sabato 5 maggio 2012



5 MAGGIO 2012 - IN MTB AL CORSO PER ISTRUTTORI DI TRAIL RUNNING


Eppure il cielo sopra Carmagnola era bellissimo: stelle a non finire, aria limpida, solo qualche sbuffo di nuvoletta qua e là. Già ad Asti, però, in lontananza si scorge una coltre scura, appena percettibile al buio. Man mano che mi avvicino, la prima luce rivela l'inevitabile: è proprio una coperta, spessa e scura. Chilometro dopo chilometro, è sempre più chiaro che Giove Pluvio è lì per me. Mi sta aspettando. Non che sia una sorpresa, per carità; le previsioni del tempo hanno annunciato un sabato e domenica di tregenda e non c'è ragione per credere ad un errore. E' ben possibile che si annunci bel tempo e che poi la giornata si riveli un disastro meteorologico, ma non accade mai il contrario. Soprattutto se io ho messo in cantiere un giro in bici.



In vista del diluvio universale, non ho avuto dubbi nella scelta del mezzo; niente bici da corsa, meglio la mountain bike: più stabile, più sicura sull'asfalto bagnato e soprattutto affidabile, quanto a frenata, sotto il diluvio come con il solleone. La fatica in più sarà ben compensata dalla tranquillità del viaggio.
La prima goccia di pioggia si spiaccica sul parabrezza non appena esco al casello di Ovada. Ne seguono altre, per ora non troppo frequenti né troppo grandi. Parcheggio in uno spiazzo appena prima dell'abitato, scarico e ricompongo la MTB, con un occhio preoccupato al fronte delle nuvole, nerissime, che dividono il cielo in due sinistre metà. Non si può dire che faccia freddo, per essere le sei del mattino, ma soffia un vento fastidioso ed insistente che piega i ciuffi di papaveri spuntati chissà come in mezzo alla ghiaia. Io vado proprio in quella direzione. Amen, è il caso di mettersi il cuore in pace.
Mi carico sulle spalle lo zaino, un vero macigno. Ci ho messo dentro l'occorrente per la pioggia, le luci per il rientro al buio, un cambio d'abito borghese; dovrò pur darmi una rassettata, quando arriverò a Caprile. Se c'è qualcosa che mi turba più della pioggia, è il compito che mi attende oggi, nel pomeriggio; ho l'incombenza di partecipare al Corso per Istruttori di Trail, organizzato dal vulcanico presidente della ASD Ergus, associazione sportiva di cui sono tesserata nonché segretaria. Incombenza che senz'altro è un onore, ma anche un gran patema per me, che me la cavo forse benino con la scrittura, ma non ho affatto dimestichezza con l'arte oratoria. Già, perché partecipo non come discente, ma come docente... Mi sono state assegnate le parti sul materiale tecnico e sulla gestione delle risorse fisiche e mentali. Per la verità, avrei potuto partecipare al corso in entrambi i ruoli, seguendo anche le lezioni tenute dagli altri relatori; anzi, sarebbe stato senz'altro più rispettoso dell'impegno e della dedizione di chi ha lavorato per creare questa prima edizione. Ma mi conosco; a proposito di risorse mentali, le mie non sono sufficienti a consentirmi di restare due giorni chiusa in un rifugio e seduta a lavorare di cervello... Per quanto l'oggetto del corso sia una delle mie più grandi passioni, darei di matto in brevissimo tempo.
Così, ne approfitto per unire l'utile al dilettevole; il mio turno è nel pomeriggio e, secondo i miei calcoli, dovrei avere ampio margine per arrivarci in bici, anche tenendo conto della lentezza del viaggio in mountain bike. Ripartirò dopo la lezione, credo intorno alle sei di questa sera; tornerò all'auto con il buio.
Rimuginando, mi avventuro verso Ovada. Il difficile è sempre l'inizio; so che da qui devo salire a Tagliolo Monferrato, ma non ho idea di dove si imbocchi la strada giusta. Chiederò informazioni... Individuo una signora che cammina sulla passeggiata lungo il fiume, tenendosi stretto il bavero della giacca per proteggersi dalle folate, con l'aria di chi vorrebbe essere ovunque ma non lì. E' mia regola non chiedere mai indicazioni stradali ad una donna, perché il meno peggio che possa capitare è che non sappia rispondere... Ma a quest'ora del mattino, con questo tempo di tregenda, non posso permettermi di essere schizzinosa. L'esitazione con cui la madama accoglie la mia domanda mi fa quasi perdere la speranza; d'improvviso qualcosa si sblocca: "Deve andare fino in centro al paese, al semaforo; prende il ponte sulla destra e...". Un attimo di perplessità: "Con la bici può fare le salite?". Mi vien da sorridere: difficile pedalare in Monferrato evitando le salite... "Certo, sono qui per questo", rispondo. Visibilmente sollevata: "Ah bene... Perché adesso le indico una salita". L'eccezione che conferma la regola: le indicazioni della madama sono perfette. Pochi minuti e mi ritrovo a salire in direzione di Tagliolo, rampe secche che corrono tra bellissime ville e palazzotti d'epoca. Non risparmio la tripla, fin da subito: mi attendono circa 90 km per arrivare a Caprile ed altrettanti per tornare indietro; meglio risparmiare le forze.
Pioviggina appena, per ora; le nuvole sono cumuli neri in continuo movimento, rimescolati dal vento forte. Ampi squarci di sereno lasciano di tanto in tanto passare qualche raggio di luce limpidissima. Non devo nutrire la speranza di cavarmela; so bene che è pia illusione. Tuttavia, per il momento va bene così.
Tagliolo è un paesino bello e quieto; anche qui non mancano quei bellissimi edifici d'epoca, in pietra, dalle linee solide e sobrie. Tutt'intorno, colline dolci, per quel che la nebbia bassa lascia intravedere. E' una zona che non conosco, questa. E sono ben lieta di esserci, anche se sarà una gita turistica umida. Giù per una discesa blanda, due curvoni in mezzo ai vigneti. Tutto tace, non un'anima, né nel paese, né per la strada. Un ponticello e si torna a salire. Certo, la mountain bike non è il mezzo ideale per le salite su asfalto; se poi aggiungiamo il peso dello zaino, il sovrappeso della ciclista e la mancanza cronica di allenamento al pedale, guai. Ma sono d'umore troppo roseo per preoccuparmene. Il verde della primavera, accentuato dalle piogge abbondanti degli ultimi giorni, è meraviglioso; erba e foglie che crescono rigogliose, quasi esplodono. Riprende a piovere a metà della successiva salita, anch'essa dolce e breve. Pare che questa volta voglia fare sul serio: uno scroscio in piena regola, un'auto con i tergicristallo a pieno regime. Il paese è ad un tiro di schioppo; mi incaponisco a voler trovare un piccolo riparo per fermarmi ed estrarre l'armamentario impermeabile... Così, quando mi rifugio sotto un balconcino in pietra, son già bell'e fradicia. Indosso la giacca in goretex; faccio per ripartire, alzo la testa e mi vedo davanti, al culmine della stretta strada in salita pizzicata tra le case, una bellissima torre merlata, baciata da un raggio di sole mentre tutt'intorno piove. Ci vuole una foto... Un'altra, senza fermarmi, la scatto al complesso delle mura e del torrione. Lerma si guadagna, a buon diritto, un posto nel mio elenco dei paesi che valgono la pena di una visita.



Qualche umano comincia ad avventurarsi tra le pozze ed il vento gelido e capriccioso. Ancora discesa, in vista della prossima collina. Mi colpisce, di questi rilievi, la dolcezza delle forme; sono molto diversi dalle asperità di Langa e Roero. Ancora vigne, gelsi, gaggie; di paese in paese, Casaleggio, Mornese. La nebbia sfuma in lontananza i profili delle colline e dei campanili. Come sempre, il mio sistema di riferimento teorico pecca nelle proporzioni; sulla cartina, questo tratto di strada mi era parso ben più lungo, e invece in quattro e quattr'otto arrivo a Bosio. Attenzione: qui Matteo mi ha raccomandato di prendere la direzione di Gavi, piuttosto che quella che avevo individuato io per Carrosio, Sottovalle e da lì ad Arquata. Giustamente, non si fida delle mie doti di navigatrice, e ne ha ben donde. Qualche km di discesa, sotto la pioggia che è tornata ancora una volta intensa. Non smetterò mai di apprezzare la mountain bike e di meditare su quanta inutile paura abbia patito per tanti anni con le discese in bici da corsa... Tutta la mia stima a chi ha inventato il freno a disco!
A Gavi, sotto una fitta pioggia, seguo le indicazioni per Arquata, che mi portano ad evitare l'abitato e superare un guado provvisorio in cemento, quindi una galleria, in direzione di Serravalle Scrivia. Rapido consulto della cartina, diligentemente stampata in settori da Googlemaps, per confortarmi d'essere sulla strada giusta. Un tratto di strada trafficata, in lenta salita, da affrontare con la pazienza che il mezzo richiede; dai capannoni al bosco, fino ad un'altra galleria. Discesa all'asciutto, anche se le ruote della bici tirano su acqua sporca e fanghiglia a più non posso; anche qui, la distanza si rivela molto più breve di quel che pensassi. In un battibaleno mi ritrovo sullo stradone che collega Serravalle ed Arquata.



Il neurone drizza le orecchie: eccomi in un luogo che ho già visto. Ad Arquata ho messo piede, anzi ruote, in occasione di una randonnée di qualche anno fa. Riconosco la rotonda, il negozio di bici, la stazione ferroviaria. E riconosco pure che ho sbagliato strada, devo tornare all'incrocio precedente ed imboccare la direzione dell'autostrada. Dal casello di Vignole Borbera in poi, almeno per un bel po' di km, non avrò più necessità della cartina: è strada nota, percorsa forse un paio di volte in bici e più volte in auto per partecipare al trail "Le Porte di Pietra", con partenza ed arrivo a Cantalupo Ligure. Mi attendono lunghi km di falsopiano, prima attraverso un pianoro da cui spuntano rilievi che sembrano panettoni, anzi direi budini non troppo riusciti; non c'è un digradare, il piattume della piana si interrompe netto contro le pareti sabbiose e in molti punti infiocchettate di arbusti. Di tanto in tanto spunta un gruppo di case, un paesello. Il meteo non ha ancora deciso da che parte stare: le nuvole scaricano acqua, poi di tanto in tanto si squarciano e liberano raggi di un limpidissimo e caldo sole; giusto il tempo che la giacca si asciughi un po', e giù altra acqua. Non ho levato il goretex nemmeno per un istante; oltre alla pioggia, soffia un vento a tratti freddo e forte. In tutto ciò, non manca il lato positivo; non avevo mai visto un arcobaleno "intero", da terra a terra! Una foto è d'obbligo.
La strada si infila poi sulla sinistra di un verdissimo e boscoso canyon; buttando l'occhio oltre il guard rail si vede, giù in fondo, il corso tortuoso del torrente. Lievi salite e discese precedono l'abitato di Cantalupo Ligure. Qui il cielo è già più chiuso, nero. Piove. Procedo lenta, lentissima. Li uso tutti, i rapporti a disposizione, senza lesinare: non so quanto avrò da salire, di qua alla meta, né di conseguenza quanto dovrò pedalare per tornare all'auto, stasera. Non mi dispiace, questo ritmo di viaggio, affatto. Sono sola e tranquilla; non c'è nessuno che smania perché gli tocca rallentare ed attendermi. Al bivio successivo, imbocco la strada a sinistra, verso Alice e Cabella Ligure. Ripasso nella memoria la linea che ho tracciato sulla mappa; da Cabella in poi, non dovrebbe mancare molto... Il guaio è che non ho alcuna idea circa l'altimetria. So di essere già stata da queste parti, ma per il momento la mia memoria è buia.



A Cabella, scorgo tracce di vita ed un minuscolo mercato; ultima sosta sotto l'ala per consultare i miei papiri, ormai sofferenti per la pioggia. Devo seguire la direzione di Capanne di Carrega. Un cartello giallo consunto, appeso al muro di una casa all'uscita della piazza, associa quella località alla quota di 1.400 m circa: ecco, mi pareva che ci fosse da salire... E parecchio! Proseguo con calma; un messaggio di Matteo sul telefonino mi raccomanda di fare attenzione al bivio tra Capanne di Carrega e Capanne di Cosola. Una volta tanto, posso dire "lo sapevo già". Al bivio, brevissima discesa e passaggio sul ponte; poi la strada s'infila nel bosco e non si vede più. Non mi resta che affrontarla, con santa pazienza.
Quassù ora la coltre di nubi è spessa e scura. La pioggia cade più decisa e costante; la strada è invasa di ghiaia e terra, segno che il diluvio è già all'opera da un po'. Goccioloni gonfi cadono dalle fogle degli alberi, con mira di solito degna di un cecchino s'infilano tra il collo ed il colletto della giacca. Miseriaccia. Il mio inossidabile buonumore di oggi comincia a mostrare qualche segno di cedimento. Salgo piano, con il rapportino; la bici è pesante, lo zaino è un macigno, la ciclista è un pachiderma. C'è poco da fare, con queste premesse. Con le lenti degli occhiali bagnate ed anche un po' appannate, il mondo diventa una fotografia in bianco e nero per giunta sfocata: ben presto perdo la cognizione del luogo e del tempo. Il telefonino è ben protetto in un sacchetto e non ho alcuna voglia di estrarlo per controllare che ora sia. In teoria, dovrei avere ore di margine e davvero pochi km ancora da percorrere. In pratica, la sensazione è che il tempo si stia restringendo e la distanza si stia dilatando senza posa. Salgo e fatico davvero molto, ma più della fatica patisco il cielo torbido, la pioggia, il vento cattivo, il freddo sulla pelle, sotto gli abiti ormai fradici. E le mani... Bella furbata, aver dimenticato i guanti.
La salita è severa, a strappi. Mi sembra eterna. Ma quando finisce? E dove? Non c'è anima viva qui intorno. Calma, Gian. Prima o poi deve finire. E' il disagio che ti fa sembrare la rotta più lunga e penosa di quel che è. Affronto una rampa, un'altra ancora, e intanto mi perdo dietro a calcoli assurdi, basati su ipotesi altrettanto campate in aria, per capire quanto possa mancare a Caprile... O almeno alla fine di questa salita. Se poi si debba scendere e di quanto, lo ignoro. Sull'ennesima rampa, mi rendo conto che sto procedendo, con fatica immane, ad una velocità che non farei alcuna fatica a tenere a piedi, con dispendio di energie molto minore: detto, fatto, salto giù di sella e ci rimonto solo quando la pendenza cala decisa.



