutteti e vigneti, ancora grigi, spogli di gemme che non si fanno vedere. Tra i filari, si affaccendano loschi figuri che brandiscono cesoie e tagliano qua e là. Uno splendido labrador, a bordo strada, mi ignora, tutto intento com'è a puntare verso il folto del noccioleto: intuisco anch'io, subito dopo, la presenza del padrone.
Euforia, ecco. Se non faccio attenzione, va a finire che mi si stampa in faccia un sorriso da un orecchio all'altro, e chi m'incontra può pensar male della mia condizione psichiatrica. Ne avrebbe tutte le ragioni, non solo oggi, ma oggi in particolare. Ed io avrei voluto smettere di pedalare? Vendere le bici? Ma se in questo preciso istante, in questo bellissimo luogo, sono l'essere più felice al mondo... Mi immetto sulla strada che sale a La Morra da Cherasco e poi su, l'ultima rampa, davanti alla caserma dei Carabinieri che ha l'aspetto – e infatti lo è – di una villetta a schiera. Tiro su la cerniera del giacchino antivento; mi attende una discesa gelida. Un rapido sguardo sulle Langhe, da quassù, sui fazzoletti scuri che si scambiano con i fazzoletti ancora bianchi di neve, poi giù, pronta a soffrire. Scendo da Santa Maria o da Annunziata? Santa Maria significa un lungo tratto di falsopiano in discesa, in ombra e freddo, per raggiungere Gallo. Da Annunziata invece si fila giù, dritti, fino allo stradone che congiunge Barolo a Gallo, un chilometro o due di pianura dove, in ogni caso, si spinge e ci si scalda. Vada per Annunziata. Con molta cautela: il timore della discesa, chissà poi perché, nella stagione fredda in me è ancor più vivo del solito, se possibile. E poi, quel rettilineo subito oltre la rotonda, che termina con una curva secca a destra ma sembra un trampolino verso il vuoto... Lo spettacolo che si gode da quassù è meraviglioso, anche se in realtà non è natura; i filari di viti, disegnati con squadra e goniometro, a perdita d'occhio, e qualche sparuto albero sopravvissuto per scommessa, poco hanno a che fare con la natura.
All'incrocio con lo stradone di fondovalle arrivo con le dita mezze congelate. Lo stop è sacro: di questi tempi, mi ritrovo a cedere la precedenza non solo quando ne ho l'obbligo, ma anche quando vi avrei diritto io. Mi immetto verso Gallo: di lì a poco, mi supera la Panda del postino, che, subito dopo, pensa bene di svoltare a destra, tagliandomi la strada. Mi viene istintivo di aggrapparmi ai freni; la schivo per un pelo... Poi, con l'autocontrollo e la buona disposizione d'animo che mi contraddistinguono, raccolgo tutto il fiato che ho in corpo: "Che ca%%o fai... - altro respirone – Str%%%%!". Ma dico io, si può essere così menefreghisti ed imbecilli? Ma un minimo di sale in zucca, un minimo! Non dico il rispetto del prossimo, ci mancherebbe altro, o il dispiacere di far del male, ma almeno un po' di sano egoismo; non lo capisci, cretino al cubo, che se m'investi o mi fai cadere, tu che sei sul lavoro andrai ad avere un sacco di grane? Perché è pur vero che non ho voluto infierire contro il tapino che mi ha tagliato la strada, quel giorno disgraziato, perché in fondo s'è spaventato tantissimo pure lui, ed è stato corretto, e sono sicura che abbia detto il vero, sostenendo di non avermi vista. Ma tu mi hai appena sorpassata, non puoi non avermi vista. Te ne sei fregato e basta...
Non reagisce, il malnato, forse non mi ha nemmeno sentita. Che possa strozzarsi in pausa pranzo con il suo stesso panino. Via di qua: prossima salita, Serralunga d'Alba. E' parecchio tempo che non salgo da quella parte lì: di solito, punto dritta verso Monforte, via Perno o Castello, a caccia di pendenze a doppia cifra; oggi però preferisco restare sulle vie principali, per evitare di incappare in fango, sabbia o rimasugli di neve. Passo accanto all'immenso ingresso della tenuta Fontanafredda e via con i primi due tornanti, in cui approfitto della situazione per attaccare le mie risorse alimentari. La salita è l'unica circostanza in cui riesco a staccare una mano dal manubrio. Oggi ho deciso di essere virtuosa e di mettere nelle tasche il necessario per un'alimentazione varia: cioccolato bianco... E cioccolato nero. Per la precisione, mezza tavoletta di cioccolato bianco con mandorle e miele, ghiottissimo regalo di natale di un conoscente svizzero, ed un tubetto, tipo dentifricio, altrettanto ghiottissimo omaggio di mia cugina, che è stata di recente alla manifestazione "Eataly" a Torino e che, di fronte a tanta materia per appetiti robusti, ha pensato ovviamente a me.
La salita di Serralunga è tranquilla; altri la definirebbero "pedalabile": io mi accontento di dire che risparmio le tre coroncine posteriori più grandi, ma non è che stia proprio andando a spasso. Alla mia destra, i vari piani di colline: la torre rotonda di Castiglione Falletto, il castello di Perno e, sullo sfondo, la vetta troncata del Monviso, che, da qui, appare più tozzo e spuntato rispetto all'immagine che ammiro dal balcone di casa. Ancora poca strada e mi trovo davanti il castello di Serralunga: controluce, sembra un'enorme lama nera conficcata nella collina, tanto è sottile, visto da qui. Severo, senza fronzoli, imponente. Sono stata in visita qualche anno fa, accompagnando mia mamma ed una sua collega; una visita privilegiata, solo per noi tre ed una coppia di turisti. Oltre il paese, qualche chilometro di salite e discese alternate, morbide, in cresta alla collina tondeggiante; poi un tornante che porta su al bivio con la stradina che scende giù a Valle Talloria. Ancora avanti, una splendida cascina ristrutturata, con un cancello in ferro che è da solo un'opera d'arte. Più avanti, ahimé, una costruzione sulla destra che invece è un pugno in un occhio: già da lontano, ha l'aria di essere qualcosa di molto pretenzioso. Infatti, passando accanto all'incrocio con la stradina che vi conduce, un cartellone conferma la mia impressione: ristorante, ecc. ecc... Spa. Io mi domando che cavolo sarà mai una spa. Per me, anche prima di sostenere l'esame di stato come dottore commercialista, una spa è sempre stata una sola cosa: società per azioni. Cosa sia una spa a cinque stelle con tanto di "L" finale, bacio in fronte e calcio nel deretano, lo ignoro. Ma, chissà perché, credo sia meglio continuare ad ignorarlo. Non mi servono le cinque stelle, mi bastano le due ruote per trovare la mia felicità!
La strada passa intorno ad una cascina diroccata, "Cascina Arione", si legge su un cartello appeso ad un albero. Di ciò che una volta era, probabilmente, il fienile, restano soltanto i piloni in mattoni. Che bella foto, se solo avessi portato la macchina fotografica. Ma l'ho lasciata a casa apposta: con due strati di guanti, non sarei riuscita a scattare "al volo" e, d'altro canto, non volevo tentazioni che mi costringessero a qualche sosta qua e là. Si smonta di sella solo agli stop! Manca poco all'incrocio con la strada che collega Monforte a Roddino. Mi ci immetto osservando, con la coda dell'occhio, un ciclista che arriva da Monforte. Mi sorpasserà tra poco... A Roddino, la strada spiana proprio davanti alla trattoria; si respira a pieni polmoni, per rifiatare ma soprattutto per aspirare i profumi di pietanze. Nessuno mi sorpassa: forse il ciclista misterioso ha svoltato per Serralunga. Breve discesa, sufficiente a congelarmi. Non credo manchi molto a mezzogiorno, ma il ghiaccio non accenna a cedere. Le profonde impronte lasciate dalle ruote dei trattori nel fango, a bordo strada, sono pozze gelate; sull'asfalto, di tanto in tanto, una colata di neve che si scioglie. Un altro tratto di risalita oltre la chiesetta; si passa in una strettoia rimasta così, ormai da tempo, da quando la corsia di destra è franata. Alla curva successiva, inequivocabile rumore di cambio: mi volto, eccolo, il ciclista. Attacchiamo bottone con il poco fiato che resta ad entrambi; il collega è di La Morra e va verso la Pedaggera.
Invece, al successivo incrocio, io m'infliggo la lunga discesa di Costepomo. Perché non sia mai che, nel mio primo vero giro del ritorno in sella, il primo dell'anno che sia davvero gioioso, io non vada a zampettare sulla salita di Albaretto Torre. Ancora una volta, davanti agli occhi, in discesa, il castello di Serralunga e l'immancabile Monviso, che veglia su tutto. In una curva, una strettoia che non mi aspettavo: una frana s'è portata via metà della strada, che si è assestata mezzo metro più in giù. Tornante dopo tornante, con le mani che s'irrigidiscono sui freni, e ghiaccio, ancora ghiaccio. Pare incredibile, con un sole così limpido e violento. E nemmeno una nuvola all'orizzonte. Com'è possibile che domani, davvero, nevichi? Eppure i vari siti meteo lo annunciano da giorni. Butto l'occhio intorno: si intravede un'auto che risale una delle stradine minuscole dirette, da Valle Talloria a Serralunga, ma chissà com'è l'asfalto. Poco importa, ci tornerò più avanti nella stagione. Al bivio, destra, Albaretto. 34x27, è il meglio che ho a disposizione, speriamo che basti. E poi piano, piano, con pazienza, giù una gamba, giù l'altra e stringere i denti. Ce la faccio, oh se ce la faccio. Come andrà la salita, lo so già ancor prima del primo tornante. In cima son sempre arrivata, per carità; ma, se già soffro lì, so che soffrirò fino in punta. Oggi, nessuna traccia di sofferenza. Ho una voglia matta di rivederla, questa strada, metro per metro. Così, arranco pian piano, in compagnia prima di un tamarro con la Punto nera che passa sparando musica "tunz-tunz" a tutto volume, e poi di un buon numero di persone in stivaloni e cappellaccio, al lavoro tra i filari delle viti. Lo strappo più duro, alla cappelletta, e poi un altro, verso l'agriturismo. Un anziano, lì sul cancello, mi incoraggia: "Forza, che dopo la salita c'è sempre la discesa, stia tranquilla!". Vero. E' un'affermazione molto meno ovvia di quel che può sembrare. Con la bici è proprio così. Nella vita, un po' meno; ci sono persone per cui è tutto in discesa, altre per cui la salita sembra non finire mai. A me, per fortuna, è toccata la sorte della prima categoria; non certo per merito mio.
