Stamattina, o meglio stanotte, in autostrada non c'è nebbia. Carmagnola, Marene, Fossano, niente di niente, si fila via spediti, in compagnia dei pochi viandanti notturni come me, già, o ancora, svegli ben prima delle cinque. Alle cinque dovrei essere a Ceva. Non c'è nebbia, ma scende una leggerissima pioggia: o meglio, non è pioggia, è una sorta di pulviscolo di ghiaccio, che inumidisce il parabrezza quel tanto che basta perché si formi una bella macchia di ghiaccio, proprio lì davanti al mio naso. Hai voglia a far andare su e giù i tergicristallo; mi toccano mille contorsioni per trovare uno spicchio di vetro da cui poter guardare la strada. E tutto ciò mi fa sospettare qualcosa... Il sospetto diventa certezza quando raggiungo la mia meta, o perlomeno la meta della Opel: ben due termometri emettono la stessa, inappellabile sentenza, -12°C. Cavoletti, peggio della volta scorsa. Oggi sono recidiva: l'ho già messo sotto le suole, questo percorso, l'ultimo sabato prima dello scorso Natale; il viaggio a piedi, di corsa, da Ceva fino a Genova Voltri, con ritorno in treno. Quel giorno era il primo sereno dopo un periodo di neve; alla partenza, una vera Siberia, neve e ghiaccio ovunque, anche sulla strada. Oggi, se non altro, le strade sembrano pulite, per quel che ho potuto vedere sin qui, ma certo il clima non sarà più confortevole.
L'idea di affrontare un percorso già noto mi permette di partire con un po' di fiducia in più, quasi con una certa tranquillità, anche se non mi sento certo di affermare che ce la farò: mai dare nulla per scontato, mai. I movimenti si ripetono meccanici: pasta di Fissan sui piedi, sotto le ascelle e in tutti i punti dove gli sfregamenti con gli abiti possono creare irritazioni; strati su strati, paracollo, berretto, luce frontale, guanti. Già, i guanti: oggi ho commesso un'ingenuità; ne ho portato un solo paio, per giunta sottile. Esco dal calduccio dell'abitacolo nella piazza semivuota e congelata: eppure un po' di vita c'è; un camioncino da cui un uomo scarica merce. Giurerei che è lo stesso camioncino che già avevo visto un mesetto fa, più o meno a quest'ora, sempre qui..
Mi avvio alla luce gialla dei lampioni, con un sorriso da un orecchio all'altro, invisibile per via del paracollo di pile. Meglio così: qualcuno potrebbe avanzare dubbi sul mio stato di salute mentale. Le cinque ed un quarto. Quanto avrò di buio? Due ore piene, anche di più, se la giornata sarà nuvolosa. Per ora, di stelle, neanche a parlarne. C'è già un certo viavai in città: auto che vanno e vengono, qualche autoctono intabarrato che litiga con la serratura della povera macchinetta abbandonata in strada al gelo. Un copione già visto: il ponte della ferrovia ed il curvone in salita che porta verso l'autostrada. Oggi però si corre meglio: l'asfalto è pulito. La neve, alta sugli spioventi dei tetti e nei cappucci sui comignoli, è stata diligentemente ammassata a bordo strada. Speriamo che le articolazioni non mi tradiscano: la caviglia sinistra, da una settimana a questa parte, è un po' gonfia; se appoggio il piede un po' piegato verso l'esterno, soffre.
Con il giacchino rifrangente e le bande rifrangenti un po' ovunque, sembro un albero di Natale semovente. Alla rotonda, il freddo morde già quei pochi centimetri quadrati di pelle del viso scoperta. Le gambe invece, benché indossi i pantaloni ¾ ed abbia i polpacci scoperti, per ora non patiscono. Nemmeno i piedi: merito di un paio di calde e morbidissime calze che mi ha regalato Matteo.
Mi avvio lungo la strada che da Ceva conduce al Montezemolo. L'atmosfera è suggestiva, irreale: la nebbia è sospesa a mezz'aria; la visibilità è buona, ma intorno a me è tutto gelato. La neve, dura come i chiodi; i rami degli alberi, che sembrano nuvole. Silenzio quasi irreale: vuoti i parcheggi dei capannoni, vuota la campagna, solo qualche latrato lontano. Qualche auto passa, di tanto in tanto, ma dalle case non trapela ancora segno di vita.
Quando racconto le mie mattane, arriva l'immancabile domanda: "Ma vai da sola? Ma non hai paura?". Da sola, sì, certo, e non solo perché non troverei nessuno disposto a seguirmi. Da sola, soprattutto perché mi piace, perché posso decidere da un giorno all'altro, da un'ora all'altra, come, quando, quanto e dove. La compagnia richiede pur sempre qualche compromesso, anche piccolo, ed io mi rendo conto che, più passa il tempo, più sono insofferente ai compromessi, fosse anche solo la contrattazione di un quarto d'ora sull'orario di partenza. Paura... In certi momenti sì. Un po' di inquietudine serpeggia anche adesso, lungo lo stradone; chissà se chi guida mi vedrà, chissà se è in sé oppure è appena uscito mezzo allucinato da qualche locale notturno...
Il cavalcavia nasconde la rotonda al bivio per Sale Langhe. Il cartello blu esplode di luce non appena lo punto con la frontale, quasi abbagliante. Attraverso la rotonda al contrario ed imbocco la blanda salita verso il paesello: pian piano, perché le gambe scalpitano, ma la strada è lunga. Buio pesto, pestissimo: accendo la frontale solo quando sento un'auto avvicinarsi; altrimenti, mi accontento di tenere d'occhio la linea bianca a bordo strada. Le luci di Sale Langhe interrompono presto la monotonia: attraverso il paese in letargo; non una luce alle finestre, non un movimento, non un rumore. Le reti in metallo delle recinzioni sembrano pizzi, da cui sfuggono rametti imbiancati, foglie che l'inverno ha congelato sull'albero, rose sfiorite e rimaste prigioniere del ghiaccio. Un cartello, nel bel mezzo di un terreno, con lo schizzo di un progetto edilizio e la scritta pretenziosa, "FOR SALE". Ma per favore... Siamo in Langa, un classico "IN VENDITA", o anche un "VENDESI" che pure trovo davvero cacofonico, sarebbero proprio così disdicevoli?
D'improvviso un rumore sordo, lontano, che cresce: mi sveglia dal mio torpore di pensieri persi chissà dove, mi fa trasalire. Lo spavento cambia subito in un senso di gioia: è il treno! Il primo treno della giornata, che da Ceva va al mare. Subito mi sento meno sola. I finestrini scorrono, lasciano intravedere gli scompartimenti illuminati e vuoti. Ci sarà il macchinista, solo come me.
Supero la piccola stazione; vedo aprirsi all'interno una porta, poi più nulla. Il treno si ferma lì, per qualche minuto, mentre io proseguo in paese, lungo i portici, accanto alla chiesa. Quando imbocco il primo dei tornanti che salgono a Sale San Giovanni, il treno riparte e se ne va. Ci si vedrà al mare!
Il freddo sembra incattivirsi. Faccia gelata; il fiato umido sale su e gela sulle lenti degli occhiali. Inutile tentare di ripulirli; tantovale toglierli e riporli in tasca, in attesa di tempi migliori. Così, alla nebbia che, man mano che prendo quota, s'avvicina alla strada e mi avvolge, si aggiunge la nebbia dei miei occhi miopi. Vista 1/10 dall'occhio destro, 2/10 dal sinistro, secondo quanto rilevato sommariamente dalla lettura del tabellone con le lettere, in occasione della visita sportiva. "Borgna" come una talpa, in parole povere e locali. Finché si sale, però, il freddo è sopportabile. Non vedo il bivio per il centro del paese: la mia percezione si ferma ora ad un paio di metri di linea bianca, ad un vago nastro nero che si distingue appena dal grigio uniforme dello spazio circostante. Quando una lingua di neve, staccata dall'ammasso a bordo strada, è caduta a coprire il mio riferimento, è solo più la sensazione del contatto dei piedi con l'asfalto che mi fa capire dove sto correndo. Solo di tanto in tanto, una bolla di aria limpida mi lascia intravedere il cancello di una cascina, un breve tratto di pendio con la neve. Tutto il resto è nebbia in cui corro per lunghi minuti, ma potrebbero essere ore, per la distanza che separa Sale San Giovanni dal bivio con la strada alta tra Dogliani e Montezemolo. Non ho riferimenti di spazio né di tempo, e forse nemmeno mi preme averli; è una sensazione di inquietudine eppure di pace profondissima. Il peggio che possa capitare è che un cane sfugga dall'aia e mi assaggi un polpaccio: null'altro, perché di auto in movimento qui, ora, non c'è traccia, e, quanto ai maniaci, non credo esista un maniaco così folle da mettere in atto i propri propositi in questo ambiente da lupi, a quest'ora! Dovrebbero essere circa le sette,
Alla mia sinistra, una piantagione di chissà cosa. Alberi da frutto appena piantati, suppongo, ma, nella nebbia grigia e pesante, sembrano tetri capelli spessi, dritti, tentacoli scuri protesi verso l'alto. Un'immagine sinistra, fa quasi rabbrividire, un'ambientazione da film di paura, di fantasmi.
Un chiarore giallo annuncia il bivio: mi ci trovo all'improvviso, senza che ancora me lo aspettassi. Pensavo di dover macinare molta strada in più, invece son già qui. Possibile? Attraverso la strada, cieca come sono, per andare ad incollare la punta del naso al cartello e leggere: "Montezemolo". Rassicurata, riprendo la mia corsa nel buio, nella nebbia. Posso solo contare i miei passi per misurare la distanza. Ad Arbi, un gruppetto di case, un campanile che batte sette rintocchi, e poi altri sette, casomai non avessi afferrato il concetto; un po' di luce che dà sollievo. Superato il paese, ripiombo nel nulla. E nel freddo. Qui la pendenza è minima, appena accennata. Le mani sono blocchi doloranti e gonfi: per quanto mi sforzi di muoverle, aprirle e chiuderle, non accennano a scaldarsi, se non per pochi effimeri istanti. Le scuoto, ma sento che il freddo afferra anche le braccia, le spalle, la schiena. Se mi lascio prendere dal freddo qui, un accidente non me lo leva nessuno. E poi c'è la pancia... Avrei necessità impellente di una sosta strategica, ma come si fa? La neve è troppo alta, dappertutto; se bagno le scarpe ed i piedi, con questa temperatura, poi sì che sono fregata. A dire il vero, con la vita che c'è, potrei anche accontentarmi del bordo della strada: ma non ce la faccio, la sola idea ha su di me lo stesso effetto che avrebbe un tappo di damigiana in luogo congruo. Piutttosto scoppio!
Il grigio della nebbia accenna appena a schiarire, quando raggiungo la rotonda appena prima di Montezemolo. Che stia sorgendo il sole? La notte restituisce pian piano sagome sbiadite di cartelli stradali e mucchi di neve. Il male alle mani è insopportabile: tutto per colpa della mia leggerezza! Sarebbe bastato prendere un altro paio di guanti... Cerco di scaldarle con il fiato, ma non basta. Il paese è più bello che mai, immobile, sepolto dalla neve che ricopre tutto, tetti, comignoli, cataste di legna, auto che da chissà quanto tempo non si muovono più. Ghiaccio, stalattiti, camini che fumano. Dalla botteguccia di generi alimentari filtra un po' di luce; c'è già un cliente... All'uscita del paese ci sono due bar. Se fossero aperti, potrei approfittarne per il bene del mio pancino... Ed anche per trangugiare qualcosa di caldo, che so, una cioccolata, un cappuccino. Speriamo, speriamo... Mi ci avvicino con il cuore in gola: ma no, non c'è nulla da fare; chiusi entrambi, tutto spento, sprangato. Bene, che splendida prospettiva: da qui a Millesimo ci sono sei km di discesa, che mi toccherà affrontare in compagnia del mal di pancia e con le mani così gelide da non sentirle più. E questa nebbia che non accenna a diradarsi, e il sole che chissà quando si vedrà, se si vedrà, oggi. Imbocco l'ampio stradone: in senso contrario, c'è un certo traffico di auto con sci e snowboard sui tettucci. Il guard rail, quasi sepolto dalla neve, produce colpi secchi di tanto in tanto; è l'unico rumore percepibile, oltre a quello delle auto. Tutto il resto è ovattato, lontano.