Una curva rivela un minuscolo abitato, su cui svetta un campanile; la pioggia concede un istante di tregua, come del resto la salita, che si attenua per qualche centinaio di metri. Vedo alcune auto parcheggiate lungo la via, ma di esseri umani nemmeno una traccia; non un movimento, non un rumore, nemmeno un comignolo che fuma, niente di niente. Un paese fantasma. E sì che dovrebbe essere ora di pranzo... Nemmeno un cenno di profumo di cibo.
Si sale ancora, curva dopo curva più in su, oltre al paese. Man mano che si sale, la vallata, com'è ovvio, è più aperta; il vento quassù la fa da padrone, gelido. Ho le mani rigide, e sono in salita... Mi assalgono i pensieri più cupi: non ce la farò... Non arriverò in tempo... Magari ho sbagliato strada... Cerco disperatamente, tra le nebbie delle lenti bagnate, un indizio che davanti a me riv eli la presenza del colle. Macché, ancora niente, ancora una curva, ancora salita. E freddo.
Un edificio sulla destra, forse un agriturismo o qualcosa di simile: vuoi vedere che forse... Una lunga rampa tronca sul nascere la mia speranza. Ma qualcosa nella memoria mi fa credere che questa sia davvero la volta buona: in fondo, anche se finora non ho ricordato nulla, io quassù sono già passata... E quello, mi sa, è davvero il colle. Mi aiuta, in funzione di cardiotonico, l'intervento di un cagnone pastore che esplode in un tonante abbaio proprio a pochi centimetri dal mio polpaccio: s'è avvicinato alla chetichella, il malefico... Mi fermo, lo redarguisco indignata: "Ehi piccolo! E' così che ci si comporta? No, eh!". Devo sembrargli abbastanza minacciosa, o forse al contrario per niente minacciosa, perché se ne torna alla cuccia, brontolando. E a me tocca ripartire in salita, impresa non facile se non si hanno i pedali a sgancio.



Il colle è proprio un colle. Non c’è dubbio che la salita sia finita, più in su non si va. Peccato che quassù la nebbia sia fitta, peccato che io grondi acqua da tutte le parti e sia mezza congelata. La strada prosegue in leggera discesa fino alla località di Casa del Romano, anche qui, deserta. Il timore di essere sulla rotta sbagliata è sempre più forte... Decido, non so se mossa dalla speranza o dalla pigrizia, di proseguire ancora un po‘, prima di tornare a consultare la carta. Tra l’altro, sotto questo diluvio, sarebbe un problema… E‘ proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci. All’improvviso mi trovo davanti ad un bivio: cieca come una talpa – gli occhiali son finiti in tasca già da un po‘ – ci incollo il naso e leggo: Propata, 4 km. E‘ come se un immenso macigno si sollevasse dalle mie spalle e dal mio cuore. Gioia immensa… Caprile è frazione di Propata! E pazienza se mi toccheranno, così ad occhio, quattro km di discesa sotto la pioggia e con un freddo che già qui mi paralizza… Ora che so di essere ad un tiro di schioppo dalla meta, non m’importa più di nulla. Mi avvio con circospezione; ultimo breve tratto di leggera salita e poi giù, a freni tirati perché non vedo proprio nulla. Non ho gli occhiali e c’è la nebbia… Faccio fatica ad intuire le curve ed a capire da che parte girano. Le mani sono pietrificate. Non riesco a dominare il tremore. La strada scorre lentissima, ma se non altro è sotto le mie ruote, quindi al posto giusto. Alberi, paracarri, un recinto. Una figura chiara che si muove: quando ci arrivo più vicino, mi accorgo che è una mucca. Toh… Il primo essere vivente che incontro, da più di 20 km a quest aparte. L’animale rumina e mi guarda, impassibile. Case, un campanile, un altro cartello che devo fermarmi a leggere da vicino: Caprile. Ancora avanti. Qualche centinaio di m oltre il paese, in discesa, poi ancora un bivio, l’ultimo. Ringrazio la rampa in salita che mi porta alle quattro case di Caprile. Un giro senza meta lungo i minuscoli passaggi tra le case, salgo su su finché il passaggio muore in un cortile: guardo più in basso, ecco il rifugio. Non mi è difficile riconoscerlo, l’avevo già visto sul sito Internet.



Scendo giù verso l’ingresso: per la mia MTB è il momento di riposare un po‘. La pioggia è a dir poco torrenziale. Ed io, più tardi, dovrò ripartire… L’angoscia mi assale al pensiero di tornare lassù, sul colle. Con quel gelo… Quel diluvio… Quella nebbia. E se poi fosse già tardi? E se venisse buio? Accantono il pensiero con la lungimiranza che mi contraddistingue: mi preoccuperò quando sarà il momento.
All’ingresso della bella struttura in pietra, un losco figuro che riconosco come uno dei partecipanti al corso. „Toh – gli dico – sei il primo essere umano che vedo, da Cabella!“. Ero attesa, a quanto pare: in verità, non avevo dato precise indicazioni circa l’ora del mio arrivo. Non avrei proprio potuto. Appoggio il potente mezzo sotto una piccola tettoia e seguo la mia guida verso una bella porta in legno: l’accoglienza è delle più festose. Prevale l’istinto di conservazione: prima ancora della piccola folla che saluta il mio arrivo, tutta la mia attenzione si rivolge ad una meravigliosa stufa a legna. Accesa, ovvio. Un po‘ stordita per la fatica e per il contrasto tra la Siberia di fuori ed il caldo intenso, improvviso, avvolgente, mi lascio trascinare dall’entusiasmo dei presenti, primo tra tutti il mitico Andrea, Presidente della ASD Ergus, la „mia“ squadra, nonché mente creatrice del Corso per Istruttori di Trail Running. Neanche due minuti ed ho già a disposizione una doccia calda, anzi bollente, al piano superiore, da raggiungere con una bella e cigolante scala in legno.
Tutto quel che ho addosso cola: lo zaino, gli abiti, le scarpe. Il punto dolente è proprio quello: di scarpe e di pantaloni imbottiti ne ho un paio solo… Come farò a ripartire in questo stato? Mah. L’urgenza è quella di scaldare me stessa, in primis. L’acqua della doccia è davvero rovente: quasi quasi faccio fatica a restarci sotto. Me la godo per un’eternità, tanto da riempire di vapore l’intera stanza da bagno. Poi, quando a malincuore ne esco, mi ingegno per stendere gli abiti fradici su qualsiasi appiglio che possa fungere da stendibiancheria. Scarpe, calze e pantaloni andranno giù, accanto alla stufa. E‘ passata da poco l’una: mi aggrego ad un’allegra tavolata su cui circola un pentolone di pasta con il pesto. A dire il vero, mi sento a disagio, quasi fossi un’intrusa; non certo per colpa dei commensali, che anzi si rivelano subito persone molto semplici, affabili, alla mano, ma per il fatto che sono poco abituata a trovarmi in compagnia. Per natura, amo e cerco la solitudine: sarà che le relazioni „obbligate“, quelle che intrattengo per ragioni di lavoro e di famiglia, colmano e superano ampiamente il livello della mia capacità di sopportazione… Questa volta, però, la mia innata diffidenza non trova terreno per attecchire. E‘ proprio una bella compagnia, leggera e divertente. Così, oltre allo stomaco, appago anche lo spirito. Impiego un po‘ di più a far risalire la mia temperatura; nonostante la scelta strategica del posto più vicino alla stufa, non riesco a smettere di tremare.
Il Rifugio comprende alcuni edifici tra loro collegati; nel blocco in cui ci troviamo, l’ampia sala al piano terra è stata dedicata sia alle lezioni del corso che alla tavolata, mentre i cameroni al piano superiore sono destinati alla nanna. Qui sotto, pareti e pavimento sono in pietra, con due finestre che mi tolgono ogni speranza di miglioramento del meteo. Continua a diluviare senza posa. Ma le due finestre al piano superiore, sulle falde del tetto, rendono ancor meglio l'idea...



Pasta al pesto, torta salata, frutta, caffé, il tutto condito dalla gentilezza e disponibilità dei gestori. Poi si passa a „fare sul serio“. In realtà, i presenti han già fatto sul serio stamattina… Prendiamo posto sulle seggiole sparse, sulle panche, sugli scalini. Tocca ora alla lezione di Rocco, dedicata agli aspetti legali dell’attività di accompagnatore e di istruttore. Lo seguo con attenzione, sia perché il suo argomento mi interessa e mi incuriosisce molto, sia per la sua stessa abilità di oratore. Riesce ad essere tecnico e preciso senza risultare noioso, anzi, tutt'altro! Se i relatori, ai convegni a cui partecipo per forza e non per piacere causa lavoro, fossero vivaci la metà di lui, forse riuscirei a non dormire... Di tanto in tanto, lancio un'occhiata al resto dell'uditorio; sono tutti con le orecchie dritte. Non credo di sbagliarmi, se azzardo la previsione che questo corso sarà un successo... Sono contenta per chi ci ha lavorato tanto e, in primis, per Andrea che ci mette un entusiasmo inesauribile.
Quando tocca a me, l'ansia la fa da padrone. Non sono abituata a parlare in pubblico, né tantomeno ad avere a che fare con gente che mi prende sul serio. Prendo posto accanto allo schermo per le diapositive, indossando un fantastico paio di babbucce di pile: meno male che il rifugio è dotato anche di queste finezze... Altrimenti avrei dovuto far lezione a piedi nudi! Le mie scarpe sono là, accanto alla stufa. In testa ho una scaletta di argomenti lunga chilometri; ci penso e ci ripenso da giorni, l'ho sviscerata ancora questa mattina, tra un improperio e l'altro lungo la salita e sotto la pioggia. Ma l'agitazione sbriciola l'edificio del mio discorso, peggio di un terremoto. Mi rendo conto di essere ridicola; non trovo nemmeno il fiato per parlare: sembra che qualcuno mi abbia legato un cappio intorno al collo... Ho timore di risultare noiosa e scontata, di esprimere concetti già triti e ritriti. Tutto quel che so, l'ho imparato per esperienza, ma ho l'impressione che le persone che mi stanno intorno ne sappiano già molto più di me. Chi si diletta con le cascate di ghiaccio, chi con l'alpinismo di buon livello, oltre, com'è ovvio, alla corsa in montagna. E non sono capace di grandi voli pindarici; insomma, come oratrice... Un disastro. Per fortuna, di tanto in tanto una battuta ed una risata stemperano la tensione, cosicché i minuti scorrono e si portano via un po' d'affanno. Ma per me sarebbe tanto, tanto più facile se, in luogo di una platea, avessi di fronte solo un foglio bianco. Tutto quel che avreste sempre voluto sapere, e mai avete osato chiedere, su zaini, scarpe, bastoncini, abbigliamento tecnico, telo termico, riserve alimentari, più qualche dritta per imparare a non gettare la spugna anche quando si è cotti... La mia soddisfazione più grande è l'impressione che i sorrisi soddisfatti di chi mi sta davanti siano davvero sinceri. Quasi a malincuore mi decido a tacere: non tanto per mancanza, quanto per dimenticanza di argomenti. Tutto ciò che ho dimenticato di dire mi verrà in mente a valanga non appena sarò fuori di qui...



...già, bisogna tornare fuori di qui. A causa di una modifica „in corso d'opera“ del programma degli interventi, il mio turno è finito con un'oretta di anticipo sul previsto. A seguire, la lezione dei due rappresentanti del Soccorso Alpino: in verità, mi piacerebbe davvero tanto restare ad ascoltarli... Ma, date le condizioni del meteo, è meglio che mi rassegni a partire subito. Si tratta pur sempre di un'ora di luce guadagnata, in una giornata in cui la copertura nuvolosa farà sì che venga buio più presto del solito. Inoltre, sembra che il diluvio voglia concedere una tregua... In quattro e quattr'otto, onde evitare ripensamenti, mi preparo per tornare in sella. L'essenziale – pantaloni con il fondello imbottito e scarpe – è quasi asciutto. Le calze no, niente affatto. Mi terrorizza l'idea di percorrere ottanta e passa km con le calze fradice... Metto in moto il neurone, che una volta tanto non mi tradisce: infilo i piedi in due borse di plastica; sopra le borse, indosso le calze che, seppure bagnate, non sono più a contatto con la pelle e un minimo di calore lo danno. Giacca impermeabile, zaino, luce frontale e rifrangenti dappertutto: sono pronta per tornare fuori ed affrontare l'avventura.
Il cigolio degli scalini accompagna l'ultimo passaggio nel salone. Un saluto veloce ed un grazie di cuore a tutti i presenti, in particolare al gentilissimo "allievo" che, impietosito dalle mie mani ignude, mi regala il suo paio di guantini da bici: non ha nemmeno idea dell'immenso aiuto che mi sta dando! Quei venti km di discesa quasi costante dalle Capanne di Carrega a Cabella sarebbero un supplizio, senza guanti... Poi prendo il coraggio a quattro mani, recupero la bici e torno in strada. Giusto il tempo di un saluto al gestore che, con quella sua marcata cantilena tipica della parlata genovese, mi chiede, perplesso: "Ma te ne vai già via? Ma che strada fai?".



Soddisfatta e ancora un po' stordita dalla bellissima esperienza, giù al bivio scalo il rapportino e torno a salire, pian piano. Per ora non piove, anche se il cielo gonfio di nubi grigie non lascia presagire nulla di buono. Propata, il campanile e le quattro case; un anziano che carica legna nel bagagliaio di una vecchia Panda; una rampetta, le curve, la nebbia. Si respira acqua; le foglie neonate degli alberi si piegano sotto il peso della goccia, che scorre lungo la vena centrale, resta un istante sospesa sulla punta e poi piomba giù, di solito con precisione millimetrica sulla lente del mio occhiale o nella fessura tra giacca e collo. Chissà che sofferenza sarà la discesa... Ma il timore non riesce a scalfire il mio buon umore. Sono raggiante, anche se tutt'intorno la nebbia ha inghiottito il panorama. Quattro, cinque chilometri di risalita: ancora l'abitato di Casa del Romano, abitato per modo di dire perché non c'è traccia di presenza umana. Poi il colle. Da lì, uno spettacolo meraviglioso e del tutto inatteso: sul versante piemontese, ampi squarci di cielo azzurro tra le nuvole, una luce soffusa, gialla, un contrasto netto e molto pittoresco con il nero delle nubi. E il verde dell'erba di primavera che risponde e risplende come se emanasse luce propria. Mi lancio senza freno giù per la prima rampa, una vera e propria sfida al cagnone dell'agriturismo: infatti, lo colgo di sorpresa; sfreccio davanti alla sua cuccia e sono già lontana quando, voltandomi, lo vedo schizzare fuori strepitando. Povero patatone...
Il paesaggio è di quelli che meritano il disagio di qualche sosta, per scattare foto. Nubi e limpidissimi raggi di sole si fanno compagnia; la strada sotto di me forma ampi tornanti in mezzo ai pascoli. Sembra un paesaggio di alta montagna: eppure qui siamo di poco sopra i mille metri di quota. Scendo veloce, senza scomodare più di tanto i freni; mi godo la fiducia incondizionata nella stabilità della MTB, che non mi tradisce nonostante l'asfalto bagnato e viscido di terra, pietrisco, rami strappati. Il vento sembra meno ostinato rispetto all'andata. L'impressione di un ambiente selvaggio e deserto è confermata: bosco, bosco a perdita d'occhio. Là in fondo, da qualche parte, il fiume... Il freddo torna a farsi sentire, dopo tanti km senza pedalare; freddo al torace, alla schiena, alle mani, alle gambe che diventano subito rigide. Non vedo l'ora di arrivare giù, anche se un po' mi dispiace lasciare questo luogo incantato. L'importante è che non piova più...