Alla prima curva in cui la strada spiana, cioè, scende sotto il 10%, tre cagnetti si lanciano all'inseguimento: il padrone, intento a trafficare con un macchinario indefinibile, li richiama urlando come un ossesso, in un linguaggio altrettanto indefinibile. Le tre bestiole, tutt'altro che minacciose, se ne infischiano. Ripartire in salita è una bella grana... Ormai si vede già la torre di Albaretto. Mancano un paio di strappi severi, ma ormai è fatta. Un giorno o l'altro suonerò alla porta del medico che ha la targa in una delle ultime curve... Nemmeno sull'ultima rampa d'ingresso in paese ho il coraggio di alzarmi in piedi: la strada è sporca e scivolosa; corro il rischio di volare per terra ad un passo dalla vetta. Fatto: la piazzetta, la torre. Nel chilometro che segue, in falsopiano, mi concedo il premio dell'ultimo frammento di cioccolato bianco. Soddisfatta. I lunghi giorni lontano dalla bici non hanno poi compromesso così tanto i garretti. In fondo, il fatto di non avere il benché minimo talento per la bici non sempre è uno svantaggio; significa che la situazione, se non altro, non può peggiorare! E poi, in fondo, Albaretto ed io ci vogliamo bene... Lo sa, quella salita lì, che potrebbe mangiarmi in insalata, se solo lo volesse; dal canto mio, è vero che io le vado a passeggiare in testa di continuo, ma lo faccio sempre con molto rispetto, direi con timore reverenziale, con il rapporto da rampichino. Se solo mettessi su boria e tentassi di aggredirla, mi ributterebbe giù a Valle Talloria in un batter d'occhio...
Tutta contenta, mi avvio per la seconda parte del viaggio, quello che, nella mia testa, è già "il ritorno". Secondo i miei calcoli, potrei avere più o meno settanta km alle spalle, e sessanta ancora da percorrere, quando imbocco la strada che, poco oltre i Tre Cunei, va verso Benevello. Blanda discesa, ancora fredda, anche se, finalmente, nelle pozze si vede un po' di acqua allo stato liquido. Benevello e poi Manera: da lì, breve risalita verso Mompiano, che affronto con gran baldanza. Le gambe non hanno battuto ciglio sinora; più o meno, è come se fossi appena partita. Incontro qualche ciclista: come i lombrichi che spuntano subito dopo la pioggia, ecco i freddolosi che mettono il naso fuori adesso, nel primissimo pomeriggio, bardati come se dovessero affrontare la traversata dell'Antartide. Io non sento più nemmeno il freddo: sarà che, oggi, mi sento capace di qualsiasi cosa. Altro che il terremoto in Cile, che pare abbia spostato l'asse terrestre di otto centimetri: con l'euforia che ho addosso oggi, potrei afferrarlo ai Poli, l'asse, e girare la Terra al contrario. Non lo faccio, solo perché adesso qui siamo alla fine dell'inverno, almeno stando a quel che dice il calendario; capovolti, ci ritroveremmo alla fine dell'estate! No, non è proprio il caso.
La discesa su Alba è lunghissima, una decina di km, ma un po' meno fredda delle precedenti, finalmente. Soffia un po' di vento e, in alcuni tratti, è necessario pedalare. Distese di filari a perdita d'occhio, ma i colori dominanti sono ancora il marrone, il verde scuro; nessuna traccia delle tonalità accese dell'estate, se non nei pochi coraggiosi fiorellini azzurri, minuscoli, ai bordi della strada. Dall'altra parte della vallata, si vedono bene i profili di Diano e La Morra. Ma dalle montagne verso nord, verso la Valle d'Aosta, sono evidenti le nuvole scure in arrivo, come promesso. In caso non ci si fosse resi conto di quanto Alba sia vicina, ci pensano le narici a sottolinearlo: gli ultimi km della discesa sono allietati da un profumo penetrante, inebriante, di cioccolato, che inspiro intensamente, manco fossi un aspirapolvere. Meraviglioso!
Complice l'ora di pranzo, riesco a superare Alba senza troppi patemi. Il traffico non manca, ma è sopportabile; in ogni caso, per non saper né leggere né scrivere, mi guardo intorno a mò di periscopio ad ogni metro, vedendo ad ogni pedale sospinto qualche simpaticone che spalanca la portiera senza guardare o svolta infischiandosene delle precedenze. Per non parlare poi dei miei più odiati nemici, i pedoni, quelli che si lanciano ad attraversare la strada come se fossero soli nel deserto... In men che non si dica, torno a passare il Tanaro e vado ad imboccare la stradina che, infilandosi dietro gli stabilimenti della Miroglio, conduce alla terribile rampa di Castelrotto. In effetti, così terribile non è, perché è molto breve; però, a vederla da sotto, sembra che la strada sia stata appoggiata alla collina in verticale... 34x27 e tanta pazienza anche qua; sembra che io pedali al rallentatore, in realtà non è così, è che di meglio non riesco a fare. Il calduccio però, tra sole e fatica, qui è meraviglioso. Raggiunta faticosamente la cima, svolto a destra: un'altra rampa mi attende, quella di Guarene. Un paio di settimane fa, dopo anni in cui mi sono sempre limitata a passare in bici, sono stata qui con mammà, a spasso per il paese: abbiamo scoperto un vero gioiello di edifici ristrutturati con grande gusto e cura, e di giardini elegantissimi.
Oggi passo e basta; l'ultima salita arcigna, per oggi. Poi, un breve tratto di riposo verso Castagnito. E' qui che attacco il tubetto simil-dentifricio di Gianduja. Non l'avessi mai fatto... Svitato con grande maestria il tappo, aperto il tubetto, me lo spremo in bocca con cautela: una folgorazione. Buono, ma non solo buono, di più, fantastico, incredibile! Mi attacco al tubetto con entusiasmo, manco dovessi mungerlo, e pazienza se tutto ciò rischia di causarmi una denuncia per atti osceni in luogo pubblico: nella vita ci sono priorità, il Gianduja è una di queste! A malincuore, però, in discesa devo affrettarmi a riporre il tubetto. Giù in direzione di Vezza; poi, nel tratto di pianura prima del bivio per San Rocco, torno ad armeggiare con il tubetto. Mai e poi mai avrei pensato fosse così buono. La salitella di San Rocco mi sembra un cavalcavia: sarà il cioccolato, o forse il conforto del sole finalmente caldo. In cima, prima esperienza del genere nella mia carriera ciclistica, vengo assalita da un cane lasciato libero, ma con la museruola: parecchio incarognito, sembra. Insieme a lui, un bel volpino fulvo, che si atteggia a cane aggressivo ma ha una fifa blu ed arretra, terrorizzato, dietro un'auto parcheggiata, non appena mi fermo e gli tendo la mano. Breve discesa e poi a destra, via verso l'ultima salita seria della giornata. Qui i ciclisti spuntano come funghi, da soli, in coppia, a gruppetti e grupponi. Su verso Monteu Roero, con buon passo e poca fatica, e, inaudito, senza scomodare il 27. Anzi, negli ultimi tornanti assumo un'andatura in posa molto plastica, in piedi sui pedali... In cuor mio so che sto per morire, ma faccio un po' di scena, solo perché so che è finita. Con la vista su Santo Stefano, sul cocuzzolo di fianco, all'ultimo curvone, ho quasi concluso la mia fatica. Oltre il ponte di Monteu, sulle Rocche in pieno sole, svolto a destra per andare a Ceresole via San Grato e San Bernardo, in modo da tagliare via tutto il traffico; approfitto della blanda risalita per affondare un ultimo colpo ai danni del tubetto di cioccolato. Questa volta non è fame né bisogno, è proprio pura golosità!
Le gemme degli alberi di nocciola sono già gonfie, lì lì per aprirsi; speriamo che resistano ancora un po', perché da domani si annuncia tregenda. Le tartarughe, nel giardino di casa, non si sono ancora fatte vive quest'anno: e di solito quelle bestioline lì non sbagliano... Il vento porta qualche baffo di nuvole in un cielo ancora ostinatamente limpido; una nube bianca sbrindellata s'è impigliata sulla cima del Monviso. Tra le ville e le cascine, a San Grato il campanile mi annuncia che sono da poco passate le due. Verso San Bernardo, i primi cenni del digradare della collina verso la pianura: non più vigneti e noccioleti, ma campi coltivati a filari regolarissimi di minuscoli steli verdi, appena spuntati. Conosco ormai ogni sasso di questa strada che percorro innumerevoli volte, sia a piedi che in bici. Gli ultimi km prima di Ceresole sembrano fatti apposta per riposare le gambe, tra campi appena appena ondulati. Restano poi, oltre il paese, cinque o sei km di strada un po' più trafficata, che ripercorro con la stessa foga dell'andata; questa volta però la pendenza gioca a mio favore. Gli ultimissimi km corrono invece tra campagna e cascine; l'itinerario che mi sono scovata per evitare il viale d'ingresso a Carmagnola, Via Sommariva, stretto e rettilineo, dove passare in bici, a mio parere, è una candidatura per un viaggio premio al reparto di ortopedia, quando va bene.
Le poche decine di metri che mancano a casa sono un'improvviso assalto dei pensieri cattivi, a tradimento: ecco, non puoi ancora dire che è finita; ironia della sorte, potresti cadere o scontrarti proprio qui... Percorro la via come se stessi camminando sulle uova; mi avvicino all'incrocio in punta di ruote. Con la mano sul cancelletto d'ingresso, tiro finalmente un sospiro di sollievo, anche se mi dispiace che sia già finita. 135 km con dislivello indefinibile, potrei dire 1.500 m tanto per abbozzare una cifra, ma non ha molta importanza. Poggio la bici al muro e le sorrido, con gratitudine, e quasi provo rimorso per aver pensato di potermene disfare. No no, io non esisto senza di lei. Ora non mi resta che salire con cautela sul marmo degli scalini d'ingresso: più di una volta le tacchette mi hanno tradita e mi sono ritrovata a terra con le chiappe doloranti. Ma non sarebbe più un incidente in bici: lo declasserei ad un volgare caso di incidente domestico...
