sabato 10 gennaio 2009

3 e 4 gennaio 2009 - Col de Turini e dintorni - I giorno

Secondo gli ambiziosi progetti maturati fin dalla scorsa estate, oggi Matteo, Mik ed io avremmo dovuto essere in Corsica. Avremmo dovuto, per la precisione, partire in traghetto ieri sera, dopo esser giunti al porto, Mik ed io, dal freddo Nord in bici, con il nostro bravo bagaglio sulle spalle, pronti per tre giorni di scorribande ciclistiche sull'isola nonché per il ritorno dal porto a casa, ovviamente sempre a propulsione umana.
Eppure, ora che il mio ingombrante soprasella poggia comodamente sul sedile della Opel e si fa scarrozzare verso tutt'altra direzione, non posso che esserne contenta ed anche un po' sollevata. Per carità, non è che non ci volessi andare, in Corsica, anzi; chi c'è stato, anche da ciclista, sostiene che sia un piccolo paradiso per le due ruote. Però, mi preoccupava, non poco, l'idea di star via cinque giorni in tutto, confidando sulla bici come unico mezzo di trasporto, a parte il traghetto per la traversata, con le temperature siberiane che di solito imperversano a gennaio, soprattutto in questo inverno così assatanato. Insomma, l'avventura non fa per me; io lo dico sempre, che amo far fatica, purché sia comoda! E, in questo caso, comoda non lo sarebbe stata, affatto... Quanto vorrei un maggiordomo, uno come l'Ambrogio della pubblicità dei Ferrero Rocher, che mi faccia da autista dell'ammiraglia mentre vado in giro, mi scarrozzi il bagaglio, mi passi i rifornimenti e mi faccia trovare doccia calda e pasta fumante a fine giro! Sarebbe il non plus ultra.

Va bè, bando alle fantasticherie. Mi sono appena lasciata alle spalle una nebbia fittissima che mi ha tenuto compagnia da Carmagnola a Ceva, in autostrada, e poi da lì ad Ormea; ora finalmente veleggio verso il Colle di Nava: ci sono neve e ghiaccio sulla strada, ma almeno adesso qualcosa vedo. Dovrei essere ad Imperia alle sei; ci arrivo, per un clamoroso errore di valutazione, un quarto d'ora dopo. Per fortuna, nemmeno Matteo spacca il secondo; ha litigato con il parcheggio... E dire che la sua macchinina gli starebbe tranquillamente in tasca, volendo!

Caricati il passeggero, la sua bici, il suo bagaglio; attaccato alla Opel il rimorchio per le cibarie di Matteo, che, si sa, non è di pasto piccolo, partiamo alla volta di Sospel: autostrada fino a Mentone, mentre il cielo comincia a farsi chiaro, e poi un po' di curve fino ad una piazzetta su in paese. Son le sette e mezza quando ci arriviamo: approfittiamo di qualche minuto per fare un po' di colazione, mentre i raggi del sole si danno da fare per consentirci di vedere almeno dove mettiamo le ruote.
Sarà pur vero che siamo a due passi dalla costa, ma a me sembra che qui faccia un freddo boia, né più né meno che a Carmagnola. E' tutto bianco intorno, il parco, gli alberi, le auto intorno, che scintillano come se fossero tempestate di brillanti. L'inceneritore qui al mio fianco sbafa la pasta con la foga di chi non mangia da tre settimane... Quasi quasi temo per l'incolumità del mio braccio destro; meglio trovare il coraggio di scendere, e in fretta, anche: il freddo, in fondo, è un male minore dell'essere vittima di un atto cannibalismo! Che pure sarebbe più rapido e conveniente di un intervento di liposuzione...

Montiamo le bici alla svelta; pochi minuti e siamo in sella. Direzione Col du Castillon: una bella strada ampia, a quest'ora quasi deserta. Incontriamo solo un temerario podista, che, in ogni caso, per esperienza si sta scaldando più di noi. Io ho indossato un bel po' di strati: canotta, maglia tecnica, giacca Windstopper, seconda giacca GoreTex, insomma il festival dei supermateriali, ma batto i denti lo stesso. Ah già dimenticavo: oggi, per l'occasione, i pantaloni lunghi Assos, regalo di qualche anno fa, che ho sempre conservato come una reliquia, usandoli pochissimo. Sono rossi come il fuoco: probabilmente, considerato il mio tonnellaggio, potrei essere scambiata per il Gabibbo!
I rilievi morbidi e tondeggianti della vallata sono ancora indistinti e neri contro il cielo che pian piano si schiarisce; poi s'illuminano di un colore giallo, caldo, che fa da contrasto con la temperatura ancora glaciale lungo la strada in ombra. Glaciale nel vero senso della parola, visto che l'umidità sull'asfalto forma un'insidiosa patina di ghiaccio.
Un bivio e ci immettiamo verso destra, lungo una stradina più piccola e sconnessa, terreno di cacciatori, i cui boati risuonano in mezzo al bosco. C'è persino qualche casa qua e là, davvero fuori dal mondo, anche se non siamo lontani dalla costa. Di tanto in tanto, mi tocca scendere di bici ed attraversare a piedi un lastrone di ghiaccio: Matteo è un funambolo, passa in bici ovunque senza mai nemmeno rischiare la caduta, ma io devo aver cura della mia Ridley nuova e delle mie ossa: ho troppi sogni nella testa, per potermi permettere di finire al traumatologico con qualche pezzo ingessato! No, per carità, non ci voglio nemmeno pensare: per me sarebbe una tragedia.

Il sole è abbastanza alto quando giungiamo al bivio con la strada che, da Sospel, sale direttamente al Col de Braus: bella, ampia, a tornantoni dolci. Sullo sfondo, cime innevate; sulla schiena, qualche raggio di luce che, a dispetto del colore intenso, non vale a riscaldare le membra già intirizzite. Però è pur sempre il sole; non so se sia consuetudine, ma, sul mio morale, l'effetto che ne deriva è di immediato conforto, quasi sollievo. Ricordo qualche lunga notte trascorsa in bici o a piedi: ciò che mi pesa di più non è il freddo né il sonno, in quelle circostanze, ma il buio; il bisogno di luce, ad un certo punto, diventa impellente, quasi urla dentro di me. Al trail Courmayeur Champex Chamonix, lo scorso agosto, l'arrivo dell'alba è stato una sferzata di vigore quando le forze si stavano proprio spegnendo...
Matteo, provvisto di ogni possibile utensile meccanico, oltre che di scorte di cibo tali da aprirci la borsa nera, mi sistema la sella, stufo di sentirmi frignare perché è troppo alta. Proporrò la sua candidatura alla beatificazione, prima o poi: se la merita tutta! Certo che tutto ciò è diseducativo... Sarei in grado di farlo da sola, volendo, ma lasciare che sia qualcun altro a provvedere è molto più comodo!

Si riparte, su verso il colle, in pieno sole. Sei chilometri al colle, salita blanda, tranquilla. Poi la picchiata, si fa per dire, verso L'Escarene, lungo una discesa di una bellezza impareggiabile, una vallata ampia e luminosa, anche se i tratti in ombra dietro le curve sono insidiosi: le lastre di ghiaccio, anche qui, non mancano di certo. Peccato non potermi godere meglio il paesaggio, ma la discesa, come sempre, è il mio cruccio; faccio già anche troppa fatica a badare a dove metto le ruote. Guardo giù con preoccupazione: il fondo dell'imbuto è ancora in ombra... Chissà che freddo farà là sotto!. Ma ci dobbiamo passare, poco da fare. Sfiliamo davanti agli occhi interrogativi di alcuni abitanti di una borgata e finiamo, poco più avanti, a L'Escarene, dove inizia, finalmente, la salita al Col de Turini.

La giornata pare accompagnare: a parte il freddo, il cielo è di un blu quasi sfacciato; non si vede la minima parvenza di nuvola. I primi chilometri sono ostici, per i miei gusti: la strada sale con una lentezza esasperante. Se non altro, però, si riscaldano un po' i muscoli induriti dalla discesa. Gli automobilisti ci danno di clacson, inferociti dal mio vizio di viaggiare in mezzo alla corsia: ma non mi sposto di un centimetro; hanno tutta la strada per loro; che passino, senza rompere troppo le scatole, possibilmente. E che cavolo, non credo proprio che siano tutti affaristi pressati dalla fretta e dagli impegni di lavoro... Certo che non esiste più la Francia di una volta! Almeno qui, dei ciclisti avevano un minimo di rispetto; ora più niente! Mi sento quindi in pieno diritto di ricambiare, con altrettanto affetto, le loro cortesie.



Dopo l'abitato di Luceram, dove mi fermo a riempire la borraccia, dovremmo svoltare a sinistra verso il Col St Roch: un cartello minaccioso piazzato a centro strada ci avverte, però, che la strada è chiusa, sprangata, fermée. E vabbuò. Mentre un gruppo di turisti caciaroni accanto a noi strepita nel tentativo di fare una foto di gruppo, Matteo estrae la carta ed ordina il dietrofront fino all'incrocio: saliremo al Turini via Peira Cava. Agli ordini. Riprendiamo la nostra lenta ascesa in mezzo ai pini marittimi, con la compagnia dei cartelli a bordo strada che ci danno, ad ogni km, la misura della distanza e del dislivello che ci separano dalla vetta. I colori cambiano man mano che si sale, sfumando dal giallo e verde intenso al bianco, al grigio della neve, dapprima un velo sottile sui prati, poi una vera e propria coltre, muri ammassati a bordo strada.

A mezza salita, posso persino permettermi di togliere i guanti, per un po', e scattare qualche foto ai tornanti che si appoggiano l'uno sull'altro, sorretti dai muretti a secco, mentre la vegetazione marittima lascia via via spazio a quella più tipicamente montana. Gran sorpresa quando, oltre una curva, ci troviamo la strada sbarrata da un gregge di pecore: incontro insolito, in questa stagione, ma forse non da queste parti. Ci fermiamo, un po' interdetti: io non perdo occasione per affondare le zampe nel pelo morbido e folto di uno dei cagnoni da guardia, dall'aspetto pacioso, pigro e ben poco interessato alle sorti degli ovini. Si vede, che è un dirigente: lascia che a fiaccarsi le zampe e l'ugola siano due giovani cani Border Collie o simili e si limita a fare da supervisore. Da quest'atmosfera bucolica stile Heidi ci strappa bruscamente il rimprovero di una virago travestita da pastora: in brusco francese, ci ordina di levarci da in mezzo alla strada; vista la frusta, con tanto di nodo in cima alla corsa, che la gentil donzella brandisce con tanto vigore, pensiamo bene che non sia il caso di discutere e ci spostiamo di lato: altrimenti, questa ci spiezza in due!
Non possiamo fare a meno di pensare, Matteo ed io, a quanto scrisse tempo fa, sul forum di Bicidacorsa, il nostro comune amico che oggi, peraltro, ci ha tirato un pacco clamoroso, senza alcuna valida giustificazione. Il buon Mik sogna una compagna che sia all'altezza delle sue prestazioni ciclistiche e podistiche, ossia una ragazza che sia in grado di salire in bici ben oltre i mille metri di dislivello all'ora, e che più o meno, di corsa a piedi, si avvicini ai tempi dei record olimpici sulla maratona. Posto che un essere così, nella realtà, non esiste, concordiamo che la pastora potrebbe essere un buon compromesso tra i due sport: questa qui, messa su un sentiero, i mille metri all'ora se li fuma, e mi sa che può andare avanti per chissà quante ore, altro che maratona! Immaginarsi la scena è un attimo: se Mik fosse qui oggi, leviterebbe come al solito senza gravità lungo la strada, ma, con la sua angelica bellezza, non sfuggirebbe all'attenzione della madama pastora che, armata di frusta, si lancerebbe immediatamente al suo inseguimento... E la storia, di cui censuriamo le scene intermedie per dovere di decenza, si concluderebbe, come commenta serafico Matteo, con l'eterea signora che si lecca i baffi tenendo in mano una tibia del malcapitato, completamente spolpata.