Breve risalita oltre il fiume, per tornare all'incrocio con la strada che arriva dalle Capanne di Cosola. Pedalo verso Cabella, scambiando messaggi con Matteo che è partito da Genova in auto per lasciarla, pure lui, ad Ovada e venirmi incontro per un certo tratto, in bici. Spero solo che si renda conto che il mio incedere è molto, molto lento. Finché si scende, ovvio, va tutto bene, ma pianura e risalita sono un pianto... Tocca rassegnarsi ed andar piano.
Fatico a credere ai miei occhi, che svelano squarci di sereno sempre più ampi. In effetti, da Propata a qui non ho più avuto il piacere di una sola goccia di pioggia. Terrà? Nel dubbio, meglio affrettarsi a mettere chilometri sotto le ruote. Il fatto che il ritorno sia sempre più breve dell'andata non è un luogo comune, almeno in questo caso. Si pedala davvero poco; il grosso del lavoro lo fa la forza di gravità. In breve mi ritrovo a Cantalupo, con la luce del sole ormai basso che illumina le strane montagne a picco sulla piana. Un bellissimo tramonto mi accompagna lungo il canyon, con qualche breve tratto di affannosa risalita, mentre la strada si popola degli automobilisti del sabato sera. Passo attraverso nuvole di profumi di cena, accanto ai dehors di bar e ristoranti, gremiti di persone, ma non provo la benché minima invidia... Anzi! La mia felicità in sella è quasi perfetta...
Da Borghetto di Borbera ad Arquata, l'itinerario è un po' meno piacevole; il viavai di auto è frenetico, la strada è piatta e noiosa. In compenso, riesco finalmente a fare a meno della giacca impermeabile: la temperatura è davvero confortevole... Il casello dell'autostrada a Vignole, il passaggio ad Arquata, ai margini dell'abitato. Mentre viaggio verso Serravalle Scrivia, sullo stradone, scorgo una piccola luce che mi viene incontro alla velocità di un motorino: eccolo... E' Matteo, che ha coperto la distanza da Ovada a qui in un battibaleno. E infatti soffia come un mantice. Sono contentissima di incontrarlo... Ma quasi altrettanto contenta di incontrare le scorte alimentari che si porta dietro sempre in grande abbondanza. Nel viaggio di andata, stamattina, non ho toccato cibo; a pranzo ho mangiato, tutto sommato, pochino rispetto alla fame accumulata. Ora sono già al secondo Mars, dalla partenza di Propata, ed ho il pancino che ulula di solitudine...



Ripercorriamo all'indietro, chiacchierando, la stessa strada che ho macinato questa mattina. A Gavi, Matteo mi regala un bel giro turistico ciclistico nel centro del paese, molto suggestivo. E' ormai buio fatto quando cominciamo la salita verso Bosio. Il cielo è a chiazze; chiazze di stelle fittissime e chiazze di nuvole che ancora resistono. Di tanto in tanto, quattro gocce, ma qui Giove Pluvio non fa più paura; troppo sfilacciate le sue nubi, per organizzare un bel diluvio. L'aria pulita, limpidissima, permette la vista sulle lucine dei paesi sparsi tra le colline; silenzio, solo qualche fruscìo, poche auto. Le luci delle pile frontali, almeno in salita, possono addirittura restare spente: fa capolino tra le nuvole una bellissima luna piena, che cerco di fotografare, ma con scarso successo. Si chiacchiera ed io mi dimentico persino la fatica ed il dolore dello zaino pesante. Discese leggere e brevi risalite tra un cocuzzolo e l'altro: anche di notte, bellissimo e suggestivo l'abitato di Lerma: le pietre delle mura del bellissimo castello, illuminate dai fari disposti tutt'intorno, fanno vivace contrasto con il nero del cielo. Mornese, Casaleggio, l'aria fredda sulla pelle, sulle dita, sulla faccia. E infine Tagliolo: certo, da una parte sono contenta di essere già nei paraggi dell'auto, perché, volente o nolente, questi centonovanta km in MTB con la pioggia ed il macigno sulla schiena hanno richiesto un bello sforzo a cui non sono più abituata. Ma dall'altra parte avrei voglia di imboccare un'altra salita, una qualsiasi, e prolungare il giro in compagnia...



Matteo decide di scendere ad Ovada per una strada diversa da quella che ho percorso io in salita. Anziché passare dal centro di Ovada, ci si ritrova accanto al casello autostradale. Momenti di panico al pensiero di non ricordare più dove sia l'auto... Ma la Opel è sempre una certezza, c'è, mi aspetta. Saluto Matteo, che ha abbandonato il furgone a qualche km di distanza; neanche a parlarne, proporgli di accompagnarlo in auto. Rapido cambio della maglia, per lenire il senso di gelo che, lo so già, tra poco mi arriverà al midollo. Poi via, autoradio a palla. Sono passate da poco le undici; per l'una, poco più, sarò a casa, se tutto va bene. A nanna, ma per poco: domani a Vigone c'è la Mezza di Varenne. Non si può dire che la mezza maratona sia la mia specialità, ammesso che per me esista una specialità oltre al sollevamento del cucchiaio di Nutella... Ma andrò a Vigone in bici, in modo da scaldare un po' il cuoricino e non partire proprio a freddo. So già che soffrirò, finirò in apnea e rischierò di stramazzare. Ma Vigone è a un tiro di schioppo da casa... Vuoi non partecipare?

lunedì 23 aprile 2012

31 marzo 2012 - IN BICI AL MARE E RITORNO


"...perché tu sei distratta... Anche quando sei in ufficio, pensi alla corsa", mi rimprovera ogni tanto l'amico saggio. Chi, io? Come osi proferire siffatto verbo in mia presenza? Pensare alla corsa, io? Nego fieramente. Almeno per questa settimana. E' da mercoledì che una finestra sullo schermo del PC è fissa su Googlemaps, ma questa volta si tratta di un itinerario in bici. Mi manca, la bici. Mi mancano i begli anni in cui accumulavo distanze a cinque cifre nei 365 giorni. Mi mancano le scorribande dall'alba al tramonto ed anche oltre; mi mancano le rampe del Colle dell'Agnello, le pareti incombenti del Vallone di Elva, la pelata del Mt Ventoux, la cappelletta del Gavia, la neve al Passo della Novena, il profumo della vegetazione di mare salendo al Turini. Ci penso spesso, sempre più spesso. Certo, è tutto vero: non ho più tutto quel tempo da spendere in pedalate; non sono più studentessa e nemmeno tirocinante, bensì pomposamente "lavoratrice autonoma", purtroppo non navigante tra parcelle da capogiro come vorrebbe il luogo comune. Ho due amatissime creature a quattro zampe a cui badare. E una mamma a cui dedicare un po' più di tempo, anche se, nonostante tutto, sono ancora io ad aver bisogno di lei, molto più di quanto lei possa aver bisogno di me. Non posso comunque lamentarmi, per carità; la corsa a piedi offre tante soddisfazioni e brucia un sacco di energie. Cinque, sei, sette ore in bici sono poco, per come intendo io il ciclismo; altrettante ore a piedi sono già un buon allenamento; ergo, in questo momento della mia esistenza, ben venga la corsa. Ma la bici...

L'idea del giro frulla già in testa da un po'. Carmagnola, Alba, Manera, Castino, Cortemilia: fin lì ci so arrivare, senza bisogno di cartine. Oltre, i miei ricordi si fanno più nebulosi: sono strade che ho già percorso, ma non così spesso. E ne è già passato, di tempo. E' qui che Googlemaps arriva in mio soccorso. La meta è Genova: meta intermedia, s'intende, perché poi bisogna anche tornare a casa. Vorrei arrivarci per vie il più possibile traverse e "nuove". Tra una telefonata ed una pratica, aggiungo un tassello al puzzle: in capo ad un paio di giorni, l'itinerario è fatto. Il venerdì sera, l'ultima rifinitura: stampo le varie sezioni di cartina, ingrandite a sufficienza per la mia vista da talpa; traccio con cura l'itinerario con l'evidenziatore; riscrivo, da parte, l'elenco dei paesi e delle frazioni nell'ordine in cui li devo attraversare. Un po' meno di trecento km. "Mi raccomando" – penso – "devi ricordarti di prenderle, le stampe". Conoscendomi, metto un promemoria sul telefonino, in modo che trilli un po' prima dell'ora prevista per la partenza. Poi filo a nanna; è già tardi... E la sveglia suonerà alle tre.

Non è una prassi consigliabile, quella di preparare lo zaino alle tre del mattino. Però, ne approfitto per dar tempo al pancino di distruggere la colazione. Giacca impermeabile, giacchino leggero antivento, tre tranci di focaccia, due sacchettini di fichi secchi, due Twix tarocchi del discount; batterie di ricambio per la luce da manubrio e per le pile frontali; due camere d'aria, pompetta e bombolette per gonfiare le ruote, sperando di non averne bisogno. E ancora, macchina fotografica, mezzo chilo di chiavi di casa, telefonino, qualche soldo. "Le carte, Gian, mi raccomando". Il promemoria trilla, lo rinvio, trilla ancora. "Ma sì, dai, mi ricordo". Lo zaino è un macigno. Richiamo le mie belve dal giretto mattutino in giardino; torneranno a nanna, finché mamma non verrà più tardi a tener loro compagnia. Il cuore batte già forte e non ho ancora nemmeno messo la bici fuori di casa... Ultimo controllo alla pressione delle ruote, ultima spruzzata di lubrificante sulla catena. Zaino in spalla, gilet rifrangente, luce rossa posteriore fissa, lucine rosse intermittenti al ginocchio, pila frontale a luce intermittente dietro la nuca; altra frontale, più potente, rivolta in avanti, ad illuminare la strada insieme al faretto da manubrio. Sono più illuminata di un albero di Natale. Mi chiudo alle spalle il portoncino e via: la Ridley ed io, alle quattro e mezza di una notte di primavera, si parte.

Sulle prime, la tensione è palpabile. So di essere ben visibile: già, ma questo vale nei confronti di un automobilista sveglio e presente a se stesso. Non certo rispetto ad un pilota assonnato, quando va bene, o, peggio, alticcio o drogato. Senza contare che potrei anche incappare in un soggetto, così conciato, che magari non mi investe ma pensa bene di giocarmi qualche altro scherzo... Insomma, rischio, lo so. E non è per me che mi preoccupo, bensì per chi mi aspetta a casa... E' una battaglia tra pensieri cupi e voglia di andare, comunque. Per fortuna, le necessità contingenti ben presto assorbono la mia attenzione: una rotonda, spuntata dal nulla a due km dalla partenza e non illuminata, per esempio. E poi le voragini nell'asfalto, ed i rattoppi che son peggio delle voragini; devo prestare la massima attenzione a dove metto le ruote. La mia vista debole, ancor più incerta al buio, non mi aiuta, nonostante le luci molto potenti; l'equilibrio, poi, non è mai stato un granché. E la notte acuisce la sensazione di non avere il controllo della bici: gli altri sensi prevalgono sulla vista, che è per forza concentrata entro il cono di luce davanti alla ruota. Mi sento appollaiata sulla bici, come se dovessi cadere da un attimo all'altro; il peso dello zaino peggiora la situazione. "Calma Gian", mi ripeto come un'ossessione, "Calma, è tutto ok, vedrai che non cadi". Già, ma non sono troppo convincente, nemmeno per me stessa. "Calma, calma". Tutto mi getta addosso ansia, anche un'auto che arriva in senso contrario, un fruscìo nell'erba, un'irregolarità nella strada. E poi, quella sensazione fastidiosissima di essere "inclinata"... Lo so, è assurdo, ma mi sembra di viaggiare perennemente su una strada fatta "a schiena d'asino", come se la linea di mezzeria fosse più alta dei bordi e quindi la bici viaggiasse su un piano inclinato di lato. E mi viene da risalire questo pendio immaginario, spostandomi verso il centro per non scivolare fuori della carreggiata... Sarei curiosa di sapere quale assurda tara del mio neurone sia responsabile di tutto ciò. E so bene che, quando verrà giorno, quando potrò guardarmi intorno e distrarmi, non ci penserò nemmeno più. E non è l'unico motivo di tensione. Un altro, ad esempio, è il terrore di trovarmi in una curva a sinistra, che quindi io percorro sull'esterno, quando di fronte arriva un'auto: ogni volta ho l'impressione che quella debba raddrizzare la curva e falciarmi... Lo so, la mia fiducia nel prossimo è pressoché nulla, ma ne ho ben donde.

Per fortuna, di auto a quest'ora se ne vedono in giro ben poche. Così, nonostante la tensione mai sopita, viaggiando verso Ceresole d'Alba posso alzare, di tanto in tanto, gli occhi alla meravigliosa stellata di questa notte. Non può mancare la stella cadente: stella, o chissà che altro oggetto; una lunga scia che si sbriciola poco prima di sparire all'orizzonte, bellissima. Anche se so bene che serve a poco, il mio desiderio lo esprimo lo stesso: "Tornare a casa intera"...
Attraverso Ceresole nel nulla: le fioche luci dei lampioni, gialle, illuminano l'aria immobile. La mia andatura è molto lenta, senz'altro più lenta di quanto potrebbe esserlo di giorno: non mi fido, non ci vedo abbastanza da lanciarmi in grandi galoppate. Devo darmi il tempo di mettere a fuoco un eventuale ostacolo improvviso... E non è così facile.
La sensazione di tepore che ho provato uscendo di casa – una temperatura decisamente insolita per la stagione – lascia pian piano il posto ai primi brividi di freddo, quando il calore della colazione e della casa si è ormai consumato. I primi a patire sono i piedi, già freddi nonostante due paia di calze e le scarpe un po' allentate – un paio di vecchie scarpe da corsa ormai inservibili allo scopo, per via della suola troppo sottile.
La lievissima risalita verso Sommariva Perno mi fa capire, se mai ce ne fosse bisogno, che il mio stato di forma ciclistica è quanto mai disastroso. Lo zaino è davvero pesante; non sono così convinta che ce la farò, ma il dubbio di tornare indietro non mi sfiora nemmeno. (citaz l'hai detto, quindi lo devi fare). Affronto le rotonde con la massima cirfcospezione, timorosa come sono di finire per terra. E mi tornano sempre in mente, con una certa stizza, i facili commenti di chi, negli anni, mi ha spesso assicurato che "E' questione di abitudine". Sì, come no, abitudine. Ho percorso in bici più km di un pullman e non mi sono mai abituata. L'equilibrio su due ruote, nonostante tutto, non mi ha mai convinta.