Ormai son passati più di due mesi dal fortunatissimo Capodanno in cui il mio giretto in bici si è concluso con volo parabolico sul cofano di una Opel Corsa: siamo a marzo e mi ritrovo con meno di quattrocento km nelle gambe. Onta e disonore, dopo anni ed anni di onorata carriera e percorrenza annua a cinque cifre. In parte, la mia inerzia è stata colpa della stagione siberiana, o forse solo dell'inverno normale che sembra anomalo dopo anni di inverni tiepidi; in piccola parte, però. A fermarmi è stata soprattutto la paura. Non è che mi siano mancate le occasioni per pedalare un po', magari nelle ore centrali della giornata, meno gelide; però, ogni volta, mi sono lasciata travolgere dai pensieri più assurdi e catastrofici, truculente immagini di cadute, di incidenti, di fratture che mi avrebbero costretta all'immobilità per chissà quanto tempo, o anche peggio. Così, quasi sempre, ho finito per indossare le scarpe da corsa e via, a piedi. Quelle poche volte in cui, invece, sono saltata in sella, ho vissuto ore e chilometri di angoscia, con la sensazione di dover precipitare per terra da un attimo all'altro, di sentire la bici che perde i pezzi, di essere travolta; angoscia amplificata dal freddo, dall'umido, dalle giornate uggiose. Sono arrivata a credere che non sarei più salita in sella, e persino a pensare di liberarmi delle bici. Per fortuna, in tutto ciò, ho deciso di sospendere il giudizio: almeno fino alla prima giornata di tepore e sole.
La primissima è stata, infatti, lo scorso martedì; due orette di pedalata strappate all'ufficio, sotto un sole caldo che nulla c'entrava con il clima dei giorni immediatamente precedenti e di quelli a venire. Partita a pedalare con tutto il mio carretto di fobie, rientrata leggera, in senso metaforico s'intende; contenta come una Pasqua, con il primo segno di leggera abbronzatura impresso dai pantaloni sotto il ginocchio. Ed ho cominciato a scrutare le previsioni meteo per il fine settimana: disastrose, ferali, per la domenica, ma più che mai gaudiose per il sabato, a patto di coprirsi bene. Così, ieri ho preso la gran decisione, e sapevo che non mi sarei tirata il bidone, questa volta.
Stamattina il cielo è di un blu incantevole; il sole sta appena sorgendo e, in fondo alla via, tra due ali di palazzi, si distinguono già le montagne, un azzurro uniforme che tra poco sarà il bianco della neve. Ne dev'essere caduta una quantità notevole nei giorni scorsi; il manto è uniforme, fin giù, verso la pianura. Del resto, per domani le previsioni l'han promessa anche qui... La prima luce è violentissima; crea riflessi abbaglianti sulle vetrate dei palazzi. La tentazione vorrebbe che io schizzassi fuori subito: ma sono le sette e, poco fa, in giardino, ho potuto notare, con un certo disappunto, che l'acqua della pioggia dei giorni scorsi, raccolta nei vari secchi e contenitori, è gelata. Uno strato sottile di ghiaccio, che si rompe a toccarlo con un dito, ma c'è. L'aria è tagliente. Mi costringo ad infliggermi ancora un paio di "Sole 24 Ore" arretrati, in attesa che il sole mostri un po' più di convinzione. Con il tepore sulla schiena, la temperatura a zero gradi riesce un po' più sopportabile. Alle otto in punto, saluto il mio idolone peloso e me ne vo. Corazzata da inverno ma non troppo: canotta traforata, pile con il collo alto, una maglietta a maniche corte sopra il pile ed un giacchino antivento sopra tutto. Pantaloni ¾ che una volta erano felpati ed ora sono sottili al punto da perdere quasi i brandelli. Copriscarpe, guantini di seta e guanti di pile sopra; infine, fascia per le orecchie e giacca Gore Tex nel borsello da manubrio, che non si sa mai. Per la gioia dei vicini di casa, gran trambusto in cantina per gonfiare le ruote e tirar fuori la bici, restituita proprio ieri dalle sapienti mani del meccanico. Con un rimbrotto: "Era in decomposizione"... Una volta s'arrabbiava, povero meccanico, lui che tiene così tanto alle sue creature, come fossero tutte figlie sue. Si struggeva, smaniava, mi rimproverava in malo modo. Poi deve aver capito che è tutto inutile, io da quel lato lì non ci sento: pulizia e cura del mezzo meccanico sono amenità che non mi riguardano; non ho voglia né costanza di preoccuparmene. Quando il rumore di ferraglia che la bici produce mentre pedalo supera un certo limite di decibel, semplicemente vado da lui, il mago della brugola, e gli affido l'ammasso di fango e detriti vari sotto cui, scava scava, con un po' di fortuna, si potrà ritrovare il mio velocipede.
Oggi la bici brilla al sole, proprio come canta De Gregori in una delle pochissime canzoni che il mio neurone riesce a sopportare. Poche, proprio poche: non ho il cranio per saper apprezzare le altre. "Canzone impegnata", per me, non è una connotazione positiva... Via, si parte, subito con il sole basso in faccia, che abbaglia. In un attimo sono in campagna, giusto per accorgermi che la temperatura non è esattamente sahariana. Non c'è pozza che non sia ghiacciata; ghiaccio anche nelle bealere, brina sull'erba. Non male, per essere a marzo. Tutt'intorno la corona delle montagne, come se fossero vicinissime – e in effetti, per fortuna, lo sono: da qui, appena fuori Carmagnola, si vedono digradare verso sud. E va tutto bene finché resto lungo la stradina delle cascine: la faccenda si fa ardua quando invece sbuco sulla strada statale. Per i prossimi dieci km almeno, avrò il sole, basso ed accecante, proprio in faccia. E pazienza, per me non è un problema, anzi; il guaio è che l'avranno in faccia anche gli automobilisti a cui toccherà l'ingrato compito di sorpassarmi. Speriamo che mi vedano... Nel dubbio, io accelero: è contro i miei sacri principi di ciclista da turismo, lo so, ma qui si tratta di portare a casa la pellaccia. Mi sposto il più possibile a bordo strada ogni volta che alle spalle sento avvicinarsi un motore, sperando di non essere travolta; la mia fiducia nel genere umano automobilistico è quasi nulla. Soprattutto da quando ho sperimentato, qualche settimana fa, l'esperienza della coda all'ASL di Torino, allo sportello per il rinnovo delle patenti, per mia mamma: ero in compagnia di un bel po' di simpatici soggetti che candidamente si lagnavano di revoche di patenti, a loro dire, immeritate. Tanti costretti a sottoporsi ad esami vari, compreso l'esame del capello, che dubito siano richiesti a chi è stato cuccato per semplice eccesso di velocità. Mi sa che ci sono di mezzo gomiti alti, nasi aspiranti et similia. Col cavolo che un pilota in quello stato, e con la luce violenta proprio negli occhi, si accorge del ciclista... Per fortuna, stamattina circolano solo automobilisti senza vizi, perché supero indenne Ceresole ed all'ultima rotonda prima di Sommariva Perno arrivo viva e vegeta; un po' ibernata, questo sì, ma è inevitabile. Il freddo punge però solo nei tratti all'ombra; altrove, i raggi sono forieri di teporino e conforto. A patire sono soprattutto i piedi, nonostante i copriscarpe. Le ho già provate tutte: calze spesse, doppie calze, copriscarpe, scarpe invernali. Non c'è nulla da fare; le mie povere appendici inferiori si congelano a pochi metri da casa et voilà, si scongelano quando rientro, con molto comodo. La leggera salita verso Sommariva Perno, finalmente in direzione tale da non avere più il sole negli occhi, mi concede un minimo di calore prima della discesa, ed anche, in centro paese, una zaffata di profumo di pane fresco. Qui mi si tenta, mi si vuol mettere in difficoltà...
Superate le prime curve, con vista spettacolare su Langhe e montagne, svolto a destra, verso Pocapaglia. Il tratto di strada più gelido della giornata, quello che precede il bivio per Valle Rossi; è il più freddo sempre, anche nei giorni di bel tempo, forse perché corre al fondo di una valletta in ombra per buona parte del mattino. Guardo con orrore la stradina che si stacca sulla destra e sale su, a Pocapaglia, con una pendenza da rampichino: orrore... L'ho affrontata una volta sola, faticando non poco a tenere la ruota anteriore incollata all'asfalto; non è stata un'esperienza piacevole. Per me, una salitella più blanda, due tornanti all'ombra che mi riportano sulla bella balconata verso la collina. Bivio per Macellai, in mezzo alle ville; semaforo verde, incredibile dictu. Il rettilineo verso Pollenzo è da sempre malridotto, con l'asfalto, come si dice da queste parti, "grottoluto" e pieno di buche. Ma il tremore del manubrio oggi è quasi gradito, perché risveglia un po' di circolazione nelle dita intirizzite. Oltre la rotonda, l'ultimo tratto di strada che davvero mi preoccupa: un chilometro prima del bivio per La Morra, carreggiata stretta e caotica e passaggio su uno dei tanti ponti sul Tanaro. La luce si fa pian piano più forte; confido che la salita, tutta esposta al sole, sia una goduria per le mie ossa infreddolite. Infatti è così, grazie anche alla pendenza che è subito impegnativa. La prima salita degna di questo nome della giornata: son così contenta che mi verrebbe da affrontarla di slancio... Solo che il mio slancio durerebbe si e no duecento metri, mentre La Morra è a qualche chilometro, cinque o sei. Meglio prenderla con cautela e godersi il panorama: le montagne, immancabili, e poi Bra e la pianura. Sembra di avere un binocolo, tanto sono nitidi oggi i dettagli. Caldo sul viso e sulle orecchie, sotto la fascia di pile. Fatico un po', per arrivare a Rivalta: però, pensavo peggio, molto peggio, dopo tanto tempo di inattività ciclistica quasi totale. Le auto occupano quasi per intero la piazzetta: sarà ora di messa, nell'orrenda chiesa che qualche architetto con ambizioni da artista ha tirato su proprio qui. Proseguo la salita, ora più morbida, tra frutteti e vigneti, ancora grigi, spogli di gemme che non si fanno vedere. Tra i filari, si affaccendano loschi figuri che brandiscono cesoie e tagliano qua e là. Uno splendido labrador, a bordo strada, mi ignora, tutto intento com'è a puntare verso il folto del noccioleto: intuisco anch'io, subito dopo, la presenza del padrone.
Euforia, ecco. Se non faccio attenzione, va a finire che mi si stampa in faccia un sorriso da un orecchio all'altro, e chi m'incontra può pensar male della mia condizione psichiatrica. Ne avrebbe tutte le ragioni, non solo oggi, ma oggi in particolare. Ed io avrei voluto smettere di pedalare? Vendere le bici? Ma se in questo preciso istante, in questo bellissimo luogo, sono l'essere più felice al mondo... Mi immetto sulla strada che sale a La Morra da Cherasco e poi su, l'ultima rampa, davanti alla caserma dei Carabinieri che ha l'aspetto – e infatti lo è – di una villetta a schiera. Tiro su la cerniera del giacchino antivento; mi attende una discesa gelida. Un rapido sguardo sulle Langhe, da quassù, sui fazzoletti scuri che si scambiano con i fazzoletti ancora bianchi di neve, poi giù, pronta a soffrire. Scendo da Santa Maria o da Annunziata? Santa Maria significa un lungo tratto di falsopiano in discesa, in ombra e freddo, per raggiungere Gallo. Da Annunziata invece si fila giù, dritti, fino allo stradone che congiunge Barolo a Gallo, un chilometro o due di pianura dove, in ogni caso, si spinge e ci si scalda. Vada per Annunziata. Con molta cautela: il timore della discesa, chissà poi perché, nella stagione fredda in me è ancor più vivo del solito, se possibile. E poi, quel rettilineo subito oltre la rotonda, che termina con una curva secca a destra ma sembra un trampolino verso il vuoto... Lo spettacolo che si gode da quassù è meraviglioso, anche se in realtà non è natura; i filari di viti, disegnati con squadra e goniometro, a perdita d'occhio, e qualche sparuto albero sopravvissuto per scommessa, poco hanno a che fare con la natura.