Con le lacrime agli occhi per le risate, fendiamo il gregge, mentre le pecore schizzano a destra e a manca, saltando il muretto come se nulla fosse, sconfinando giù per il dirupo, a sinistra, o su in mezzo alla pineta, a destra. Hanno un bel da fare i cani a contenere la massa entro i confini della strada! Le bestie si spostano tutte verso lo stesso punto, man mano che avanziamo, fino ad un momento critico in cui le teste premono le une contro le altre impedendo il movimento: mi torna in mente quel corso all'Università, sullo studio dei movimenti caotici, che avevo ambiziosamente tentato e prontamente abbandonato; chissà se, pensando alle pecore, avrei potuto capire qualcosa più che nulla?



Va bè, acqua passata, tirem'innanz. Si vede, che è tempo di vacanza: gli automobilisti bloccati dal gregge, anziché inveire, scattano foto, divertiti.
Qualche km ed arriviamo al punto in cui la strada che arriva dal Col St Roch, quella che avremmo dovuto imboccare da Luceram, si congiunge con la nostra: la strada in realtà non si vede, coperta da una spessa coltre di neve. Ecco spiegata la ragione della chiusura!
Ci attendono, da qui, circa sette chilometri di salita dolcissima, quasi un falsopiano, in mezzo ad una splendida pineta ed a muri di neve sollevati dagli spartineve e schiacciati sui bordi. La luce ora è quella grigia, fredda del pieno inverno; la strada in molti punti è coperta di ghiaccio. Mi sembra d'essere stata proiettata in un documentario sulle foreste canadesi! Incontriamo turisti con sci, slittini, snowboard, mezzi indubbiamente più adatti di una bici da corsa, qui, in questa stagione. Ma anche una ciclista!



Qualche foto per documentare l'epica impresa, e poi via in discesa, con somma cautela, per via del ghiaccio. E' giunto il momento che attendevo con terrore; io speriamo che me la cavo. Matteo è sempre a fianco, vigile, consapevole della mia innata e sconfinata capacità di farmi del male. Discesa su La Bollene, interminabile, con la vana speranza che, perdendo quota, si guadagni qualche grado di temperatura. Manco per niente; in compenso, appena prima dell'abitato, sento che la bici procede in modo strano: la mia sensibilità infallibile mi fa pensare d'aver forato la ruota posteriore... Invece ho forato sì, ma davanti.
Ecco. Questo è uno dei contrattempi che mi fa salire più la rabbia, in assoluto. Ho le mani indurite dal freddo, sono infreddolita io stessa, mi inferocisco al pensiero di dovermi fermare... Ma s'ha da fare, non c'è santo che tenga. Prima ancora che possa raccapezzarmi, il mio fido compagno d'avventura prende il controllo della situazione: in un attimo, smonta la ruota, leva il copertoncino, toglie anche la camera, controlla dove si trova il foro. Con mio gran disappunto, questo copertoncino, almeno in superficie, è già un colabrodo: a ben pensarci, è logico; ha una tenuta di strada eccellente, quindi è molto morbido. Per forza che le pietruzze ci si conficcano.
Porto sempre con me qualche pezzetto di camera d'aria per tappare eventuali buchi che possano passare il copertone da parte a parte; Matteo ne usa uno per proteggere, appunto, uno dei buchi più profondi, poi rimonta il tutto e rigonfia. Io mi sento davvero una nullità a stare lì a guardare: sto proprio facendo la figura, che tanto aborro, della femminuccia che non è capace a far nulla se non ha al seguito un ometto... Però io ci avrei messo molto più tempo, già solo per far tornare il sangue nelle dita delle mani! E meno male che questa piazzola su cui ci siamo arenati è baciata da un timido raggio di sole... Riparto innervosita e mezza ibernata. Attraversiamo La Bollene, poi giù verso Lantosque. Un po' di stradone ed ancora salita, da Saint Jean La Riviere verso Utelle: stradone ampio, niente rampe cattive. A dire il vero, pendenze proibitive, oggi, non se ne sono viste; per carità, non è che mi lamenti: va benissimo così! Basta già il freddo siberiano a creare problemi.

Dal paese, uno dei tanti, bellissimi, arroccati sulla montagna, si passa sotto una breve galleria. Mai più mi sarei aspettata quel che poi vedrò all'uscita... "Per me si va nella città dolente, per me si va nell'eterno dolore", avrebbero dovuto scriverlo sopra l'ingresso! Dall'altra parte, l'Apocalisse: non più lo stradone ampio e liscio, ma poco più che una mulattiera, una stradina sconnessa, che l'asfalto l'ha visto forse all'epoca delle Guerre Puniche, che si tuffa con pochi tornanti giù per l'abisso, il fondo del vallone. La superficie ingombra di sassi, sfasciumi, terra, sabbia, e naturalmente ghiaccio, quello non manca mai. Mi assale il panico. E adesso come faccio io a levarmi da qui? Ancora un po' instabile sulla bici nuova, scendo a passo d'uomo, aggrappandomi ai freni come unica via di salvezza, finendo per vedere ben più pericoli di quelli che in realtà ci sono. D'istinto, mi verrebbe da afferrare Matteo e farlo arrivare al fondo del vallone per via diretta; però, mi rendo conto, in un momento di lucidità, che non ho ragione di scaricare alcuna colpa su di lui: l'ho avuta io, la malsana idea di delegare a lui la definizione dell'itinerario... E dire che ormai doveri conoscere il rischio che deriva dal dare a Matteo carta bianca!






La stradina è sempre più sconnessa e difficile; in molti punti, l'asfalto manca del tutto. All'improvviso, sparisce lasciando il posto ad una gigantesca pozza: tocca scendere di sella e passarvi accanto, sulla ghiaia. Ormai è pomeriggio avanzato; luce, non ne resterà più per molto. Il freddo, dopo la breve parentesi della salita, è tornato cattivo, morde le mani, i piedi. Intorno a noi, il nulla più assoluto. E' solo un'impressione irrazionale, dovuta alla lentezza con cui procediamo, ma a me sembra d'essere piombata in questo luogo desolato da un'eternità. E' bellissimo, ma io non riesco a vederlo, tutta presa come sono dalla preoccupazione di capire dove andremo a finire, quanto impiegheremo, se riusciremo almeno a raggiungere qualche baluardo della civiltà prima che venga buio. Da una parte, mi rendo perfettamente conto che si tratta di un'angoscia immotivata, perché, in fin dei conti, mi trovo pur sempre su una strada asfaltata, e il freddo, per quanto faccia star male, non sarà certo tale da far gravi danni; alla peggio, buscherò un raffreddore. Però, la razionalità non è mai stata il mio forte e, in questo momento, fa a pugni con la paura. Mi sforzo di non far trapelare troppo il mio stato di inquietudine, perché è pur vero che Matteo è infinitamente paziente, ma prima o poi si stuferà di dover sempre fare il gregario – meccanico – psicologo – calmante della situazione e mi manderà al diavolo!
A furia di salire e scendere e ancora salire, sbuchiamo su quello che sembra un colle, oltre il quale la strada piega decisamente a destra. Qui il fondo è molto migliore, ma c'è ghiaccio. Ci sembra di dover iniziare la discesa, ma non è così: la serpentina che si vedeva, dal colletto, sull'altro versante della valle, è proprio quella che dobbiamo percorrere noi, e allora ancora su per tornanti. Il mio sconforto ora è incontrollabile... Chissà quanto dobbiamo ancora salire, chissà quando e dove finiremo. Guardo in su, scorgo solo un edificio, una specie di rifugio, in mezzo al nulla, vuoto, silenzio, ombre sempre più lunghe. Non riesco più a spiccicare una parola: chiacchierare sarebbe il modo migliore per esorcizzare la paura, ma la voce mi muore in gola e le gambe, irrigidite dal freddo, spingono i pedali con fatica. La sensazione è quella di dover andare avanti, perché qui non ci si può fermare; dove, non lo so.

A ben pensarci, è proprio assurdo: so che, non appena mi chiuderò alle spalle la porta di casa, alla fine di questa avventura, sarò felice ed orgogliosa di averla vissuta; mentre ci sono in mezzo, però, che sofferenza. Ha ragione Matteo: da queste pazzie traggo grandissima soddisfazione, ma solo alla fine!

Un miraggio: all'improvviso, un paese si materializza davanti alle nostre ruote. Incredibile, ma esisterà davvero? O è solo un'allucinazione? Un paese, illuminato dagli ultimi deboli raggi che quassù arrivano ancora. E poi, la strada che si allarga, si tuffa giù per una valle di una bellezza selvaggia; sembra incredibile, un paese in mezzo al nulla, uno stradone che porta chissà dove, comunque verso il basso, è quel che conta. Cinque o sei chilometri di discesa che ormai affronto stoicamente pur di perdere quota, stringendo i denti anche se il freddo è quasi insopportabile e rende le dita insensibili, rende difficile la frenata. Non mi par vero di giungere a fondovalle. Risaliamo, in direzione nord, qualche chilometro dello stradone che conduce da Nizza verso Isola, St Dalmas le Selvage, i noti luoghi di scorribande ciclistiche estive. Traffico e ancora traffico, una colonna ininterrotta di auto, la maggior parte sciatori che tornano dalle montagne verso il mare; però, una volta tanto, non provo fastidio, anzi. Questa volta, il caos del fondovalle, i clacson, i gas di scarico sono quasi un conforto, dopo interminabili chilometri in mezzo al deserto, reso ancor più vasto e minaccioso dalla mia inquietudine. Chiedo a Matteo se sia proprio il caso di abbandonare questa bella statale: la risposta è laconica, "Se preferisci possiamo andare fino a St Etienne"... C'è ancora una salita, ma la salita è nulla; è la discesa successiva, che mi preoccupa. Sono stanca, ho mangiato pochissimo durante il giro: questa però è stata una mia libera scelta, una sorta di esperimento di cui pago le conseguenze. Una gelatina di frutta, mentre la strada riprende a salire, blanda, dopo che abbiamo abbandonato la statale di fondovalle. Il sole è ormai sceso dietro le montagne, ma Matteo assicura che manca poco, molto poco; una decina di chilometri. Ormai sono rassegnata: non ci credo; non ho alcuna fiducia che in quel minuscolo villaggio verso cui siamo diretti, Villars sur Var, troveremo una sistemazione per la notte. Sto cercando di far accettare a me stessa, in anticipo, l'idea che ci toccherà un bel po' di chilometri in più, fino almeno al paese successivo, Touet sur Var, se non ancora più lontano.

La salita, dolce, finisce all'abitato di Tournefort, bello e curato, ma completamente deserto: non c'è anima viva in giro, e non è ancora del tutto buio. Proseguiamo per un lungo tratto di falsopiano, poi perdiamo quota e giungiamo a Villars quand'è ormai notte. Un paesino minuscolo, deserto: nonostante l'ottimismo di Matteo, io ho la ferma certezza che qui non troveremo nulla, ma proprio nulla, e che dovremo rassegnarci a pedalare al buio ancora per un po'. In sé, non sarebbe un dramma, visto che siamo ben provvisti di luci; è il freddo che ormai non dà tregua, fa star male, nonostante il vestiario più che idoneo. Freddo, stanchezza. Abbiamo macinato fin qui, annuncia Matteo, 127 km e 3.400 m di dislivello, impiegando quasi dieci ore: vuoi per la mia lentezza cronica e per la mia difficoltà in discesa, vuoi per le innumerevoli volte in cui ci è toccato scendere di sella per via del ghiaccio, vuoi per la foratura. Insomma, è evidente; in queste condizioni, distanza e dislivello costituiscono solo una parte, direi una piccola parte, delle difficoltà.

In questo buco di posto non può esserci nulla. Quasi mi verrebbe da dire, lasciamo perdere, mettiamo su le luci, non sprechiamo altro tempo, rassegnamoci a marciare ancora una ventina di km ed arriveremo a Puget, che, se non altro, è una cittadina degna di questo nome. Lì troveremo qualcosa. Ma Matteo mi precede; sulla piazza centrale, punta diretto verso un bar, dove ottiene l'indicazione per una struttura turistica qui a due passi, un "Gite". Lì, dietro la chiesa, oltre una breve scalinata. Il mio fido gregario ci si fionda: chissà da dove gli deriva tutta questa fiducia. Va bè che, per lui, l'idea di fare fiasco e rimettersi in marcia non costituirebbe il benché minimo problema. Seguo di malavoglia: quasi non credo alle mie orecchie quando afferro che sì, c'è posto per noi. Non mi pare vero. Me lo devo far ripetere una volta, prima di tirare un sospirone di sollievo. E' davvero finita...