Non posso negare che, nonostante la bellezza della notte, le luci dei lampioni agli incroci o negli abitati mi facciano dispiacere, anzi. A Sommariva Perno, tutto ancora tace. La successiva discesa, benché in gran parte illuminata, mette i miei nervi a dura prova: benché la conosca come le mie tasche e, di giorno, l'abbia ormai più o meno addomesticata, ora sono in balia delle curve, pure facilissime. La mia inettitudine si manifesta in tutta la sua forza. Dicono che anche l'equilibrio si possa migliorare con l'esercizio; sarà... Ma non mi convince, e in ogni caso non ne avrei la pazienza. Solo per un istante, la distesa di luci della collina mi fa mettere da parte il terrore per ammirarne la bellezza. L'aria è limpidissima. Poi riprendo a fatica il controllo del mezzo. Tribolando, arrivo al fondo e percorro con le ruote di piombo anche il tratto finale in falsopiano che conduce alla rotonda di Corneliano. La torre rotonda che sovrasta il paese, illuminata da un faro posto alla base, è imponente contro il cielo di un blu profondo. Mini-circonvallazione oppure passaggio in paese? Opto per la prima, se non altro non dovrei incontrare buche, tombini o altre insidie. Alla rotonda con la strada che porta ad Alba, in mezzo ai capannoni, mi accorgo che per oggi la vita è cominciata. Auto, furgoni, saracinesche che si sollevano e profiumo di caffè. Ci vorrebbe sì, un caffè, ma se ancora perdo tempo nelle soste, non arrivo più! Il cielo comincia vagamente a schiarirsi; del resto, quale luogo più appropriato di Alba per incontrare l'alba? Ponte sul Tanaro, le torri, gli ambulanti del mercato che sistemano i banchi. Tra poco sarò fuori dal caos: oltre il passaggio a livello, svolto a destra, direzione Manera e Borgomale. La prima vera salita. Mi metto al passo del carro funebre, con il rapporto più morbido che ho: le gambe, nonostante tutto, sono ancora fresche e reagiscono bene, a patto di non voler accennare il benché minimo scatto. Mi alzo sopra la città, che per fortuna sparisce in fretta, lasciando il posto alle colline che si delineano nere contro il cielo via via più blu. Le luci prima si sfocano, poi pian piano si spengono. Il panorama è bello da levare il fiato. Per fortuna, la pendenza è tale da lasciarmelo gustare. A ben pensarci, ho impiegato più di due ore per coprire poco più di trentacinque km: cominciamo bene... Spiccano i cocuzzoli, le torri, i castelli; Diano è ben visibile dall'altra parte della valle. Raggiungo la splendida Cascina Vernazza: ne escono, di gran carriera, due cagnoni. Mi fermo, porgo loro la mano: abbaiano, ma non hanno intenzioni bellicose; sembrano, anzi, guardinghi e timorosi. Uno dei due mi fa una pena infinita: corre su tre zampe... Gliene manca una anteriore, amputata al torace. Povera bestiola... Mi consola un po' il fatto che questi due animali mi sembrano davvero ben curati, pasciuti, con un bel pelo lucido; probabilmente, nella sfortuna, il cane a tre zampe ha incontrato una persona od una famiglia che sa prendersi cura di lui come si deve. Risalgo e riparto; per fortuna, qui la pendenza è minima: altrimenti, con i piedi svincolati dai pedali, riprendere la marcia non sarebbe così semplice. Madonna di Como, un breve tratto in piano, poi si sale ancora, in mezzo ad altre cascine ristrutturate con gusto. Alla rotonda so che ormai manca poco: a Manera, s'intende. Ormai è giorno, anche se la luce diretta del sole non mi raggiiunge ancora: e sì che ne avrei bisogno, per levarmi di dosso questa sonnolenza che di tanto in tanto arriva addirittura al colpo di sonno. Quell'istante che mi fa fare un gran salto... All'area picnic c'è già qualcuno che fa colazione, con una vista di gran lunga superiore a quella del più lussuoso hotel di qualche blasonata località turistica; filari di viti, noccioleti, le poche macchie di bosco che formano nuvole bianche, una lieve brezza che porta il profumo dei fiori. E' il momento più freddo: tra poco si scende giù verso il Belbo.... Sarà il caso di vestirsi? La pigrizia suggerisce di no: chiudo la cerniera del gilet e spero che il calore accumulato in salita non si dissipi tutto prima del ponte a fondovalle. A Manera, ancora la tentazione di una zaffata di caffé; resisto e tiro dritto, per affacciarmi alla splendida balconata sulla Valle Belbo. Con la luce, la discesa mi inquieta un po' meno, anche se lo zaino così pesante mi sbilancia un po'. Ma sarà poi davvero lo zaino... O sarò io? Inutile negare che qualche chilo l'ho messo su, ultimamente. I lavori di ristrutturazione della casa dei nonni, volente o nolente, mi hanno costretta a tirare un po' i remi in barca, sportivamente parlando, ma le fauci non hanno rallentato l'attività... Pazienza. Lascio scorrere le ruote con prudenza, giù per gli ampi curvoni. Non tarda a giungermi alle orecchie il rombo delle moto: da sempre questa è una delle strade preferite dai centauri, ma chi l'avrebbe mai detto che fossero così mattinieri? Da una curva spunta un bolide color verde acido, che disegna un arco perfetto passandomi accanto; poco dopo, un collega mi sorpassa, piega, addirittura sposta il deretano dal sellino verso terra. Nutro una sconfinata ammirazione per chi è capace di simile maestria. Loro no, non hanno paura di scivolare. Alla storia della forza centrifuga credono davvero... Sarà per questo, che nel loro caso funziona. Nel mio no, la fisica non mi ha mai amata. Quindi faccio, come dice il buon Ivanone Vinai, le curve quadrate, soprattutto in quei punti dove l'asfalto è graffiato da profondi solchi proprio nell'interno del tornante, e peggio che mai se ho un veicolo che mi arriva alle spalle. Dovrei riuscire a distrarmi, pensare ad altro...
La massa scura imponente del maniero di Borgomale mi si para davanti oltre una curva. Bellissimo, ancor più severo nella luce cristallina del mattino. Dai Gian, manca poco e sei giù. Il freddo,com'era prevedibile, ha già attraversato gli strati di vestiario per arrivare alla pelle. Le mani, protette solo da quel che resta di un paio di vecchi guanti di pile, sono irrigidite. Ecco finalmente il ponte. All'incrocio, il primo deficiente a quattro ruote della giornata brucia lo stop e mi taglia la strada: che il diavolo se lo porti... Poi si torna a salire. Ascesa appena più severa della precedente, ma nulla di terribile: dai Gian, forse oggi ce la fai... Attendo la luce diretta del sole, che mi scolli di dosso questa sonnolenza. A Castino, il negozietto di alimentari e merceria è già in attività. Profumo di pane... Oggi tutto è una tentazione! Giù, ancora in discesa, verso Cortemilia; qui finisce il mondo noto, o perlomeno il tratto in cui potrei procedere senza prestare attenzione ai cartelli, ed inizia il dubbio. Più che mai dubbio, visto che già qualche km fa mi sono resa conto che le cartine, frutto di tanto sudore della fronte, sono rimaste a casa... E' inutile, l'organizzazione ed io non andiamo d'accordo. Non potremo mai andare d'accordo. Nemmeno con i promemoria... Non c'è niente da fare. Però, se non altro, le ho studiate con tanta e tale attenzione che credo di ricordarle, anche senza averle sotto il naso. Proseguo lungo il viale alberato, attraverso il centro del paese e tiro dritto, direzione Pezzolo Valle Uzzone. Qualche km più avanti, la strada principale piega netta a sinistra, con un tornante. Direzione Savona, più di così... Avanti tutta. Anzi no: sosta tecnica e poi avanti tutta, prima che il mondo si risvegli troppo. Altrimenti, più avanti, trovare un luogo appartato potrebbe riuscire difficile. Riparto smozzicando un Twix. Mi torna in mente la classifica degli alimenti più maiali, che abbozzavamo tempo fa con Matteo: in cima ci sta senza dubbio il Mars, una delle peggiori e più goduriose porcate che l'industria alimentare abbia mai concepito; a ruota, il twix e derivati, i parenti poveri, solo perché un po' meno farciti. Il bello di far fatica è anche questo; poter deliziare il palato con simili agglomerati di grassi, senza troppi rimorsi. Certo, i guru dell'alimentazione sportiva avrebbero da ridire... Ma io sono convinta che anche loro, di tanto in tanto, si chiudano nello sgabuzzino di casa e si sfondino di Nutella.

La salita è blanda, irregolare. Intorno a me, il paesaggio di Langa che preferisco: non più i vigneti disegnati con squadra e goniometro, ma la boscaglia, i rovi, le gaggie, i costoloni nudi di roccia e di sabbia, gli strati che sembrano disposti così da mano umana e sono invece il risultato di chissà quali manifestazioni della forza della natura. Un'anziana, in piedi a bordo strada, dà direttive al marito che lavora nel noccioleto; sulla testa un foulard di tela e sulle spalle un bellissimo scialle lavorato all'uncinetto. Ai piedi, scarponcini di cuoio che devono aver calpestato a lungo questa terra. Si volta verso di me, proprio mentre passo; il suo sorriso rivela tanti buchi, ma due occhi azzurri che un po' di anni fa devono aver ammaliato più di un pretendente. Curioso, come tutto del corpo umano si sfasci nel tempo, tranne gli occhi. Il dono di uno sguardo fuori dal comune si conserva per sempre. La saluto, ricambia con voce ferma... Gorrino. Passo accanto alla frazione, senza attraversarla. Continuo a seguire la strada principale; non ho motivo di dubitare che sia giusta: i pochi bivi sono troppo piccoli per avere a che fare con la mia destinazione. In discesa, incontro il cartello di San Massimo; perfetto, questa è una conferma. L'itinerario, panoramicissimo, mi porta in vista del paese di Todocco, abbarbicato in cima ad una collina, sulla destra: spettacolare, così come dev'esserlo la vista che si gode di lassù. Per raggiungerlo, dovrei imboccare il bivio che mi trovo davanti; seguo con lo sguardo il tracciato della strada, che si perde nel bosco per riemergere poi alle soglie dell'abitato. Ne varrebbe la pena... Se non avessi una meta. Ma è meglio che io non aggiunga chilometri e dislivello. Per ora sto bene, ma quanto avrò percorso? Settanta, ottanta km, forse. Non ne ho idea, non ho il contakm. Per quelb che mi ricordo, sulla cartina la strada per il mare era ancora lunga, da qui. Figuriamoci poi il ritorno!

Sfilo accanto alla fontana che riporta un brano del Cantico delle Creature. A Piana Crixia manca ormai pochissimo: le abitazioni si infittiscono, finché non mi ritrovo in paese. Allora, attenzione. La mia idea, qui, era di raggiungere sì Dego, ma passando per una strada secondaria, tracciata con una linea appena percettibile sulla cartina. Immissione sulla strada principale per Dego; non il primo ponte, ma il secondo, che si trova proprio accanto al negozio di un tabaccaio e ad un parcheggio. Un crocchio di madame interrompe il fitto chiacchiericcio per osservarmi mentre passo: ho ancora la pila frontale in testa, devo essere un oggetto molto curioso per loro. Il torrente riflette i raggi del sole e scintilla in ogni minimo salto dell'acqua. Borgate Cheilini – Berri: fantastico, non avrei osato sperare tanto. Eccola, la mia stradina. Si sale subito e senza misericordia, passando tra le case del paese, che ben presto lasciano spazio ad un ambiente quasi selvaggio. Pare incredibile che qui si sia a due passi dalla civiltà: sì, è vero, c'è l'asfalto, ma la vegetazione cresce libera e rigogliosa. Le foglioline nuove, verdissime, degli alberi; fiori di ogni genere, dalla cicoria al biancospino, alle violette. E un profumo di primavera da respirare a pienissimi polmoni, che meraviglia. Mi balena in mente l'immagine di un paesaggio per certi versi molto simile, lungo l'itinerario del Raid Provence Extreme, nella zona della terribile "Roque d'Antheron": terreno sabbioso, arbusti bassi, vegetazione dall'aspetto già marittimo, anche se al mare manca ancora un po'. La strada sale e scende senza logica apparente; di tanto in tanto, il latrato di un cane, una cascina. L'asfalto è in condizioni eccellenti, almeno fin qui: una bella sorpresa. Scopro poi, con altrettanta meraviglia, che questo dev'essere anche un luogo di interesse archeologico; parcheggiata su uno slargo, ed apparentemente in piena efficienza, trovo nientemeno che una Fiat Ritmo beige. Da quanti secoli non ne vedevo una? Credevo fossero state ormai tutte rottamate d'ufficio...

Ad un primo bivio, mi soccorre un colpo di fortuna, Io avrei tirato dritto,senza alcuna ombra di dubbio. Invece, un cartello scritto a mano, a forma di freccia, indica Dego a sinistra. Titubante, obbedisco: speriamo bene... Una ripida discesa mi apre la visuale su una vallata tutta boscosa; da qui, non si direbbe esserci forma di vita in un raggio molto ampio. Invece, una risalita altrettanto secca mi conduce in vista di una borgata. La strada ha molte diramazioni, ma tutte sorprendentemente provviste di cartelli. Nel dubbio, domando informazione al primo essere umano che vedo in un'aia, intento a trasportare sterpaglie: con un po' di timore, perché il confine della Liguria l'ho già passato e la risposta potrebbe essere colorita... "sì, per Dego di qua, tre chilometri", con quella marcatissima "o" savonese. Ringrazio e mi defilo. Una discesa secca, una rampa in salita, nientemeno che in cemento: bellissima... Arrivo fin quasi in cima, pestando furiosamente sui pedali, con le ginocchia già duramente provate dal peso mio e dello zaino e dalla pendenza tutt'altro che agevole. Poi mi fermo, almeno qui, perché vale davvero la pena di scattare un paio di foto. Già, ma... Ripartire? Ahimé, non se ne parla nemmeno. Ci provo, ma, per riprendere la marcia in salita, occorre un microsecondo di "surplace" che qui non mi riuscirà mai. Ergo, a tutela dell'integrità del mio femore, mi porto su la bici camminando per quei pochi metri che mancano al culmine. Un vero e proprio colletto, con piccole pareti sabbiose ai lati, colonizzate dagli arbusti. Con la luce del sole, questo è proprio uno scorcio di Provenza. Altra discesina secca, altra rampa in salita, questa volta non più in cemento; sembra di stare sulle montagne russe. Dall'altra parte, la vista si posa su una distesa di campi coltivati, a destra, e di case, a sinistra. Dev'essere Dego, ma mi tocca tirare ad indovinare ancora un paio di bivi, prima di arrivarci. Ed inchiodarmi su un centinaio di metri di discesa davvero troppo ripida per i miei gusti: terrorizzata dalla sensazione di capriola in avanti, a dispetto di qualsiasi dignità, scendo a piedi.