All'incrocio con lo stradone di fondovalle arrivo con le dita mezze congelate. Lo stop è sacro: di questi tempi, mi ritrovo a cedere la precedenza non solo quando ne ho l'obbligo, ma anche quando vi avrei diritto io. Mi immetto verso Gallo: di lì a poco, mi supera la Panda del postino, che, subito dopo, pensa bene di svoltare a destra, tagliandomi la strada. Mi viene istintivo di aggrapparmi ai freni; la schivo per un pelo... Poi, con l'autocontrollo e la buona disposizione d'animo che mi contraddistinguono, raccolgo tutto il fiato che ho in corpo: "Che ca%%o fai... - altro respirone – Str%%%%!". Ma dico io, si può essere così menefreghisti ed imbecilli? Ma un minimo di sale in zucca, un minimo! Non dico il rispetto del prossimo, ci mancherebbe altro, o il dispiacere di far del male, ma almeno un po' di sano egoismo; non lo capisci, cretino al cubo, che se m'investi o mi fai cadere, tu che sei sul lavoro andrai ad avere un sacco di grane? Perché è pur vero che non ho voluto infierire contro il tapino che mi ha tagliato la strada, quel giorno disgraziato, perché in fondo s'è spaventato tantissimo pure lui, ed è stato corretto, e sono sicura che abbia detto il vero, sostenendo di non avermi vista. Ma tu mi hai appena sorpassata, non puoi non avermi vista. Te ne sei fregato e basta...
Non reagisce, il malnato, forse non mi ha nemmeno sentita. Che possa strozzarsi in pausa pranzo con il suo stesso panino. Via di qua: prossima salita, Serralunga d'Alba. E' parecchio tempo che non salgo da quella parte lì: di solito, punto dritta verso Monforte, via Perno o Castello, a caccia di pendenze a doppia cifra; oggi però preferisco restare sulle vie principali, per evitare di incappare in fango, sabbia o rimasugli di neve. Passo accanto all'immenso ingresso della tenuta Fontanafredda e via con i primi due tornanti, in cui approfitto della situazione per attaccare le mie risorse alimentari. La salita è l'unica circostanza in cui riesco a staccare una mano dal manubrio. Oggi ho deciso di essere virtuosa e di mettere nelle tasche il necessario per un'alimentazione varia: cioccolato bianco... E cioccolato nero. Per la precisione, mezza tavoletta di cioccolato bianco con mandorle e miele, ghiottissimo regalo di natale di un conoscente svizzero, ed un tubetto, tipo dentifricio, altrettanto ghiottissimo omaggio di mia cugina, che è stata di recente alla manifestazione "Eataly" a Torino e che, di fronte a tanta materia per appetiti robusti, ha pensato ovviamente a me.
La salita di Serralunga è tranquilla; altri la definirebbero "pedalabile": io mi accontento di dire che risparmio le tre coroncine posteriori più grandi, ma non è che stia proprio andando a spasso. Alla mia destra, i vari piani di colline: la torre rotonda di Castiglione Falletto, il castello di Perno e, sullo sfondo, la vetta troncata del Monviso, che, da qui, appare più tozzo e spuntato rispetto all'immagine che ammiro dal balcone di casa. Ancora poca strada e mi trovo davanti il castello di Serralunga: controluce, sembra un'enorme lama nera conficcata nella collina, tanto è sottile, visto da qui. Severo, senza fronzoli, imponente. Sono stata in visita qualche anno fa, accompagnando mia mamma ed una sua collega; una visita privilegiata, solo per noi tre ed una coppia di turisti. Oltre il paese, qualche chilometro di salite e discese alternate, morbide, in cresta alla collina tondeggiante; poi un tornante che porta su al bivio con la stradina che scende giù a Valle Talloria. Ancora avanti, una splendida cascina ristrutturata, con un cancello in ferro che è da solo un'opera d'arte. Più avanti, ahimé, una costruzione sulla destra che invece è un pugno in un occhio: già da lontano, ha l'aria di essere qualcosa di molto pretenzioso. Infatti, passando accanto all'incrocio con la stradina che vi conduce, un cartellone conferma la mia impressione: ristorante, ecc. ecc... Spa. Io mi domando che cavolo sarà mai una spa. Per me, anche prima di sostenere l'esame di stato come dottore commercialista, una spa è sempre stata una sola cosa: società per azioni. Cosa sia una spa a cinque stelle con tanto di "L" finale, bacio in fronte e calcio nel deretano, lo ignoro. Ma, chissà perché, credo sia meglio continuare ad ignorarlo. Non mi servono le cinque stelle, mi bastano le due ruote per trovare la mia felicità!
La strada passa intorno ad una cascina diroccata, "Cascina Arione", si legge su un cartello appeso ad un albero. Di ciò che una volta era, probabilmente, il fienile, restano soltanto i piloni in mattoni. Che bella foto, se solo avessi portato la macchina fotografica. Ma l'ho lasciata a casa apposta: con due strati di guanti, non sarei riuscita a scattare "al volo" e, d'altro canto, non volevo tentazioni che mi costringessero a qualche sosta qua e là. Si smonta di sella solo agli stop! Manca poco all'incrocio con la strada che collega Monforte a Roddino. Mi ci immetto osservando, con la coda dell'occhio, un ciclista che arriva da Monforte. Mi sorpasserà tra poco... A Roddino, la strada spiana proprio davanti alla trattoria; si respira a pieni polmoni, per rifiatare ma soprattutto per aspirare i profumi di pietanze. Nessuno mi sorpassa: forse il ciclista misterioso ha svoltato per Serralunga. Breve discesa, sufficiente a congelarmi. Non credo manchi molto a mezzogiorno, ma il ghiaccio non accenna a cedere. Le profonde impronte lasciate dalle ruote dei trattori nel fango, a bordo strada, sono pozze gelate; sull'asfalto, di tanto in tanto, una colata di neve che si scioglie. Un altro tratto di risalita oltre la chiesetta; si passa in una strettoia rimasta così, ormai da tempo, da quando la corsia di destra è franata. Alla curva successiva, inequivocabile rumore di cambio: mi volto, eccolo, il ciclista. Attacchiamo bottone con il poco fiato che resta ad entrambi; il collega è di La Morra e va verso la Pedaggera.
Invece, al successivo incrocio, io m'infliggo la lunga discesa di Costepomo. Perché non sia mai che, nel mio primo vero giro del ritorno in sella, il primo dell'anno che sia davvero gioioso, io non vada a zampettare sulla salita di Albaretto Torre. Ancora una volta, davanti agli occhi, in discesa, il castello di Serralunga e l'immancabile Monviso, che veglia su tutto. In una curva, una strettoia che non mi aspettavo: una frana s'è portata via metà della strada, che si è assestata mezzo metro più in giù. Tornante dopo tornante, con le mani che s'irrigidiscono sui freni, e ghiaccio, ancora ghiaccio. Pare incredibile, con un sole così limpido e violento. E nemmeno una nuvola all'orizzonte. Com'è possibile che domani, davvero, nevichi? Eppure i vari siti meteo lo annunciano da giorni. Butto l'occhio intorno: si intravede un'auto che risale una delle stradine minuscole dirette, da Valle Talloria a Serralunga, ma chissà com'è l'asfalto. Poco importa, ci tornerò più avanti nella stagione. Al bivio, destra, Albaretto. 34x27, è il meglio che ho a disposizione, speriamo che basti. E poi piano, piano, con pazienza, giù una gamba, giù l'altra e stringere i denti. Ce la faccio, oh se ce la faccio. Come andrà la salita, lo so già ancor prima del primo tornante. In cima son sempre arrivata, per carità; ma, se già soffro lì, so che soffrirò fino in punta. Oggi, nessuna traccia di sofferenza. Ho una voglia matta di rivederla, questa strada, metro per metro. Così, arranco pian piano, in compagnia prima di un tamarro con la Punto nera che passa sparando musica "tunz-tunz" a tutto volume, e poi di un buon numero di persone in stivaloni e cappellaccio, al lavoro tra i filari delle viti. Lo strappo più duro, alla cappelletta, e poi un altro, verso l'agriturismo. Un anziano, lì sul cancello, mi incoraggia: "Forza, che dopo la salita c'è sempre la discesa, stia tranquilla!". Vero. E' un'affermazione molto meno ovvia di quel che può sembrare. Con la bici è proprio così. Nella vita, un po' meno; ci sono persone per cui è tutto in discesa, altre per cui la salita sembra non finire mai. A me, per fortuna, è toccata la sorte della prima categoria; non certo per merito mio.
Alla prima curva in cui la strada spiana, cioè, scende sotto il 10%, tre cagnetti si lanciano all'inseguimento: il padrone, intento a trafficare con un macchinario indefinibile, li richiama urlando come un ossesso, in un linguaggio altrettanto indefinibile. Le tre bestiole, tutt'altro che minacciose, se ne infischiano. Ripartire in salita è una bella grana... Ormai si vede già la torre di Albaretto. Mancano un paio di strappi severi, ma ormai è fatta. Un giorno o l'altro suonerò alla porta del medico che ha la targa in una delle ultime curve... Nemmeno sull'ultima rampa d'ingresso in paese ho il coraggio di alzarmi in piedi: la strada è sporca e scivolosa; corro il rischio di volare per terra ad un passo dalla vetta. Fatto: la piazzetta, la torre. Nel chilometro che segue, in falsopiano, mi concedo il premio dell'ultimo frammento di cioccolato bianco. Soddisfatta. I lunghi giorni lontano dalla bici non hanno poi compromesso così tanto i garretti. In fondo, il fatto di non avere il benché minimo talento per la bici non sempre è uno svantaggio; significa che la situazione, se non altro, non può peggiorare! E poi, in fondo, Albaretto ed io ci vogliamo bene... Lo sa, quella salita lì, che potrebbe mangiarmi in insalata, se solo lo volesse; dal canto mio, è vero che io le vado a passeggiare in testa di continuo, ma lo faccio sempre con molto rispetto, direi con timore reverenziale, con il rapporto da rampichino. Se solo mettessi su boria e tentassi di aggredirla, mi ributterebbe giù a Valle Talloria in un batter d'occhio...