La galleria è un momento di pura gioia. Basta poco, quando sei nei guai, a renderti felice. Una galleria lunga e satura di gas di scarico, aria avvelenata e pesante, in questo momento occupa il gradino più alto nella mia scala di desideri: perché è calda, o meglio, meno fredda dell'ambiente esterno. Vorrei che non finisse mai: pian piano sento un po' di tepore riscaldarmi la faccia, le spalle, i muscoli delle gambe, soprattutto le mani. Il rombo dei motori, amplificato dal tunnel, mi tiene buona compagnia; vorrei non vederne la fine... Invece la fine arriva, la vedo un centinaio di metri davanti a me, quel tanto che basta a prepararmi psicologicamente al congelamento. Appena fuori, mi sorpassa un trattore di quelli che spargono il sale. Qui la nebbia è un po' diradata; la vista raggiunge l'autostrada, la vallata color bianco sporco, le case e le stradine in fondo all'imbuto, che si perdono chissà dove in mezzo ai boschi. Tutto ciò ha un suo fascino; scatto un paio di foto, ben sapendo che le batterie della macchina fotografica, con questa temperatura, avranno vita breve. Foto mosse e sfocate, ma, con le mani così gelate, è il meglio che riesco a fare. La discesa è terribile: richiede, sì, meno fatica, ma fa sì che il gelo aggredisca i muscoli senza pietà e senza difesa. Millesimo, 2 km: coraggio Gian, tra poco avrai sollievo di tutto, del mal di pancia e del freddo. Allungo il passo, anche se so che poi la pagherò; ormai è giorno fatto, il mondo si è svegliato; sono aperti il negozio di parrucchiera nella curva ed il piccolo ufficio postale. Passo il casello autostradale, finalmente sono in paese. Mi tuffo nel bel mezzo del mercato: la prima insegna "BAR" è mia.
Immagino la perplessità della giovane barista nel vedersi arrivare di fronte una specie di pupazzo di neve, o meglio, di brina, con la luce frontale ancora ben salda sopra il berretto. La cioccolata no, non può farmela; allora vada per un bel cappuccino, purché caldo, caldissimo, bollente. Levare i guanti è impresa improba: le dita sono gonfie come salsicciotti, le mani paonazze ed ingovernabili. Al calduccio della macchina da caffé, però, si riprendono in fretta. Stringo a lungo la tazza con il cappuccino: lo so, sto perdendo tempo, ma è uno di quei casi in cui perder tempo significa guadagnarlo, almeno credo. Mi godo il cappuccino caldo e soddisfo la curiosità della barista, a cui leggo negli occhi l'impressione di non avere ben capito: poi, riscaldata e leggera dopo la tappa tecnica, mi ributto fuori, al gelo. Attraverso il mercato, o meglio, quel che ne resta: pochi banchi, qua e là, pochi passanti, tutti irrigiditi ed intabarrati. La via centrale di Millesimo è una meraviglia, ma oggi non è giorno da ammirarla. Parto di gran carriera per scaldarmi: c'è un po' di salita, adesso; ci conto per il conforto che ne avrò. Una foto alle stalattiti che ricoprono un'intera parete di roccia e terra, poi via, destinazione Carcare. Bello sentire lo sforzo delle gambe, il sangue che torna in circolo e scalda un po'. Cappuccino a parte, non ho toccato cibo, né tantomeno acqua, finora. Anzi, l'acqua non l'ho nemmeno messa nello zaino; tanto sarebbe congelata all'istante. Sono le otto e mezza passate, anzi quasi le nove. Il paesaggio non è mutato: bianco e grigio ovunque, alberi, cielo, terra ed autostrada. Non c'è umidità: tutto ciò che ha natura di acqua è paralizzato a terra, cristallizzato, prigioniero. La risalita è troppo breve; da lì a Carcare, sei km di discesa blanda, un po' di pianura. Idea geniale: visto che indosso ancora il giacchino rifrangente, provo ad infilare le mani nei buchi per le braccia, tenendole sul petto, sfregandole tra loro al riparo dello strato sottile di materiale sintetico: vuoi per il riparo, vuoi per il calore del corpo, va subito meglio, anche se poi finisco per correre col passo del pinguino, ma pazienza. Migliorano le mani ed anche il mio umore, tanto che Carcare arriva prima del previsto, senza troppa sofferenza per il lungo stradone quasi dritto. -6°C, sentenzia il termometro: ah bè, fa quasi caldo, in confronto alla temperatura di Ceva alla partenza. La strada torna a salire verso Altare; ricevo il messaggio di Matteo, che mi annuncia di aver provveduto alla cucina prima di andare in negozio. Ecco, lo sapevo... Non avrei dovuto avvisarlo del mio viaggio! Alla mezza salterà in sella, partirà per venirmi incontro sull'Aurelia, ed addio ai miei propositi battaglieri; se mi fermo sulla spiaggia e mi dedico alle libagioni, col cavolo che poi riparto di corsa. Il mio viaggio si conclude lì. E' un sopruso bell'e buono, che faccio fatica ad accettare. Anzi: se una decisione del genere fosse saltata in mente a chiunque altro, l'avrei mandato al diavolo senza mezze misure. Trattandosi di Matteo, è più difficile, perché la tentazione di trascorrere un'ora insieme, al calduccio della spiaggia, un'ora rubata alle nostre vite così distanti, è forte. Ma l'idea di dover accorciare la mia corsa e, soprattutto, di cedere al volere altrui, mi indispettisce, non posso farci nulla, son fatta così... Promessa a me stessa: la prossima volta, acqua in bocca con chiunque; se nessuno sa dove mi trovo e dove sono diretta, nessuno mi potrà intercettare.
Così brontolo tra me e me, ma è un brontolio silenzioso, perché il freddo congela anche la voce. Un attimo dopo, il dispetto è solo più un lontano ricordo. "La casa dei nonni – Pensionato per anziani", indica un cartello verso il centro del paese. Ma che bel nome da fiaba: già me l'immagino, il bimbo che chiede candidamente al nonno, "Ma perché non vai ad abitare lì anche tu?", e il nonno a cui si rizzano in testa gli ultimi capelli bianchi... Ma c'è poco da ridere. Quello sarà uno dei tanti luoghi dove si trascinano per forza avanti esistenze non molto diverse da quelle delle piante. Mi diranno che sono nazista, ma non m'importa, io la penso così; penso che non abbia alcun senso costringere un corpo a vegetare il più a lungo possibile, e le famiglie di quelle che erano persone a sopportare pene e spese esorbitanti per prolungare indefinitamente un'agonia che non ha la marcia indietro. Spero che non tocchi mai a me, e se dovesse toccarmi, spero che qualcuno abbia il buon cuore di assestarmi una martellata sul cranio: una, possibilmente, ben centrata, che odio i lavori lasciati a metà...
Rispondo al messaggio mentre salgo verso Altare: il traffico qui è appena più presente, ma manca poco al casello dell'autostrada. L'ampio rettilineo che precede Altare offre uno spettacolo suggestivo: la vallata più ampia, un uniforme colore bianco, dalla vegetazione all'autostrada, al cielo. Ma il profilo delle montagne, davanti a me, è accentuato da un'impercettibile sfumatura di luce. Già, laggiù, oltre l'orizzonte curvo dei monti, c'è il mare, ed io non vedo l'ora di arrivarci. Mi basta superare il Cadibona: so già che, dall'altra parte, sarà tutto ben diverso.
Attraversando Altare, metto sotto i denti il primo cibo solido della giornata: l'immancabile tavoletta di cioccolato bianco con mandorle e miele. Vale la pena di sobbarcarsi decine e decine di km di corsa, solo per la libidine di questo momento. Ed è un vero peccato che il vasetto di Nutella sia poco pratico per essere infilato nello zaino e spazzolato correndo: altrimenti sarebbe il mio alimento ideale, poco ma sicuro.
Mi lascio alle spalle il viale di poveri alberi scapitozzati: sono nella stessa, identica condizione in cui li ho visti un mese fa. D'accordo, non è che d'inverno la pianta dia grandi segni di vita, ma a me questi sembrano tronchi destinati inesorabilmente a morire... Spero di sbagliarmi. Un po' di viavai in piazza, l'auto dei Vigili Urbani, un paio di camper di propaganda elettorale, con grandi faccioni e grandi slogan sulle fiancate. Da che parte stanno, non lo guardo nemmeno: il solo fatto che qualcuno venga a dirmi che intende fare qualcosa per il mio bene, quando non è la mamma, mi fa diffidare di lui.
Lungo rettilineo in leggera salita e poi, finalmente, le gallerie. Mi ci butto, incurante del semaforo: tanto, il verde, per me che passo a piedi, non basta.
Dovrei esserci abituata... Ma oggi più che mai la meraviglia è tanta. Da un capo all'altro del breve tratto di gallerie, sembra di essere proiettati in un altro mondo. Come il palco di un teatro, che cambia da un tempo all'altro. Di là, nebbia, freddo, gelo, uggia. Di qua, una parvenza di sole, vento che strappa via le ultime foglie rinsecchite, leggerissimo tepore che ha l'effetto di una carezza sul viso. Finalmente: il peggio è passato, per oggi, ed anche stavolta ce l'ho fatta. Dodici lunghi km di discesa fino a Savona. Quassù, in quota, il sole è appena una sfumatura, ma la valle, dai colori un po' sfocati, è sgombra, visibile. Si può seguire il serpentone dell'autostrada, le case sparse in mezzo alla vegetazione, raggiungibili chissà come. Ora tocca solo avere pazienza, perché la discesa è lunga, noiosa e tremendamente monotona. Il conforto dei flebili raggi del sole è effimero; poco dopo l'abitato di Cadibona, la strada torna ad incassarsi tra pareti troppo alte e scoscese per lasciar passare la luce. Solo di tanto in tanto, e per pochi metri, devo strizzare gli occhi per non restare abbagliata. Saranno da poco passate le undici e c'è un certo traffico di auto e bus di linea. Addirittura qualche motociclista temerario, e qualche ancor più temerario ciclista: spero per loro che non intendano scollinare dall'altro versante. Mi accompagna il gorgoglio del torrente: fa freddo, ma oggi non sembra esserci ghiaccio, nemmeno nel suo letto. Appena un accenno a ridosso delle rocce. Una foglia secca piomba giù, spinta dal vento; mi lambisce il berretto, cade in mezzo alla strada. Arriva un'auto, proprio adesso: la foglia ondeggia, si sposta, poi va a finire proprio sulla traiettoria della ruota, che la schiaccia e ne fa brandelli. Ma non muore, la foglia, quel che ne resta; vola ancora, poco avanti a me, scompare tra le altre foglie, sul ciglio del torrente. Quanta pena può suscitare una foglia secca.
I cartelli che indicano la distanza dal centro di Savona rendono la discesa, se possibile, più penosa. E ci si mette anche la caviglia sinistra, già dolorante in partenza, che non ama questo genere di pendenza. Meglio non pensarci troppo, altrimenti poi il dolore si crede troppo importante, si ringalluzzisce, si fa sentire. Meglio ignorarlo. Rabbrividisco. Dovrei allungare un po' il passo, scaldarmi un po', affrettarmi verso il mare: ma le gambe sono ancora troppo inchiodate dal gelo, sembrano strette in una morsa. Il distributore di carburante, la rotonda, la pista ciclabile lungo l'ampio letto del Letimbro: ci sono, finalmente. Proseguo la mia corsa sotto gli occhi incuriositi di chi si affanna nelle ultime compere prima di pranzo. In effetti, indosso ancora tutto l'occorrente per essere ben visibile in piena notte, ed è già mezzogiorno. E sono in piena crisi: ma questo, il resto del mondo non può saperlo, almeno credo. Sono cotta e stracotta. Forse è il caso di concedermi qualche minuto di pausa, di cui approfittare per levare via un paio di strati di vestiario. Il termometro accanto al supermercato sentenzia +1°C: insomma, pare d'essere ai Tropici. Speravo nella fontanella, ma non c'è più nemmeno il rubinetto. Poco male, non ho toccato acqua finora, resisterò, e poi c'è una fontanella al porto.