La stradina in stile Indiana Jones mi scodella proprio accanto al muro del cimitero di Dego. Impiego qualche istante a raccapezzarmi, finché arrivo nel centro del paese e, da lì, vedo i cartelli che indicano Pontinvrea. Un gruppo di ciclisti in divisa bianca mi affianca appena prima che io svolti; si fermano al bar. Tutta presa dall'impegno di indovinare la retta via, non mi ero accorta che il cielo si fosse rannuvolato. Non proprio nuvole corpose, piuttosto una nebbia spessa, appiccicosa. E s'è alzato anche un po' di vento. Poco male, mi dico; sarà senz'altro un fenomeno isolato: sul versante del mare, sarà senz'altro bello e caldo. Ne sono certa....

Si ricomincia a salire. Non ho ben presente la geografia del luogo, anzi, non ce l'ho presente affatto. Sono località che ho già toccato, in passato, ma sempre in compagnia di altri che conoscevano la rotta. Non mi sono mai trovata nella necessità di districarmi tra le strade. Ricordo Pontinvrea per esserci capitata, una tarda sera di marzo di un paio d'anni fa, sotto il diluvio universale, tragicomico epilogo di una traversata che avrebbe dovuto svolgersi lungo l'Alta Via dei Monti Liguri, ma che è stata poi tarpata dalla nebbia e dalla neve ancora alta. Eravamo una truppa di cinque o sei squilibrati ed arrivavamo nientemeno che dal Colle di Nava, dopo innumerevoli km macinati a piedi ed un buon tratto coperto in pullman. Che avventura! A Pontinvrea, dopo ore di marcia sull'asfalto e sotto il diluvio, ci eravamo rifugiati in una locanda, tutti incollati alla stufa a legna. Che freddo...

Oggi non si può dire che la temperatura sia poi tanto più confortevole. La piacevole brezza collinare si è tramutata, senza preamboli, in un vento gelido e teso. La salita, di per sé blanda, mi ricaccia indietro. La nebbia si abbassa, corre a batuffoli, trasportata dalle raffiche. Rabbrividisco: le gocce si posano sugli abiti; non è pioggia, ma l'effetto è il medesimo. Con il termometro, crolla anche il mio morale: la stanchezza, che avrei potuto tenere facilmente a bada in una giornata calda e liminosa di primavera, si fa sentire prepotente; lo zaino sembra tirare le spalle ancor più giù... Mangio il secondo Twix, chissà che non valga a rincuorarmi un poco. Quanta fatica... Fatica cattiva, di chi si sforza ma non ce la fa. E' terribile, è un'agonia. Il vento freddo s'infila nel colletto, appiccica alla pelle gli indumenti umidi; sferza i raggi delle ruote e produce, di tanto in tanto, un sinistro ululato. Inutile dire che i miei sforzi in favore della calma e dell'autocontrollo son già andati a farsi benedire... Mi aggrappo alla speranza che, sul lato del mare, la situazione sia meno critica. A Pontinvrea c'è gente; è più o meno ora di pranzo. Si captano profumi invitanti... Ma, strano a dirsi, non ho fame; l'inquietudine prevale su tutto. I passanti indossano giacche e piumoni: non è una mia impressione, che faccia freddo... La prossima destinazione intermedia tra qui ed il mare, a quanto sembra dai cartelli, è Giovo Ligure. Speriamo bene... Qui la memoria delle carte non mi soccorre più. Avevo previsto di arrivare a Varazze; speriamo bene. La strada procede ancora per qualche km di saliscendi, senza che il vento conceda la minima tregua: mi rassegno alla tribolazione, faccio proprio fatica a spingere giù i pedali. In più, lo zaino mi rende difficile alzarmi di tanto in tanto in piedi, con il risultato che il peso poggia tutto sulle vertebre appena al di sopra del portacoda e fa male. Per non parlare del soprasella: al culmine della mia genialità, ho pensato bene di dimenticare anche il sacro spargimento di pasta di Fissan sulla pelle. Non oso pensare all'urlo che lancerò non appena dovrò scollare il fondello dei pantaloni dalle chiappe... Amen, in fondo sono qui per soffrire, e ciò che non uccide fortifica. Pare.

A Giovo Ligure, all'incrocio, finalmente mi ritrovo. Qui sì, ci sono già stata, e più volte, anche. A sinistra si va a Sassello, a destra finalmente giù, al mare. E non è una consolazione: non appena la strada mi conduce in vista del mare... Beh, il mare non lo vedo affatto, sepolto al di là delle nubi. In questo momento, nella nebbia sono proprio immersa. Ed al patema del freddo e della stanchezza si aggiunge quello per Matteo, che mi ha appena annunciato di essere ad Arenzano... Mi sta venendo incontro da Genova lungo l'Aurelia, mentre a quest'ora dovrebbe essere a pranzo con la famiglia, per un appuntamento già stabilito. E a me, da quassù, manca ancora almeno una dozzina di km!

Il disagio mi inibisce quel poco di audacia che ho acquisito in discesa. Al bivio per Varazze, svolto e mi imbatto in un corteo nuziale: i componenti hanno tutta l'aria di essere già parecchio alticci, ancor prima del banchetto... Vorrei sapere qual è la mente geniale che ha ben pensato di attaccare alle auto dei palloncini! Ce ne saranno dieci che rotolano sulla carreggiata, ovviamente strappati via dal precario vincolo... Ancora discesa, fredda. Fino alle prime propaggini di Varazze: tra svolte, incroci, sensi unici, semafori e rotonde, l'avvicinamento al mare mi sembra davvero eterno. E chissà dov'è Matteo. Prendo la direzione di Arenzano; pochi istanti e ricevo un suo messaggio: ancora pochi istanti ed eccolo accanto a me, sulla passeggiata, con due enormi tranci di focaccia di Voltri, un pintone da un litro e mezzo di Coca Cola e due yogurt. Tutto ciò contribuisce ad aggravare la confusione che domina il mio neurone: sono, come si suol dire, "più di là che di qua", ancora tesa e preoccupata per un viaggio di ritorno che, viste le premesse, non sarà una passeggiata. Ma come fare a dirgli che la preoccupazione mi ha piazzato un groppo allo stomaco e che non ho proprio fame? Beh... In fondo, la focaccia di Voltri non è cosa che si mangi per fame. Si trangugia in primis per golosità. E poi, so che il mio soccorritore gradirà volentieri di contribuire con lavoro di ganasce allo stesso desco... Virtuale, s'intende, perché non abbiamo nulla a cui appoggiarci; mangiamo in piedi, dando credo una ben triste impressione a chi ci osserva. Sembra che noi non si tocchi cibo da settimane... L'incontro è troppo fugace; sono ancora frastornata ed infreddolita, quando Matteo mi porge una delle sue borracce, piena di Coca Cola. Un saluto veloce e se ne va, richiamato all'ordine familiare: resto lì, sulla passeggiata, con la focaccia in una mano e la borraccia nell'altra, a guardarlo allontanarsi, poi a guardare le decine di vele bianche che si distinguono a fatica dal bianco lattiginoso del mare e del cielo. L'azzurro acceso dei tettucci delle cabine sulla spiaggia, oggi, è proprio fuori luogo.

Mi rimetto in marcia, per quella che psicologicamente è la seconda parte del mio viaggio, il ritorno. Da un punto di vista strettamente matematico, la metà dei km l'ho già superata; la percezione, tuttavia, è quella di una faticaccia resa ancor più pesante dalla stanchezza accumulata, e dal fatto che dovrò risalire dal mare allo spartiacque, con le gambe che implorano ormai pietà. Beh, è esattamente quel che volevo: trovarmi in questa condizione e non poter indulgere verso me stessa. S'ha da fare.

L'Aurelia, a quest'ora ed in una giornata tanto uggiosa, è quasi digeribile per un ciclista. Varazze, Celle, Albisola, Savona: qui, al cospetto delle torri, seguo i cartelli in direzione di Torino e mi armo di pazienza per gli innumerevoli semafori. Ma, anziché rientrare per la via più agevole e diretta al Cadibona, prendo a sinistra per la località Santuario, la salita che porta a Montenotte Superiore. L'ho percorsa l'anno scorso, in discesa, a piedi, arrivando da Ceva; all'epoca, mi ero detta: "Da provare in bici...". Eccomi. La periferia di Savona, come tutte, è tristissima e squallida; non è meglio, tuttavia, la stessa località Santuario, che raggiungo dopo qualche km di saliscendi. Solo quando mi lascio alle spalle le abitazioni e passo sotto lo splendido ponte della ferrovia, mi ritrovo finalmente in pace. Anche se c'è ben poco da gioire. Il cielo è sempre più plumbeo; il freddo non molla, anzi si accumula nelle ossa; le gambe... Beh... Due pezzi di legno, rigide, doloranti, da spingere giù una per volta al termine di un lungo lavoro di convinzione che si ripete pedalata dopo pedalata. Sempre più spesso devo almeno accennare ad alzarmi sui pedali, per dare sollievo a collo, schiena e soprasella, ma mi domando, davvero, se ce la farò ad arrivare fin su... Guardo i cartelli chilometrici, che scorrono con estenuante lentezza. Sono l'immagine di me stessa al rallentatore... E già in tempi normali non è che io sia un fulmine in salita. Nove, dieci... Se non ricordo male, devo arrivare a sedici per raggiungere Montenotte. Ma non ricordo se sia tutta salita o se avrò anche un po' di tregua. Intanto vado su, tornante dopo tornante, con calma. Non so che ora sia; sembra buio, qui in mezzo alla vegetazione fitta, con il sole che si è dimenticato di me. Ma, per quanto sia tardi, non può essere così tardi.

Il mio incedere monotono e penoso si interrompe solo davanti allo spettacolo dei faggi monumentali. Me li trovo sulla destra, all'improvviso; i caratteristici tronchi dalla corteccia chiara e liscia, ma enormi. Un cartello avvisa il viandante della delicatezza e del valore di questo luogo. Non posso fare a meno di scattare un paio di foto: poggio la bici al tronco di una delle piante, ovviamente con tutte le cautele in modo da toccare il prezioso vegetale solo con la pelle della sella ed il nastro del manubrio, per non far danni, e la immortalo in uno scatto glorioso. Anche se l'illuminazione è quella che è. Poi ancoraio in marcia, non senza difficoltà per ripartire in salita sul ghiaietto di cui l'asfalto qui è ricoperto. Ancora tornanti e tornanti, poi qualche traccia di vita, una segheria, cataste di profumatissimo legno. La pendenza s'attenua, ma le gambe faticano come prima; quando i muscoli sono così induriti, pedalare in agilità non è semplice. La nube ora ce l'ho appiccicata addosso; il vento non molla, investe la bici nel breve tratto di discesa su Montenotte. Ma chi me lo fa fare di soffrire così? Mi fermo ancora, scavo nello zaino, indosso il giacchino sottile con il cappuccio. Attraverso l'abitato, in direzione di Altare; ancora enormi faggi ed anche altrettanto imponenti conifere, ancora tratti di salita e discesa, poco più che dossi che a me però costano uno sforzo immane. Non appena la strada pende un po' in salita, mi inchiodo e procedo a passo di lumaca... Il bivio di Ferrania mi tenta; so che, da lì, dovrei poter raggiungere Carcare senza passare da Altare e dalla strada principale, odiosa e trafficata. Ma chi ha più voglia di fare esperimenti, adesso? Tiro dritto per Altare e sfilo accanto ad uno degli edifici, a mio parere, più belli al mondo, una costruzione in pietra, finissima, un capolavoro. Sulla targa, anch'essa in pietra, leggo un misterioso "Palazzo K". Mi riprometto di cercarne qualche notizia.

Ad Altare, noto con piacere che gli immensi ruderi di stabilimenti industriali in centro del paese sembrano oggetto di un'opera di recupero; niente più ferri e cemento a vista e macerie di vetrate? Speriamo... Lo svincolo dell'autostrada mi costringe ad uno slalom tra pericolosissime emormi buche che si sono formate in corrispondenza dei giunti metallici; ne manco una per un soffio. Nel tratto appena prima di Carcare, complice l'ambiente desolante ed il traffico intenso, soffro molto, quasi mi trascino. E adesso c'è quell'orrendo falsopiano in salita verso Millesimo... E poi, peggio ancora, la salita al Montezemolo, che, in questo stato, sarà il mio supplizio.

Capannoni, supermercati, cartelli chilometrici: il tratto verso Millesimo sembra scorrere un po' più in fretta del previsto. Le mie previsioni, del resto, scontano la fatica che si accumula sempre più. Le auto passano veloci, troppo, non si curano di far delle rasette da sfiorarmi; questo è un tratto maledetto. Il passaggio sotto il viadotto dell'autostrada, il triste colletto e poi giù verso l'abitato, con un passaggio sul pavè in centro che è puro dolore per le mie chiappe fiammeggianti... Ed anche per la schiena, già tormentata dallo zaino. Il freddo non molla... Umido, nebbia, grigiume. Ormai si va verso sera; non credo che avrò più occasione di vedere il sole... Di certo non ne potrò più godere il calore.

Supero il casello dell'autostrada: d'ora in poi, non mi resta che salire. Montezemolo non mi ha mai ispirato tanto terrore... Fin dalle prime pedalate in lotta con la gravità, mi rendo conto che qualcosa non va, sul serio, stavolta. Non è solo la stanchezza: è il ginocchio destro che fa male, anzi malissimo. Sembra che ad ogni pedalata produca uno schiocco, come se lì dentro qualcosa si fosse incastrato. Provo ad alzarmi sui pedali, a cambiare leggermente posizione: niente, non funziona. Provo ad ignorare il dolore: macché, non sono mai stata così eroica... La prima curva, davanti alla bottega del parrucchiere, è già uno strazio. Come faccio adesso ad arrivare fin su? E poi ad andare a casa? Uhm... Mal che vada, a Ceva c'è il treno. Sì, ma Gian, hai faticato tanto fin qui per il tuo giro da quasi trecento km... E saresti disposta a mollare così? Maledetta me che ho lasciato a casa la bustina con i medicinali. Basterebbe prendere un antiinfiammatorio e sarei a posto, almeno fino a casa. Invece sono nei guai.