Tutta contenta, mi avvio per la seconda parte del viaggio, quello che, nella mia testa, è già "il ritorno". Secondo i miei calcoli, potrei avere più o meno settanta km alle spalle, e sessanta ancora da percorrere, quando imbocco la strada che, poco oltre i Tre Cunei, va verso Benevello. Blanda discesa, ancora fredda, anche se, finalmente, nelle pozze si vede un po' di acqua allo stato liquido. Benevello e poi Manera: da lì, breve risalita verso Mompiano, che affronto con gran baldanza. Le gambe non hanno battuto ciglio sinora; più o meno, è come se fossi appena partita. Incontro qualche ciclista: come i lombrichi che spuntano subito dopo la pioggia, ecco i freddolosi che mettono il naso fuori adesso, nel primissimo pomeriggio, bardati come se dovessero affrontare la traversata dell'Antartide. Io non sento più nemmeno il freddo: sarà che, oggi, mi sento capace di qualsiasi cosa. Altro che il terremoto in Cile, che pare abbia spostato l'asse terrestre di otto centimetri: con l'euforia che ho addosso oggi, potrei afferrarlo ai Poli, l'asse, e girare la Terra al contrario. Non lo faccio, solo perché adesso qui siamo alla fine dell'inverno, almeno stando a quel che dice il calendario; capovolti, ci ritroveremmo alla fine dell'estate! No, non è proprio il caso.
La discesa su Alba è lunghissima, una decina di km, ma un po' meno fredda delle precedenti, finalmente. Soffia un po' di vento e, in alcuni tratti, è necessario pedalare. Distese di filari a perdita d'occhio, ma i colori dominanti sono ancora il marrone, il verde scuro; nessuna traccia delle tonalità accese dell'estate, se non nei pochi coraggiosi fiorellini azzurri, minuscoli, ai bordi della strada. Dall'altra parte della vallata, si vedono bene i profili di Diano e La Morra. Ma dalle montagne verso nord, verso la Valle d'Aosta, sono evidenti le nuvole scure in arrivo, come promesso. In caso non ci si fosse resi conto di quanto Alba sia vicina, ci pensano le narici a sottolinearlo: gli ultimi km della discesa sono allietati da un profumo penetrante, inebriante, di cioccolato, che inspiro intensamente, manco fossi un aspirapolvere. Meraviglioso!
Complice l'ora di pranzo, riesco a superare Alba senza troppi patemi. Il traffico non manca, ma è sopportabile; in ogni caso, per non saper né leggere né scrivere, mi guardo intorno a mò di periscopio ad ogni metro, vedendo ad ogni pedale sospinto qualche simpaticone che spalanca la portiera senza guardare o svolta infischiandosene delle precedenze. Per non parlare poi dei miei più odiati nemici, i pedoni, quelli che si lanciano ad attraversare la strada come se fossero soli nel deserto... In men che non si dica, torno a passare il Tanaro e vado ad imboccare la stradina che, infilandosi dietro gli stabilimenti della Miroglio, conduce alla terribile rampa di Castelrotto. In effetti, così terribile non è, perché è molto breve; però, a vederla da sotto, sembra che la strada sia stata appoggiata alla collina in verticale... 34x27 e tanta pazienza anche qua; sembra che io pedali al rallentatore, in realtà non è così, è che di meglio non riesco a fare. Il calduccio però, tra sole e fatica, qui è meraviglioso. Raggiunta faticosamente la cima, svolto a destra: un'altra rampa mi attende, quella di Guarene. Un paio di settimane fa, dopo anni in cui mi sono sempre limitata a passare in bici, sono stata qui con mammà, a spasso per il paese: abbiamo scoperto un vero gioiello di edifici ristrutturati con grande gusto e cura, e di giardini elegantissimi.
Oggi passo e basta; l'ultima salita arcigna, per oggi. Poi, un breve tratto di riposo verso Castagnito. E' qui che attacco il tubetto simil-dentifricio di Gianduja. Non l'avessi mai fatto... Svitato con grande maestria il tappo, aperto il tubetto, me lo spremo in bocca con cautela: una folgorazione. Buono, ma non solo buono, di più, fantastico, incredibile! Mi attacco al tubetto con entusiasmo, manco dovessi mungerlo, e pazienza se tutto ciò rischia di causarmi una denuncia per atti osceni in luogo pubblico: nella vita ci sono priorità, il Gianduja è una di queste! A malincuore, però, in discesa devo affrettarmi a riporre il tubetto. Giù in direzione di Vezza; poi, nel tratto di pianura prima del bivio per San Rocco, torno ad armeggiare con il tubetto. Mai e poi mai avrei pensato fosse così buono. La salitella di San Rocco mi sembra un cavalcavia: sarà il cioccolato, o forse il conforto del sole finalmente caldo. In cima, prima esperienza del genere nella mia carriera ciclistica, vengo assalita da un cane lasciato libero, ma con la museruola: parecchio incarognito, sembra. Insieme a lui, un bel volpino fulvo, che si atteggia a cane aggressivo ma ha una fifa blu ed arretra, terrorizzato, dietro un'auto parcheggiata, non appena mi fermo e gli tendo la mano. Breve discesa e poi a destra, via verso l'ultima salita seria della giornata. Qui i ciclisti spuntano come funghi, da soli, in coppia, a gruppetti e grupponi. Su verso Monteu Roero, con buon passo e poca fatica, e, inaudito, senza scomodare il 27. Anzi, negli ultimi tornanti assumo un'andatura in posa molto plastica, in piedi sui pedali... In cuor mio so che sto per morire, ma faccio un po' di scena, solo perché so che è finita. Con la vista su Santo Stefano, sul cocuzzolo di fianco, all'ultimo curvone, ho quasi concluso la mia fatica. Oltre il ponte di Monteu, sulle Rocche in pieno sole, svolto a destra per andare a Ceresole via San Grato e San Bernardo, in modo da tagliare via tutto il traffico; approfitto della blanda risalita per affondare un ultimo colpo ai danni del tubetto di cioccolato. Questa volta non è fame né bisogno, è proprio pura golosità!
Le gemme degli alberi di nocciola sono già gonfie, lì lì per aprirsi; speriamo che resistano ancora un po', perché da domani si annuncia tregenda. Le tartarughe, nel giardino di casa, non si sono ancora fatte vive quest'anno: e di solito quelle bestioline lì non sbagliano... Il vento porta qualche baffo di nuvole in un cielo ancora ostinatamente limpido; una nube bianca sbrindellata s'è impigliata sulla cima del Monviso. Tra le ville e le cascine, a San Grato il campanile mi annuncia che sono da poco passate le due. Verso San Bernardo, i primi cenni del digradare della collina verso la pianura: non più vigneti e noccioleti, ma campi coltivati a filari regolarissimi di minuscoli steli verdi, appena spuntati. Conosco ormai ogni sasso di questa strada che percorro innumerevoli volte, sia a piedi che in bici. Gli ultimi km prima di Ceresole sembrano fatti apposta per riposare le gambe, tra campi appena appena ondulati. Restano poi, oltre il paese, cinque o sei km di strada un po' più trafficata, che ripercorro con la stessa foga dell'andata; questa volta però la pendenza gioca a mio favore. Gli ultimissimi km corrono invece tra campagna e cascine; l'itinerario che mi sono scovata per evitare il viale d'ingresso a Carmagnola, Via Sommariva, stretto e rettilineo, dove passare in bici, a mio parere, è una candidatura per un viaggio premio al reparto di ortopedia, quando va bene.
Le poche decine di metri che mancano a casa sono un'improvviso assalto dei pensieri cattivi, a tradimento: ecco, non puoi ancora dire che è finita; ironia della sorte, potresti cadere o scontrarti proprio qui... Percorro la via come se stessi camminando sulle uova; mi avvicino all'incrocio in punta di ruote. Con la mano sul cancelletto d'ingresso, tiro finalmente un sospiro di sollievo, anche se mi dispiace che sia già finita. 135 km con dislivello indefinibile, potrei dire 1.500 m tanto per abbozzare una cifra, ma non ha molta importanza. Poggio la bici al muro e le sorrido, con gratitudine, e quasi provo rimorso per aver pensato di potermene disfare. No no, io non esisto senza di lei. Ora non mi resta che salire con cautela sul marmo degli scalini d'ingresso: più di una volta le tacchette mi hanno tradita e mi sono ritrovata a terra con le chiappe doloranti. Ma non sarebbe più un incidente in bici: lo declasserei ad un volgare caso di incidente domestico...
giovedì 4 marzo 2010
2 marzo 2010 - Passeggiata notturna sopra Arenzano
Non si può proprio dire che io oggi sia stata una lavoratrice modello. A parte l'ora passata a pedalare sui rulli prima dell'alba, ho già rosicchiato una mezz'ora da appiccicare alla pausa pranzo per imbastire un giretto in bici: con una giornata così, solitaria gemma di sole e tepore in una stagione di clima uggioso, umido e gelido, non approfittarne sarebbe stato un sacrilegio. Ed ora, alle sei e mezza, sono ancora in fuga. La fida Opel ed io galoppiamo, all'ultima luce del tramonto, destinazione mare. Non fare oggi quel che puoi fare domani, dice una versione saggia del proverbio: esatto, alle faccende dell'ufficio penserò domani; questa sera, al cuore non si comanda, alle gambe tantomeno. I garretti sono ansiosi di calpestar sentiero.
Arrivo ad Arenzano dopo un'ora e tre quarti, anche un po' in ritardo. Il guaio è che, sulla Torino Savona, riesco a tagliare i tempi solo quando posso parimenti tagliare, senza troppi patemi, tutte le innumerevoli curve; ma il traffico del tardo pomeriggio di un giorno feriale è tale da sconsigliare caldamente la pratica, a meno che non si sia deciso di andare a misurare personalmente la velocità di caduta di un grave da un viadotto. Ma non è il mio caso; a me la fisica non è mai andata a genio.
Matteo è già lì, ovviamente in bici, ovviamente in pantaloncini corti. Non si può dire che la temperatura sia siberiana, ma io a scoprire cotanta superficie di epidermide aspetterei ancora almeno un paio di mesi... Ormai rinuncio a stupirmi. Poveretto, già in questi giorni il clima lavorativo per lui è più frenetico del solito; poi, mi ci metto anche io con i miei capricci di camminate notturne... Ma è colpa mia se è tutto così bello da queste parti?