Quando entriamo nel piccolo appartamento, a seguito della padrona di casa, l'orologio alla parete segna le sei meno dieci. Eravamo in viaggio dalle otto meno un quarto della mattina. Lascio, come al solito, che sia Matteo ad informarsi di tutto: io punto, come un automa, il calorifero e mi ci incollo. Eppure, per quanto incredibile possa essere, la fortuna stasera ha deciso di essere dalla nostra parte: non solo abbiamo trovato una sistemazione per la notte in un piccolo alloggio a prezzo stracciato, no; eravamo convinti di dover saltare cena o quasi, quando la signora ci informa che il negozietto sulla piazza, a due passi da qui, apre alle sei e mezza, sì, proprio tra mezz'ora. Un orario del tutto inconcepibile per le nostre abitudini, che casca letteralmente a fagiolo. Dopo la doccia, ci fiondiamo al minimarket: c'è poca roba, ma noi non abbiamo grandi esigenze; una confezione di Camembert ed una di altro formaggio altrettanto grasso ed appetitoso, da tre etti l'una; due pagnottone della consistenza di mattonelle di cemento; un dolce dall'aspetto mostruosamente calorico, un po' di yogurt, un succo di frutta. La nostra cena e la nostra colazione.

Ci mettiamo a tavola, rinfrancati; man mano che mi si riempe il pancino, anche il morale si riprende. Trovo però sollievo dal freddo solo dopo aver fatto scaldare un pentolino d'acqua di rubinetto ed averlo bevuto a temperatura al limite dell'ustione: certo, una tisana sarebbe stata più gustosa, ma non ne abbiamo.

Ecco, l'unico vantaggio del pedalare d'inverno è questo: le notti sono tanto tanto lunghe; prima della sveglia, abbiamo quasi dieci ore per dormire. E, per quanto mi riguarda, non saranno troppe!

venerdì 9 gennaio 2009

5 gen 09 - Prova percorso trail Rensen 2009

Lo prevede il manuale del perfetto "trail runner", ossia del perfetto corridore in montagna, che però, detto all'inglese, fa ben più impressione: prima di partire per un allenamento, passate in focacceria e strafogatevi con la focaccia più unta e grassa e colante che riuscite a trovare. E noi, che siamo ligi alle regole e mai ci sogneremmo di sgarrare, obbedienti, raggiungiamo a naso la prima focacceria sulla piazza, da cui un meraviglioso inebriante profumo si spande per le vie del centro di Arenzano, e facciamo il carico glicemico, nonché lipidico, prima della grande avventura.

Matteo ed io abbiamo appuntamento, nella via centrale, alle otto in punto, con Lorenzo, il papà del Gran Trail Rensen a cui ho partecipato lo scorso ottobre: la nostra missione, oggi, è provare la bozza del percorso dell'edizione 2009, la versione corta.
Mentre sbraniamo i nostri pezzi di focaccia, osserviamo con un po' di preoccupazione il fatto che la piazza è deserta e che, su di noi, incombono minacciose nuvole nere. E' probabile che questo abbia scoraggiato gli altri candidati alla prova, ammesso che ce ne fossero: stanare qualcuno per correre, si fa per dire, quaranta km su sentiero il 5 gennaio è impresa titanica! Speriamo almeno che arrivi Lorenzo... Ma sì, figuriamoci se non arriva. Pochi minuti e sarà qui; giusto il tempo, per me, di guardarmi un po' intorno, ammirare le case color pastello dalle geometrie più fantasiose, incastrate le une nelle altre per sfruttare ogni metro quadro di spazio disponibile tra il mare e la montagna.

Un attimo dopo, eccolo, anzi eccoli: Lorenzo con il suo bellissimo cagnone, Billi, musetto affusolato, fisico snello, pelo nero con le calzine bianche alle zampe anteriori, sguardo dolcissimo. Da mamma canina estremamente apprensiva come sono, mi preoccupo: ma ce la farà a far tutta quella strada? Ma non si perderà, non si farà male? Ma no, ha già sperimentato ben altre distanze, mi rassicura il suo amico bipede. Può darsi, ma non son così tranquilla per il piccoletto!

Tempo che il GPS al polso di Lorenzo prenda vita, e si parte, di buon passo ma, per fortuna, di passo, in direzione della stazione ferroviaria. Poi svoltiamo a destra, passiamo sul sagrato di una chiesa, dove Billi, al colmo dell'irriverenza, non trascura di lasciare dono del proprio passaggio, proprio mentre un fastidioso altoparlante ci rende, nostro malgrado, partecipi della messa che si sta celebrando all'interno: è un cane ed è pure anticlericale; insomma, mi sta sempre più simpatico! Rimossa ogni traccia, si riparte, su per una scaletta ed un sentiero, di gran carriera e menando la lingua: siamo freschi e riposati, quindi ancora baldanzosi. Ma è appena l'inizio! Mentre il GPS registra fedelmente ogni traccia del nostro passaggio, chiacchieriamo di tutto, di Billi e di trail. Lorenzo è davvero uno spasso, quando ci si mette; fa morir dal ridere! Il sentiero qui è facile, sale in mezzo al bosco, alle pigne, a qualche rovo che attenta all'integrità dei miei pantaloni; mi perdo nei racconti delle avventure corsaiole della guida, badando davvero poco alla strada: del resto, Billi la conosce benissimo; corre avanti e non sbaglia un bivio. Di tanto in tanto, si tuffa in mezzo alla vegetazione; di lì a poco, qualche metro più avanti, un gran trapestio di rami e foglie, un capriolo che schizza via terrorizzato, e Billi dietro, all'inseguimento. Ma per poco: obbediente al richiamo del padrone, torna accanto a noi, esile ma determinatissima vedetta.

Faccio il possibile per tenere alto il ritmo della camminata, per quanto posso: un po' per non fare brutta figura, un po' perché Matteo è sempre lì con gli occhi incollati all'orologio, ha il rientro obbligato per una certa ora e mi spiacerebbe causargli un ritardo.

Di tanto in tanto, il bosco lascia il posto a radure in cui sorgono case che sembrano isolate nel nulla, anche se da qui si vede il mare. Cos'abbia intenzione di riservarci il cielo, non si sa: le nuvole sono gonfie e scure, ma lasciano filtrare qualche pallido raggio di sole. La temperatura è gradevolissima, almeno per me e, credo, per Matteo: siamo reduci da due giorni di bici nei dintorni del Turini, a temperature sempre ostinatamente siberiane. Qui si sale senza giacca!

Gli argomenti di conversazione, che torneranno più volte nella giornata, tra corsi e ricorsi, son di quelli che mi fanno drizzare tutte le antenne: l'Ultra Trail del Monte Bianco, la Abbots Way, il Cro Magnon e tante altre avventure che Lorenzo ha vissuto e di cui io non perdo una mezza parola. Da chi ha esperienze di questo genere, non si può che imparare! Così, tendo le orecchie mentre gli occhi lavorano per evitare le minime asperità del sentiero che bastano, di solito, a condannarmi all'ingloriosa fine della pelle di leone... E non perdo occasione per ficcarmi nel discorso, più impertinente e curiosa che mai.

Il bosco d'un tratto sparisce, per lasciare spazio all'unica ma immensa bruttura della giornata: un gigantesco cumulo informe di cemento, un cantiere qui sul fianco della collina, reti e grigio e macchinari e cartelloni sbiaditi che illustrano la costruzione del complesso residenziale, mostro orrendo. Che sfacelo... L'importante è lasciarselo al più presto alle spalle e riprendere il cammino.

Anche se oggi non c'è tempo massimo né classifica, proprio non riesco a fare a meno di procedere concentrata, occhi a terra: anche perché, se non lo facessi, camminando a questa andatura mi inciamperei ad ogni passo. Troppo poche, così, le immagini che mi stampo in mente. Dei primi dieci chilometri di marcia, però, non posso non ammirare un meraviglioso vallone boscoso, che percorriamo in leggera discesa, mentre sulla nostra destra, giù in fondo ad un gran bel salto, scorre un torrente. Tutt'intorno, boschi incombenti su quello che per me, terrorizzata dalle altezze, è già uno strapiombo; però, che luogo da favola. Poi spuntano le prime case, un albero carico di limoni sgargianti in un giardino, fiori: in questo inverno così rigido e grigio, mi ero quasi dimenticata di quanto potessero esser belli i fiori!
Il sentiero ci conduce dal vallone alla civiltà, sotto forma di un piccolo nastro d'asfalto che si tuffa in mezzo alle case di una borgata, località Chicchelli. In realtà, asserisce Lorenzo, non avremmo dovuto arrivare fin qui, ma oltrepassare la borgata per un'altra via. Però, tutto sommato, questa variante non è affatto male, anzi. C'è un ortolano impegnato con la zappa, a qualche decina di metri da noi: detto fatto, ne sorge uno spassoso dialogo nella parlata locale. Poco sotto, un altro curioso incontro con un personaggio con salvagente a ciambella incorporato sotto al maglione: ci fa notare che, se avessimo preso l'auto, saremmo giunti alla nostra destinazione più in fretta... Ma no, caro il mio Einstein, lo sai che proprio non ci avevo pensato?

Undici chilometri son già alle spalle, quando risaliamo i tornanti della stradina asfaltata, passando accanto ad una mandria di mucche che ci osservano pigramente, senza capire. Non posso dar loro torto; certe volte non capisco nemmeno io. Però qui sono felice, e allora cosa importa capire?

Del percorso del Gran Trail Rensen, che pure ho corso solo un paio di mesi fa, ho un ricordo molto confuso; sarà che, in gara, non ci si può permettere gran che in fatto di osservazione del panorama, sarà che la traccia è ben segnalata e non occorre imprimersi alcuna immagine nella memoria. Fatto sta che stento a riconoscere i tratti che il percorso di oggi ha in comune con quello della mia gara, compreso un lungo rettilineo di stradina asfaltata dove, a ben pensarci, son passata, in corsa, in senso contrario, incrociando gli atleti impegnati nella versione corta del trail. Però, a ben pensarci, è vero: ci infiliamo giù per una scaletta ed oltre un ponticello e poi risaliamo un sentiero buio nel bosco, fino a sbucare sulla stradina. Billi, l'inarrestabile vedetta, si lascia distrarre da una sorta di spazzolone per pavimenti a quattro zampe che trotterella accanto al padrone: maschietti entrambi, si rasenta lo scontro!

Attacchiamo una bellissima salita ripida in mezzo agli alberi, dove i bastoncini, fin qui scarrozzati per me dal buon Matteo, tornano utili. Salgo a testa bassa, negando a me stessa la fatica, piantando con foga le punte dei miei ausili di metallo nel terreno ed aggrappandomici forte, per sfruttare anche la poca forza che ho nelle braccia: non so se si tratti di un vero aiuto o di un banale effetto placebo, ma sembra funzionare. Prima sentiero, terra, sassi, pigne, poi neve, prima qualche placca, poi qualche mucchio più serio, poi il ghiaccio, infido, sulla roccia. Ringrazio tra me e me Lorenzo che mi ha raccomandato i bastoncini. Qui la mia marcia si fa più goffa: sulla neve stento, alla lentezza s'aggiunge la mancanza di perizia; mi spiace creare problemi ai miei compagni di viaggio, soprattutto Matteo che guarda l'ora ogni due centesimi di secondo e si vede, che sembra star seduto sui carboni ardenti. Non riesco ad estorcergli la ragione di tanta fretta di tornare a Genova dietro il bancone del suo negozio, quando sa che oggi ci sarà il fratello disponibile ad aprire e che, comunque, secondo gli originali piani d'azione, poi sfumati, per queste vacanze, lui oggi avrebbe dovuto essere in Corsica... Ma è chiaro, evidente, lampante, che c'è almeno un secondo, un terzo ed un quarto fine: mi sa che la Monica Bellucci s'è improvvisamente scoperta alpinista ed oggi ha promesso di andar da lui a comprare il materiale! Va bè, allora è giustificato.