Litigo, come al solito, con la confezione del fruttino, che si appiccica ovunque: ma stavolta quella confezione è complice delle mie gambe, che godono un attimo di requie. C'è il sole, e dire che oggi non avrei mai pensato di vederlo. Qui, lungo il corso, soffia una lama d'aria gelida; a malincuore, mi affretto a ripartire. onde evitare guai. Svolto verso Genova, ecco la sagoma inconfondibile della Fortezza che si staglia contro un bellissimo uniforme blu. E mi preparo a godermi il premio di tanta fatica e tanto freddo: altri km di corsa, ancora, ma lungo il mare, in una giornata bella che più non si può, luminosa, quasi calda. Stento a credere che sia proprio la stessa giornata in cui ho vissuto fino ad un'ora fa. Fendo la folla a passeggio lungo il porto, senza troppa delicatezza: una brevissima sosta alla fontanella, sotto il faro, e poi via, sul marciapiede e lungo il parapetto, a guardare il mare. Con un occhio prò di riguardo per i ciclisti: guai a scendere dal marciapiede senza voltarsi indietro! Ci sono sciami di ciclisti in entrambi i sensi di marcia, col sole spuntano tutti, come i lombrichi dopo un giorno di pioggia. Un mese fa, anche qui la neve rendeva dura la vita dello sportivo; di velocipedi non c'era nemmeno l'ombra.
Messaggio a Matteo, come promesso, perché non manca molto alla mezza. Ho superato Savona. proseguo e resto lungo l'Aurelia. Parto tra cinque minuti, la sua pronta risposta. Bene, allora mi resta un'ora scarsa, forse meno, per dedicarmi al mio dovere di brava podista. Mi accompagnano le urla dei gabbiani: imbocco la passeggiata degli Artisti e già infrango la promessa; la seguo, quasi senza accorgermi che ben presto non corre più lungo la strada, ma se ne va per conto suo, verso il mare. Pazienza, troverò un varco per tornare sull'Aurelia, prima o poi. Ora voglio godermi il pieno sole e le barche a vela che increspano l'orizzonte. Luce, calore, quanto mi sono mancati. Approfitto per una telefonata a casa, a mammà: "Dove sei, quanto ti manca? E poi ti ci vuole ancora un sacco di tempo per tornare indietro!". Mamma, stai scherzando? Indietro non ci torno mica a piedi, e ci mancherebbe! Prendo il treno... Rassegnato sospiro di sollievo, A ben pensarci, da qui a quattro mesi dovrò essere in grado di ripercorrere al contrario tutta la strada macinata oggi, ed aggiungerne un altro pezzetto. Ma ci penserò a tempo debito.
La passeggiata lungo il mare sembra concludersi contro la propaggine della montagna; imbocco una viuzza che, in un paio di curve, mi riporta sull'Aurelia, all'uscita del viale alberato di Albisola. Una leggera salita e poi si punta dritti su Celle: uno dei tratti più belli di tutta la galoppata. Celle, la vetrina del negozio della Olmo a cui dedico solo una rapida occhiata: mi manca, la bici, e tanto, anche. Ma con il clima di questi tempi, su nella bassa piemontese, mi fa troppa paura. Di buon passo, per rubare qualche metro a Matteo che starà pedalando come un pazzo verso di me: la luminosa facciata della chiesa, appena oltre la strettoia; la parte di Celle più turistica, più nuova, la spiaggia. Altro messaggino, "Sono a Varazze, tu dove sei?". "Esco ora da Celle, rispondo al volo, senza troppa cura per le lettere maiuscole. Un altro splendido tratto di Aurelia esposto sul mare, da respirare a pieni polmoni. Scruto i ciclisti che spuntano oltre la curva, gruppetti e grupponi in cui non può esserci lui: non sopporterebbe di stare a ruota, li sorpasserebbe, a costo di dannarsi l'anima. Lo incrocio proprio nel curvone del Cottolengo, laddove "Charitas Christi urget nos". Posizione a uovo, mena sui pedali come un forsennato: quasi ho timore a richiamarlo; sarebbe capace di inchiodare e provocare un tamponamento a catena da qui a La Spezia. Non accade, per fortuna. Dove si va? Appena un po' indietro, alla spiaggia, quel bellissimo tratto di passeggiata proprio di fronte al casello autostradale di Celle. Giù dalla scalinata, con gran gioia dei miei muscoli dolenti: altro che "Charitas Christi", è la fame che "urget nos!". L'angolino di conglomerato accanto all'ingresso della galleria pedonale offre alle nostre terga comodo appoggio; i raggi di una splendida giornata di sole fanno il resto. Il buon Matteo ha pensato proprio a tutto, dalla pietanza al dolce. Ci dividiamo una ciotola di ottima insalata di riso con le uova, il formaggio e la verdura, due yogurt e la voglia di piantare uno spillone nel quadrante dell'orologio per impedire alla lancetta di completare il suo giro. E pensare che, a Carcare, mi son persino indispettita all'idea di trovarmi qui dove sono ora. Che imbecille. Adesso non vorrei più alzarmi... Ma il venticello che mette i brividi, nonostante le giacche, ed il tempo tiranno ci costringono ad alzarci. Restano un paio di km a Varazze, che mi sforzo di percorrere di corsa, dissimulando con faccia di cera il dolore alle gambe ormai raffreddate ed irrigidite. Poi dobbiamo salutarci: Matteo torna all'opera in negozio, io raggiungo la stazione. Circa 65 km nei garretti, per oggi. Varazze, Savona, cambio. Torno in Piemonte in compagnia di un simpaticissimo pensionato di Racconigi, chiacchierone quanto basta. Quasi quasi mi dispiace doverlo salutare, dover scendere a Ceva. Più nulla è rimasto del tepore del mare; qui il termometro è tornato sotto zero, senza pietà, i colori sono spariti, inghiottiti chissà dove. Ma non ha importanza, la Opel è bianca pure lei ma non si confonde, e poi i colori a me restano negli occhi e nell'anima. Sbocconcello la fetta di Pandoro che mi ha lasciato Matteo; destinazione casa., e provo a convincermi di volerci tornare davvero, a casa. Non ne sono così sicura...
sabato 23 gennaio 2010
domenica 17 gennaio 2010
17 gennaio 2010 - Maratona della Pace sul Lamone
"Ma almeno hai idea di dove sia il punto di partenza della corsa? ". Buona domanda. A simili quisquilie, gretta insignificante minutaglia, il mio neurone rifiuta di dedicare anche un solo infinitesimo del proprio operato; forse perché è un neurone sussiegoso, o forse, ipotesi più realistica, perché fatica già anche troppo a mandare a memoria le linee generali. Tutto ciò che so è che dobbiamo raggiungere Bagnacavallo: ora che abbiamo appena superato il cartello con il nome del paese, per me è il buio. E non solo perché sono le due di notte passate ed ho alle spalle cinque ore di guida ed una bella ed intensa giornata trascorsa a scorrazzare per i sentieri sopra Arenzano . Matteo insiste: "Ma non è possibile che sul sito della gara non fosse indicato nulla". Sopprimo a stento il fastidio: certo, so benissimo che non è possibile; probabilmente era tutto scritto, via, numero civico e coordinate GPS, solo che io devo aver saltato quel brano a piè pari. Evitiamo di puntualizzare l'ovvio, per cortesia, o, come si suol dire, di spaccare il capello in quattro. Non sono mai stata un asso nell'organizzazione dei viaggi: l'entusiasmo della partenza travolge qualsiasi barlume di buon senso. Però sono un'inguaribile ottimista: "Bagnacavallo non è mica New York – replico con glaciale tranquillità – vedrai che non avremo problemi a trovare la partenza, domattina". E con ciò, il discorso per me è chiuso. Il sonno reclama il giusto tributo; in più, a notte fonda, potremmo girare come trottole per tutta la provincia senza vedere nulla che ci aiuti ad individuare la nostra meta. Nessuno che si aggiri con le borse della gara, nessuno che monti gazebo ed arco di arrivo. Tantovale dormirci su.
Sulle prime, mi sforzo di essere accondiscendente, lasciando a Matteo la scelta del parcheggio che più lo ispira per qualche ora di nanna, ovviamente in auto. Vorrebbe uscire dal paese, lui, in modo da stendere il materassino per terra, fuori, e dormire così, inumato nel sacco a pelo; è terrorizzato, chissà perché, dall'idea del sonno sul sedile, "con i piedi più in basso della testa". Una delle sue fissazioni. Ma a tutto ciò mi oppongo fieramente: anche alla follia c'è un limite. Già la mia abitudine dei pernottamenti nella Opel, lo ammetto, non è il massimo della sicurezza; se poi ci si va anche ad isolare in qualche luogo buio e deserto, tantovale appendersi un cappio al collo e via. Tronco sul nascere anche l'ambizione del mio povero compagno di viaggio per un parcheggio riparato dalla luce dei lampioni: "Se hai sonno – sentenzio – vedrai che riuscirai a dormire in qualsiasi condizione". Detto ciò, srotolo il sacco a pelo e mi ci tumulo. Lui no, armeggia con il sedile, s'infila il materassino arrotolato sotto la schiena, uno zaino sotto i piedi, nella disperata ricerca della posizione orizzontale, ricerca destinata inesorabilmente a fallire. Non mi stupirei se lo vedessi estrarre la bolla da muratore... Per risparmiarmi il penoso spettacolo, crollo in un sonno profondissimo.
Quattro ore e mezza più tardi, la sveglia ci strappa al coma profondo. Tocca scongelare il parabrezza e noi stessi, e meditare intanto sul da farsi. Matteo non ha dubbi, anche perché, per lui, il riavvio del cervello è subordinato e successivo al riavvio dello stomaco. Ammesso e non concesso che il suo stomaco concepisca il riavvio: secondo me, quest'uomo ha qualcosa in comune con i ruminanti; è impegnato in un processo di digestione perpetuo. Apre mezza palpebra e spalanca le mascelle. Ottimo: ne approfitto per mettere in moto la Opel e partire per un giro esplorativo della metropoli di Bagnacavallo. La ricognizione si conclude dieci minuti dopo, a cento metri da lì: un parcheggio, alcuni camper, un po' di viavai. Ci siamo: all'interno di un bellissimo cortile con pavimento di ciottoli e porticato in mattoni, gli organizzatori stanno già distribuendo i numeri di gara. Visto che avevo ragione io? L'abbiamo trovato, il posto giusto...
Raccattati i pacchi gara, posso finalmente pensare anch'io al benessere del mio pancino, mentre il viavai di podisti si fa più intenso. Brusio, chiacchiere, atmosfera familiare e rilassata: nulla a che vedere con le facce truci e gli ostinati silenzi delle partenze delle maratone più blasonate. Oggi non ci tocca esattamente una maratona; i km da correre sono quarantotto e, se il mio informatore non ha mentito, son quasi tutti su strada sterrata.
Tengo compagnia all'onnivoro sul sedile passeggero, combattendo con un panino al formaggio che, mi son ricordata troppo tardi, con gli incisivi rotti è ben difficile espugnare. Povero Matteo: oggi è qui s proprio solo per far piacere a me... Lui che aborre la corsa in pianura e che, sua sponte, non avrebbe mai preso parte ad una gara del genere. E si sforza persino di mostrarsi contento! Sarò mai capace, a parti invertite, di accollarmi un sacrificio del genere per lui? Uhm. Domande imbarazzanti da affogare in una stecca di cioccolato Lindor. Poi yogurt e marmellata. La giornata si annuncia grigia. Per dirla tutta, è prevista pioggia: speriamo di no... Ma io avrò comunque sulle spalle lo zainetto con la giacca impermeabile. Sarà pur vero, come ironizza Matteo, che la pioggia non rappresenta un problema, perché il corpo umano non arrugginisce; arrugginire forse no... Ma una polmonite non è ipotesi così remota. E poi non sopporto il freddo della pioggia su schiena, spalle, torace; la giacca impermeabile fa sudare lo stesso, ma se non altro mantiene il calore. Ergo, unica tra tutti i presenti, correrò con lo zainetto che fa da copertina di Linus.