Frugale cena in auto, a base di immancabile focaccia: bianca e al formaggio, pura goduria. Matteo, che è un salutista, si concede anche yogurt e frutta; io no, non sia mai che il mio stomaco si abitui a gestire cibi men che spazzatura. Poi, veloce trasferimento a poca distanza, su per una stradina ripidissima. Parcheggiamo l'auto alla partenza della strada sterrata che conduce alla Gava, ma non è quella la nostra prima destinazione. L'itinerario prevede di raggiungere, in primis, il lago della Tinna.
In un attimo, Matteo ha cambiato divisa: da quella ciclistica a quella montanara. Manco fosse un camaleonte. Mi domando dove stipi tutta 'sta roba e come faccia ad essere così rapido... Per me, il cambio d'abito volante è sempre un cruccio! Mi ci vorrebbe un gabbiotto portatile, tipo gli spogliatoi dei magazzini d'abbigliamento, con le tendine. Tutto pronto: si parte, sotto un cielo stellato che più non si può. Potrebbero essere le otto e mezza, forse le nove meno un quarto, chissà, non ha molta importanza. A me è sufficiente rientrare domattina alle otto e mezza in ufficio; le ore di sonno perse si recupereranno, prima o poi...
Ci avviamo lungo una stradina sterrata, all'inizio piana e bella comoda per procedere affiancati. Speravo, in tutta sincerità, di incappare in una sera un po' più calda; invece, il freddo passa senza problemi la stoffa sottile dei pantaloni. E martella il crapone, protetto solo dalla fascia per le orecchie. Mannaggia a me: il berretto di pile non sarebbe stato affatto eccessivo... I primi km se ne vanno, come sempre, nel racconto delle ultime novità, per lo più lavorative. Le luci della costa sono ancora troppo vicine perché il buio del sentiero possa ispirarmi paura; le montagne dall'altro lato della valle sono una massa scura, indistinta, contro il firmamento. Calma e sangue freddo, Gian. Non ho ancora dimenticato – e come dimenticarlo? - l'incontro con la carcassa mezza spolpata della pecora, quel mattino in cui Matteo ed io, dopo aver passato la notte in tenda a poca distanza, tornavamo verso la Gava. S'era deciso che fosse opera dei lupi: e sarà pur vero che il lupo non attacca l'uomo, ma ammetto che l'incontro con una rappresentanza della specie non mi riposerebbe poi troppo. Del resto, siamo sempre noi ad invadere il loro territorio, non viceversa; siamo noi a dover chiedere permesso e, ahimé, a dover pagare le eventuali conseguenze di un eccesso di prepotenza.
Man mano che il buio si fa più buio, però, non posso fare a meno di drizzare le orecchie ad ogni minimo fruscìo, il più delle volte provocato poi da me stessa o da Matteo, che cammina davanti a me. Tronchi e rami, confusi nell'oscurità, hanno un aspetto inquietante; forse perché riesco ad osservarli solo di sbieco: se dirotto lo sguardo via dal sentiero, m'inciampo all'istante. Il sentiero, in alcuni punti, è sorretto da muretti in pietra e corre accanto ad un bel salto, di cui al buio non si vede il fondo. Matteo, sempre premuroso, si preoccupa che io ci passi indenne: ma il vuoto, se non lo vedo, non mi fa così paura.
Ruscelletti attraversano il sentiero ogni pochi metri: io ho indossato, vista la passeggiata, un paio di scarpe da sentiero vecchie e malconce, che, soprattutto, non sono impermeabili; in men che non si dica, mi ritrovo con i piedi zuppi. E me li terrò zuppi fino a casa, dal momento che non ho portato scarpe di ricambio.
La chiacchiera di Matteo riesce a distrarmi un po' dai miei timori. Ma io stessa sono, con mia meraviglia, abbastanza tranquilla. Sul chi va là, ma tranquilla. L'unico animale in cui ci imbattiamo, infatti, è innocuo: un daino, sentenzia Matteo, che resta un po' a guardarci, da sotto in su, forse abbagliato dalle luci delle nostre frontali, e poi sparisce in mezzo al bosco, con un guizzo del codino bianco. In sottofondo, rumore di acqua che scorre impetuosa: un lungo tratto di saliscendi ci porta alla prima grande pozza formata dal torrente, d'acqua limpidissima, riflessi verdi ed una bellissima cascata che ci si tuffa. Per arrivare al lago vero e proprio, bisogna salire lungo le sponde rocciose del torrente: passo il primo scalino, passo il secondo, ma poi si tratta di attraversare la corrente... E lì mi fermo. E' davvero un passo da niente, lo vedo da sola; Matteo insiste, "dai, è facilissimo, ti tengo io", passa più e più volte da una parte all'altra del minuscolo guado con immensa disinvoltura. Ma non c'è niente da fare, io non mi fido; ho paura dell'appoggio scivoloso e della corrente così forte e subito profonda, ho paura di cadere e battere malamente. Matteo non è certo un esempio incoraggiante; per lui qualsiasi cosa che abbia a che fare con un sentiero risulta facile e naturalissima: uno che per passatempo s'infila nelle grotte non teme certo un ruscelletto... No, no e no, mi dispiace, io lì non passo. E più il poveretto insiste, più io mi arrocco sulla mia posizione. Ecco, forse, se fosse giorno, se fossi da sola ad affrontare l'ostacolo, o semplicemente se fossi qui in un altro giorno, con un'altra disposizione d'animo: conosco bene le mie paure, oggi ci sono e domani no, chissà, forse passerei. Ma stasera no, non posso. Così Matteo se ne va su da solo; vedo la sua luce allontanarsi e sparire. Un attimo di panico: mi ritrovo qui, in mezzo al bosco e al buio, e da sola. E, chissà poi perché, sarei del tutto indifferente se, nella stessa situazione, avessi sotto i piedi una strada asfaltata anziché un sentiero. Calma Gian, calma e sangue freddo. Guardati intorno, solo alberi ed il fragore della cascata. E la luce di Matteo che ricompare, in alto, indugia qua e là e poi s'avvicina. Tutto offeso, lui, a chiedermi con una voce grave che non gli avevo mai sentito: "Perché non hai voluto passare?". Elementare Watson, domanda da un milione di dollari. Perché ho paura. E' così difficile da accettare, che uno possa aver paura? Beh, forse sì, almeno nel mio caso, dato che, lo so benissimo, quasi tutte le mie paure sono assurde, esagerate, irrazionali. Ma che ci posso fare? E' una brutta bestiaccia, la paura; se poi le lascio strada, è finita, allora sì che posso far danni. Riesco a superarla, quasi sempre, solo se con me c'è qualcuno di cui mi fido ciecamente, ma per cui non provo alcun affetto particolare: Matteo no, non è proprio la persona giusta, avrei troppa paura di far del male anche a lui, oltre che a me stessa, anzi, ancor più paura. Insomma, ci sarebbe materia per uno strizzacervelli, ma di quelli bravi!
Ripercorriamo un tratto del sentiero dell'andata, fino ad incappare in un bivio verso sinistra. Aggiudicato, si va da quella parte, in direzione della Gava, ma anche del Ponte Isabella. Un ponticello dall'aspetto poco rassicurante, che abbiamo visto dall'alto in occasione dell'ultima bella camminata da queste parti, il 2 gennaio scorso. Cammina e cammina, mentre le montagne dall'altro lato della valle sono ora più luminose e nitide: se ne vedono le cime coperte di neve. Una luce azzurra, quasi di neon; è la luna che sta salendo, alle spalle dei monti dalla nostra parte; è per quello, che non la vediamo, ma ne vediamo l'effetto. Ancora lungo saliscendi: guardo di fronte a me, ma non sono capace di intuire l'itinerario del sentiero in quell'enorme unica massa scura che mi sta di fronte. Però sento il fragore dell'acqua del torrente, chissà dove; sembra molto lontano, ma, come osserva Matteo, non può esserlo: l'aria è troppo fredda. In effetti, c'è da rabbrividire... Il ponticello spunta di lì a poco: una passerella di cemento, sorretta da travi in ferro, direi; l'aspetto è tutt'altro che solido, anche se di certo la struttura è lì da un bel po' di tempo ed è destinata a restarci a lungo. Io però non ci passo e guato con una certa inquietudine Matteo che va su e giù e si sporge dal parapetto: freno a fatica l'impulso di urlargli "Vieni via di lì!". Come se non bastasse, poi, il marrano si dedica all'equilibrismo sulle rocce che passano accanto al baratro; vedo la lucina che fa tutto il giro intorno alla conca, fino all'estermo opposto; indugia un po' e poi si riavvicina. Certo che non sono proprio fatta per la vita selvaggia, io... Tutto quel che è meno di un sentiero stabile sotto le scarpe mi mette in agitazione. L'equilibrio ed io non abbiamo proprio alcun punto d'incontro.
Si torna indietro: meno male, perché lì, ferma, rischiavo il congelamento. La luce della luna scende sempre più verso il fondo della valle; in lontananza, si vedono le luci della costa. Ma il nostro itinerario ci porta ancora a sinistra, lungo il sentiero che sale alla Gava. Sale, si fa per dire; a me sembra che, a parte qualche strappo, non salga proprio mai. Il silenzio è assoluto; anche il rumore dell'acqua ormai è lontano, attutito. Ad un bivio inatteso, la guida turistica sentenzia: "Andiamo dritto, l'importante è non finire dall'altro lato della valle; ma ce ne accorgiamo, se ci finiamo...". Agli ordini, io seguo. Anche in pianura, fatico a tenere il passo di Matteo, che spesso si volta per controllare se ci sono ancora. Ormai conosce bene la mia inettitudine ed i miei attacchi di paura: mi sa che li teme... Io invece ci convivo con una certa serenità; diciamo che non posso fare altro che accettare i miei limiti: in fondo qualche qualità buona ce l'ho anch'io; mi limito a coltivare quella, e pazienza.
Le stelle non si vedono quasi più. In men che non si dica, le nuvole se le sono mangiate. L'aveva promesso, il meteo: peggioramento per mercoledì, che poi sarebbe ora, visto che non credo manchi molto alla mezzanotte. Già durante il viaggio in auto, ho visto le lunghissime striscie in arrivo da dietro il Monviso. Speriamo di essere graziati per stasera. "Ma siamo sicuri che non stiamo finendo davvero dall'altro lato della valle?". Non mi trattengo più: questo sentiero non sale mai, e intorno a me non vedo che contorni di montagne ancora troppo alte; dove andiamo a finire? Detto, fatto; compare un bivio sulla destra che subito impenna e ci fa prendere quota. Sbuffo un po' di più, ma sono finalmente sollevata. Incredibile, come quel poco di senso di orientamento che già mi ritrovo in pieno sole sia completamente sconvolto ed inutile quand'è buio, quando non si riesce a valutare la distanza, la profondità. Saliamo e saliamo, di buon passo; solo un verso, una specie di abbaio, mi inchioda per un attimo immobile sul sentiero... Matteo sostiene che si tratti di un volatile; speriamo bene. E' vero, non ho mai sentito di qualcuno aggredito e sbranato da fiere lungo i sentieri, nottetempo, almeno da queste parti. C'è anche da dire, però, che non è che ci sia tutta questa gente a spasso per i sentieri, nottetempo. Manca il materiale per un serio studio statistico, insomma.