Alla fatica si somma il dolore insistente. Una fitta ad ogni pedalata. E le nuvole... Il meteo non accenna a migliorare, anche se su, verso Montezemolo, si vede un po' di luce. Galleria o strada secondaria? Con gran fatica, mi trascino fino al bivio. Questo stradone, così largo e trafficato, mette angoscia. All'ultimo istante, decido per il passaggio lungo la vecchia statale, quella che attraversa la frazione "Strada". Chissà che un cambio di pendenza non giovi al mio ginocchio. In effetti, per qualche istante mi sembra vada un po' meglio; passo piano tra le case, proseguo lungo la salita, con vista sulla vallata cupa e sull'autostrada. Spingo per lo più con la gamba sinistra; la destra resta a riposo, ma duole molto, anche così. Tiro ad indovinare l'ora: tardo pomeriggio, ma vuol dire tutto e niente. La salita è più breve del previsto; segue un tratto di saliscendi in mezzo alla boscaglia, popolata di strani individui in Panda che caricano nel bagagliaio cataste di rami e ciocchi di legno. Mi reimmetto sulla strada principale per l'ultimo chilometro, il più penoso, fino a conquistare l'agognata meta: la rotonda di Montezemolo. Popolata, oggi, da una nutrita schiera di motociclisti.

Questa è una delle tappe ideali del viaggio. Pedalando mestamente verso il paese, ci sta una telefonata a mammà: così, con l'occasione, constato che sono le sei. "Quando arrivi?", mi chiede. Mah... Mezzanotte, non credo prima. La mia idea, infatti, è di andare non a Dogliani ma ad Alba, deviando a Murazzano in direzione di Bossolasco. Aggiungerei un bel po' di km rispetto alla via diretta, ma mi risparmierei la strada caotica tra Dogliani e Bra prima e la statale tra Bra e Carmagnola poi. Già, ma... In queste condizioni?

Bellissimo il paesino con le luci della sera. Quel poco di sole che quassù filtra tra le nubi. Mando un messaggio a Matteo: "Torno a vedere il sole adesso, per la prima volta". Tempo trenta secondi... E il sole sparisce dietro la coltre di nuvole. E fa sempre più freddo.
Anche la lieve risalita nell'abitato è una pena per il mio ginocchio. Per fortuna – e solo in questo caso, da amante della salita, mi ritrovo ad esclamare "per fortuna", da qui a casa non ci sono più dislivelli significativi da superare. Mi torna in mente un altro viaggio, forse l'unico in cui mi sia trovata a dover affrontare un problema fisico così serio: si era in Francia, una splendida "due giorni" con partenza da Susa e salita al Moncenisio, all'Iseran ed al Telegraphe-Galibier la prima giornata, all'Alpe d'Huez, Col de Serenne, Lautaret e Monginevro la seconda. Ebbene, in quell'occasione mi è toccato affrontare l'Alpe d'Huez letteralmente spingendo con una gamba sola, attendendo che l'altro ginocchio smettesse di tormentarmi per il male, sotto l'effetto di un antidolorifico. E meno male che, da quelle parti, non è difficile scovare una farmacia aperta anche alla domenica!

Appena fuori Montezemolo, mi rendo conto che le tribolazioni non sono affatto finite. Ci si mette, ora, il vento. Nonostante la coltre di nubi suggerisca un senso di immobilità e torpore, raffiche improvvise soffiano da destra, spingendomi verso il centro della strada. Il mio eqilibrio precario, lo zaino, la stanchezza e la strada che corre in cresta, in piena esposizione, completano un quadro già abbastanza tormentato. Calma... Calma... Riuscirò a tenere la bici? Sono rigida come uno stoccafisso; la sensazione è sempre la stessa: non sono io che controllo la bici; sta accadendo esattamente il contrario. Sono appollaiata in cima ad un aggeggio dotato di vita propria, sulle cui decisioni ho ben poca influenza. E se mai dovessi cadere? Con la processione di moto che scorre quassù, a pochi centimetri da me, non avrei scampo. E causerei danni seri anche a qualcn altro. Speriamo bene, speriamo bene, non posso fare altro. E mi viene un sorriso amaro: se raccontassi, adesso, ad un ipotetico interlocutore, tutto ciò che ho combinato in bici negli anni passati, quello, guardandomi, m'inviterebbe caldamente a non inventare balle. Non sono balle; ne ho collezionate tante, di avventure... Ma sempre in compagnia della paura.

Quel che conta, adesso, è togliersi di qui. Rifletto sul da farsi, per quel che l'ansia mi consente. Mi converrà davvero passare da Alba? Il vento non sembra avere intenzione di attenuarsi, anzi; capita che, oltre una curva, dietro una casa, la raffica mi attenda ancor più insidiosa. Raggiungere Alba significa allungare la permanenza in cresta, sia quanto a chilometri che quanto a durata del viaggio, e magari trovarsi ad affrontare la discesa finale, da Diano, già al buio. Vero, quella discesa non è nulla di terribile, in assoluto... Ma, in queste condizioni, qualsiasi minima avversità lo diventa. Bando ai tentennamenti: Dogliani in fondo è il male minore. Vero, mi troverò sulla Fondovalle Tanaro quando sarà già buio, ma pazienza, "io speriamo che me la cavo".

L'unico che, in questa specie di bufera, riesce ad essere perfettamente immobile è proprio ciò che, al contrario, dovrebbe essere in movimento: il generatore eolico tra Montezemolo e Sale Langhe. Il mio scetticismo cronico nei confronti delle cosiddette "energie alternative" guadagna altri mille punti. Mastodonti come questo sono stati eretti un po' ovunque nei dintorni... Ma chissà perché, io non ho mai visto quelle pale accennare il benché minimo movimento, nemmeno per darsi un tono. E qualcuno vorrebbe far credere che qui si produce energia? Ma per favore...
Procedo tentennando, con tanta fatica ad ogni pedalata. Il dolore al ginocchio non è più così continuo; è una fitta intensa che però compare solo di tanto in tanto. Se non altro, posso sperare di trascinarmi fino a casa. Scruto le nuvole: gli squarci di sereno sono sempre più ampi, man mano che si viaggia in direzione di Dogliani; peccato che quel pallido sole che forse riuscirò ancora a vedere, a quest'ora ormai tarda del pomeriggio, non servirà più a levarmi di dosso un po' del freddo che mi tormenta.
Mi affianca un ciclista, l'unico che abbia finora visto in giro da quando ho lasciato Savona. Magrissimo, atletico, ha gli auricolari e viaggia su una bella bici, molto avveniristica. Noto subito con orrore le ruote a profilo alto: ma come diavolo fa a stare in strada, con questo vento? Scambiamo quattro chiacchiere; scopro che anche lui non è nuovo a pedalate molto lunghe... Già, però, occhio e croce, la sua velocità di crociera è un tantino più alta della mia. Manca poco a Montezemolo quando ci congediamo: due pedalate e via, sparisce avanti, con una grazia ed una leggerezza impressionanti. Ed io rimango qui, pachidermica e sfinita...
La torre, le curve proprio sotto il paese, la rotonda. Dogliani si avvicina, sia pure con lentezza esasperante. Non so se siano peggio i lunghi rettilinei esposti alle raffiche o i tornanti in cui rallento al punto tale da rischiare il ribaltamento... Peccato non potermi guardare troppo intorno, perché le nuvole disegnano scenari da favola nella luce del tramonto. Ma non è il momento di far poesia. Belvedere Langhe. Dai Gian, ci sei quasi. Forse stavolta te la cavi.
Arrivo alle spalle del cupolone di Dogliani con una tale tensione addosso che percorro l'ultimo tratto della discesa con i freni tirati a dismisura, anche se ormai, a parte l'asfalto grattato, non c'è più alcuna ragione di temere. Attraverso il centro, che brulica di gente a spasso, e punto dritta su Monchiero. Un'auto si immette dalla mia sinistra nel mio senso di marcia e quasi mi chiude contro il cordolo del marciapiede; poi, non contento, il simpaticone alla guida svolta bruscamente a destra tagliandomi la strada... Lancio un paio di irripetibili epiteti all'indirizzo della scostumata mamma del geniale pilota; cominciamo bene... Bentornata nella civiltà!
So che dovrei sfruttare all'osso anche il minimo raggio di luce che il giorno ancora mi concederà, ma sono in crisi nera, nerissima. A Monchiero devo concedermi un momento di tregua... Scelgo la piazzetta sulla destra, all'uscita del paese. Appoggio la bici al muro, mi siedo sul marciapiede, levo lo zaino... E resto per una decina di secondi in una sorta di coma vigile. Guardo senza vedere: un fuoristrada si ferma davanti alla farmacia, che ha già la serranda quasi abbassata; una donna bionda si precipita nel locale, chiedendo qualcosa con mille scuse, e ne esce con un pacchetto in mano. Risale dal lato passeggero; il fuoristrada se ne va. Mi sveglio dalla mia apatia; pesco nello zaino un trancio di focaccia, quella che mi son portata da casa, e me lo sbocconcello con calma, mentre la schiena si gode per qualche momento il sollievo di non avere il peso dello zaino.
Bando agli indugi: è ora di ripartire. La farmacista abbassa la serranda e se ne va, in compagnia di una collega. Bardatura per la notte: luci, rifrangenti, un giacchino in più, visto che fa proprio freddo, e che io il freddo me lo porto nelle ossa già da un po'. Se potessi urlare al mondo il mio dolore, quando riappoggio le ingombranti chiappe sulla sella, mi sentirebbero fino a Singapore... Ma stoicamente taccio. Il ginocchio malandato ha anche lui qualcosa da obiettare, ma ormai non c'è storia... Si va a casa.
Affronto con profonda apprensione la Fondovalle Tanaro: ogni volta mi dà l'impressione di essere lunghissima, eterna, ed ogni volta garantisce emozioni forti. Probabilmente è un tratto che stuzzica l'istinto omicida – suicida dei pilotastri da quattro soldi. Incrocio le dita ed affretto la pedalata: un motore alle spalle, mamma mia speriamo che non mi passi sopra, uno spostamento d'aria, un proiettile che si allontana. Questo è andato, avanti il prossimo. La luce digrada, spuntano le prime stelle. I capannoni di Cherasco sono una liberazione, anche se non è ancora finita... Il rotondone dell'autostrada, la circumnavigazione del cocuzzolo su cui si arrocca il paese. In altre circostanze, sarei andata fin su, a passare dal centro. Ma stasera non è il caso. Anche i maniaci della salita, ogni tanto, fanno sciopero. A gettarmi nella tribolazione basta già la rampa che risale a Bra: un calvario, non finisce più. E tutti questi idioti motorizzati che suonano il clacson... Ma tu, inutile individuo per cui la testa ha la sola funzione di reggere il cappello: di grazia, dimmi, cosa vuoi dalla mia vita? Sono più illuminata di un albero di Natale e vado per la mia strada...
Struscio del sabato sera nella via centrale di Bra, che è anche isola pedonale. Il mio soprasella è ormai brasato a tal punto che sopporta il passaggio sul pavé senza un lamento. Poca vita, poca gente in strada; la maggior parte dei pecoroni del sabato sera sarà stipata nei bar. Qualcuno mi squadra con occhio incredulo. Ed io così mi faccio una carrellata di vetrine!
L'ospedale, il semaforo, Viale Madonna dei Fiori. Rimane l'ultimo ostacolo, la strada statale verso Carmagnola. Per fortuna – e solo sotto questo aspetto dico "per fortuna" – capannoni e costruzioni varie costeggiano ormai quasi tutto lo sviluppo della strada, con relativo corredo di lampioni. Almeno fino a Sommariva Bosco, non ci sono tratti troppo bui. Il traffico è abbastanza vivace... Nervi a fior di pelle, speriamo bene. Sarebbe una beffa, farsi stirare a pochi km da casa!
A Sommariva, decido per una variante rispetto alla strada principale. Sono sfinita ed ogni km in più è un calvario, ma della via diretta per Carmagnola ho un certo timore. Svolto in direzione di Caramagna, lungo una via un po' meno caotica. Nel piccolo abitato deserto, spunta una signora per cui risulto essere, probabilmente, l'unica forma di vita umana a cui chiedere un'informazione. Per fortuna, è una via che conosco, quella che le interessa.
Per stradine di campagna, in mezzo alle cascine, consumo le ultime energie. Ora che sono proprio nei pressi di casa, ora che la tensione s'è allentata, il dolore non più sopito scoppia in tutto il suo vigore. Il fondoschiena, la colonna vertebrale, le spalle, le ginocchia, i piedi... Tutto. Ho la sensazione di dovermi accartocciare per terra da un attimo all'altro. Le prime frazioni, Oselle, San Giovanni, poi finalmente la via di casa: il sospetto di non riuscire a percorrere gli ultimi cinquecento metri è sempre più vivo...
Apro il cancelletto di casa, poi il portoncino: il mio ultimo sforzo di restare in piedi è travolto ed annientato da ottanta chili di zampe e pelo che mi rovinano addosso, in due comode rate, con la violenza dell'acqua dall'idrante dei Pompieri. Le mie due meraviglie pelose. Sembra che capiscano e vogliano condividere il mio entusiasmo per la splendida giornata. Ce l'ho fatta, nonostante tutto. Circa 270 km e 3.500 m di dislivello, mal contati. Sono passate da poco le dieci di sera. E quale essere umano al mondo potrebbe essere tanto felice del mio ritorno?

lunedì 13 febbraio 2012

12 febbraio 2012 - Di corsa da Ceva a Bergeggi, via Melogno

Ci sono varie scuole di pensiero circa il miglior modo di prepararsi ad affrontare la Siberia. Chi sostiene che sia meglio restare a lungo in un ambiente surriscaldato, in modo da buttarsi fuori con una buona scorta di calore in corpo, e chi invece ritiene che sia più saggio abituarsi al freddo per gradi, onde evitare lo sbalzo di temperatura. Razionalmente, mi schiero dalla parte della seconda tesi... Ma la mia viltà mi impedisce di essere nei fatti fedele all'idea. Così, quando raggiungo la piazza centrale di Ceva, l'abitacolo della Opel è una succursale dell'Inferno, almeno quanto a temperatura. Mancano dieci minuti alle cinque, è buio pesto e l'ultimo termometro che ho letto segnava diciassette gradi. Sotto zero, ovvio.