Rapido cambio d'abito e un po' meno rapida coda all'unico bagno disponibile, scambiando quattro chiacchiere con i volti noti ed anche con quelli meno noti. Sfoggio il mio sorriso ormai ridotto a ventisette denti, dopo i tre giudizi estirpati ed i due incisivi lasciati sul cofano dell'auto che mi ha tagliato la strada a Capodanno, mentre rientravo verso casa alla fine di un giro in bici: credo di avere un aspetto abbastanza raccapricciante, ma che importa. Sorridere è una di quelle azioni che non possono mancare nella mia giornata, mai.
Ci raduniamo nel cortile, sotto l'arco gonfiabile. Saremo un centinaio di persone, forse? Chissà. Chiacchiero con Andrea, alla sua prima gara di distanza oltre la maratona, e con Luca; Matteo è taciturno, sembra teso, anche se ha spergiurato di non voler interpretare quest'appuntamento con la foga dell'agonismo. Mah, io non credo finché non vedo la classifica. Conosco il mio pollo...
La mandria si mette in movimento: siamo partiti o no? No, non ancora, forse è solo uno spostamento. Seguo le schiene che mi precedono, senza pormi troppe domande. La truppa si ferma qualche minuto dopo, in un altro lato del parcheggio: l'atmosfera generale è talmente rilassata che lo sparo del via coglie quasi tutti di sorpresa.
Come sempre, la parola d'ordine è "piano". Partire piano, secondo l'insegnamento di quel mito vivente che è Marco Olmo: "Andate piano che è lunga". Lasciamo perdere il fatto che il concetto di "piano", per Olmo, corrisponda più o meno al mio concetto di "a tutta birra, finché non c'è più fiato". Si corre e si chiacchiera: un po' di asfalto per uscire dall'abitato, un breve tratto in una lista di prato in mezzo ai frutteti, poi ancora un po' di strada vera, forse un paio di km. Non dovrei comportarmi da impicciona, ma non posso fare a meno di prestare orecchio al comicissimo dialogo che si sta componendo alle mie spalle. Un podista racconta di essere qui oggi per esortazione del figlio: "Babbo, perché non ci vai anche tu?". Pare che il premuroso pargolo sia al corrente di un'assicurazione sulla vita dell'atletico papà. Ma la domanda sorge spontanea: lo sfinimento è contemplato tra le cause di trapasso che consentono ai beneficiari di incassare il risarcimento? Si scatena così la fantasia dei compari del podista, per simulare un incidente stradale, un omicidio, chi più ne ha più ne metta. E già le mie gambe minacciano di diventare molli per le risa: cominciamo bene! Mi torna in mente un episodio di cronaca nera di parecchio tempo fa, quando un uomo, titolare di un'assicurazione contro gli infortuni, aveva architettato una truffa ai danni della compagnia, con la collaborazione di un amico che gli aveva segato via una gamba con la motosega. L'intento era incassare e dividere il risarcimento, da buoni compari. Il risultato è stato un po' diverso: assicurato passato a miglior vita ed aspirante beneficiario rinchiuso in galera. Ma si può essere più idioti?
Matteo scalpita. Un paio di km dopo il via, ecco l'annuncio: "Provo ad allungare un po'". E poi, quasi a scusarsi: "Se mi raggiungi e vedi che non ce la faccio più, trascinami alla fine". Sì, certo, come no, se ti raggiungo. E' più facile che il solito cammello obeso passi per la cruna di un ago piccolo... Povero cammello. Seguo la maglia verde di Matteo finché non sfuma nel grigio indistinto della nebbia. Capannoni e case isolate ben sorvegliate dai cani: in un cortile, dietro una grata, abbaiano due splendidi colossi, un pastore tedesco ed un pitbull a cui qualche decerebrato ha tagliato, come da criminale tradizione, le orecchie e la coda. Si fosse tagliato la sua, di coda... Attraversiamo una strada, passiamo sotto l'autostrada; una breve salita e siamo sull'argine. Maratona della Pace sul Lamone, questo il nome completo della corsa: eccoci infatti a correre su un cordolo di terra, pochi metri di larghezza, altissimo sul letto di un corso d'acqua che oggi sembra così placido, ma che, a giudicare dalle sponde costruite apposta per lui, deve incutere vero terrore quando s'infuria.
Prima brevissima sosta al punto di ristoro, per un bicchiere di sali ed un boccone dell'invitante crostata lì disposta a fare bella mostra di sé: riparto subito, masticando e rischiando il soffocamento. D'ora in poi il terreno di gara sarà questo, l'argine. Man mano che gli occhi si abituano alla visione sfocata – ed i miei, da miope incallita, sono avvantaggiati – si delinea un paesaggio piatto che più piatto non si può. Cielo grigio uniforme, nebbia a mezz'asta in cui si disegnano, man mano che ci si avvicina, i contorni di splendide cascine ben ristrutturate. Isolate, una qua una là, quasi tutte accompagnate da uno o più alberi immensi, vecchi di chissà quanti anni. Meglio che mi guardi intorno adesso, finché i km nelle gambe sono ancora pochi e la stanchezza non si sente. Il terreno è morbido ma non troppo fangoso; si calpesta ghiaia, erba, si va a bagno in qualche pozza.
Superiamo la ferrovia, attraversando i binari sotto il controllo vigile di un sorvegliante; mi fido, non guardo né da una parte né dall'altra; del resto sono convinta che, se proprio si deve passare a miglior vita, meglio che la botta sia rapida, inattesa e possibilmente indolore!
Il torrente è placido, sembra quasi fermo, grigio come tutto il resto. Un uomo cammina ai piedi dell'argine, lungo i canneti; dagli abiti, sembra un cacciatore, ma non ha armi con sé; forse indossa gli stivaloni solo per il fango. Lo accompagna un bel cane da caccia, impegnato naso a terra nella ricerca di chissà cosa: non certo di una preda per la tavola del suo amico umano, visto che d'improvviso fa una deviazione, risale l'argine alla velocità di una scheggia e punta dritto verso di me. Chissò perché proprio verso di me, con tutti i corridori che passano oggi quassù? Forse perché sa, il filibustiere, che lo ricoprirò di coccole, cosa che infatti avviene, un attimo prima che il padrone, bonariamente, lo richiami all'ordine.
I primi, i più veloci, compaiono già in direzione contraria. Non ho idea del percorso, ma mi sembra di capire che da qualche parte, più avanti, ci sia un punto in cui si svolta e si torna indietro. I distacchi, nelle prime posizioni, sembrano ancora contenuti. Quanta strada avremo macinato fin qui? Chissò, non ne ho idea. Si avvicinano sulla destra le case di un piccolo paese, un campanile su cui non leggo l'ora. Scruto già da lontano le figure che mi corrono incontro, alla ricerca di una maglia verde, ma non riesco ad intercettare Matteo prima che i volontari che vigilano sul percorso mi facciano deviare verso destra, giù attraverso un piccolo parco e tra le case del paese. A quanto pare, la corsa segue un piccolo anello, per passare nella piazzetta dov'è stato allestito il punto di ristoro. Coca Cola, due bicchieri, anche se il freddo è pungente e ci vorrebbe piuttosto un paiolo di polenta calda. Ci sono anche gli amaretti secchi, fantastico! Ne afferro un paio e scappo. A dire il vero, le gambe corrono di buona lena, oggi, senza che lo stomaco reclami, almeno per ora. Si ritorna sull'argine, in senso contrario. Comincio a raccattare qualcuno dei fuggitivi, quelli che son partiti a razzo ed ora ne pagano già il conto. In effetti, mi sento bene, anche troppo; è una sensazione stranissima, correre senza fatica. Occhio Gian, che non dura. Non tirare troppo la corda. Vista dall'alto su una bella e grande casa con giardino; due cani interessati alla gara: un pastore tedesco che osserva senza fiatare ed un barboncino bianco che si sfinisce le corde vocali a furia di abbaiare.
Altro passaggio sui binari: "Ma non passerà mica l'alta velocità?". "No – mi rassicura il volontario – solo trenini locali". Uhm... Dubito che le mie ossa riescano, nel malaugurato caso, a percepire la sottile differenza.
Si procede lungo l'argine, una parte per oggi ancora inesplorata. Di tanto in tanto la strada scende per un attimo a livello del torrente, poi risale con una rampa che taglia le gambe. In alcuni tratti, un altro sentiero corre parallelo all'argine, ma giù, in riva al corso d'acqua; è una pista di fango solidificato che ha conservato le orme profonde del passaggio di piedi e mezzi agricoli, e le conserverà fino alla prossima pioggia. Già, meno male che oggi non piove; l'umidità è tanta, ma se il cielo scaricasse giù acqua, noi tutti avremmo già l'aspetto di lottatori nel fango, altro che podisti.
Un sorpasso dietro l'altro, recupero qualche posizione, contendendo agli avversari l'unica strisciolina di terreno battuto in mezzo all'erba. Le mie caviglie non amano il fuoristrada, abituate come sono alla regolarità dell'asfalto. Lo rimpiango un po', il mio amato asfalto. Guardo con occhio sognante le strade che in certi tratti si affiancano all'argine, là dove passano le auto, Come si fa a vivere in un luogo così piatto, senza avere nei dintorni la rassicurante presenza del Monviso? Senza un piccolo rilievo, una collina, nulla? Però anche questo ambiente ha il suo fascino, soprattutto in una giornata grigia ed uggiosa come questa. E siamo a due passi dal mare.
Di lì a poco, ecco dinuovo i primi podisti che arrivano in senso contrario. Al punto di ristoro, il monito: "Chi fa la Maratona, gira indietro qui; chi fa la 48 km, prosegue ancora. Proseguo, infatti. Il distacco tra i primi è già pesante; passano alla spicciolata, sguardo fisso e un po' allucinato. Parecchio più tardi, a grappoli, arrivano i podisti veloci ma non da vertice della classifica. Intanto, piano piano, rosicchio altre posizioni, approfittando della mia condizione di grazia. Qui sì che lo incontro, Matteo. Corre di buona lena, ma senza prendersi la pelle, con un viso riposatissimo, come se stesse sferruzzando a maglia. Un saluto veloce, senza fermarsi. Dopo un tratto più tortuoso, qualche curva e qualche rampa, raggiungo quasi senza accorgermene il punto in cui si svolta indietro. Quanti km fino a qui? Azzardo la domanda: "Ventiquattro"... Possibile, siamo a metà? Resto basita: credevo meno, molto meno! Attenzione, però, perché qui scatta la trappolona. L'entusiasmo vorrebbe far correre le gambe il più veloce possibile, manca meno della metà; però non bisogna lasciarsi infinocchiare. Altri ventiquattro km son pur sempre ventiquattro km. Vacci piano Gian. Certo, piano ma con un sorrisone da un orecchio all'altro. Ora sono io che incrocio i ritardatari, con mia gran sorpresa, perché mi accorgo che, dopo di me, c'è ancora un bel po' di gente. Magra soddisfazione, tra me e loro è pur sempre una guerra tra poveri, e poi so che la pagherò cara, lo sento!
Al successivo ristoro, mi si accoda un podista che ha osservato la mia rimonta: mi fa i complimenti, dice che sto andando bene; io faccio la ruota del pavone, contenta di aver raccattato un po' di compagnia. Condividiamo qualche km di galoppata, scambiando anche qualche parola, dove si può; la "responsabilità" di un collega per cui fare il passo mi dà un'altra spinta. Ancora sorpassi, ancora gruppetti in lontananza a cui avvicinarsi pian piano, come i predatori. Non so per quale regola accada questo, ma sono quasi sicura, ogni volta che metto il sale sulla coda a qualche avversario, che non sarò riacchiappata a mia volta. E' abitudine comune quella di partire troppo forte e poi rallentare, rallentare... Succederà anche a me, spero solo non subito!