Il bosco cede il posto al prato, l'erba, definitivamente, alla neve. Il pendio ormai è solo bianco; il vento che soffia più impetuoso e freddo lascia intendere che siamo vicini a scollinare. Dove, non ne ho la più pallida idea; diciamo che, in questo momento, il mio principale obiettivo è cercare di stare in piedi e, possibilmente, procedere. Sono malferma, affondo, insomma, un disastro! Al contrario, Billi scorrazza avanti e indietro, una saetta nera visibilissima in mezzo al manto bianco.

Con mia gran sorpresa, eccoci in un punto che ben ricordo dal trail: la radura che si apre davanti al rifugio di Prà Riundo. Per la verità, il giorno della gara non ho minimamente sospettato l'esistenza di un edificio, lì a pochi metri da me: la nebbia era impenetrabile e le lenti dei miei occhiali bagnate mi rendevano più talpa di quanto già non sia nella vita ordinaria. Anche oggi c'è un po' di nebbia, ma so che non è una minaccia; pare quasi l'effetto della polvere di neve sollevata dal vento. Ad ottobre, in questo preciso punto siamo giunti dopo una splendida salita nel bosco, sotto la pioggia; qui c'era un punto di ristoro. Oggi mi tocca anche resistere alla tentazione di una cioccolata calda al rifugio: ci fermiamo solo qualche istante, per indossare almeno una giacca. Siamo in cresta e tira un vento niente male; la temperatura qui è decisamente in picchiata.

Si vede, sulla sinistra, il mare. Percorriamo un tratto quasi pianeggiante, poi svoltiamo a sinistra, a seguire una pista che io, da sola, non sarei mai e poi mai in grado di scovare. Come facciano i miei due compagni d'avventura a dirigere con tanta sicurezza la marcia, lo ignoro. Sì, è vero, di tanto in tanto c'è un segno colorato su qualche roccia non coperta per intero dalla neve, ma non ne conosco il significato; se fossi sola, mi perderei senza alcun dubbio. Li sento parlare di un passo, di un Rifugio Argentea, ma mi limito a non perdere le loro tracce; l'orientamento, quello ormai è andato.

Lo spettacolo degli alberi innevati a metà mi lascia senza fiato: la forza del vento ha schiacciato la neve, su ciascuno degli sparuti pini cresciuti quassù, sulla metà della pianta, nel senso dell'altezza; ne risultano composizioni dalle forme fantasiose, quasi fossero viandanti che si proteggono con un mantello bianco. Ed anche la neve, sotto i piedi, ora non cede più; è gelata e coperta di aghi di ghiaccio, come gli aculei sul dorso del porcospino. Sullo sfondo di questa morbida distesa bianca, aperta, si intravedono le Alpi, ma per ora si arriva solo al Rocciamelone; il Monviso no, non si vede, celato dal fianco della montagna.





Ci lanciamo, si fa per dire, in discesa e poi nella lunga traversata, anche qui con pendenza leggermente favorevole, verso il Passo Tardia e, in particolare, verso la costruzione in pietra accanto a cui, durante la gara, era stato collocato il punto di ristoro più ricco. Qui ci separiamo: Matteo si lancia giù a mò di valagna lungo un sentiero sulla destra, per arrivare più in fretta giù ad Arenzano, mentre Lorenzo ed io proseguiamo fino al passo e, da lì, a destra, tenendo però il sentiero più dolce, anziché seguire l'impennata verso la cima. Peccato, quella salita sulla destra, la presunta – solo presunta!!! - ultima asperità del Gran Trail Rensen m'era tanto piaciuta!

La pendenza morbida favorisce la chiacchiera; il sole riscalda le ossa e fa venir voglia di togliere la giacca. No, meglio di no: girata la cima, tirerà ancora vento. Da ora in poi, solo più discesa, prima su sentiero, poi su mulattiera, dove mi sforzo di correre un po', per abbreviare l'agonia di Lorenzo e Billi, che non ne potranno più di starmi dietro, a quest'ora! Il mio collega d'avventura mi parla ancora dei suoi viaggi, delle sue corse, dei suoi sogni: gira e rigira, siamo sempre lì... Più o meno tutti con il cuore rivolto alle stesse ambizioni.

La prima parte della discesa è su sentiero sconnesso, sassoso, terribile per me che rischio il volo a pelle di leone ad ogni passo. Poi ci s'imbatte nella visione più stramba dell'intera giornata: una carcassa d'automobile, abbandonata in un punto in cui un'auto non potrebbe mai e poi mai arrivare: c'è solo bosco ed un minuscolo sentiero! Che l'abbiano portata qui in elicottero? Probabilmente sì, ma il motivo resta un mistero. Boh?

Dalla mulattiera si vede bene il mare, il porto di Genova, una nave immensa che se ne allontana. Billi ogni tanto punta qualcosa che solo lui può vedere, e sparisce nel fitto della vegetazione; io taccio ma sento l'angoscia crescere ogni volta... Meno male che il piccoletto poi spunta sempre alle nostre spalle! Ho paura che qualche cacciatore possa fargli del male scambiandolo per una preda, ho paura che possa ferirsi: insomma, l'ho detto, sono una mamma canina apprensiva!

Mulattiera e poi ancora sentiero, che ci porta, fra i cespugli di mirto, fin sotto l'autostrada. Incontriamo un anziano che briga per mettere in moto una motocicletta dell'età della pietra e ci guarda con aria un po' allibita; due personaggi fasciati come mortadelle in abiti dai colori sgargianti, più un cane che, povera bestia, sarà l'unico essere dotato di buonsenso nella combriccola... Infine una scivolosa "creuza" in mezzo a vecchie case e fiori nei vasi di terracotta, la scalinata, la piazza di Arenzano, ora più affollata di gente a passeggio. Il GPS di Lorenzo si arresta sui 39,5 km. Ci salutiamo; gli strappo la promessa di avvisarmi quando deciderà di collaudare il percorso lungo. Poi mi avvio con passo deciso verso la focacceria: è tutto il giorno che trapano i santissimi ai miei fidi scudieri, con la storia che ho fame e voglio la focaccia; è giunta l'ora di dare sfogo ai miei istinti alimentari fin qui repressi. Arrivo di fronte alla vetrina, inspiro profondamente l'inebriante profumo: poi mi volto e me ne vado. Niente focaccia: bisogna imparare a soffrire... Anche questo, lo dice il manuale del trail runner!

martedì 30 dicembre 2008

30 dicembre 2008 - Visita al Medizinisches Zentrum di Bad Ragaz (Svizzera)

Se a qualcuno fosse sfuggito il mio stato di impercettibile, leggerissima agitazione... Ora non posso proprio più nascondermi. Ho appena tentato, convulsamente, di infilare la tessera bancomat in una fessura in cui in realtà non si deve inserire alcunché: da lì esce il biglietto del parcheggio, che si ottiene premendo l'apposito, evidentissimo, pulsante, cinque centimetri più a sinistra. Me lo fa notare, non so se commosso o terrorizzato da questa squilibrata alla guida di una Corsa con targa italiana, il gentilissimo signore proprietario dell'auto che segue, all'ingresso del garage sotterraneo. Cominciamo bene, non c'è che dire. E che caspita me ne devo fare, di 'sto biglietto? Bah, non importa, me ne preoccuperò più tardi.
Parcheggio l'auto lasciando per miracolo illese le colleghe accanto: meno male, perché, da queste parti, credo che un pomellino dello specchietto retrovisore di una qualsiasi delle macchinine parcheggiate qui dentro valga più di tutta la mia Opel e di me stessa medesima, messe insieme. Non mi basterebbero dieci anni di lavori forzati per ripagare i danni! Indi, sforzo sovrumano per raccattare tutto quel che mi serve senza perdere o dimenticare qualche pezzo. Ho le mani che tremano ed il neurone ormai bruciato, completamente in tilt: mi domando come ho fatto a guidare per quasi cinquecento km fino qui ed arrivare incolume, lasciando per giunta incolumi anche gli sventurati che ho incrociato lungo la mia via.

Già il primo impatto con il Medizinisches Zentrum, visto da fuori, mette soggezione: è un complesso enorme, dall'aspetto molto lussuoso, a cui sono annessi un Casino, un hotel a venticinque stelle, un centro termale. Insomma, uno di quei posti in cui io mi faccio alta due centimetri, mi sento un pesce fuor d'acqua, anzi peggio, un pesce tirato fuori dall'acqua ed asciugato con il phon. Carico la borsetta ed il borsone con tutto l'occorrente: abbigliamento da bici, scarpe comprese, ed un paio di pedali Campagnolo. Mi è stato detto di portarli... Obbedisco.

E mò qual'è l'uscita giusta da questo antro? Imbocco una porta a vetri che dà su una scala; salgo al piano superiore, più spaesata ed intimorita che mai. Ho le gambe che fanno giacomo giacomo su per gli scalini: nemmeno fossi avviata al patibolo! Accanto al pianerottolo, il bancone di una reception e, dietro, una stragnocca bionda con camicia bianca e gilet nero: cavoli, ma questo è un centro medico, o qui si danno appuntamenti d'altro genere? Ah no, presto spiegato il qui pro quo... Do una rapida occhiata all'interno della sala; quel che vedo attraverso la porta è una slot machine, davanti alla quale sta seduta, di profilo rispetto a me, un'altra bionda da capogiro, con due chilometri di gambe incrociate e calze a rete da pesca a strascico. Ecco, diciamo che io, in jeans, scarpe da ginnastica e maglia da bici, con una borsa in una mano ed il sacco Venice Marathon in spalla, qui dentro faccio la mia porca figura, ma tant'è... Che son finita nel posto sbagliato, l'ho capito, ma dov'è che devo andare? Figuraccia per figuraccia, mi rivolgo alla signorina della reception, che mi indica, in perfetto inglese, la retta via.

Il centro medico si trova in un edificio a parte, ben più sobrio. Un corridoio ampio e luminoso, impiegate gentili e, cosa incredibile per chi arriva dall'Italia, con perfetta conoscenza dell'inglese. Mi accomodo in una sala d'attesa, visto che sono in anticipo; mi chiameranno quando sarà il momento. Bene, così ho il tempo di darmi una calmata e sforzarmi di pensare che sono qui semplicemente per una banalissima visita medica sportiva, niente di più: già, ma è difficile credere che sia una cosa banale, se per arrivare fin qui ho oltrepassato un confine ed un colle alpino. Inganno l'attesa sfogliando i giornali a disposizione sul tavolino: mi accontento di guardare le figure, perché il tedesco è lingua ostica! Rigorosamente riviste a tema sportivo; se solo capissi cosa c'è scritto, devono essere interessantissime!

Pochi minuti ed ecco che arriva una ragazza, giovane, avrà la mia età o forse meno: molto gentile e carina, mi invita a seguirla. Mi chiede se so già cosa mi attenda: no, non ne ho idea; sono qui per le insistenze di un amico; sia fatta di me la vostra volontà.

Oltrepassiamo una porta a vetri su cui campeggia la scritta "Swiss Medical Center", che già mi mette in imbarazzo: non faccio altro che chiedermi cosa c'entro, io, qui dentro. Una sala attrezzi: una bici, alcuni tapis roulant, altri marchingegni di cui non immagino proprio il funzionamento. Tutto pulitissimo, ordinato, luminoso, con la luce che entra dalle finestre, il riverbero della neve sulle montagne talmente vicine che sembrano appena lì fuori, sul terrazzo. L'infermiera fa di tutto per mettermi a mio agio, scherzando e chiedendomi di me, da dove vengo, cosa faccio nella vita.

Prima tappa, la bilancia: tasto dolente... Poi l'altezza e la circonferenza vita. Il prelievo di sangue, questo no, proprio non me lo sarei aspettato: aiuto, l'ago... Mi stendo sul lettino, chiudo gli occhi per non vedere e non svenire; questa ragazza però ha la mano fatata; non sento quasi nulla. L'elettrocardiogramma, la misura della massa grassa: intorno a me, un gran viavai di strumenti, ventose, fialette, fogli di carta. Non oso chiedere più di tanto; faccio il burattino e resto lì in attesa degli eventi. Mi sembra che il tempo scorra con una lentezza estenuante.
Mi tocca poi il terzo grado: cosa ho mangiato oggi e quando; come mi sono allenata nei giorni scorsi; quali sono le mie consuetudini alimentari e sportive: diciamo che, per essere riuscita a far storcere il naso ad una ragazza della Svizzera tedesca, ben sapendo che razza di ignominie siano in grado di ingurgitare da quelle parti, devo proprio essere un caso patologico!