Troppo tardi per chiedermi se quel che sto per fare abbia senso o no. Un'auto è ferma ad una decina di metri da me, i fari puntati proprio qui; un'altra auto arriva poco dopo e si accosta alla prima. Saranno i nottambuli del sabato sera sconfinato nella domenica mattina. Ed è probabile che io sia per loro nient'altro che il prodotto della sbornia ancora da smaltire. Tre strati di maglie, la giacca antivento, i guanti spessi, il berretto... Ma, in un eccesso di fiducia o in un accesso di follia, i pantaloni 3/4, con tanto di polpaccio nudo.

Con quel poco di autonomia di movimento delle dita che il freddo mi concede prima di congelarmele del tutto, chiudo la Opel e sistemo la chiave al sicuro in una tasca dello zainetto. Poi stringo gli spallacci e, finalmente, parto, di corsa. Il paese è deserto, non fosse che per il viavai dei colleghi dei nottambuli di prima; le luci fioche dei lampioni illuminano i cumuli grigi di neve sporca ammassata sui marciapiedi, ai bordi delle strade; le insegne dei negozi luccicano su vetrine buie o nascoste dalle serrande. Il freddo è feroce; centinaia di spilli si piantano nelle gambe, anche nella parte coperta dal pantalone, nelle mani, risalgono lungo le braccia, fino alla schiena ed al torace. Meno male che la salita comincia subito... Tra le ultime case del paese, le imposte ancora chiuse, l'area di servizio deserta. Respiro gelo.

Ho dimenticato la luce frontale, stamattina; mi attendono un paio d'ore di buio, prima che sorga il sole, ma non è un problema: la luce della luna, anch'essa fredda e fioca, è tuttavia più che sufficiente ad illuminarmi il cammino, per effetto del riverbero della neve. Due sole sfumature disegnano il paesaggio, il nero ed una via di mezzo tra il grigio e l'azzurro. Qua e là, un lampioncino nel cortile di una cascina spicca come un errore in un malinconico dipinto invernale: il lume inganna, vorrebbe indicare presenza umana, ma nulla muove. Se è possibile che il suono si congeli, stamattina accade anche questo: non un rumore di frasche, né di acqua che scorre – e sì che il corso d'acqua è qui accanto -, non il latrato di un cane. Un silenzio pesante, quasi oppressivo, in cui il fruscio dello zaino sulla giacca assume le proporzioni di un frastuono assordante.


Costringo i garretti ad un trotto più vivace di quanto prudenza suggerirebbe, davanti alla prospettiva di oltre ottanta km di corsa. Non riesco a scaldarmi. Per ora, strano a dirsi, il cuoricino risponde bene e la pancia non ha nulla da obiettare. Lastre di ghiaccio, sabbia e sale crepitano sotto le suole. Il tratto iniziale della salita, con pendenza blanda, è stretto tra due pareti di roccia alte ed incombenti; incontro qui la prima ed unica auto prima di Paroldo. Come da copione, il piccolo fuoristrada rallenta e mi passa accanto quasi con cautela; non riesco a vedere, ma posso immaginare lo sguardo allibito del pilota. Più avanti, la valle si allarga, invasa dalla luce della luna; i contorni emergono a fatica, il nero si stacca dall'azzurro e crea forme che è difficile distinguere. Le mani nei guanti strappano già smorfie di dolore: le scuoto, chiudo e riapro le dita, le porto alla bocca per scaldarle con il fiato, ma non c'è verso. Fa troppo freddo. Il cielo appena velato lascia intravedere qualche timida stella. Distinguo a fatica i contorni delle colline. Varrebbe la pena di guardarsi intorno con più attenzione... Ma il freddo graffia la faccia; solo tenendo la testa piegata verso il basso riesco a difendermi un po'.


La frazione Bovine è un nugolo di case fantasma. Sembra impossibile che, dietro le imposte delle case, possa percepirsi anche solo un sospiro. Mi immagino per un momento anch'io, come gli abitanti di queste poche case, arrotolata sotto le coperte al calduccio... Ma no, non è vero, il mio posto è qui. Accolgo con sollievo i due o tre tornanti che mi avvicinano a Paroldo: lo sguardo spazia su tutta la vallata, giù giù, verso Ceva, e poi sempre più vicino, fino a contare i fili d'erba imprigionati nel loro sarcofago di ghiaccio.Le gambe bruciano come se fossero immerse nell'acqua bollente, quando in realtà è proprio il contrario. La pulizia delle strade lascia un po' a desiderare; corro ormai da un po' su un insidioso strato di ghiaccio che crepita sotto le suole, ma spesso non si spacca e forma uno scudo scivolosissimo, un tentativo di omicidio bello e buono nei confronti dei miei garretti. La luce gialla dei lampioni non rischiara nessuno, oltre a me. Ancora due tornanti ed anche Paroldo, sonnacchiosa, è alle spalle; proseguo la mia corsa. Le gambe hanno preso un buon ritmo; il gelo morde, ma qui è tutto così silenzioso e così bello. E' vero, il neurone non può fare a meno di tornare sempre lì, alle grane del lavoro, ai rapporti familiari che giorno dopo giorno scendono un gradino in più lungo la scala inesorabile della dissoluzione, alle prospettive incerte, alla fatidica domanda "Adesso cosa faccio?". Domanda che abbraccia ogni campo dell'umana esistenza, perlomeno la mia, ma che, da quassù, sembra un po' meno assillante. E, se da quassù non si trova una risposta, è solo perché la risposta non c'è, il rimedio nemmeno. Indietro non si può tornare; la strada non si può scegliere, in certe circostanze tocca percorrere quella che c'è. Oppure uscire fuori e prender la via dei campi, senza traccia e con chissà quale meta. Ma ci vuole un coraggio che io non ho.

I fanali posteriori di un'auto, in lontananza, mi ricordano, a proposito, che manca poco al bivio: calpesterò neve e ghiaccio ancora per un chilometro, nella speranza che la strada alta, un po' più battuta, sia anche più pulita.


Avverto qui oggi, per la prima volta, il latrato di un cane. Posso solo intuirne la provenienza, giù da qualche punto del pendio alla mia destra; c'è una cascina. E' ancora buio. L'area di servizio, appena oltre la rotonda, è desolante nella fioca luce verdognola delle insegne, che si sforza di illuminare il nulla. Il bar, lì accanto, serrande abbassate. Ovvio, chi vuoi che passi di qua a quest'ora di domenica.

Speravo in un provvidenziale fenomeno di inversione termica... Ma, a quanto pare, in fatto di meteorologia non capisco granché. Fa freddo quassù, tanto quanto laggiù a Ceva. Anzi peggio, se possibile: spira un venticello che s'infila, non so come, tra gli innumerevoli strati di vestiario, fino ad arrivare proprio sul collo, dietro, come una scaglia di ghiaccio. Ho la sensazione che sarà dura! In compenso, da quassù si gode il panorama irreale di un'alba al contrario: il cielo ancora nero; le distese di neve che prevalgono alla vista e si colorano di un azzurro tenue alla luce della luna, dando invece l'impressione del chiarore del primo sole. Lunghi saliscendi fino a Montezemolo; mi sforzo di correre a buon ritmo, perché ora non ho più nemmeno il conforto del calore della salita più o meno continua. A lato, la strada è sepolta sotto un insidioso strato di ghiaccio, che posso però evitare correndo comodamente al centro della strada. Non c'è traccia di auto.


Quasi senza che me ne accorga, il cielo è già più chiaro quando rialzo gli occhi, riemergendo da chissà quale meditazione. E' sorprendente come le gambe conoscano ormai il loro compito, anche se il neurone ogni tanto si allontana per altri lidi. La giornata non si annuncia radiosa: nuvole alte, sottili, si affrettano a fermare i pochi deboli raggi di sole in viaggio verso la terra. Le piante sono cariche di neve, ma non una goccia sfugge alla morsa del gelo. La bellissima "casa rossa", la salita, il generatore eolico, ancor più sinistro, quasi uno scheletro contro il cielo diafano; la chiesetta, le case di Arbi, il mio amico maremmano che anche oggi, immancabile, mi dedica uno dei suoi tonanti abbai. Io non lo abbandonerei in giardino, nonostante la sua foltissima pelliccia bianca. Lo terrei nel lettone!


Ho rinunciato ormai da un po' all'uso delle mani. Il dolore è davvero forte, nonostante io gesticoli furiosamente per scaldarle, neanche mi avesse morsa una tarantola. Il sangue non ce la fa. Del resto, non posso stupirmi; sono quella che, a sera di qualsiasi stagione, va a nanna con mani e piedi che sembrano bottiglie di Champagne tenute nel secchiello del ghiaccio fino ad un attimo prima. La circolazione periferica lascia a desiderare

A Montezemolo sopravvivono due di quei negozietti che sembrano usciti da un film del primo dopoguerra, quelle vetrine che espongono di tutto, dal prosciutto al detersivo. Per la verità, uno dei due è una panetteria: il vetro nascosto dalla condensa del calore interno, un profumo inebriante che sfugge nonostante porte e finestre sbarrate. Mi torna in mente la bottega di un viaggio di qualche anno fa, in un minuscolo paese sperduto nei Vosgi, un locale ancor più lillipuziano, scaffali di legno, bancone consunto e tarlato, ovunque la polvere del tempo. Ma la pizza, sì, proprio una vera pizza rotonda, che avevo scorto come un miraggio e comprato, forte della fame del viaggio in bici, aveva un sapore squisito.


Mi piacerebbe moltissimo poter visitare il castello. Credo sia abitato, o quantomeno custodito; bello così come sono belle e ricche di fascino quasi tutte le altre abitazioni del paesello, i muri in pietra, i ballatoi in legno. Alcune ristrutturate con gusto.


Mi volto verso sinistra, quasi per caso: un enorme sole rosso sta sorgendo tra le fronde della boscaglia. Una visione mozzafiato, che però, purtroppo, non posso immortalare. Le mani sono troppo gelate per maneggiare la macchina fotografica. E il sole va su troppo in fretta... Fermarmi, non se ne parla nemmeno. -15°C, sentenzia il termometro nei pressi della rotonda dei motociclisti. Non ci posso credere... E adesso mi tocca scendere!

La luce del sole non arriva ancora a me. E sarebbe in ogni caso troppo fioca. Corro sul bordo, più che posso, e già così la neve accumulata mi costringe ad invadere un po' la carreggiata. Qualche auto, qui, si muove. Freddo... L'intenzione era di percorrere la strada secondaria, per evitare la galleria. Ma ci rinuncio, per due buone ragioni: primo, perché un'occhiata al bivio mi basta per capire che la stradina è stata rimpiazzata da una pista di pattinaggio su ghiaccio; secondo, perché ho disperatamente bisogno di un po' di conforto termico. E la galleria, per quanto orribile possa essere agli occhi di un podista o di un ciclista, offre quel conforto. Pochi gradi di differenza, probabilmente, ma l'effetto è adorabile. Le mani, sfregate, scosse, aperte e chiuse senza sosta, riprendono un po' di vita. Solo gli occhi faticano un po': prima erano le lacrime versate in reazione al freddo che oscuravano la pupilla, ora sono le lenti degli occhiali fotocromatici, che, ho scoperto "sul campo", impiegano un'eternità a tornare chiare a questa temperatura.


Questo è uno dei rari casi in cui la fine della galleria non è un sollievo. Sapessi almeno di uscire sotto una doccia di sole sfavillante... Invece no, grigiume e gelo, come prima. I brividi risalgono le braccia, la schiena. La strada scende nell'imbuto di Millesimo; la neve continua a crepitare sotto i piedi. Non c'è comignolo senza il suo sbuffo di fumo; le stufe, di questi tempi, fanno gli straordinari... Grigio è il colore dominante; grigio dell'asfalto, del muraglione di cemento, del viadotto dell'autostrada. Una cioccolata calda è il miraggio che coccolo ormai da molti chilometri: in piazza, appena arrivo in piazza, promesso... Al bivio verso il centro del paese, mi imbatto nel furgone del Team Marchisio: ciclisti in partenza! Questi sono completamente matti, a meno che il veicolo non li scarrozzi fino al mare. E comunque anche lì, oggi, ci vuole del coraggio a salire su una bici da corsa!


Nella via centrale, ci sono solo due bar aperti. Tutt'e due presidiati da grappoli di persone sulla soglia, intente a chiacchierare e sfumacchiare. Esito per un attimo; sento gli sguardi interrogativi, lascio perdere, passo oltre il primo locale, passo oltre il secondo. Inutile sperare in una terza possibilità. Sarei curiosa io stessa di sapere il motivo di questa sorta di timidezza... Si stava così bene, fino a poco fa, in mezzo al nulla. Del resto, non posso certo pretendere che gli esercizi pubblici di Millesimo campino sulla mia cioccolata!


Con il freddo ormai conficcato nelle ossa, mi lascio alle spalle Millesimo, il triste casermone sulla sinistra, appena prima dell'incrocio, e prendo la direzione di Calizzano. Un fondovalle incassato, gelido, terribile, dove sembra che il sole non penetri da mesi: eppure ci sono delle abitazioni, delle aziende, c'è vita! Il ponte sul torrente Bormida, una distesa bianca immobile, ancora sabbia e sale. Non ricordo quanto dista da qui il bivio per il Colle del Melogno; è una strada che ho percorso spesso, ma in bici. Non riesco a confrontare l'idea della distanza. Guardo i tetti, i comignoli, qualsiasi minima superficie che offre appoggio, tutto sepolto da almeno trenta cm di neve, forse anche di più. Rattrappisco il collo per nascondere un po' il mento sotto il bavero della giacca, a caccia di un minimo illusorio tepore. I polpacci sono paonazzi, i piedi non si sentono più. Le mani si sentono eccome, ed urlano di dolore. Non potrei nemmeno aprire la tasca dello zaino: ho fame già da un po', ma me la tengo, perché tanto non potrei articolare le dita. Attraverso un abitato: il fumo dei comignoli è l'unico segno di presenza umana; nessuno alle finestre, nessuno nei cortili né per la strada. Questa valle è un inferno di gelo, uno dei luoghi più inospitali che abbia mai attraversato! Non c'è un filo d'erba che non sia prigioniero di un sarcofago di ghiaccio...


Il bivio, finalmente. Non ci speravo più. Osiglia. Colle del Melogno, 20 km. Beh... L'appuntamento con Matteo è all'incirca all'altezza della locanda, circa un chilometro prima del Melogno; in ogni caso, mi ci vorranno due ore e mezza almeno, per arrivarci. A fatica estraggo dalla tasca il telefonino: sono le nove e venti. La previsione del mio compare, tanto per cambiare, si rivela clamorosamente ottimistica. Del resto, che posso farci? Più di così non posso correre. Farò del mio meglio, ma arriverò lassù in clamoroso ritardo. Anche perché ho disperatamente bisogno di una sosta...