Non subito... Però, accade. Si torna sul tratto di argine percorso nella prima parte di gara, quello attraversato dalla ferrovia. E qui si presenta, inesorabile, la cotta. Muscoli induriti, il passo diventa più rigido, difficile. Il collega che mi ha accompagnata fin qui capisce, passa avanti: chi ha detto che la scia, nella corsa, non ha utilità? Ne ha, eccome; forse non è un'utilità materiale così accentuata come lo è nel ciclismo, ma è un'utilità psicologica, un aiuto, una schiena a cui aggrapparsi con lo sguardo per non dover più pensare al ritmo, al passo, alla direzione. Il cambio di ritmo imposto dai binari mi dà un'idea di quanto siano rigide adesso le mie gambe. Ce la farò ad arrivare alla fine di corsa? Quanto manca? Cerco con lo sgurado il campanile del paese, l'ultimo giro di boa; è ancora distante, troppo, non si vede. Non ce la faccio fino alla fine, non ce la faccio, devo rallentare, ma il pensiero non arriva ai piedi. Altri podisti a cui passar davanti, alla spicciolata; la cascina, i cani. Matteo, il suo sorriso, il suo incoraggiamento: "Stai volando...". E' meglio di mille spinte, anche se poi la brevissima discesa dall'argine al paese è un supplizio per le gambe; devo fare attenzione a non ruzzolare. Pochi secondi di sosta, due amaretti, poi riparto. Uno di quegli amaretti mi resterà in mano fino al tragurado: son talmente cotta che ho paura persino di masticare qualcosa. Un'ultima sferzata, manca una decina di km. Non mollare, Gian, cerca di mantenere almeno questo passo, finché ce la fai. Supero il podista che mi aveva accompagnata fin qui; ho le gambe di legno, ma le figure che ancora vedo, in lontananza, davanti a me, mi ordinano di non rallentare ancora; di provarci, in fondo non sarebbe così grave se anche dovessi mollare. Ed i corridori che incontro nell'altro senso salutano, incoraggiano, fanno i complimenti. Misuro le distanze tra me e me: dai Gian, dal ristoro avrai già fatto cinquecento metri, avrai fatto un chilometro, due. Le gambe sono sempre più rigide; sempre più arduo è lanciare un passo avanti l'altro, eppure la reazione che mi viene naturale è cercare di accelerare ancora: forse perché, così, la distanza se ne andrà più in fretta. A caccia di un podista con la divisa nera, che mi precede di poco; gli arrivo alle calcagna senza che se ne accorga. Si volta poco prima che lo sorpassi; accenno qualche parola, ma il dialogo ormai è risicato. Troppo scarso l'ossigeno. Ancora all'incirca un chilometro prima del bivio con l'ultima parte di strada. Di tanto in tanto si vede un cartello, "Bagnacavallo": ma dove cavolo è finito 'sto paese^? Ancora incoraggiamenti all'ultimo punto di ristoro: poi si passa sotto l'autostrada e si torna per un breve tratto sull'asfalto. "Quattro km e mezzo, cinque", così mi dicono. Per mia fortuna, trovo ancora una lepre, un podista lontano, avanti, su cui regolare gli ultimi scampoli della corsa. Adesso sì, rallento per forza, perché ogni passo non è più spontaneo; va costretto, pensato, forzato. Hai voglia a rivolgere la mente ad altro, alla cascina con l'edera che si arrampica sul muro, all'acqua che scorre nel fosso, alle beghe lavorative o ad altre gare; più mi ripeto di non pensare alle gambe dolenti e più ci penso. Dai Gian, quattro km tre km, ce la puoi fare, ce la devi fare! La figura davanti a me è sempre più vicina. Riconosco il ponticello in mezzo ai frutteti, dove già siamo passati all'andata. Quando proprio il dolore è troppo, smetto di correre; per un attimo cammino, ma solo qualche passo, non di più. Non sia mai, non devo cedere. Riparto di corsa, assaporo fino in fondo l'effimero sollievo che i muscoli hanno tratto da quella minima pausa; al ponticello, sono ormai alle spalle del mio fuggitivo. Il volontario che era lì a presidio dell'ultimo mini ristoro inforca la bici e ci accompagna fino alla fine: "Due km", meno male. Mi rincuoro. Come sempre, lo stato d'animo si trasferisce alle gambe, subito. Qualche battuta, qualche parola smozzicata; il fuggitivo si aggrappa alla posizione, non cede. Passiamo tra le cascine, torturati dai profumi intensi delle cucine, e si sa che, da queste parti, l'arte culinaria raggiunge vette di eccezionale livello. Il ciclista, di fronte, ci controlla e ci incita. "Bagnacavallo", l'ennesimo cartello, speriamo definitivo. Sì, siamo nelle vie del paese. Sotto il viale, incontro uno dei fortunati che, a fine gara, si sono già fatti la doccia. Con tono di evidente scherzo, e con l'intenzione di fare un complimento, gli dico sorridendo: "Io li picchierei, quelli come te che a quest'ora si son già fatti la doccia...". Con tono invece serissimo e canzonatorio, mi risponde il suo accompagnatore: "Se vuoi arrivare prima, basta che corri più forte, che cali cinque o sei minuti al km!". Resto perplessa e, come me, il ciclista angelo custode: "Simpatico", sbotta lui ironicamente... "Che stronzo", concludo io. Quando ce vò ce vò. Giro l'angolo, arrivo nella piazza del parcheggio; un attimo, raggiungo il cortile della partenza e l'arco d'arrivo. Matteo è lì, arrivato in 4h 19', prendendosela comoda come aveva promesso; io chiudo in 4 ore e mezza, che per me è un risultato più che lusinghiero. Pagherò l'exploit, dopo quasi cinque ore alla guida, con i piedi gonfi, dolentissimi, e con la promessa solenne di non ritentare mai più un'impresa del genere su qualcosa che non sia asfalto. Però, nonostante il dolore, tutto ciò ha un lato positivo: per tutta la sera e fino all'indomani, mi godrò le affettuose premure del mio personalissimo infermiere, cuoco , maggiordomo e damo di compagnia.
Sulle prime, mi sforzo di essere accondiscendente, lasciando a Matteo la scelta del parcheggio che più lo ispira per qualche ora di nanna, ovviamente in auto. Vorrebbe uscire dal paese, lui, in modo da stendere il materassino per terra, fuori, e dormire così, inumato nel sacco a pelo; è terrorizzato, chissà perché, dall'idea del sonno sul sedile, "con i piedi più in basso della testa". Una delle sue fissazioni. Ma a tutto ciò mi oppongo fieramente: anche alla follia c'è un limite. Già la mia abitudine dei pernottamenti nella Opel, lo ammetto, non è il massimo della sicurezza; se poi ci si va anche ad isolare in qualche luogo buio e deserto, tantovale appendersi un cappio al collo e via. Tronco sul nascere anche l'ambizione del mio povero compagno di viaggio per un parcheggio riparato dalla luce dei lampioni: "Se hai sonno – sentenzio – vedrai che riuscirai a dormire in qualsiasi condizione". Detto ciò, srotolo il sacco a pelo e mi ci tumulo. Lui no, armeggia con il sedile, s'infila il materassino arrotolato sotto la schiena, uno zaino sotto i piedi, nella disperata ricerca della posizione orizzontale, ricerca destinata inesorabilmente a fallire. Non mi stupirei se lo vedessi estrarre la bolla da muratore... Per risparmiarmi il penoso spettacolo, crollo in un sonno profondissimo.
Quattro ore e mezza più tardi, la sveglia ci strappa al coma profondo. Tocca scongelare il parabrezza e noi stessi, e meditare intanto sul da farsi. Matteo non ha dubbi, anche perché, per lui, il riavvio del cervello è subordinato e successivo al riavvio dello stomaco. Ammesso e non concesso che il suo stomaco concepisca il riavvio: secondo me, quest'uomo ha qualcosa in comune con i ruminanti; è impegnato in un processo di digestione perpetuo. Apre mezza palpebra e spalanca le mascelle. Ottimo: ne approfitto per mettere in moto la Opel e partire per un giro esplorativo della metropoli di Bagnacavallo. La ricognizione si conclude dieci minuti dopo, a cento metri da lì: un parcheggio, alcuni camper, un po' di viavai. Ci siamo: all'interno di un bellissimo cortile con pavimento di ciottoli e porticato in mattoni, gli organizzatori stanno già distribuendo i numeri di gara. Visto che avevo ragione io? L'abbiamo trovato, il posto giusto...
Raccattati i pacchi gara, posso finalmente pensare anch'io al benessere del mio pancino, mentre il viavai di podisti si fa più intenso. Brusio, chiacchiere, atmosfera familiare e rilassata: nulla a che vedere con le facce truci e gli ostinati silenzi delle partenze delle maratone più blasonate. Oggi non ci tocca esattamente una maratona; i km da correre sono quarantotto e, se il mio informatore non ha mentito, son quasi tutti su strada sterrata.
Tengo compagnia all'onnivoro sul sedile passeggero, combattendo con un panino al formaggio che, mi son ricordata troppo tardi, con gli incisivi rotti è ben difficile espugnare. Povero Matteo: oggi è qui s proprio solo per far piacere a me... Lui che aborre la corsa in pianura e che, sua sponte, non avrebbe mai preso parte ad una gara del genere. E si sforza persino di mostrarsi contento! Sarò mai capace, a parti invertite, di accollarmi un sacrificio del genere per lui? Uhm. Domande imbarazzanti da affogare in una stecca di cioccolato Lindor. Poi yogurt e marmellata. La giornata si annuncia grigia. Per dirla tutta, è prevista pioggia: speriamo di no... Ma io avrò comunque sulle spalle lo zainetto con la giacca impermeabile. Sarà pur vero, come ironizza Matteo, che la pioggia non rappresenta un problema, perché il corpo umano non arrugginisce; arrugginire forse no... Ma una polmonite non è ipotesi così remota. E poi non sopporto il freddo della pioggia su schiena, spalle, torace; la giacca impermeabile fa sudare lo stesso, ma se non altro mantiene il calore. Ergo, unica tra tutti i presenti, correrò con lo zainetto che fa da copertina di Linus.
Rapido cambio d'abito e un po' meno rapida coda all'unico bagno disponibile, scambiando quattro chiacchiere con i volti noti ed anche con quelli meno noti. Sfoggio il mio sorriso ormai ridotto a ventisette denti, dopo i tre giudizi estirpati ed i due incisivi lasciati sul cofano dell'auto che mi ha tagliato la strada a Capodanno, mentre rientravo verso casa alla fine di un giro in bici: credo di avere un aspetto abbastanza raccapricciante, ma che importa. Sorridere è una di quelle azioni che non possono mancare nella mia giornata, mai.
Ci raduniamo nel cortile, sotto l'arco gonfiabile. Saremo un centinaio di persone, forse? Chissà. Chiacchiero con Andrea, alla sua prima gara di distanza oltre la maratona, e con Luca; Matteo è taciturno, sembra teso, anche se ha spergiurato di non voler interpretare quest'appuntamento con la foga dell'agonismo. Mah, io non credo finché non vedo la classifica. Conosco il mio pollo...
La mandria si mette in movimento: siamo partiti o no? No, non ancora, forse è solo uno spostamento. Seguo le schiene che mi precedono, senza pormi troppe domande. La truppa si ferma qualche minuto dopo, in un altro lato del parcheggio: l'atmosfera generale è talmente rilassata che lo sparo del via coglie quasi tutti di sorpresa.
Come sempre, la parola d'ordine è "piano". Partire piano, secondo l'insegnamento di quel mito vivente che è Marco Olmo: "Andate piano che è lunga". Lasciamo perdere il fatto che il concetto di "piano", per Olmo, corrisponda più o meno al mio concetto di "a tutta birra, finché non c'è più fiato". Si corre e si chiacchiera: un po' di asfalto per uscire dall'abitato, un breve tratto in una lista di prato in mezzo ai frutteti, poi ancora un po' di strada vera, forse un paio di km. Non dovrei comportarmi da impicciona, ma non posso fare a meno di prestare orecchio al comicissimo dialogo che si sta componendo alle mie spalle. Un podista racconta di essere qui oggi per esortazione del figlio: "Babbo, perché non ci vai anche tu?". Pare che il premuroso pargolo sia al corrente di un'assicurazione sulla vita dell'atletico papà. Ma la domanda sorge spontanea: lo sfinimento è contemplato tra le cause di trapasso che consentono ai beneficiari di incassare il risarcimento? Si scatena così la fantasia dei compari del podista, per simulare un incidente stradale, un omicidio, chi più ne ha più ne metta. E già le mie gambe minacciano di diventare molli per le risa: cominciamo bene! Mi torna in mente un episodio di cronaca nera di parecchio tempo fa, quando un uomo, titolare di un'assicurazione contro gli infortuni, aveva architettato una truffa ai danni della compagnia, con la collaborazione di un amico che gli aveva segato via una gamba con la motosega. L'intento era incassare e dividere il risarcimento, da buoni compari. Il risultato è stato un po' diverso: assicurato passato a miglior vita ed aspirante beneficiario rinchiuso in galera. Ma si può essere più idioti?