Poi, è la volta della prova pratica. Consegno i pedali alla ragazza, che, con mio grande stupore ed ammirazione, in pochi secondi svita quelli già presenti sulla pseudo-bici piazzata in mezzo alla sala e li sostituisce con i miei: fantastico, io non ho ancora imparato adesso, a momenti!
Salgo sulla bici, regolo la sella; devo pedalare, per un quarto d'ora circa, quasi senza sentire alcuno sforzo, solo per riscaldare i muscoli. Resto un po' da sola e, pedalando, mi guardo intorno; pavimento lucido in parquet, muri bianchi tappezzati di foto di ciclisti con i controcavoli, sciatori, maratoneti. Passa ogni tanto qualche infermiere, qualche altro candidato alla visita medica; dal corridoio giungono spezzoni di dialogo in ogni lingua, tedesco, inglese, persino italiano. Continuo a sentirmi un pop' sospesa, fuori dal mondo, come se in realtà non fossi qui ma fuori dalla finestra, a guardare me stessa appollaiata su una finta e scomodissima bici.

L'infermiera, di lì a poco, ritorna spingendo un tavolo con sopra un macchinario indecifrabile. Mi spiega quel che si farà adesso. Dovrò pedalare tra le 70 e le 80 pedalate al minuto, leggendo il numeretto che compare su un piccolo schermo davanti a me; la resistenza della bici aumenterà ogni tre minuti, finché sarò in grado di spingere i pedali; in più, ogni tre minuti, uno dei miei polpastrelli sarà spietatamente sforacchiato per estrarne una minima quantità di sangue che verrà inserito nel minaccioso marchingegno. In più, accanto a me c'è un cartellone con alcuni numeri, da 0 a 20, abbinati ad un livello di difficoltà: facile, meno facile, duro, molto duro, ecc; in ciascuna fase dell'esame, devo dire dove mi trovo in questa scala, secondo me.

Si parte. Prima fase, prima sforacchiatura. L'infermiera maneccia fialette sottilissime, quasi come capelli. Seconda fase, altra sforacchiatura, anzi no: strizzatura del dito già sforacchiato! Terza fase, il gioco comincia a farsi duro, io a grondare come una fontana, pure sforzandomi di dissimulare la fatica; avanti così, fino a quando i pedali diventano talmente duri che, per quanto mi contorca e spinga giù le gambe, non c'è più verso di muoverli. Fine... Ancora una decina di minuti di pedalata senza resistenza, poi sono libera; posso andare a far la doccia e poi attendere il Dr Hoppe.

Anche il locale delle docce è tirato a lucido come uno specchio. Ho l'aspetto disfatto; mi ricompongo: una bella doccia calda è l'ideale per farmi passare un po' la tensione. Torno poi alla sala d'attesa; poco dopo, faccio finalmente la conoscenza del dottore. So che di un medico si dovrebbero valutare tante altre cose, ma la prima che mi salta agli occhi è che si tratta di un gran bell'uomo, dal tipico aspetto tedesco, fisico asciutto, occhi chiari, sorriso aperto e simpatico. Meno male, almeno mi sento un po' più a mio agio.

Seduti ad un tavolino, abbiamo sotto il naso una moltitudine di fogli, numeri, grafici. Il Dr Hoppe scorre e commenta i risultati; già alle prime righe, mi fa saltare sulla sedia: "Your weight is OK for me". Eeeeeh? Chestaiaddì? Stai scherzando? 61,5 kg per 1,67 di altezza ed una collezione di cazziatoni da parte dei medici da cui ogni anno vado a far la visita sportiva... E qui mi sento dire che va bene? Pare proprio di sì... Il dottore mi spiega che, per il tipo di corse che interessa a me, cioè le prove su distanze lunghissime, essere molto magri non è affatto la strategia più produttiva, anzi. La buona riuscita delle imprese dipende anche dal fatto di portarsi appresso una certa quantità di riserve. Il Dr Hoppe si alza, passa nell'altra stanza, ne ritorna con in mano una cartolina che ritrae l'ultraciclista Dani Wyss lungo uno degli interminabili immensi rettilinei della Race Across America: mi fa notare come la sua struttura fisica sia ben diversa da quella dei classici ciclisti manichino, magri al punto da sembrare quasi malati. Si parla di prove molto diverse; in una corsa da 5000 km, come la RAAM, l'energia non deriva solo da ciò che si mangia in gara, tutt'altro.
Mi si allarga il cuore: ed io che avevo già visto il barattolo della Nutella volare via con le alucce e dirmi addio... Non tutto è perduto! Il peso non deve scendere, cosa potrei chiedere di più dalla vita? Ho una percentuale di grasso, 26,5%, che credo sia più o meno come quella del gorgonzola... Ma da questo istante smetto di preoccuparmene!

Anche il cuoricino, con 52 battiti al minuto, a riposo, dopo la sveglia alle 4 del mattino e cinquecento chilometri di auto, va bene così.

Pendo dalle labbra del medico quando attacca a spiegarmi tutta la storia delle "fasi" dei battiti cardiaci, le soglie aerobica ed anaerobica, ecc. Uno dei tanti fogli sparsi sulla scrivania riporta un grafico che mette in relazione il battito cardiaco, in ordinata, e la misura di una grandezza che si chiama "lattato", in ordinata: ben lungi da me l'idea di lanciarmi in spiegazioni scientifiche, né di tentare di riportare le parole che ho sentito; però, in sostanza, quel che dovrei riuscire a fare è "appiattire" questa curva che ora tende a puntare un po' troppo verso l'alto. Se ho ben capito, detto in parole miserrime, si tratta di abituare i muscoli a lavorare più a lungo, riducendo su di essi i danni della fatica.

Di tanto in tanto mi distraggo, come a scuola; mentre il dottore parla, io mi perdo per un momento a correre dietro ai mille sogni assurdi ciclistici che mi coltivo, quasi che già questo solo colloquio potesse servire a rendermeli più accessibili.

Un primo consiglio, a grandi linee, con riferimento al battito cardiaco ed a una delle tante tabelline che compaiono sui fogli che stiamo guardando, è quello di svolgere un 50-60% del mio allenamento restando al di sotto dei 151 battiti, un 20-30% tra i 151 ed i 188, un 10-20% al di sopra dei 188. Devo ancora capire come fare a superare i 188, visto che, quelle poche volte che ho indossato la fascia del cardio per correre a piedi, pur lanciandomi a tutta velocità su per il cavalcavia, arrivo al massimo a 178, poi le gambe ed il fiato cedono; idem sui rulli, a 180 battiti non arrivo mai; è evidente che durante il test in qualche modo ci sono arrivata, ma a rischio di defungere!

In ogni caso, adesso non è un problema. Come fare, non sarò io a doverlo decidere. I risultati del mio test passeranno, sempre grazie all'amico che mi ha trascinata fin qui, nelle mani di un preparatore d'eccezione, ultraciclista anche lui con un elenco di prestigiose vittorie lungo così; sarà poi lui a dirmi cosa devo fare. Se...

...perché è ovvio che ci sia anche un "se". Sono stata catapultata in una situazione di cui solo adesso, qui, comincio a rendermi conto; sembra proprio sia una cosa seria. Provare, per una stagione, a fare le cose per bene; non più scorrazzare in bici, ma allenarmi nel senso serio del termine, secondo i consigli di qualcuno che ha ben presente quale sia il tipo di ciclismo che piace a me. E che consigli!
Solo che io non ne sono così convinta; non penso affatto di avere le qualità per combinare qualcosa di buono, né di essere davvero in grado di seguire un serio programma di preparazione, conoscendo la mia testa matta. E' una grande occasione, costerà soldini, tempo e fatica; devo cercare di non buttare tutto all'aria.

Una stretta di mano, un bel sorriso, il Dr Hoppe mi augura buon viaggio: ci si rivedrà ad aprile o a maggio. Ora la parola passa ad Andrea Clavadetscher, sarà lui a dirmi come comportarmi d'ora in poi. A me non resta che prendere una bella camomilla e prepararmi con pazienza all'attesa.

venerdì 26 dicembre 2008

26 dicembre 2008 - Il freddo mi segue... Anche in Riviera!

Persiane che sbattono, rumore di oggetti che rotolano per la strada, un ululato che arriva da chissà dove: apro mezzo occhio, metto a fuoco le cifre giganti e luminose sul comodino – l'ho voluta così la sveglia, a prova di talpa! L'una e mezza, più o meno. Ieri sera, cioè poche ore fa, la sera era limpida e stellata; ora soffia un vento cattivo che non promette niente di buono. Bah. Me ne preoccuperò quando suonerà la sveglia; mi restano ben due ore e mezza di nanna.

Al trillo, alle quattro in punto, una volta tanto schizzo giù dal letto senza protestare: mi precipito alla finestra... E quel che vedo è uno spettacolo desolante, buono forse per i poeti, ma non certo per i ciclisti. La luce giallognola del lampione illumina fiocchi grossi, che scendono pigri, lenti, prendendosi tutto il tempo necessario ed anche di più. Mi pare evidente, a lor signori non importa un fico secco, che io fra qualche ora abbia appuntamento a Sestri per pedalare nelle Cinque Terre! La strada è già bianca, coperta da uno strato che, a quanto riesco a vedere, pare spesso ed asciutto: proprio quella neve polverosa che fa presa e non molla facilmente l'osso.

Lascio la tendina, a metà tra lo scornato e l'inferocito. Che si fa? Beh, che domande. Non sono proprio disposta a lasciarmi rovinare un'altra giornata per colpa di questa stramaledettissima neve, che sarà anche la gioia degli sciatori e degli amanti dell'atmosfera natalizia, ma a me proprio non va giù. Mannaggia. Ed io che ho anche comprato gli elettrodomestici a basso consumo... No, anzi, la prossima volta compro i più inefficienti che trovo, voglio inquinare, voglio l'effetto serra ed il surriscaldamento del pianeta! Questa, però, può essere una buona soluzione a lungo termine... Ma, visto che qui il tempo stringe, conviene restare un po' più sul pratico. Mi ingozzo con due panini al formaggio come colazione; approfitto del fatto che l'auto con le gomme termiche, una delle enne Opel Corsa di famiglia, oggi non servirà a nessuno; ci carico velocemente bici e bagagli e poco dopo le quattro e mezza sono fuori dal cortile.

Dopotutto, non ho ricevuto alcun messaggio da Luca: probabilmente anche lui ha deciso di partire lo stesso, incurante del meteo; se l'ha deciso lui, che tra noi due è indubbiamente l'unico portatore sano di buonsenso... Sono in una botte di ferro.

Già raggiungere il casello autostradale, a due chilometri da casa, è una bella scommessa. Tutt'intorno il deserto; in movimento ci sono solo io. Il cartellone luminoso al casello dice "Per Savona: neve fino al bivio A6-A10"; credo significhi neve fino a Savona. Beh, non è che la cosa mi stupisca, anzi. Ma non importa. Ritiro il biglietto e via nella bolgia. Scorgo nello specchietto retrovisore un lampeggiante giallo, probabilmente un mezzo spartineve; davanti, solo un muro di buio e fiocchi di neve fittissimi. Vedo a malapena il guard rail, per pochi metri; non ho idea dei confini delle corsie, ormai nascosti da uno strato di nevischio. Nessuna traccia di passaggio di auto, perlomeno, non recentemente.
Radio a palla, per stemperare un po' la tensione; tanto qui basta andar dritto, e speriamo che a nessuno venga in mente di fare una passeggiata notturna in mezzo alla carreggiata. Non potrei proprio vederlo.