Percorro il lungo falsopiano tra neve, rocce e boscaglia, mentre i raggi del sole sembrano finalmente farsi strada attraverso la nebbia sospesa. Solo qualche fruscìo improvviso, di tanto in tanto, mi distoglie dai pensieri, qualche traccia di zampe nella neve. Salita impercettibile ma senza interruzione; combatto contro la tentazione di allungare il passo, perché prima o poi toccherà affrontare davvero il dislivello... E per le gambe sarà dura.


Ricordavo qualche tornante per superare lo "scalino" della diga di Osiglia. In effetti, ci arrivo: lassù in alto, sulla destra, gli edifici attigui alla diga, piccoli piccoli. La pendenza rinforza d'improvviso. Continuo a correre, anche se il passo è tale che probabilmente, camminando, procederei alla medesima velocità. Ma posso osare, in allenamento. Non mi passerebbe per l'anticamera del cervello di infliggermi uno sforzo simile, del tutto inutile, in gara, ma qui... Qui ci devo provare.


Il lago spunta subito dopo una curva secca. E' completamente ghiacciato: una gigantesca pista di pattinaggio, spettacolare. Il calore del corpo in salita, però, si scontra immediatamente con il freddo e la leggera brezza del trotto in piano, lungo la superficie dell'acqua: ancora una volta, brividi al tronco e nella schiena, gelo alle mani. E pancia che brontola, reclama le spettanze. Il tratto di strada quasi rettilineo che precede Osiglia è infinito. Osservo l'altra sponda del lago e mi pare che ciu sia, laggiù, un po' di sole in più... Ma è anche vero che la coda che si smaltisce più in fretta è sempre quella a fianco. Che razza di temperatura troverò a ridosso dei mille metri?


Un nugolo di case, una pensilina del bus. Avanti, ancora, e speriamo di trovare un bar ad Osiglia. Sarà un'ossessione la mia, ma ho bisogno di buttar giù qualcosa di caldo... Cartelli fissati alla palizzata di legno segnano la distanza ogni 200 m. Resti di chissà quale corsa. Il paese si avvicina. C'è una casetta in legno sulla destra; pare un piccolo bar... Sì, è un bar. Ma sarà chiuso, poco ma sicuro... Invece no; quasi non credo ai miei occhi: un avventore si ferma, scende dall'auto, entra. Euforia... Mi avvicino anch'io alla severa porta in legno; sporgo dentro la capoccia: mi invade un abbraccio caldo, il fuoco di una stufa che sfavilla nella penombra del piccolo locale tutto in legno. Entro con il fermo proposito di non uscirne mai più! Due uomini taciturni, dall'aspetto burbero, fanno da coro ad un barista giovane, paffuto e simpatico, con marcato accento ligure e buona disposizione alla chiacchiera. "Bici?" domanda, appena mi squadra. "No... Di corsa, a piedi". Si informa sul mio viaggio: da dove arrivo, qual è la mia destinazione. "Devo arrivare a Bergeggi – spiego – ma dal Melogno in poi sarò in compagnia di un amico". E intanto seguo con trepidazione le mani del mio interlocutore, impegnate a dare vita alla mia cioccolata. Poco ci manca che cominci a perder le bave, come i cani quando attendono che il padrone finisca di armeggiare con la loro pappa. Stringere la tazza bollente è insieme un sollievo ed un vivo dolore per lo sbalzo di temperatura... Cucchiaiata dopo cucchiaiata, il fondo appare troppo in fretta. A malincuore, raccolgo le mie cose, lo zaino, il gilet rifrangente; saluto, lancio uno sguardo languido alla stufa... E via, fuori, di corsa, al freddo e al gelo.


Attraverso l'abitato di Osiglia, dove la vita sembra essersi scongelata: un certo viavai di auto e di pedoni anima la via principale; i negozi di alimentari sono aperti, a dispetto della domenica. La cioccolata calda nel pancino mi dà una marcia in più, anche se so bene che si tratta di mera suggestione... Alla chiesetta, la strada si restringe e mi porta oltre il paese, con una ripida rampa che mette a dura prova il mio intento di non smettere di correre. Ma è un breve tratto, oltre il quale la pendenza si attenua. La strada è invasa di neve che va pian piano sciogliendosi; i raggi del sole, qui, fanno sentire un po' più viva la loro presenza. Si continua a salire, poi, con pendenza un po' più tollerabile. Ho intenzione di correrla tutta, la salita, o almeno di provarci: vale anche qui la solita storia; correre in salita, per me, è svantaggioso sotto tutti i punti di vista, perché la mia corsa, rispetto alla camminata, non dà alcun vantaggio apprezzabile in termini di velocità e, per giunta, comporta un dispendio di fatica enorme. Senza contare il fatto che le gambe si induriscono, si stancano. Ergo, se fossi in gara mi guarderei bene dal correre. Ma oggi posso anche provarci. In fondo, raggiunto il versante mare, avrò solo più discesa e pianura, o quasi.


Gli scheletri degli alberi paiono ancor più neri per contrasto con la chioma bianca che ne ricopre i rami. Di tanto in tanto, una nuvola polverosa precipita a terra, per ragione di chissà quale turbamento del suo equilibrio. Tracce di piccoli animali, forse lepri, ricamano il manto del sottobosco. C'è persino qualcuno che si avventura su e giù in auto, nonostante la strada sia un pantano di neve che si scioglie. Non credevo di riuscire a vedere acqua in forma liquida, oggi. Con i rigori della notte, non si sarebbe detto... Invece, per qualche istante, riesco persino a sentire caldo alla schiena. Ma non azzardo a levare il giacchino antivento: la brezza che si imbatte nella mia faccia ha un'indole poco piacevole. Gelida, direi.


Chissà a che punto è Matteo. Io sono in perfetto orario rispetto alle mie previsioni, che peraltro non esistono, visto che non avevo la più pallida idea di quanto avrei potuto impiegare a raggiungere il Melogno; lui però, come al solito, avrà fatto i conti su se stesso, anziché su di me. Le mani percepiscono finalmente un po' di tepore nei guanti. Il sole è incerto, mai davvero libero di spedire qualche raggio fino a qui; strati di nuvole altissime e sottili fanno da schermo, quasi una beffa al mio desiderio di luce. In salita, qualche volta il piede poggia sul liscio e scivola all'indietro. Il ghiaccio non manca. Mi auguro che le scarpe tengano l'acqua ancora per un po'... E che la cima, o perlomeno il versante mare, non siano più troppo lontani. C'è poco da fare; con un posteriore pesante come il mio, correre in salita è dura.


Mentre così rimugino, compare oltre la curva un losco figuro di corsa: è Matteo, che ha mantenuto la promessa. "Ti vengo incontro" ed eccolo qua. Quasi non oso chiedere quanto manchi al bivio con la strada che dal Colle del Melogno va verso Pian dei Corsi... La risposta arriva da sola: "Manca poco". Sono stufa di correre nel pantano; spero che, sul versante del mare, l'accoglienza del clima e dell'ambiente sia un po' meno astiosa. Ci si racconta le vicissitudini dei rispettivi viaggi: pare che anche al mare non faccia poi così caldo. Sarà che son rimasta traumatizzata da ore di gelo siberiano, ma ho disperatamente bisogno di conforto termico... Quando Matteo propone una cioccolata calda alla trattoria appena sotto il Melogno, reagisco con entusiasmo. Pazienza se ne ho già incamerata una ad Osiglia: la fame mi tormenta da un po', anche se le mani sono troppo rigide per cercare le cibarie nello zainetto. E poi non c'è mica granché, nel mio zaino!


Al bivio, sotto un sole sempre più pallido, decidiamo per la svolta a destra. La discesa da Pian dei Corsi, che avevo pensato di percorrere, sarà probabilmente ingombra di neve, per buona parte... Ed io non ho più alcuna voglia di calpestarne. Le gambe si fermano sulla soglia della trattoria. In una giornata così uggiosa, siamo gli unici avventori ed interrompiamo il pranzo dei gestori. Due cioccolate bollenti, a cui io aggiungo una bella brioche: per alleggerire lo zaino, ho risparmiato sulle cibarie, ma qui son circa 45 km nelle gambe ed altri 40 ancora da percorrere. Ce ne sono almeno 16 in discesa, ma ahimé a piedi si fatica anche in discesa!


Buttarsi fuori è un vero atto di coraggio. Voglio credere che, da qui a Finale, il clima conceda un po' di tepore, ma il sottile strato di nuvole alte non sembra magnanimo oggi. Certo, siamo ben lontani dai -17°C di Ceva, ma ormai il freddo è penetrato fino alle ossa...

La discesa è lunga e noiosa e lascia subito il segno sulle gambe, che si fanno rigide e pesanti. Non solo per me, che soffro in silenzio; anche per Matteo, meno abituato a gioie e dolori della corsa su asfalto. Si lagna, ma corre ben più di me, come sempre.

Curva dopo curva, ormai conosco questa strada a memoria, per averla percorsa innumerevoli volte e con ogni mezzo di locomozione: a piedi, in bici, in auto. Conosco le case, i giardini, le vasche per la raccolta dell'acqua piovana, la vista sul mare, che si distingue a stento dal grigiume dell'ambiente. Il sole tanto desiderato non arriva; in compenso, non si fanno attendere i brividi di freddo, inevitabili in discesa. Si chiacchiera per dimenticare il disagio.


Imbocchiamo il bivio per Eze: la strada, ufficialmente chiusa, permette tuttavia il passaggio a piedi. Un tornante, un breve tratto in mezzo al bosco ed ecco i primi tetti della frazione; i primi fiori, gli alberi di mimosa già ornati di un'inconfondibile sfumatura gialla. Anche qui, il freddo è stato intenso nei giorni scorsi, anche se ben lungi dai -24°C registrati a Carmagnola. Le piante ne hanno un po' patito; sembra che siano ancora tramortite, incerte sul da farsi: buttar fuori le gemme o scegliere la prudenza, ancora per un po'?


Da Eze in poi, si corre in pianura. Qui non si sente vento; finalmente un po' di calore. Uno strano silenzio accanto a me: se Matteo tace, significa che è in sofferenza... Nulla di grave, visto che niente traspare dal passo regolare; probabilmente un po' di indolenzimento. La salitella al piccolo Santuario della Madonna della Guardia, almeno il terzo che conosco in Liguria con questo nome, spezza la monotonia della corsa: ascesa breve, ma decisamente troppo ripida perché abbia senso, per me, provare a correrla. Approfitto del passo tranquillo per godermi le riserve che Matteo ha preparato per me: frutta secca, grana e cioccolato. Graditissimo pasto: ho una fame da lupi e non tardo a vedere il fondo del sacchetto. Tutt'intorno, il paesaggio della costa tramortito dal gelo; una famiglia di asinelli in un recinto che pare Fort Knox; il pendio tagliato a gradoni per sfruttare al meglio ogni metro quadro; ulivi ed ancora mimose. Al Santuario c'è persino una fontanella; bevo il primo ed unico sorso d'acqua della giornata. Poi giù, lungo la serpentina di un bellissimo acciottolato, verso Finale; il passaggio nel centro della parte vecchia, pochi viandanti intabarrati davanti alle vetrine. La salitella sull'Aurelia, nel centro del paese, mi manda un po' in crisi; Matteo si allontana di gran carriera, mentre io mi sforzo di respingere la sensazione di gambe molli e testa che gira. E' solo un attimo, prima di raggiungere finalmente il lungomare. Cielo ed acqua color del latte, un sole sempre più malaticcio; pochi coraggiosi a passeggio, e questo è uno dei pochissimi lati positivi del clima impietoso. Altrimenti, a quest'ora, ci toccherebbe fendere la folla a gomitate, oppure rassegnarci a correre sull'asfalto.


Finale, Varigotti, le blande risalite che mettono a dura prova i garretti e lo spettacolo delle scogliere amate da chi arrampica; anche a destra, lato mare, qualche scorcio che di tanto in tanto mette i brividi, ripido com'è. I gabbiani immobili sulle rocce, l'acqua limpidissima al punto da lasciar intravedere le pietre del fondale. Ma il vento rinforza, quasi d'improvviso; come a volerci mettere alla prova, ci porta via da sotto il naso la tranquillità di essere quasi alla fine della gran fatica. Talmente violento e teso da sbilanciare persino una persona a piedi; spesso tocca smettere di correre, anzi procedere di passo, piegati in avanti, il viso sferzato dalle raffiche. Le onde rinforzano, la temperatura sulla pelle scende in picchiata. Fatico a respirare: speriamo che il nostro destino non sia questo fino all'auto... L'isolotto di Bergeggi sembra ancora lontanissimo.


Il passaggio a Noli regala un momento di tregua. Guardo in su, verso la bellissima torre: so che di lì passa un sentiero che permette di evitare un tratto di Aurelia, scendendo direttamente a Spotorno... Ma non ho cuore di proporlo. Non ho proprio voglia di restar fuori più a lungo dello stretto necessario: fa troppo freddo... Di certo la temperatura non supera di molto lo zero, a dispetto del mare, ed io ormai non riesco più a scaldarmi. Non è spacconaggine la mia, quando assicuro a Matteo che potrei correre ancora per un tempo ed una distanza indefiniti; questa è l'opinione delle gambe, del tutto sincera. Ma non ne posso più di riempirmi i polmoni d'aria gelida e patire gli spilli sulla pelle scoperta. In ogni caso, Matteo non mi sembra ansioso di prolungare la permanenza sulla pubblica via, nemmeno lui. A mio parere, la sua avversione per la corsa su asfalto è solo un fatto di convinzione, perché poi, nei fatti, non mostra alcuna difficoltà su qualsiasi distanza; eppure, a sentir lui, sembra quasi il caso di convocare d'urgenza un notaio per raccogliere le ultime volontà...


Oltre i palazzoni orrendi di Spotorno, non resta che l'isolotto a segnare la nostra meta. Già pregusto il riscaldamento del furgone, anche se un po' mi dispiace abbandonare il mare nell'unica forma in cui lo apprezzo: spiagge deserte, se non per qualche cagnone che corre libero all'inseguimento di un bastoncino; stabilimenti balneari chiusi, barche accatastate a riva. Mi spiace lasciarne qui il profumo.


L'ultima risalita, a Bergeggi, m'impongo di correrla ancora; tanto, ormai, è fatta. Non vedo l'ora di scorgere il furgone. Solo quando mi ci siedo, sono davvero certa che non sia un miraggio... Sono quasi le cinque del pomeriggio quando Matteo mette in moto, destinazione Ceva. Qui ritroviamo la Opel: il mio squilibratissimo compare ci trasferisce la bici. Domani mattina partirà da Carmagnola di buon'ora, per tornare in questo inospitalissimo paese, recuperare il furgone e rientrare a casa, a Genova. Non ho alcuna remora a confessare che non ho alcuna intenzione di accompagnarlo: nemmeno per un brevissimo tratto!