Matteo scalpita. Un paio di km dopo il via, ecco l'annuncio: "Provo ad allungare un po'". E poi, quasi a scusarsi: "Se mi raggiungi e vedi che non ce la faccio più, trascinami alla fine". Sì, certo, come no, se ti raggiungo. E' più facile che il solito cammello obeso passi per la cruna di un ago piccolo... Povero cammello. Seguo la maglia verde di Matteo finché non sfuma nel grigio indistinto della nebbia. Capannoni e case isolate ben sorvegliate dai cani: in un cortile, dietro una grata, abbaiano due splendidi colossi, un pastore tedesco ed un pitbull a cui qualche decerebrato ha tagliato, come da criminale tradizione, le orecchie e la coda. Si fosse tagliato la sua, di coda... Attraversiamo una strada, passiamo sotto l'autostrada; una breve salita e siamo sull'argine. Maratona della Pace sul Lamone, questo il nome completo della corsa: eccoci infatti a correre su un cordolo di terra, pochi metri di larghezza, altissimo sul letto di un corso d'acqua che oggi sembra così placido, ma che, a giudicare dalle sponde costruite apposta per lui, deve incutere vero terrore quando s'infuria.
Prima brevissima sosta al punto di ristoro, per un bicchiere di sali ed un boccone dell'invitante crostata lì disposta a fare bella mostra di sé: riparto subito, masticando e rischiando il soffocamento. D'ora in poi il terreno di gara sarà questo, l'argine. Man mano che gli occhi si abituano alla visione sfocata – ed i miei, da miope incallita, sono avvantaggiati – si delinea un paesaggio piatto che più piatto non si può. Cielo grigio uniforme, nebbia a mezz'asta in cui si disegnano, man mano che ci si avvicina, i contorni di splendide cascine ben ristrutturate. Isolate, una qua una là, quasi tutte accompagnate da uno o più alberi immensi, vecchi di chissà quanti anni. Meglio che mi guardi intorno adesso, finché i km nelle gambe sono ancora pochi e la stanchezza non si sente. Il terreno è morbido ma non troppo fangoso; si calpesta ghiaia, erba, si va a bagno in qualche pozza.
Superiamo la ferrovia, attraversando i binari sotto il controllo vigile di un sorvegliante; mi fido, non guardo né da una parte né dall'altra; del resto sono convinta che, se proprio si deve passare a miglior vita, meglio che la botta sia rapida, inattesa e possibilmente indolore!
Il torrente è placido, sembra quasi fermo, grigio come tutto il resto. Un uomo cammina ai piedi dell'argine, lungo i canneti; dagli abiti, sembra un cacciatore, ma non ha armi con sé; forse indossa gli stivaloni solo per il fango. Lo accompagna un bel cane da caccia, impegnato naso a terra nella ricerca di chissà cosa: non certo di una preda per la tavola del suo amico umano, visto che d'improvviso fa una deviazione, risale l'argine alla velocità di una scheggia e punta dritto verso di me. Chissò perché proprio verso di me, con tutti i corridori che passano oggi quassù? Forse perché sa, il filibustiere, che lo ricoprirò di coccole, cosa che infatti avviene, un attimo prima che il padrone, bonariamente, lo richiami all'ordine.
I primi, i più veloci, compaiono già in direzione contraria. Non ho idea del percorso, ma mi sembra di capire che da qualche parte, più avanti, ci sia un punto in cui si svolta e si torna indietro. I distacchi, nelle prime posizioni, sembrano ancora contenuti. Quanta strada avremo macinato fin qui? Chissò, non ne ho idea. Si avvicinano sulla destra le case di un piccolo paese, un campanile su cui non leggo l'ora. Scruto già da lontano le figure che mi corrono incontro, alla ricerca di una maglia verde, ma non riesco ad intercettare Matteo prima che i volontari che vigilano sul percorso mi facciano deviare verso destra, giù attraverso un piccolo parco e tra le case del paese. A quanto pare, la corsa segue un piccolo anello, per passare nella piazzetta dov'è stato allestito il punto di ristoro. Coca Cola, due bicchieri, anche se il freddo è pungente e ci vorrebbe piuttosto un paiolo di polenta calda. Ci sono anche gli amaretti secchi, fantastico! Ne afferro un paio e scappo. A dire il vero, le gambe corrono di buona lena, oggi, senza che lo stomaco reclami, almeno per ora. Si ritorna sull'argine, in senso contrario. Comincio a raccattare qualcuno dei fuggitivi, quelli che son partiti a razzo ed ora ne pagano già il conto. In effetti, mi sento bene, anche troppo; è una sensazione stranissima, correre senza fatica. Occhio Gian, che non dura. Non tirare troppo la corda. Vista dall'alto su una bella e grande casa con giardino; due cani interessati alla gara: un pastore tedesco che osserva senza fiatare ed un barboncino bianco che si sfinisce le corde vocali a furia di abbaiare.
Altro passaggio sui binari: "Ma non passerà mica l'alta velocità?". "No – mi rassicura il volontario – solo trenini locali". Uhm... Dubito che le mie ossa riescano, nel malaugurato caso, a percepire la sottile differenza.
Si procede lungo l'argine, una parte per oggi ancora inesplorata. Di tanto in tanto la strada scende per un attimo a livello del torrente, poi risale con una rampa che taglia le gambe. In alcuni tratti, un altro sentiero corre parallelo all'argine, ma giù, in riva al corso d'acqua; è una pista di fango solidificato che ha conservato le orme profonde del passaggio di piedi e mezzi agricoli, e le conserverà fino alla prossima pioggia. Già, meno male che oggi non piove; l'umidità è tanta, ma se il cielo scaricasse giù acqua, noi tutti avremmo già l'aspetto di lottatori nel fango, altro che podisti.
Un sorpasso dietro l'altro, recupero qualche posizione, contendendo agli avversari l'unica strisciolina di terreno battuto in mezzo all'erba. Le mie caviglie non amano il fuoristrada, abituate come sono alla regolarità dell'asfalto. Lo rimpiango un po', il mio amato asfalto. Guardo con occhio sognante le strade che in certi tratti si affiancano all'argine, là dove passano le auto, Come si fa a vivere in un luogo così piatto, senza avere nei dintorni la rassicurante presenza del Monviso? Senza un piccolo rilievo, una collina, nulla? Però anche questo ambiente ha il suo fascino, soprattutto in una giornata grigia ed uggiosa come questa. E siamo a due passi dal mare.
Di lì a poco, ecco dinuovo i primi podisti che arrivano in senso contrario. Al punto di ristoro, il monito: "Chi fa la Maratona, gira indietro qui; chi fa la 48 km, prosegue ancora. Proseguo, infatti. Il distacco tra i primi è già pesante; passano alla spicciolata, sguardo fisso e un po' allucinato. Parecchio più tardi, a grappoli, arrivano i podisti veloci ma non da vertice della classifica. Intanto, piano piano, rosicchio altre posizioni, approfittando della mia condizione di grazia. Qui sì che lo incontro, Matteo. Corre di buona lena, ma senza prendersi la pelle, con un viso riposatissimo, come se stesse sferruzzando a maglia. Un saluto veloce, senza fermarsi. Dopo un tratto più tortuoso, qualche curva e qualche rampa, raggiungo quasi senza accorgermene il punto in cui si svolta indietro. Quanti km fino a qui? Azzardo la domanda: "Ventiquattro"... Possibile, siamo a metà? Resto basita: credevo meno, molto meno! Attenzione, però, perché qui scatta la trappolona. L'entusiasmo vorrebbe far correre le gambe il più veloce possibile, manca meno della metà; però non bisogna lasciarsi infinocchiare. Altri ventiquattro km son pur sempre ventiquattro km. Vacci piano Gian. Certo, piano ma con un sorrisone da un orecchio all'altro. Ora sono io che incrocio i ritardatari, con mia gran sorpresa, perché mi accorgo che, dopo di me, c'è ancora un bel po' di gente. Magra soddisfazione, tra me e loro è pur sempre una guerra tra poveri, e poi so che la pagherò cara, lo sento!
Al successivo ristoro, mi si accoda un podista che ha osservato la mia rimonta: mi fa i complimenti, dice che sto andando bene; io faccio la ruota del pavone, contenta di aver raccattato un po' di compagnia. Condividiamo qualche km di galoppata, scambiando anche qualche parola, dove si può; la "responsabilità" di un collega per cui fare il passo mi dà un'altra spinta. Ancora sorpassi, ancora gruppetti in lontananza a cui avvicinarsi pian piano, come i predatori. Non so per quale regola accada questo, ma sono quasi sicura, ogni volta che metto il sale sulla coda a qualche avversario, che non sarò riacchiappata a mia volta. E' abitudine comune quella di partire troppo forte e poi rallentare, rallentare... Succederà anche a me, spero solo non subito!