Nel corso di un fitto scambio di messaggi sul telefonino con altri nottambuli come me, ciclisti e no, apprendo della decisione di Luca di rinunciare: come dargli torto; in effetti, per raggiungere l'autostrada, a lui toccano un bel po' di km tra le colline, che non credo siano così piacevoli e romantici adesso. Mi spiace perdere la compagnia, ma pazienza: tiro dritto, prima o poi arriverò. Il viaggio di tanto in tanto rallenta ancora, se possibile, perché tocca restare al seguito degli spartineve, che occupano la carreggiata in modo tale da impedire il sorpasso da parte delle auto. E' evidente che una ragione logica ci deve essere, per questo: la ignoro, ma resto comunque in coda, a debita distanza, viaggiando ai trenta all'ora ed approfittandone per riposare un po' gli occhi, allucinati dal continuo sforzo per indovinare la strada in mezzo alla bufera. Mi torna in mente un viaggio di qualche settimana fa: molto più breve, da Carmagnola a Cuneo e ritorno, centoventi km in tutto, ma macinati sotto una nevicata già fittissima all'andata e ben peggiore al ritorno; e, sopratutto, percorsi su strada statale, ai trenta-quaranta all'ora e con la Opel che uso di solito, senza gomme termiche ma in compenso con gomme parecchio assai lise. Se sono sopravvissuta quella volta lì, ce la posso fare anche oggi!

Man mano che mi avvicino all'Appennino, il turbinio dei fiocchi aumenta, fomentato da un vento violento che già qui tende a deviare la traiettoria dell'auto. Figuriamoci cosa troverò in Riviera! Dietro a me, alcuni veicoli fedelmente al seguito: quasi quasi mi sento orgogliosa al pensiero di fare da apripista, e responsabile, anche; farò il possibile per non trascinarli tutti in mezzo ai campi o giù da un viadotto!

La neve mi accompagna proprio fino a Savona, al bivio tra le direzioni di Genova e di Ventimiglia. Una volta tanto, il rilevatore di velocità non protesta: sotto i quaranta ci sono già! E le ciminiere della centrale di Vado, o qualcuno le ha tirate giù, o proprio non le ho viste. Chissà come farò a tornare a casa: in ogni caso, me ne preoccuperò quando sarà il momento. Non adesso.
Ora è pioggia scrosciante e vento forte. Va bè, andiamo già meglio. Mi dispiace che Matteo sia già in bici da chissà quanto tempo; starà ibernando... Se solo ieri sera avessi immaginato di trovarmi di fronte ad una situazione simile, avrei puntato la sveglia un'ora prima; ma chi avrebbe potuto prevederlo, con tutte quelle stelle?

Finalmente un po' di luce. Credo che questo viaggio mi sia costato terribili zampe di gallina, tanto ho dovuto aguzzare la vista per trovare la retta via. Sembra incredibile, eppure, man mano che mi sposto verso est, il meteo sembra migliorare: certo, una bella giornata è un'altra cosa, però pare proprio che abbia smesso di piovere. E dire che ormai sto viaggiando per inerzia, perché non avrebbe senso rinunciare ora che sono qui, ma non avevo proprio più alcuna speranza di poter saltare in sella oggi. Invece, forse forse...

Il casello di Sestri Levante è quasi un miraggio. Non ne posso più di star seduta in auto. Come temevo, Matteo è lì, ibernato... Cavoli, mi dispiace. Anche se sono ancora un po' troppo scombussolata per far complimenti, lo invito a mettersi un po' in auto, mentre scarico la bici. Raffiche di vento mi investono appena scendo; le poche palme spelacchiate qui intorno si piegano tanto che sembrano strapparsi. L'angoscia che ho tenuto a bada finché ero al volante miprecipita addosso, tutta insieme, adesso: come diavolo faccio a star su in bici con un vento del genere? Mi sbatterà per terra prima che subito. Me le ricordo bene, le folate del Bracco: non è tanto che sono stata qui ed ho visto i sorci verdi su per quella salita.
Sistemo malamente le ruote, mentre mi domando se davvero sia il caso di partire. La risposta è una sola; ovvio, che è il caso; dopo tutto questo viaggio, dopo aver mobilitato sia Matteo che Emanuele, non posso certo tirarmi indietro. Se fossi sola, temo proprio che getterei la spugna; parto solo perché so di essere in compagnia di due persone certo più affidabili e dotate di autocontrollo di me.
Come volevasi dimostrare, vuoi per l'agitazione, vuoi per l'incapacità congenita, ho sistemato le ruote alla piffero di segugio; meno male che se ne accorge Matteo, altrimenti finirei lunga e distesa sull'asfalto alla prima pedalata. Il guaio è che persino lui fatica un po' a metter tutto a puntino: sarà meglio che io lo tenga presente, la prossima volta che smonto e rimonto il gioiellino nuovo. Già, perché oggi mi son presentata qui con la bici nuova, la "Ridley", come ormai affettuosamente la chiamo. Incredibile, quanto si faccia in fretta ad affezionarsi alla propria bici! Ti guarda con quegli occhioni così teneri che ti scioglie il cuore...

La squadra è al completo: oggi ho persino l'onore della compagnia dell'illustrissimo biomeccanico di Castano Primo, Emanuele: pardon, a Castano ci lavora, ma è ligure DOC. In tenuta da bici, ha davvero l'aspetto di un ciclista con i fiocchi: infatti, su per il Bracco, danza sulla bici con la leggerezza di un provetto scalatore, senza il minimo segno di fiatone o di fatica. Come al solito, io arranco in fase di avvio; mi ci vuole un po' per carburare. Ammesso e non concesso che io oggi arrivi, a carburare... La fatica è l'ultima delle mie preoccupazioni; mi terrorizza l'urlo del vento in mezzo al bosco, le foglie ed i pezzi di rami che schizzano sulla strada, la prossima curva dietro cui una raffica mi tenderà un agguato. Vorrei essere più loquace, eppure non riesco a spiccicare più di qualche monosillabo. C'è una luce livida, irreale; a volte sembra che un raggio di sole voglia far breccia tra le nuvole, ma è comunque una luce fredda. E' pur vero che siamo partiti da Sestri abbastanza presto, alle otto.
Il mare, si vede da qui, è increspato; le piante, sferzate dalle raffiche, si piegano, cigolano in modo sinistro.
Sono preoccupatissima: faccio fatica a tenere i nervi a posto; di certo sto esagerando, ma il mio equilibrio è già precario per natura ed il vento non mi aiuta. Anche Emanuele è scettico, lui per via del freddo: prima della fine della salita, ha già deciso che non intende proseguire e, di lì a poco, ci saluta. Mi spiace, perché tenevo molto all'idea di vederlo in azione; in più, la sua rinuncia è un altro duro colpo al mio spirito già poco combattivo di questa giornata. Resta Matteo, ovviamente: lui non si scomporrebbe nemmeno nel bel mezzo di un uragano... Come al solito, finisce per essere lui il sostegno a cui mi aggrappo per stare a galla, come la Kate Winslet al suo precario salvagente dopo il naufragio del Titanic; ormai ho perso il conto delle volte in cui son riuscita a combinare qualcosa di buono solo grazie alla fiducia in lui. Borbottando e lagnandomi, tiro dritto.

Un momento di puro terrore mi coglie all'inizio della prima discesa, verso Deiva Marina. Pochi metri prima di scollinare, il vento quasi mi butta a terra; inizio a scendere con la certezza di andare incontro a sorte infausta... E il vento si quieta. L'avevo già notato la volta scorsa in cui sono stata qui: questo tratto di strada è in qualche modo riparato dalla furia del tornado; riesco a scendere non dico bene, ma perlomeno in modo da limitare i danni. Con gran meraviglia di Matteo, che mi vede, per la prima volta, impugnare il manubrio ed i freni in presa bassa. Caccio un urlo ogni volta che mi sembra, e appena mi sembra, di sentire il vento che rinforza; ho i nervi a fior di pelle e le dita delle mani che si raffreddano sempre più, fino a diventare quasi insensibili. Non so cosa mi trattenga dal mettermi a piangere: forse il fatto che i tetti di Piazza non sono più così lontani. Però, alla mia paura fa da parafulmine il povero Matteo, che, nel vano tentativo di sdrammatizzare la situazione, si tira addosso gli strali della mia ira. Lo so, a mente fredda il mio comportamento è assurdo; però, in quei momenti, non posso proprio prendere in considerazione alcuna forma di ironia nei miei confronti... Sono in pericolo di vita, e questa è cosa serissima!

L'arrivo a Piazza è una manna dal cielo. Ho le dita inchiodate alle leve dei freni. A sinistra e via, si sale, almeno un po'. Ancora nel silenzio: vorrei romperlo, ma le parole mi muoiono in gola. Castagnola, Framura: la pendenza aiuta a scaldarsi un po', ma il vento non accenna a cessare, né il sole a squarciare le nubi. Poche anime in giro, un cagnone che trotta via per la sua strada, degnandoci appena appena di uno sguardo di sufficienza. Non so, oggi c'è qualcosa che non va: non sono per niente convinta di ciò che sto facendo. Continuo a patire freddo e paura. I problemi andrebbero affrontati man mano che si presentano; invece, non riesco a fare a meno di pensare a come evolverà la giornata, se mai il vento mollerà almeno un po' o se, al contrario, comincerà a piovere.

Discesa verso Levanto, lunga. Ho già deciso che arriverò fino a Levanto e tornerò indietro: viaggiare così non è un piacere, è una tortura! Perché accanirsi? Ormai è chiaro che non c'è speranza di miglioramento del tempo. Matteo non replica: in altre circostanze, mi avrebbe subito sgridata per la mia pusillanimità, ma mi sa che oggi ha capito anche lui che la situazione è grigia. Per me, s'intende. Il mare di Levanto è una meraviglia. Arriviamo in paese, prendiamo la direzione di Monterosso: già, mi sono lasciata convincere a proseguire ancora; del resto, è facile farsi persuadere di quello che in fondo in fondo già si vuole... E, per me, interrompere il giro così presto sarebbe stato uno smacco. "Vediamo com'è il vento sulla prossima salita": eccoci su verso Legnaro, altro bellissimo grumo di case di tutti i colori, affacciato sul mare. La salita è più severa di quanto ricordassi, o forse sarà la tensione, però è breve, spiana subito dopo il paese. Da questo punto, guardando poco giù, scorgiamo la frana che ha spaccato in due la piazzetta della borgata di Chiesa Nuova, in mezzo agli ulivi.

Al bivio per Monterosso, scendiamo giù al paese imboccando la strada di sinistra, più larga. Se non fosse per il vento, questa sarebbe l'occasione ideale per fare un po' di esercizio con la presa bassa... Invece, mi limito a tirare forsennatamente i freni, in attesa della prossima folata di vento in curva. Troppa grazia, c'è persino un po' di sole, ed un punto panoramico da cui si vedono tutte le Cinque Terre; o, almeno, si vedrebbero, se potessi guardare qualcos'altro che non sia la mia traiettoria. Ho visto un cartello che indicava pendenza 15%: sono un po' preoccupata... In discesa mi fa paura! Per fortuna, s'è trattato del solito caso di terrorismo.
Raggiungiamo il paese, una bellissima bomboniera. Dopo aver attentato alla vita di un buon numero di turisti ignari, malferma sul lastrico della via centrale, ignoro il semaforo rosso della galleria e mi ci infilo. E' un breve tunnel che collega le due parti del paese, spezzato da un costone di roccia; all'interno, tante piccole vetrine decorate e fregi sulla parete. Almeno qui, lungo la passeggiata, è d'obbligo una sosta per una foto: ho la macchina fotografica a portata di mano da quando siamo partiti, ma non mi sono fidata a tentare acrobazie, con questo vento.



Matteo ci prova, a convincermi a proseguire ancora, verso Vernazza, ma questa volta mi oppongo. Preferisco non allontanarmi troppo da Sestri: il tempo non è affatto così stabile; quel poco di sole va e viene, anzi va e basta; se si mettesse anche a piovere, sarei proprio panata, dovrebbero poi riportarmi all'auto con l'elicottero del Soccorso Alpino. Raggiungiamo un buon compromesso: si torna a Levanto, ma per una strada secondaria che passa in un luogo chiamato Monte Acereto.



Una salita bella ed impegnativa, ma non troppo, ci riporta su alla strada in costa; da lì a destra verso il Santuario di Soviore, lungo un tratto di falsopiano o poco più, che mi fa soffrire e faticare non poco. Passato il santuario, si svolta a sinistra lungo una stradina che subito dà l'idea di essere uno di quei luoghi dimenticati dal mondo: ci son delle buche tali, che se ci caschi dentro non ti trovano più! E aghi e pigne e rami, e persino qualche auto. La vista sul mare, da quassù, è ancora più spettacolare, se possibile. Non potrei certo fermarmi ogni cinque secondi, ma quanto sono belle queste pigne, ne vorrei riempire lo zaino!