Alla Gava arriviamo molto prima di quanto immaginassi. La cascatella e la strada sterrata. Saliamo fin su al passo, pochi minuti e pochi metri di dislivello: lì, al passo, c'è la tavola che indica le direzioni dei vari sentieri. E c'è una vista da mozzare il fiato, le ondulazioni della montagna nette e distinte dalle diverse sfumature del grigio e del nero. Vale la pena di spegnere un attimo la luce frontale. Silenzio assoluto, le luci del mare in lontananza. Ma i brividi del freddo e della brezza che soffia quassù ci convincono a rimetterci subito in marcia, in discesa questa volta, verso l'auto. Matteo, pur compreso della poesia del momento, non dimentica il proprio lato materiale e terreno: la mozzarella, il mio regno per una mozzarella. Mi volto per non assistere all'orrida fine del povero latticino, dilaniato tra le fauci della belva affamata. Non voglio contribuire al crimine efferato: di fame ne ho, eccome, ma me la terrò fino all'auto. Si cammina su strada, ora: sterrata, ma pur sempre comoda, rassicurante strada, a parte una scorciatoia che taglia via un tornante. Fa freddo, ormai; lo sente persino Matteo, tutto compreso, stasera, del proprio mal di gola: è da quando siamo partiti, che si prefigura giorni di dolore e mestizia, a letto, febbricitante... Avrebbe già potuto scrivere la sceneggiatura per una recita a teatro! Un filo ipocondriaco, giusto un filo. Ma mi offre ottime occasioni per prenderlo un po' in giro! Lui, la sua febbre, le sue crisi di fame, i suoi rovelli sul cibo e sull'allenamento... Sul cibo, soprattutto; mille ragionamenti astrusi, picco glicemico di qua, carboidrati di là, massa grassa su e giù, e poi, se lo metti davanti ad una tavola più o meno imbandita, qualsiasi cosa ci sia nei piatti, nel giro di tre minuti non hai più i piatti e nemmeno la tavola! E quel che fa rabbi a è che è magro come un chiodo... Non come me, che posso farmi la plicometria con le pinze da bucato. Uffa, il destino è ingiusto: io sarei in vantaggio solo in caso di carestia...
Pochi passi, un sorso d'acqua alla fontanella in pietra, e siamo dinuovo alla civiltà: asfalto, la Opel. La stima del percorso dice che potrebbero essere suppergiù diciassette km; dislivello, per me, incalcolabile, ma non credo che sia gran che. E' circa l'una: riesco ad ottenere da Matteo almeno di accompagnarlo fin giù, al casello dell'autostrada. L'idea di salire in bici e macinare quindici km, di cui almeno la metà su Aurelia, adesso, in piena notte, sembra assoluta follia anche a me, che pure di follie ne so qualcosa; vorrei accompagnarlo a casa, ma non sente ragione. Mi concede solo di rifilargli due Cuneesi al Rhum come sostentamento energetico, e speriamo che ai ciclisti non facciano l'alcool test. Accostiamo a bordo strada, davanti ad un albergo; poco dopo, dietro di noi, accosta un'altra auto. Ma nessuno ne scende: immagino che, terrorizzati alla vista di un pazzo furioso che si sveste, resta in pantaloncini e scarica la bici dalla Opel all'una di notte, per poi saltarci in sella e partire, non abbiano il coraggio di muoversi. L'auto infatti, di lì a poco, se ne va. Me ne vado anch'io, con il magone per una bellissima serata già finita e con un po' di preoccupazione: speriamo che Matteo sappia quel che fa... Ma sì, che lo sa. Speriamo che lo sappiano anche i piloti notturni.
Il rientro a casa è un vero supplizio. Troppe notti troppo corte alle spalle: non appena entro in autostrada, mi assale un sonno irrefrenabile. Non basta la musica, non basta cantare, stiracchiarsi, e nemmeno pestare sull'acceleratore per arrivare prima ed abbreviare l'agonia. Fino a Mondovì ce la faccio, poi mi infilo in autogrill: un quarto d'ora di sonno profondissimo, la sveglia, riparto, fino a casa, una galoppata senza stelle e con un mal di testa fulminante. A casa, alle tre e mezza, riesco appena a rispondere alla festosa accoglienza del Tittone, poi perdo conoscenza. Mi sveglierò, ahimé, meno di cinque ore dopo, per accorgermi che non ho avuto nemmeno la coscienza di levarmi le calze infangate... Questa sì che si chiama vita!
Arrivo ad Arenzano dopo un'ora e tre quarti, anche un po' in ritardo. Il guaio è che, sulla Torino Savona, riesco a tagliare i tempi solo quando posso parimenti tagliare, senza troppi patemi, tutte le innumerevoli curve; ma il traffico del tardo pomeriggio di un giorno feriale è tale da sconsigliare caldamente la pratica, a meno che non si sia deciso di andare a misurare personalmente la velocità di caduta di un grave da un viadotto. Ma non è il mio caso; a me la fisica non è mai andata a genio.
Matteo è già lì, ovviamente in bici, ovviamente in pantaloncini corti. Non si può dire che la temperatura sia siberiana, ma io a scoprire cotanta superficie di epidermide aspetterei ancora almeno un paio di mesi... Ormai rinuncio a stupirmi. Poveretto, già in questi giorni il clima lavorativo per lui è più frenetico del solito; poi, mi ci metto anche io con i miei capricci di camminate notturne... Ma è colpa mia se è tutto così bello da queste parti?
Frugale cena in auto, a base di immancabile focaccia: bianca e al formaggio, pura goduria. Matteo, che è un salutista, si concede anche yogurt e frutta; io no, non sia mai che il mio stomaco si abitui a gestire cibi men che spazzatura. Poi, veloce trasferimento a poca distanza, su per una stradina ripidissima. Parcheggiamo l'auto alla partenza della strada sterrata che conduce alla Gava, ma non è quella la nostra prima destinazione. L'itinerario prevede di raggiungere, in primis, il lago della Tinna.
In un attimo, Matteo ha cambiato divisa: da quella ciclistica a quella montanara. Manco fosse un camaleonte. Mi domando dove stipi tutta 'sta roba e come faccia ad essere così rapido... Per me, il cambio d'abito volante è sempre un cruccio! Mi ci vorrebbe un gabbiotto portatile, tipo gli spogliatoi dei magazzini d'abbigliamento, con le tendine. Tutto pronto: si parte, sotto un cielo stellato che più non si può. Potrebbero essere le otto e mezza, forse le nove meno un quarto, chissà, non ha molta importanza. A me è sufficiente rientrare domattina alle otto e mezza in ufficio; le ore di sonno perse si recupereranno, prima o poi...
Ci avviamo lungo una stradina sterrata, all'inizio piana e bella comoda per procedere affiancati. Speravo, in tutta sincerità, di incappare in una sera un po' più calda; invece, il freddo passa senza problemi la stoffa sottile dei pantaloni. E martella il crapone, protetto solo dalla fascia per le orecchie. Mannaggia a me: il berretto di pile non sarebbe stato affatto eccessivo... I primi km se ne vanno, come sempre, nel racconto delle ultime novità, per lo più lavorative. Le luci della costa sono ancora troppo vicine perché il buio del sentiero possa ispirarmi paura; le montagne dall'altro lato della valle sono una massa scura, indistinta, contro il firmamento. Calma e sangue freddo, Gian. Non ho ancora dimenticato – e come dimenticarlo? - l'incontro con la carcassa mezza spolpata della pecora, quel mattino in cui Matteo ed io, dopo aver passato la notte in tenda a poca distanza, tornavamo verso la Gava. S'era deciso che fosse opera dei lupi: e sarà pur vero che il lupo non attacca l'uomo, ma ammetto che l'incontro con una rappresentanza della specie non mi riposerebbe poi troppo. Del resto, siamo sempre noi ad invadere il loro territorio, non viceversa; siamo noi a dover chiedere permesso e, ahimé, a dover pagare le eventuali conseguenze di un eccesso di prepotenza.
Man mano che il buio si fa più buio, però, non posso fare a meno di drizzare le orecchie ad ogni minimo fruscìo, il più delle volte provocato poi da me stessa o da Matteo, che cammina davanti a me. Tronchi e rami, confusi nell'oscurità, hanno un aspetto inquietante; forse perché riesco ad osservarli solo di sbieco: se dirotto lo sguardo via dal sentiero, m'inciampo all'istante. Il sentiero, in alcuni punti, è sorretto da muretti in pietra e corre accanto ad un bel salto, di cui al buio non si vede il fondo. Matteo, sempre premuroso, si preoccupa che io ci passi indenne: ma il vuoto, se non lo vedo, non mi fa così paura.
Ruscelletti attraversano il sentiero ogni pochi metri: io ho indossato, vista la passeggiata, un paio di scarpe da sentiero vecchie e malconce, che, soprattutto, non sono impermeabili; in men che non si dica, mi ritrovo con i piedi zuppi. E me li terrò zuppi fino a casa, dal momento che non ho portato scarpe di ricambio.