Non subito... Però, accade. Si torna sul tratto di argine percorso nella prima parte di gara, quello attraversato dalla ferrovia. E qui si presenta, inesorabile, la cotta. Muscoli induriti, il passo diventa più rigido, difficile. Il collega che mi ha accompagnata fin qui capisce, passa avanti: chi ha detto che la scia, nella corsa, non ha utilità? Ne ha, eccome; forse non è un'utilità materiale così accentuata come lo è nel ciclismo, ma è un'utilità psicologica, un aiuto, una schiena a cui aggrapparsi con lo sguardo per non dover più pensare al ritmo, al passo, alla direzione. Il cambio di ritmo imposto dai binari mi dà un'idea di quanto siano rigide adesso le mie gambe. Ce la farò ad arrivare alla fine di corsa? Quanto manca? Cerco con lo sgurado il campanile del paese, l'ultimo giro di boa; è ancora distante, troppo, non si vede. Non ce la faccio fino alla fine, non ce la faccio, devo rallentare, ma il pensiero non arriva ai piedi. Altri podisti a cui passar davanti, alla spicciolata; la cascina, i cani. Matteo, il suo sorriso, il suo incoraggiamento: "Stai volando...". E' meglio di mille spinte, anche se poi la brevissima discesa dall'argine al paese è un supplizio per le gambe; devo fare attenzione a non ruzzolare. Pochi secondi di sosta, due amaretti, poi riparto. Uno di quegli amaretti mi resterà in mano fino al tragurado: son talmente cotta che ho paura persino di masticare qualcosa. Un'ultima sferzata, manca una decina di km. Non mollare, Gian, cerca di mantenere almeno questo passo, finché ce la fai. Supero il podista che mi aveva accompagnata fin qui; ho le gambe di legno, ma le figure che ancora vedo, in lontananza, davanti a me, mi ordinano di non rallentare ancora; di provarci, in fondo non sarebbe così grave se anche dovessi mollare. Ed i corridori che incontro nell'altro senso salutano, incoraggiano, fanno i complimenti. Misuro le distanze tra me e me: dai Gian, dal ristoro avrai già fatto cinquecento metri, avrai fatto un chilometro, due. Le gambe sono sempre più rigide; sempre più arduo è lanciare un passo avanti l'altro, eppure la reazione che mi viene naturale è cercare di accelerare ancora: forse perché, così, la distanza se ne andrà più in fretta. A caccia di un podista con la divisa nera, che mi precede di poco; gli arrivo alle calcagna senza che se ne accorga. Si volta poco prima che lo sorpassi; accenno qualche parola, ma il dialogo ormai è risicato. Troppo scarso l'ossigeno. Ancora all'incirca un chilometro prima del bivio con l'ultima parte di strada. Di tanto in tanto si vede un cartello, "Bagnacavallo": ma dove cavolo è finito 'sto paese^? Ancora incoraggiamenti all'ultimo punto di ristoro: poi si passa sotto l'autostrada e si torna per un breve tratto sull'asfalto. "Quattro km e mezzo, cinque", così mi dicono. Per mia fortuna, trovo ancora una lepre, un podista lontano, avanti, su cui regolare gli ultimi scampoli della corsa. Adesso sì, rallento per forza, perché ogni passo non è più spontaneo; va costretto, pensato, forzato. Hai voglia a rivolgere la mente ad altro, alla cascina con l'edera che si arrampica sul muro, all'acqua che scorre nel fosso, alle beghe lavorative o ad altre gare; più mi ripeto di non pensare alle gambe dolenti e più ci penso. Dai Gian, quattro km tre km, ce la puoi fare, ce la devi fare! La figura davanti a me è sempre più vicina. Riconosco il ponticello in mezzo ai frutteti, dove già siamo passati all'andata. Quando proprio il dolore è troppo, smetto di correre; per un attimo cammino, ma solo qualche passo, non di più. Non sia mai, non devo cedere. Riparto di corsa, assaporo fino in fondo l'effimero sollievo che i muscoli hanno tratto da quella minima pausa; al ponticello, sono ormai alle spalle del mio fuggitivo. Il volontario che era lì a presidio dell'ultimo mini ristoro inforca la bici e ci accompagna fino alla fine: "Due km", meno male. Mi rincuoro. Come sempre, lo stato d'animo si trasferisce alle gambe, subito. Qualche battuta, qualche parola smozzicata; il fuggitivo si aggrappa alla posizione, non cede. Passiamo tra le cascine, torturati dai profumi intensi delle cucine, e si sa che, da queste parti, l'arte culinaria raggiunge vette di eccezionale livello. Il ciclista, di fronte, ci controlla e ci incita. "Bagnacavallo", l'ennesimo cartello, speriamo definitivo. Sì, siamo nelle vie del paese. Sotto il viale, incontro uno dei fortunati che, a fine gara, si sono già fatti la doccia. Con tono di evidente scherzo, e con l'intenzione di fare un complimento, gli dico sorridendo: "Io li picchierei, quelli come te che a quest'ora si son già fatti la doccia...". Con tono invece serissimo e canzonatorio, mi risponde il suo accompagnatore: "Se vuoi arrivare prima, basta che corri più forte, che cali cinque o sei minuti al km!". Resto perplessa e, come me, il ciclista angelo custode: "Simpatico", sbotta lui ironicamente... "Che stronzo", concludo io. Quando ce vò ce vò. Giro l'angolo, arrivo nella piazza del parcheggio; un attimo, raggiungo il cortile della partenza e l'arco d'arrivo. Matteo è lì, arrivato in 4h 19', prendendosela comoda come aveva promesso; io chiudo in 4 ore e mezza, che per me è un risultato più che lusinghiero. Pagherò l'exploit, dopo quasi cinque ore alla guida, con i piedi gonfi, dolentissimi, e con la promessa solenne di non ritentare mai più un'impresa del genere su qualcosa che non sia asfalto. Però, nonostante il dolore, tutto ciò ha un lato positivo: per tutta la sera e fino all'indomani, mi godrò le affettuose premure del mio personalissimo infermiere, cuoco , maggiordomo e damo di compagnia.
giovedì 7 gennaio 2010
3 gennaio 2010 - A spasso sui monti di Arenzano
"Meno sette?". No, non è possibile; quel termometro lì è ciucco... Uno dei tanti pannelli luminosi lungo l'autostrada, più o meno all'altezza di Marene. Secondo la Opel, la temperatura è negativa, sì, ma di poco. Del resto, il cielo è limpidissimo, un affollamento di stelle all'ora di punta, e l'aria idem; si vedono le luci a grande distanza. Matteo è taciturno stamattina, caso più unico che raro. Sopporta con malcelata insofferenza il mio vizio di passare convulsamente da una stazione radio all'altra: il problema è che io ho bisogno che qualcuno, o qualcosa, mi tenga sveglia; altrimenti, mi addormento sul volante.
La prima luce del mattino ci accoglie già prima di Savona: "In una giornata così, può darsi che si veda la Corsica", sentenzia Matteo. Tappa in autogrill appena prima di uscire al casello di Arenzano: son quasi le otto, ormai è chiaro; una lingua di nuvole si avvicina dal mare; nuvole rosse come il fuoco, la stessa luce che infiamma la superficie dell'acqua, la costa, le montagne. Quando esco, Matteo mi trascina a guardare il mare: io resto sbigottita dai colori, ma lui, che è uomo pragmatico e geografo, mi mostra una sagoma che emerge dall'acqua. Sembra vicinissima, a pochi km dalla costa: ecco, aveva ragione; quella non può essere altro che la Corsica. Vedo così quest'isola per la prima volta: tempo fa, s'era pensato di andarci, portando la bici.... Ma poi non se n'è fatto nulla; almeno, non per me che, quando viaggio, preferisco poggiare il prezioso posteriore sul sedile dell'auto. Detesto dipendere da mezzi che non posso guidare io!
Parcheggiamo a Lerca, la Opel accanto al furgone di Matteo, che è qui da ieri. Già: il tapino, sfumati i due giorni da trascorrere in Costa Azzurra per colpa del mio incidente, ieri mattina è partito da casa mia, ha portato il furgone qui con sopra la bici ed è tornato a casa, sempre la mia, in bici. Giusto quei centotrenta km per gradire, con quel vento da uragano che soffiava in collina ed in pianura, una faticaccia improba. Dio fa gli asini e poi li accoppia, disse un giorno qualcuno...
Il freddo si fa sentire, anche se siamo al mare. Il pieno sole inganna, ma la pozza al centro dello spiazzo è gelata. Ben imbottiti, ci avviamo di buon passo lungo la strada principale del paese: il primo incontro della giornata è un cagnetto ispido, col pelo a ciuffi dritti, marrone, ed occhi e tartufo dello stesso colore. Lo prendo un po' in giro, s'offende, abbaia indignato. E poi un micio, nero, pasciuto, impassibile sullo zerbino davanti all'ingresso di casa. Un saggio: vive e lascia vivere. Risaliamo tra giardini, siepi e piante rampicanti sui reticoli; il sole si alza, ma un sottile strato di nuvole è già arrivato a velarne il calore. Nuvole alte, uno strato sottile, che non toglie nulla alla limpidezza dell'aria: non appena gli ostacoli lasciano spazio alla vista, si distinguono nitidi particolari lontanissimi. L'asfalto ci accompagna per un breve tratto, tra case nascoste da alberi e siepi, che si intuiscono solo dalle cancellate d'ingresso. Ci assale un ferocissimo cagnetto, di quelli piccoli e pelosi che somigliano ad uno strofinaccio da pavimento. La padrona, sconsolata: "Ho anche un dobermann, ma non è feroce come questo...".
Il passo un po' fiacco, e certo il panorama qui non incoraggia: attraversiamo l'orrendo cantiere, un po' più abominevole ogni volta che passo di qui. Un insulto alla montagna, al buon gusto, a qualsiasi minimo senso estetico. Attendo di vedere, la prossima volta, lo scempio completo di colori da pugno nello stomaco. A Matteo, più pragmatico, non sfugge la carcassa di una gru, divelta forse dal vento dei giorni scorsi. Poi, finalmente, ci lasciamo alle spalle la mostruosità ed imbocchiamo un sentiero. Una bella salita, lunga ed impegnativa, almeno per il mio stato di oggi, un po' larvale. E' pur vero che son passate meno di quarantott'ore dal mio volo parabolico prima sul cofano di un'auto e poi a terra... Ma non credo sia una buona scusa. Povero Matteo: dopo avergli fatto saltare i due giorni di vacanza in terra francese, ora lo costringo anche a far la muta, silente balia ad un rottame ambulante.
Un breve tratto di discesa ci porta nel paesino di Sciarborasca, accolti dai cani che girano liberi anche fuori dai cortili delle loro case e da un intenso profumo di pane che sfugge ai vetri appannati della panetteria. Della fatica per ora non ci accorgiamo, intenti a disquisire sulle teorie di alimentazione nell'ultramaratona, scovate in un libro che entrambi abbiamo letto recentemente. Teorie che, com'è ovvio, respingiamo entrambi con fermezza: sostengono che, in una corsa da 100 km, sia opportuno evitare di ingurgitare cibi solidi, per non sottrarre sangue ai muscoli... Ma per favore! Poi la pendenza s'impenna e ci mette a tacere; abbandoniamo un'altra volta l'asfalto per inerpicarci su un ripido sentiero.
Il bosco, i pini si fanno sempre più radi, poi in fretta scompaiono. Davanti agli occhi la parte alta della valle, pelata come una zucca. Niente alberi, solo erba e qualche minuscolo nevaietto. "E' spoglio così per sua natura, questo posto, o è opera degli incendi?". No, probabilmente è solo il vento. Ho solo i guantini da bici, salgo con le dita scoperte che, passo dopo passo, sono sempre più gelide ed insensibili. Che imbecille... E dire che li ho lasciati a casa volontariamente, i guanti lunghi! Proprio non pensavo potessero servire. Invece servono, eccome: mi trovo sul sentiero a schivare i rivoli d'acqua ghiacciati; ogni cascatella è oggi una custodia di ghiaccio per i fili d'erba. Il terreno crepita, gelato anch'esso, sotto le scarpe. Guardando il mare, la Corsica si vede ancora, nitida: anzi, le isole che si vedono son due; nella mia somma ignoranza, non saprei dare nome alla seconda. Mi soccorre Matteo: si tratta probabilmente di Capraia. Ok, Capraia, venduto.
Un salto di roccia nasconde una stalattite anomala: è storta, formata nel senso del vento, sembra la fotografia di un nastro di stoffa steso ad asciugare ed agitato da una corrente d'aria. Non posso farmi mancare una foto: ne approfitto anche per attingere alla busta di frutta secca, e naturalmente per condividerla con il compare, che sempre esige congruo tributo su qualsiasi genere alimentare che ci si porti dietro. Poi riprende la salita: ma il cielo ormai è vicino; a meno di sorprese, oltre la spalla d'erba, poco sopra di noi, la prima salita dovrebbe essere conclusa. Infatti, spunta una casermetta in pietra, con tanto di rudimentale recinto in legno; forse comincio a raccapezzarmi... A furia di passare e ripassare di qui, ho imparato che questa è l'Alta Via dei Monti Liguri. C'è gente a passeggio, in una giornata così rigida; "Si arriva in auto a Prariondo", osserva Matteo: ah... Ecco il perché.
Lo sterrato dell'Alta Via è tutto una lastra di ghiaccio, che quasi ci si potrebbe pattinare. Anche da quassù, splendida vista sul mare, sulle isole, sulla costa ed i monti imbiancati verso La Spezia, ma le mani sono gelate e fanno male da piangere. Provo a scuoterle, a batterle, a strofinarle, come si legge nei libri di alpinismo; rifiuto però ostinatamente l'offerta dei guanti del mio compare. Non sia mai... Matteo s'improvvisa chirurgo, tenta di risistemare alla bell'e meglio il cerottone che si è staccato dal mio mento: niente da fare, non tiene più. Pace: vorrà dire che, da questo momento, offrirò a chi m'incontra l'inquietante spettacolo dei miei tre punti ben in vista. Un lavoretto di punto croce niente male.
Un po' di slalom tra le pozze ghiacciate, in un ambiente che sembra irreale, immobile. Passo Prato Ferretto: indugiamo un istante, poi il capo spedizione ordina di andar giù, dritto, lungo un sentiero che inizia con alcuni gradini di terra trattenuta da assi di legno. Scendo più malferma che mai, con la paura di scivolare sul ghiaccio che si aggiunge a quella di inciampare, e le mani gelide ed insensibili che fanno poca presa sui bastoncini. Picchio le punte sulle pozze solidificate: resta appena un segno, come quello che lascia la pallottola sui vetri antiproiettile. Dev'essere parecchio sotto zero la temperatura, oggi...