All'improvviso, ci si para davanti un bel cagnone dal pelo lungo, sfumato di grigio e di nero: abbaia, accenna ad avvicinarsi, ma non riesce ad essere minaccioso, nemmeno volendo. Ci accompagna per un bel tratto: non sono certo i suoi denti a spaventarmi, quanto il timore di investirlo quando mi arriva tanto vicino. Mi fermo, gli porgo la mano, gli offro un pezzetto di barretta Enervit al cioccolato: rifiuta con schifo... Eh, bello mio, in effetti, come darti torto? Questa robaccia non è certo come la tua pappa!
Compaiono un paio di case sulla destra: ecco svelato il mistero della provenienza del cagnone. Come ci allontaniamo dal suo territorio, smette di seguirci; il suo potente vocione si spegne in lontananza.

La discesa è interminabile e, a tratti, per me critica, un po' per la pendenza, un po' per la strada sconnessa. E le mani congelano in fretta: avrei dovuto almeno indossare i sottoguanti, mannaggia. Vento e ancora vento, e Levanto là sotto sembra tanto lontana. Dosso, Groppo, i paesini scorrono via uno dopo l'altro; io sogno la cioccolata calda, da un po'. Non ho l'abitudine di fermarmi ai bar quando sono in bici, ma oggi ho disperatamente bisogno di qualcosa di caldo. Una tazza fumante che rinfranchi prima le dita e poi lo stomaco: fantastico... Quasi ignoro la meravigliosa vetrina di gelati che campeggia nel bel mezzo del locale. Magari tra cinque o sei mesi... Ci godiamo qualche minuto di calore e quiete, mentre il vento sferza la tenda di plastica del dehors, sembra quasi voglia strapparla via. Poi ci rituffiamo nella Siberia e riprendiamo la salita da Levanto, questa volta però con una deviazione. Presto lasciamo la strada principale per scendere a Bonassola, sul mare. Paesello bellissimo e completamente deserto: ma saranno vivi, qui? Tocco per la prima volta nella giornata la borraccia, che fin qui ho portato vuota: c'è una fontanella sulla piazza, bella ed ordinata come un salotto. Poi via, su per una salita cattivissima: subito, una rampa su cui fatico a tenere la ruota anteriore incollata alla strada; poi, ancora pendenze severe, anche se non più così estreme. Un tornante sopra l'altro, in mezzo alle case, agli sguardi interrogativi di qualche micio che si gode il pallido sole. Poi le case si diradano, restano solo gli alberi, torna il vento; la strada si addolcisce e mi permette di addentare un altro po' della barretta che sto centellinando. Ritrovo Matteo che torna indietro per un tratto, mangiando corbezzoli; io però perferisco la mia tradizionale alimentazione chimica.

Lasciamo questa suggestiva stradina, dove, nonostante un paio di denti in meno sulle corone posteriori di questa bici – ho il 34x27, non più il 34x29 – sono salita con una certa disinvoltura, sempre facendo le debite proporzioni con le mie possibilità. Percorriamo un tratto della strada principale, mentre Matteo soddisfa la mia curiosità su cosa sia il ciclocross: giusto perché sono mesi che sento parlare di ciclocross, sto viaggiando su una bici nata apposta per questa disciplina, ma non so proprio di che si tratti.
Intanto, il cielo si è velato del tutto. Lasciamo ancora una volta la strada principale, per imboccare, a destra, una salita blanda che ci porterà direttamente al Passo del Bracco. Meno male: temevo di dover ridiscendere a Piazza e sorbirmi in salita quell'orrenda noiosissima via che abbiamo percorso stamattina in discesa; e dire che Matteo me l'ha anche detto, a Monterosso, al momento di definire il resto dell'itinerario, che da Levanto avremmo abbreviato il rientro.
Inganniamo il freddo chiacchierando animatamente su uno degli argomenti preferiti dal mio collega: il cibo! E' ormai arcinoto che Matteo non metta piede, anzi pedale fuori casa senza una scorta alimentare tale, per quantità, peso e spazio occupato, da eguagliare il carico di una petroliera; pare uno di quei prototipi di veicolo che, allo stato di prima sperimentazione, non possono percorrere altro che distanze brevissime, se non con un'autobotte al seguito. Anch'io sono sempre stata un inceneritore, ma, da qualche tempo, mi sto sforzando, con un certo successo, di ridurre il carico: oggi me la sono cavata con una barretta ed una cioccolata calda; ho fame, vero, ma sono convinta che, entro un certo limite, si possa procedere anche con la fame, senza per forza andare in crisi. E' quello che sto sperimentando. Ovvio che, se si pensa ossessivamente e compulsivamente al cibo ed al timore di restarne senza, si finisce per tirarsela addosso, la crisi! Ma sono convinta che sia più che altro un effetto placebo...



Il freddo, invece, qui non è un effetto placebo. Ormai mi è entrato nelle ossa; pazienza i piedi gelati, ma le mani, quelle mi fanno paura: le dita sono insensibili... E c'è ancora un'intera discesa in cui devo averle ben salde sui freni! Né il senso di colpa, né la consapevolezza dei tanti km macinati in auto per venire fin qui mi convincono ad aggiungere ancora al giro la ciliegina sulla torta, cioè l'anello con discesa a Moneglia e risalita. Non ne posso davvero più di vento e di brividi. Matteo, mosso evidentemente a pietà, non tenta nemmeno più di farmi cambiare idea. Se non conoscessi il personaggio, potrei pensare che ne abbia abbastanza pure lui; conoscendolo, invece, so bene che potrebbe ancora fare, senza problema, l'anello, il bracciale, il collier e pure gli orecchini! Pazienza, voglio fortissimamente voglio l'auto, il riscaldamento al massimo. Non mi succede spesso di desiderare con tale ardore la conclusione di un giro in bici.
La discesa dal passo del Bracco è infinita e gelida; il vento non cessa, nemmeno ora, di ululare e schiaffeggiare gli alberi e noi. Però la vista di Sestri laggiù mi rincuora: in questo momento, per me è la città più bella del mondo!

Concludiamo la nostra rocambolesca avventura verso le quattro, con 112 km e circa 2.800 m sul groppone. E' vero che ho patito la temperatura siberiana anche qui, ma, nei paraggi di casa, oggi non mi sarei proprio mossa. Quindi, come si suol dire, è tutto grasso che cola. Ma l'avventura non è ancora finita: adesso si tratta di rimettersi al volante... E riaffrontare la Torino Savona! Per fortuna, la neve non cade più; la carreggiata è pulita. Ci si mette il sonno, l'effetto del caldo dopo una giornata al gelo, che mi costringe, dopo qualche pericoloso involontario cambio di corsia, a fermarmi a nanna mezz'oretta a Carcare in autogrill, onde evitare di compromettermi la stagione ciclistica 2009 e magari anche tutte le altre! Intorno alle sette, riabbraccio il mio Skipper e trovo, grazia insperata, qualche residuo degli esperimenti culinari con cui, di tanto in tanto, si diletta mia sorella. Adoro fare la cavia; ogni tanto, quando l'esperimento va storto, c'è il rovescio della medaglia... Ma stasera un piatto già caldo non può che farmi felice: provvederò ad incentivare questa passione!

giovedì 25 dicembre 2008

Natale 2008 - Anonimo podista

Ma guarda... Ed io che oggi pensavo proprio d'essere sola. Anzi, sono uscita, anche, per essere sola. Vestita di tutto punto per affrontare la pioggia: giacca e scarpe in GoreTex, pantaloni impermeabili, berretto, guanti, cuffiette. E niente occhiali, perché nessuno ha ancora inventato il tergicristallo per le lenti, o almeno, che so, una piccola grondaia: gli occhiali, con la pioggia, non servono a nulla. Se non altro, così, nature, qualcosa vedo: almeno, riesco a distinguere le sagome delle auto, quel tanto che basta a non incrociarne il cammino.
Quella che dalla finestra di casa sembrava pioggia, poi, non è pioggia affatto: sono chicchi finissimi di ghiaccio, non fiocchi di neve, no, minuscoli proiettili che pungono la faccia, unico spazio di pelle lasciato libero dalla mia tenuta simil-palombaro. Quelli che per un attimo mi fanno domandare "Ma chi me lo fa fare", sì, proprio a me che tanto mi scoccio quando a chiedermelo, con fare a metà tra l'ironia e la commiserazione, è qualcun altro.

Son proprio impronte, quelle che corrono qui accanto. Non sono le mie, quelle che ho stampato all'andata: no, quelle le ho viste per un po', dopo il giro di boa, ma poi si sono dissolte, coperte dalla neve. No no, queste qui sono altre. Chissà da quant'è che mi accompagnano? Non ci ho proprio fatto caso; stento a tener gli occhi aperti, i fiocchi, ora veri fiocchi come si deve, ci s'infilano malandrini. Corro in aperta campagna, tutt'intorno bianco, neve, nessun rumore, le cascine che so essere qui nei paraggi, avvolte nella nebbia – ma quanto di quel che vedo è nebbia, e quanto l'immagine sfocata ed incerta che giunge al mio unico neurone dai miei occhi un po' scassati di miope senza speranza? Persino i cani sembrano essere in ferie, quasi tutti, a parte uno, l'inflessibile guardiano dell'ultima cascina prima del mio punto di svolta e ritorno. Lui no, il bestione bianco c'è sempre; anzi oggi, in perfetto mimetismo con l'ambiente, avrebbe anche potuto tendermi un agguato... Ma non è stato un buono stratega; il suo vocione tuona già da due chilometri di distanza!
Orme grosse, di un gran piedone, e falcata lunghissima, impressionante. Orme lasciate da poco, che la neve non ha ancora riempito. Chissà chi, chissà dove? Lungo questa strada piatta e bianca che sembra tanto un'immensa pista di coca, e peccato che non abbia con me una cannuccia, chissà chi altro c'è a farmi compagnia. Chiunque sia, ormai è troppo lontano, mi sa, e con quella falcata lì, non lo acchiappo nemmeno se mi metto a piangere in cinese. Però inconsapevolmente seguo quella traccia, anche se ne resto un po' discosta, quasi per rispetto della sua bellezza, della precisione di quel passo che sembra disegnato così apposta, tanto è regolare. Anche se sarà la neve, presto, a colmare quel che resta del passaggio del misterioso podista.

Mi lascio guidare dalle orme, mentre penso a momenti e luoghi lontani anni luce da qui, passati e futuri, e lascio che il battito del cuore, ormai indifferente al ritmo sempre perfettamente uguale della corsa, acceleri all'improvviso mentre gli occhi vedono il sole che si abbassa alle mie spalle mentre risalgo la strada delle Gole del Verdon, gli ultimi tornanti prima dell'Umbrail Pass quando alle spalle ci son già nove salite e più di quattrocento km sui pedali, la panchina di Frassino quando son due notti che quasi non dormi e devi ancora salire al Colle di Sampeyre e poi a Montemale e chissà quant'è distante Cuneo e pensi che non ce la farai mai e tantovale buttarti a dormire qui e non pensarci più... Vedono una bellissima notte stellata a duemilaquattrocento metri di quota, a cercare di prendere almeno un po' di sonno in un giaciglio di fortuna in mezzo ad un prato, sotto un telo termico, un'altra splendida notte con la luce della luna che rischiara il Monte Bianco davanti a te, e tu tremi e batti i denti per il freddo ma non c'è proprio nessun altro luogo al mondo in cui vorresti trovarti adesso, sola. E poi tornano a veder le orme, sempre fedeli, sempre accanto, anche oltre al bivio, anche se, man mano che i chilometri scorrono, la strada si fa più soffice, i piedi affondano e tornano su come nella sabbia. Un po' a destra, un po' a sinistra, tanto qui non passa nessuno già nei giorni ordinari, figuriamoci poi oggi, Natale, ora di pranzo, con la neve.