La chiacchiera di Matteo riesce a distrarmi un po' dai miei timori. Ma io stessa sono, con mia meraviglia, abbastanza tranquilla. Sul chi va là, ma tranquilla. L'unico animale in cui ci imbattiamo, infatti, è innocuo: un daino, sentenzia Matteo, che resta un po' a guardarci, da sotto in su, forse abbagliato dalle luci delle nostre frontali, e poi sparisce in mezzo al bosco, con un guizzo del codino bianco. In sottofondo, rumore di acqua che scorre impetuosa: un lungo tratto di saliscendi ci porta alla prima grande pozza formata dal torrente, d'acqua limpidissima, riflessi verdi ed una bellissima cascata che ci si tuffa. Per arrivare al lago vero e proprio, bisogna salire lungo le sponde rocciose del torrente: passo il primo scalino, passo il secondo, ma poi si tratta di attraversare la corrente... E lì mi fermo. E' davvero un passo da niente, lo vedo da sola; Matteo insiste, "dai, è facilissimo, ti tengo io", passa più e più volte da una parte all'altra del minuscolo guado con immensa disinvoltura. Ma non c'è niente da fare, io non mi fido; ho paura dell'appoggio scivoloso e della corrente così forte e subito profonda, ho paura di cadere e battere malamente. Matteo non è certo un esempio incoraggiante; per lui qualsiasi cosa che abbia a che fare con un sentiero risulta facile e naturalissima: uno che per passatempo s'infila nelle grotte non teme certo un ruscelletto... No, no e no, mi dispiace, io lì non passo. E più il poveretto insiste, più io mi arrocco sulla mia posizione. Ecco, forse, se fosse giorno, se fossi da sola ad affrontare l'ostacolo, o semplicemente se fossi qui in un altro giorno, con un'altra disposizione d'animo: conosco bene le mie paure, oggi ci sono e domani no, chissà, forse passerei. Ma stasera no, non posso. Così Matteo se ne va su da solo; vedo la sua luce allontanarsi e sparire. Un attimo di panico: mi ritrovo qui, in mezzo al bosco e al buio, e da sola. E, chissà poi perché, sarei del tutto indifferente se, nella stessa situazione, avessi sotto i piedi una strada asfaltata anziché un sentiero. Calma Gian, calma e sangue freddo. Guardati intorno, solo alberi ed il fragore della cascata. E la luce di Matteo che ricompare, in alto, indugia qua e là e poi s'avvicina. Tutto offeso, lui, a chiedermi con una voce grave che non gli avevo mai sentito: "Perché non hai voluto passare?". Elementare Watson, domanda da un milione di dollari. Perché ho paura. E' così difficile da accettare, che uno possa aver paura? Beh, forse sì, almeno nel mio caso, dato che, lo so benissimo, quasi tutte le mie paure sono assurde, esagerate, irrazionali. Ma che ci posso fare? E' una brutta bestiaccia, la paura; se poi le lascio strada, è finita, allora sì che posso far danni. Riesco a superarla, quasi sempre, solo se con me c'è qualcuno di cui mi fido ciecamente, ma per cui non provo alcun affetto particolare: Matteo no, non è proprio la persona giusta, avrei troppa paura di far del male anche a lui, oltre che a me stessa, anzi, ancor più paura. Insomma, ci sarebbe materia per uno strizzacervelli, ma di quelli bravi!
Ripercorriamo un tratto del sentiero dell'andata, fino ad incappare in un bivio verso sinistra. Aggiudicato, si va da quella parte, in direzione della Gava, ma anche del Ponte Isabella. Un ponticello dall'aspetto poco rassicurante, che abbiamo visto dall'alto in occasione dell'ultima bella camminata da queste parti, il 2 gennaio scorso. Cammina e cammina, mentre le montagne dall'altro lato della valle sono ora più luminose e nitide: se ne vedono le cime coperte di neve. Una luce azzurra, quasi di neon; è la luna che sta salendo, alle spalle dei monti dalla nostra parte; è per quello, che non la vediamo, ma ne vediamo l'effetto. Ancora lungo saliscendi: guardo di fronte a me, ma non sono capace di intuire l'itinerario del sentiero in quell'enorme unica massa scura che mi sta di fronte. Però sento il fragore dell'acqua del torrente, chissà dove; sembra molto lontano, ma, come osserva Matteo, non può esserlo: l'aria è troppo fredda. In effetti, c'è da rabbrividire... Il ponticello spunta di lì a poco: una passerella di cemento, sorretta da travi in ferro, direi; l'aspetto è tutt'altro che solido, anche se di certo la struttura è lì da un bel po' di tempo ed è destinata a restarci a lungo. Io però non ci passo e guato con una certa inquietudine Matteo che va su e giù e si sporge dal parapetto: freno a fatica l'impulso di urlargli "Vieni via di lì!". Come se non bastasse, poi, il marrano si dedica all'equilibrismo sulle rocce che passano accanto al baratro; vedo la lucina che fa tutto il giro intorno alla conca, fino all'estermo opposto; indugia un po' e poi si riavvicina. Certo che non sono proprio fatta per la vita selvaggia, io... Tutto quel che è meno di un sentiero stabile sotto le scarpe mi mette in agitazione. L'equilibrio ed io non abbiamo proprio alcun punto d'incontro.
Si torna indietro: meno male, perché lì, ferma, rischiavo il congelamento. La luce della luna scende sempre più verso il fondo della valle; in lontananza, si vedono le luci della costa. Ma il nostro itinerario ci porta ancora a sinistra, lungo il sentiero che sale alla Gava. Sale, si fa per dire; a me sembra che, a parte qualche strappo, non salga proprio mai. Il silenzio è assoluto; anche il rumore dell'acqua ormai è lontano, attutito. Ad un bivio inatteso, la guida turistica sentenzia: "Andiamo dritto, l'importante è non finire dall'altro lato della valle; ma ce ne accorgiamo, se ci finiamo...". Agli ordini, io seguo. Anche in pianura, fatico a tenere il passo di Matteo, che spesso si volta per controllare se ci sono ancora. Ormai conosce bene la mia inettitudine ed i miei attacchi di paura: mi sa che li teme... Io invece ci convivo con una certa serenità; diciamo che non posso fare altro che accettare i miei limiti: in fondo qualche qualità buona ce l'ho anch'io; mi limito a coltivare quella, e pazienza.
Le stelle non si vedono quasi più. In men che non si dica, le nuvole se le sono mangiate. L'aveva promesso, il meteo: peggioramento per mercoledì, che poi sarebbe ora, visto che non credo manchi molto alla mezzanotte. Già durante il viaggio in auto, ho visto le lunghissime striscie in arrivo da dietro il Monviso. Speriamo di essere graziati per stasera. "Ma siamo sicuri che non stiamo finendo davvero dall'altro lato della valle?". Non mi trattengo più: questo sentiero non sale mai, e intorno a me non vedo che contorni di montagne ancora troppo alte; dove andiamo a finire? Detto, fatto; compare un bivio sulla destra che subito impenna e ci fa prendere quota. Sbuffo un po' di più, ma sono finalmente sollevata. Incredibile, come quel poco di senso di orientamento che già mi ritrovo in pieno sole sia completamente sconvolto ed inutile quand'è buio, quando non si riesce a valutare la distanza, la profondità. Saliamo e saliamo, di buon passo; solo un verso, una specie di abbaio, mi inchioda per un attimo immobile sul sentiero... Matteo sostiene che si tratti di un volatile; speriamo bene. E' vero, non ho mai sentito di qualcuno aggredito e sbranato da fiere lungo i sentieri, nottetempo, almeno da queste parti. C'è anche da dire, però, che non è che ci sia tutta questa gente a spasso per i sentieri, nottetempo. Manca il materiale per un serio studio statistico, insomma.
Alla Gava arriviamo molto prima di quanto immaginassi. La cascatella e la strada sterrata. Saliamo fin su al passo, pochi minuti e pochi metri di dislivello: lì, al passo, c'è la tavola che indica le direzioni dei vari sentieri. E c'è una vista da mozzare il fiato, le ondulazioni della montagna nette e distinte dalle diverse sfumature del grigio e del nero. Vale la pena di spegnere un attimo la luce frontale. Silenzio assoluto, le luci del mare in lontananza. Ma i brividi del freddo e della brezza che soffia quassù ci convincono a rimetterci subito in marcia, in discesa questa volta, verso l'auto. Matteo, pur compreso della poesia del momento, non dimentica il proprio lato materiale e terreno: la mozzarella, il mio regno per una mozzarella. Mi volto per non assistere all'orrida fine del povero latticino, dilaniato tra le fauci della belva affamata. Non voglio contribuire al crimine efferato: di fame ne ho, eccome, ma me la terrò fino all'auto. Si cammina su strada, ora: sterrata, ma pur sempre comoda, rassicurante strada, a parte una scorciatoia che taglia via un tornante. Fa freddo, ormai; lo sente persino Matteo, tutto compreso, stasera, del proprio mal di gola: è da quando siamo partiti, che si prefigura giorni di dolore e mestizia, a letto, febbricitante... Avrebbe già potuto scrivere la sceneggiatura per una recita a teatro! Un filo ipocondriaco, giusto un filo. Ma mi offre ottime occasioni per prenderlo un po' in giro! Lui, la sua febbre, le sue crisi di fame, i suoi rovelli sul cibo e sull'allenamento... Sul cibo, soprattutto; mille ragionamenti astrusi, picco glicemico di qua, carboidrati di là, massa grassa su e giù, e poi, se lo metti davanti ad una tavola più o meno imbandita, qualsiasi cosa ci sia nei piatti, nel giro di tre minuti non hai più i piatti e nemmeno la tavola! E quel che fa rabbi a è che è magro come un chiodo... Non come me, che posso farmi la plicometria con le pinze da bucato. Uffa, il destino è ingiusto: io sarei in vantaggio solo in caso di carestia...
Pochi passi, un sorso d'acqua alla fontanella in pietra, e siamo dinuovo alla civiltà: asfalto, la Opel. La stima del percorso dice che potrebbero essere suppergiù diciassette km; dislivello, per me, incalcolabile, ma non credo che sia gran che. E' circa l'una: riesco ad ottenere da Matteo almeno di accompagnarlo fin giù, al casello dell'autostrada. L'idea di salire in bici e macinare quindici km, di cui almeno la metà su Aurelia, adesso, in piena notte, sembra assoluta follia anche a me, che pure di follie ne so qualcosa; vorrei accompagnarlo a casa, ma non sente ragione. Mi concede solo di rifilargli due Cuneesi al Rhum come sostentamento energetico, e speriamo che ai ciclisti non facciano l'alcool test. Accostiamo a bordo strada, davanti ad un albergo; poco dopo, dietro di noi, accosta un'altra auto. Ma nessuno ne scende: immagino che, terrorizzati alla vista di un pazzo furioso che si sveste, resta in pantaloncini e scarica la bici dalla Opel all'una di notte, per poi saltarci in sella e partire, non abbiano il coraggio di muoversi. L'auto infatti, di lì a poco, se ne va. Me ne vado anch'io, con il magone per una bellissima serata già finita e con un po' di preoccupazione: speriamo che Matteo sappia quel che fa... Ma sì, che lo sa. Speriamo che lo sappiano anche i piloti notturni.
Il rientro a casa è un vero supplizio. Troppe notti troppo corte alle spalle: non appena entro in autostrada, mi assale un sonno irrefrenabile. Non basta la musica, non basta cantare, stiracchiarsi, e nemmeno pestare sull'acceleratore per arrivare prima ed abbreviare l'agonia. Fino a Mondovì ce la faccio, poi mi infilo in autogrill: un quarto d'ora di sonno profondissimo, la sveglia, riparto, fino a casa, una galoppata senza stelle e con un mal di testa fulminante. A casa, alle tre e mezza, riesco appena a rispondere alla festosa accoglienza del Tittone, poi perdo conoscenza. Mi sveglierò, ahimé, meno di cinque ore dopo, per accorgermi che non ho avuto nemmeno la coscienza di levarmi le calze infangate... Questa sì che si chiama vita!
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