Sarà stupendo il 2009, se riuscirò davvero a tradurre i miei sogni in realtà. Almeno, ci proverò, anche se ogni anno gli obiettivi sono sempre più ambiziosi, e quasi mai ce la faccio, a raggiungerli. In fondo, però, sognare non costa nulla, e tantovale allora farlo in grande, guardarmi come se fossi spettatrice all'arrivo del Raid Provence Extreme, della Race Across the Alps, immaginare cosa diavolo possa essere davvero una corsa ciclistica che qualche individuo dotato di sadico umorismo ha pensato bene di battezzare "Tortour". E magari anche scrollarmi via un po' di neve dalla giacca: altrimenti, sembro davvero un pupazzo. E' ora di tornare giù con i piedi per terra, perché si sentono i rumori dell'autostrada, pochi chilometri e sarò a casa. Un vero atleta non si accontenterebbe certo dei miei ventidue km; anzi, sarebbe felice di affrontare con sprezzo del pericolo la furia degli elementi. Ma qui, in questo istante, non ci sono elementi infuriati, c'è solo la neve che scende pigra e placida, appena un po' scombussolata da un leggero vento che mi appiccica i pantaloni impermeabili alle gambe, dal ginocchio in giù dove il pantaloncino non arriva. E non ci sono nemmeno veri atleti. Quindi rinuncio a qualsiasi deviazione e punto dritta verso casa; se potessi, col pensiero farei levitare il cartoccio del latte verso la tazza e la tazza verso il forno a microonde, per trovarla già bella calda e fumante al mio arrivo.

Quasi mi spiace quano, all'ultimo bivio, le impronte del mio collega virtuale girano di là, a sinistra. Torno ad essere sola in mezzo alla campagna; troverò ancora le tracce diagonali delle zampine del leprotto, ma non ci sarà più nessuno a correre accanto a me. Beh, chiunque tu sia, anonimo podista, non ci siamo incrociati per un pelo. Con quel passo lì, non sei certo uno di quelli che oggi si improvvisano corridori solo per espiare le abbuffate dei giorni scorsi. Sei di certo uno che, come me, ha cercato la solitudine e l'ha trovata qui tra i campi. Sei uno che, come me, sta trascorrendo il giorno di festa nel migliore dei modi possibili, per te come per me. Chiunque tu sia, anonimo podista... Buon Natale!

domenica 14 dicembre 2008

30 novembre: un temerario a spasso per le Langhe!

Spazio alla penna, anzi alla tastiera, di Luca; questa volta tocca a lui descrivere un'avventura tutta sua: io ci aggiungo solo una foto!

Nonostante le condizioni non ottimali di questo fine settimana non avevo voglia di rulli, allora ho inforcato l'unica mtb a disposizione in casa - antidiluviana, logora ed arrugginita, ma che ha egregiamente adempiuto al proprio compito- e ho pedalato all'aperto. In particolare ieri, cammin facendo, ho deciso di fare una visita in alta langa. Son salito da Dogliani verso
Somano, poi Bossolasco, quindi mi sono mosso lungo la provinciale che percorre
la cresta: poco tempo a disposizione, ma sufficiente per apprezzare.
Appena oltrepassato l'abitato di Bossolasco mi sono trovato sospeso in
un'atmosfera speciale... la sensazione di essere diventato parte di un
acquerello di Oreste Tarditi.
La strada bagnata e, in qualche curva poco esposta, ancora parzialmente innevata.
I cumuli di neve che, ai lati delle strada, riducevano la larghezza della
carreggiata, a tratti come se avessi imboccato per errore un tragitto secondario.
Niente e nessuno in giro, se non qualche raro pedone dal passo frettoloso, pochissime auto, qualche animale selvatico che si era spinto fin sulla strada.
Banchi di nuvole ad avvolgere le cime delle colline più alte, in un abbraccio freddo ed ovattato, come a preservarle dall'invadenza di sguardi impazienti.
L'odore antico di fuliggine che emanava dai comignoli fumanti di alcune case isolate, unica traccia visibile della presenza di abitanti al loro interno.
Spruzzi di acqua salata e fango sulle lenti degli occhiali, già velate di condensa, mi impedivano di osservare bene prospettive e dettagli a me noti... eppure ciò che vedevo era esattamente quello che avrei voluto vedere in quel momento.
Gli stessi spruzzi di acqua salata e sabbia di cui mi era impossibile non sperimentare il sapore... eppure quello era il gusto che avrei scelto di provare in quel momento.
L'aria fredda ed umida a velare la capacità di carpire aromi... eppure il sentore che appena intuivo era l'odore che avrei voluto percepire in quel momento.
Le prime luci della sera, già accese a metà pomeriggio, e la sensazione di freddo che mi pervadeva mani e piedi... eppure non potevo immaginare di poter stare meglio.
Pur lasciandosi condurre dal divenire di pensieri che sorgevano e mutavano, dissolvendosi l'uno nell'altro, tutto era privo di contraddizioni, tutto era chiaro nella mia mente.


13 dicembre 2008 - Corsa notturna in Langa

Matteo aveva già lanciato la proposta tempo fa: quand'è che facciamo un bell'allenamento notturno di corsa in Langa? Poi ci si è messa anche mia sorella: "Se non ti spiace, il 13 sera farei una cena con alcuni amici". No per carità, a me non spiace affatto; basta che io non sia coinvolta... Mi organizzo e sparisco nel nulla! Non posso farci niente, ho una vera e propria repulsione per le occasioni di convivialità che siano qualcosa di più di una veloce pizza e quattro chiacchiere tra ciclisti o corridori; di altro non saprei parlare e per altro non avrei alcun interesse, oltre al fatto che non sopporto di star seduta a lungo ad un tavolo ed ingozzarmi come un'oca, con tutto il seguito di rimorsi e fatiche per smaltire le calorie... Sono secoli che non lo faccio!

Due più due: sabato sera potrebbe essere appunto l'occasione per un bell'allenamento in Langa. Fin dal mattino, scruto il meteo: nebbia e pioggia, niente da dire, situazione incoraggiante. L'appuntamento sarebbe questa sera alle nove a Dogliani: però mi spiace far correre Matteo fino lì per poi correre senza veder nulla, incamerare solo una dose industriale di freddo ed umidità. Invio una mail con le mie perplessità e, nel dubbio, esco nell'ora di pranzo per una quindicina di km di corsa, imbacuccata come se dovessi affrontare il diluvio universale. Quando rientro, scopro quel che in fondo sapevo già: Matteo non si fa certo scoraggiare dagli elementi avversi! Appuntamento a Dogliani confermato, quindi.

Ho preparato tre possibili itinerari, uno da 41 km, uno da 32 ed uno da 25, a seconda del tempo che vogliamo dedicare alla corsa, al freddo che siamo disposti a sopportare ed alla fatica che le nostre gambe vorranno tollerare. A Dogliani, dove entrambi giungiamo dopo un viaggio in auto abbastanza rocambolesco tra nebbia e pioggia, la scelta cade su quello da 32; in ogni caso, se ce ne fosse la necessità, si può "tagliare" sul percorso da 25 senza difficoltà. Siamo addirittura in anticipo sulla tabella di marcia; riusciamo ad avviarci qualche minuto prima delle nove. Io ho optato per l'abbigliamento da pioggia: maglia di pile alla pelle e GoreTex sia per la giacca che per i copripantaloni; piedi impiastricciati con la pasta Fissan onde evitare il rischio di piaghe se le calze dovessero bagnarsi, più le scarpe che uso per i trail, seriamente impermeabili. Completano il quadretto un berretto di pile, i guanti e lo zaino con un po' di pappatoria ed una giacca in più, non si sa mai. Matteo viaggia ben più leggero, a parte la scorta di cibo per un reggimento. Ho in mano una luce, ma l'accendo solo quando sento arrivare un'auto.

Partiamo in direzione Bossolasco, ma dopo 500 m svoltiamo già a sinistra, direzione Cissone e Serravalle Langhe, e ci togliamo dal traffico di auto. Entriamo in un mondo da favola: intorno a noi, solo nebbia e neve, tutto sfocato, bianco e grigio, tutto ovattato. Per me, poi, l'effetto della nebbia è amplificato dalle lenti appannate, prima, e dalla forte miopia, quando gli occhiali finiscono in tasca. Non serve la luce artificiale, basta il riverbero della neve per permetterci di intuire la strada.
Dal parcheggio a Serravalle ci sarà una dozzina di km: la prima metà, circa, su strada solo leggermente in salita; la seconda, dopo il bivio con la strada che sale a Roddino, di vera ascesa, con pendenze tuttavia non proibitive. L'avvio, come sempre, per me è un po' affannoso; meno male che a chiacchierare pensa Matteo, mentre io misuro le risposte in base al fiato che mi serve per non soffocare. Gli alberi, i cartelli stradali, i parapetti dei ponticelli compaiono come figure spettrali, cariche di neve, solo all'ultimo istante; di tanto in tanto, un'auto ci sorpassa con la massima circospezione, manco fossimo fantasmi. E allora, mai visto nessuno correre di notte, qui, in luogo sperduto, con la nebbia e la pioggia? Probabilmente no...

Il buio uniforme è interrotto solo dalla lucina fioca della finestra di qualche casa, che è pur sempre un conforto, il segno di una presenza umana. Quando poi inizia la salita vera, cedo del tutto lo scettro della discussione a Matteo: vado matta per i racconti delle sue storie di vita, ma non posso che replicare a monosillabi; sì, no, niente di più... Intanto, osservo che forse forse mi sembra più breve a piedi che in bici, questo tragitto. Un paio di tornanti, un ristorante illuminato a destra, poi ancora tornanti ed eccoci in paese, a Cissone. Ancora un po' di salita, più blanda, e siamo a Serravalle Langhe. Da qui, rimarremo per parecchi km sulla strada in cresta, leggermente più trafficata, ma non poi tanto. In bici lo noto meno, ma a piedi mi accorgo delle minime pendenze in questo tratto che sembra pianeggiante. Da qui si potrebbe godere una vista spettacolare; invece, ancora nebbia, addirittura più fitta di prima; anzi, più pioggia che nebbia. Passiamo la Fontana Azzurra senza che me ne accorga; sarà perché sono impegnata a scartare e spezzare il Ritter.
Un po' prima della rotonda da cui partono la via centrale del paese e la strada per Somano, la pendenza diventa in leggera salita, e prosegue, oltre la rotonda, ancora un po', fino all'uscita di Bossolasco. Passiamo accanto al parcheggio di un ristorante: un'auto che sta per uscire inchioda appena ci vede... Scommetto che, per lui, siamo due materializzazioni del troppo alcool ingurgitato a tavola!
Sono un po' in crisi, fiato grosso, gambe appesantite: uhm, speriamo che si tratti solo di un malessere passeggero; non posso certo mollare qui!

Impossibile valutare con precisione le distanze, ora che è buio pesto e decisamente piove. Ancora latrati di cani, case, una chiesetta illuminata; alla rotonda che ben ricordo arriviamo quasi senza accorgercene. Dritto di qua s'andrebbe a Murazzano; a sinistra, a San Benedetto Belbo; noi invece svoltiamo a destra verso Bonvicino. Ci attende una lunga discesa: ecco, ne bastano poche centinaia di metri per far comparire il mal di gambe, uffa! Ancora buio, pioggia e freddo; auto sempre più rare, automobilisti sempre più sconcertati. In un attimo siamo a Bonvicino, un grumo di case silenzioso e dormiente; poi, lungo tratto di fondovalle con qualche saliscendi, qualche strada che si stacca a destra ed a sinistra e sfuma nel buio, l'ennesima auto che rallenta vistosamente: esclamo a casaccio, "Cosa vuoi che pensino, vedendo due persone qui correre a mezzanotte?". Matteo guarda l'orologio: cavoli che tempismo, è mezzanotte in punto!

In mezzo agli alberi dall'aspetto lugubre, trapela la luce di Dogliani; il bivio con la strada che sale a Somano arriva dopo un'eternità. Restano circa due km sulla strada principale: leggera risalita ed altrettanto tenue discesa, poi qualche metro di passo ed eccole lì, la Mini e la Opel in paziente attesa; 33 km, circa 3 ore e mezza, che, considerato il dislivello, non è neanche un tempo malvagio. Ci congediamo, carichi di freddo e di sonno, ma contentissimi per l'ennesima avventura: questa è piccola, ma è pur sempre una bella impresa... E cosa c'è di meglio di arrivare a casa alle due ed avventarsi senza rimorsi, a mò di avvoltoio, sui gustosissimi avanzi della cena?