Raggiungiamo una fontana, Fonte Spinsu: un solo zampillo d'acqua e, tutt'intorno, ghiaccio in forme arrotondate, simili a bolle che scintillano alla fioca luce del sole; fili d'erba e rami paralizzati nella loro prigione di cristallo. "Risaliamo subito di qua", ordina Matteo, indicando un sentiero sulla sinistra. Agli ordini. Però, non è possibile che il clima ordinario, da queste parti, sia quello che ci accoglie oggi. Tutto qui intorno è verde, sa di caldo; ci sono persino i fiori. Le temperature siberiane degli ultimi giorni devono essere per forza un'eccezione.
La nostra meta, adesso, è il Monte Argentea. Nome che io ho sempre pensato si pronunciasse con l'accento sulla prima e: invece, a giudicare da ciò che dicono gli autoctoni, si pronuncia "Argentéa". Chissà perché, da cosa deriva? Segue un lunghissimo sentiero in falsopiano, che attraversa numerose lingue di pietraia. Orrenda, per me, la pietraia; uno dei tanti terreni su cui mi sento più che mai precaria e malferma. Tendo ad avanzare a tre, quattro zampe; non mi fido delle pietre che illudono con sicuro appoggio e poi si muovono malandrine sotto il piede. A volte mi chiedo, davvero, che c'entro io con la montagna, io che non ho alcun equilibrio ed ho terrore di tutto, anche della mia ombra. Matteo, paziente, di tanto in tanto si gira ed aspetta.
Raggiungiamo una radura, in un momento in cui il sole fa sentire più forte la sua confortevole presenza. Monte Argentea, o.15 h, recita un cartello: lo seguo. Sgranocchiando cioccolato bianco con mandorle e miele, si arriva ad un rifugio, una costruzione in pietra dall'aspetto modernissimo, con tanto di pannelli solari e webcam. Davanti a noi, una punta tozza: seguiamo il sentiero, aggiriamo la vetta, fino ad arrivare a metterle le suole in testa: Matteo molto prima di me, che sul sentiero appena un po' più stretto incespico e rallento ancor di più. Vista spettacolare, da quassù, sia su Savona che su Genova; disteranno almeno trenta km, credo, ma sembrano vicinissime. Si vede persino l'isolotto di Bergeggi!
Un attimo di pausa alimentare per Matteo, di fotografia irriverente per me: prendo la buccia di banana e rifaccio il look alla madonnina di vetta, che assume così un aspetto decisamente hippy. Il tempo di una foto e rimuovo la creazione... Sarebbe forte la tentazione di lasciarla lì, ad esprimere disprezzo verso chi si sente per forza in dovere di piazzare croci e madonne in cima ad ogni montagna; però, osserva giustamente Matteo, non servirebbe: la prima folata di vento porterebbe via la buccia.
Scendiamo lungo un sentierino prima ripido, poi via via più comodo: itinerario che ci proietta in un attimo dalla luminosa vista sul mare ad un vallone scuro, tetro, dove colori dominanti sono il marrone ed il nero. Un sentiero che sembra non avere fine, che corre tra rocce aguzze, quasi lame precipitate dal cielo e conficcate nel terreno, e muretti a secco costruiti proprio a reggere il passaggio. Scende dolcemente, poi spiana, scende ancora; camminiamo e camminiamo, ma non ne vediamo la fine. Dall'Argentea si vedeva la Gava, ed è lì che dobbiamo andare a finire; la nostra marcia sembra però interminabile. Oggi poi io sono più goffa ed impacciata del solito, se possibile; il buon Matteo zampetta di sasso in sasso, io devo misurare ogni appoggio, puntare i bastoncini e sperare che l'appiglio tenga. Non sarei in grado di camminare in montagna senza il prezioso sostegno dei bastoncini. Non è proprio come avere due gambe in più, ma quasi. Anche qui, ghiaccio e pietra scivolosa; dietro ogni costone, ancora sentiero, ancora un altro costone. La luce del primo pomeriggio pare quella del giorno che già muore; sembra già tardissimo quando sbuchiamo sulla strada sterrata che conduce alla Gava. "Qui si potrebbe correre", sbeffeggia Matteo: vai, vai, se ci tieni. Per quanto mi riguarda, è già tanto se oggi mi trascino.
La temperatura è mutevole, o forse lo è la mia sensazione: in certi punti, vorrei quasi levarmi la giacca; in altri, brividi di freddo mi assalgono la schiena. Per quel che ne so, dovremmo tornare nei paraggi di una delle località che abbiamo già attraversato qualche ora fa; in direzione del Monte Rama, se ho ben capito, anche se quassù faccio ancora fatica ad orientarmi. Nella zona del Passo Gava, c'è un laghetto artificiale con una cascata: lo spettacolo che ci offre vale, da solo, la fatica del viaggio. Ai piedi della cascata, due alberelli sono completamente ricoperti di ghiaccio, dalla radice alla punta di ciascun ramo: sembrano creazioni di cristallo Svarowsky. Rimango a bocca aperta, mi avvicino per fotografarli; non avevo mai visto nulla del genere, soprattutto, non in Liguria, in faccia al mare! Oggi invece mi sono già imbattuta persino in alcune cascate di ghiaccio in miniatura...
Il tempo, o meglio le ore di luce, stringono. Se Matteo teme di dover fare un breve tratto dell'ultima discesa al buio, significa che, come minimo, ci toccherà farci largo per l'intera discesa nel cuore della tenebra della notte, e non è che la faccenda mi riempa di gioia. Lui fa i conti, sempre, su se stesso; mai una volta che si ricordi che, quando ci sono io, i tempi vanno dilatati a dismisura, almeno raddoppiati.
Man mano che ci arrampichiamo, il vento rinforza e gela la faccia. Altro che togliere la giacca, tiro su la cerniera tutto quel che si può. I denti rotti dolgono al contatto con l'aria fredda. Mi arrampico alla bell'e meglio, calpestando terra pallida e gelata, ghiaccio, persino neve; ritrovo gli alberi cresciuti con le fronde nella direzione del vento, quasi fossero stati tagliati a metà nel senso verticale. E, in cima, alla fine della salita, altri pini marittimi rimasti bassi, tozzi, oppure piegati dal vento fin quasi a strapparne le radici dal suolo. Curioso che questi alberi crescano sul crinale più esposto, mentre giù, sul pendio, non c'è traccia di altro che di erba.
Con le ombre già lunghissime, benché non siano ancora le quattro del pomeriggio, cominciamo la lunghissima discesa verso Lerca. Lunghissima e travagliata. "Un'ora e un quarto", sentenzia Matteo. Uhm. Ormai ho imparato a non dargli retta quasi mai, e soprattutto quando esprime pronostici sui tempi. "Vuoi che non ci basti un'ora e un quarto, per scendere di mille metri?". Ecco, se fossi un uomo, porterei immediatamente la mano a luogo innominabile. Va bé dai, tre ore e sarà fatta. Se solo potessi chiedere l'arrivo in salita... Le discese finali sono interminabili, ancora peggio tollerate di tutte le altre. E poi il sole è ormai basso; la temperatura scenderà in fretta. Percorriamo un tratto di sentiero scosceso, un salto che ci riporta al bivio con l'altro sentiero già battuto all'andata: quello che ci ha condotti all'Argentea. Realizzo a malincuore che toccherà attraversare un'altra volta, a ritroso, le pietraie, e stavolta con l'affanno della sera che incalza. A pensarci bene, poi, il buio non dovrebbe rappresentare quel gran problema: abbiamo entrambi una luce nello zaino. Vero, ma farà freddo, e poi abbiamo già avuto, oggi, un incontro, per fortuna non troppo ravvicinato, con i cinghiali. Non vorrei fare il bis!
Cammina e cammina, sempre in piano o poco altro: eccolo, il motivo per cui ci vuole un sacco di tempo per scendere di mille metri. Elementare, Watson: se tocca percorrere un sacco di strada in cui non si perde quota, la faccenda diventa lunga assai. Raggiungiamo però finalmente la Fonte Spinsu, dove il ghiaccio si è ritirato appena un poco rispetto a questa mattina. Ma non c'è tempo per contemplarne la bellezza. Giù lungo il sentiero che ci porterà a Lerca: "Guarda, il paese è già laggiù, si vede benissimo", dice Matteo. E sai che sollievo: si vedeva benissimo anche la Corsica, stamattina, ma da qui a là ci sono duecento km! No, la marcia si preannuncia ancora lunga; non solo per la distanza in sé, ma anche perché il sentiero è ricoperto, per lunghi tratti, di un soffice strato di foglie secche. Il piede affonda e non sempre trova appoggio saldo; talvolta è una buca, o una pietra che si sposta e rotola via. La scarpa fende le foglie come una barca sulla superficie del mare, ma i miei passi sono lenti, guardinghi. Già su terreno facile, inciampo con tale facilità che qui devo stare con quattro occhi ben aperti. Lerca appare, poi sparisce dietro il costone della montagna; le sue luci già accese e vivide nell'aria cristallina. Un tornante via l'altro, ci rituffiamo in mezzo al bosco; una sola esitazione, il rumore di frasche e pietre smosse: sono di certo cinghiali, che allontaniamo a colpi di pietre sbattute l'una contro l'altra.
Poi accade... L'imponderabile. Il sentiero attraversa un corso d'acqua che probabilmente, in tempi normali, non è altro che uno dei tanti rivoli in cui si buttano senza cura le suole per passare di là. Solo che, è chiaro, oggi non appartiene ai "tempi normali" e quello che ci troviamo di fronte non è un rivolo, ma un vero e proprio torrente. Matteo individua immediatamente un passaggio tra le rocce, poco più a valle del sentiero: due salti agili ed è dall'altra parte. Io no. Una cosa del genere non la posso nemmeno pensare. Guardo una roccia, l'altra e l'altra ancora. Mi vedo saltare, atterrare, scivolare sulla pietra bagnata e cadere malamente in acqua, chissà come. Provo a seguire l'itinerario di Matteo, solo usando tutti gli appoggi che ho; mani, piedi ed anche il posteriore. Mi ritrovo seduta su una roccia; Matteo fa il possibile per farmi scendere lungo uno scalino: cerca di rassicurarmi, offre l'appoggio delle sue mani, ma il mio piede non arriva al fondo, ed io non riesco a fidarmi di far peso su di lui. Per me è già panico: interminabili minuti di trattativa, alla fine scendo quello scalino, ma la roccia successiva è troppo lontana; mi trovo bloccata su un isolotto di pietra, una situazione grottesca, perché davvero basterebbe un salto, ma io non posso, non ce la farei mai. Il mio povero compagno di viaggio le prova tutte, per rassicurarmi, ma io sono già oltre: non è più il misero neurone che controlla la situazione, è il terrore. Guardo la roccia su cui dovrei arrivare, guardo l'acqua: non mi sembra poi così alta... Prendo la drestica decisione, ci salto dentro; per un attimo mi manca il fiato, l'acqua è gelida. A mollo fino alle ginocchia, tento di spostarmi verso la meta ideale. Ma non ho tenuto conto di quanto forte possa essere la corrente di un torrente, anche se mi ci sono immersa solo così; trascina via le gambe. Tento di muovere un passo, ma per il piede non c'è più sostegno: il fondo scende, troppo rischioso; precipitosamente torno in retromarcia alla roccia di partenza. Matteo fa il possibile per aiutarmi, ma ormai io non lo seguo più: mi arrampico, maldestra, sulla stessa sponda del torrente da cui son partita; risalgo un po' più in alto, dove passa il sentiero. Bagnata per bagnata, lo supero così: ancora a mollo, fino alle ginocchia; il contraccolpo della corrente mi fa vacillare, ma c'è un tronco incastrato, col ghiaccio sui rami. Mi ci attacco con la disperazione delle formiche che, da piccola, salvavo con gli stecchini quando le trovavo galleggianti nell'acqua della vasca per l'irrigazione dell'orto: così, mani ben salde ed avvinghiate al tronco, mi tiro avanti, due passi e sono salva. Con le scarpe, le calze ed i pantaloni zuppi, ma salva.
Sui dieci minuti che seguono, cala un gelido silenzio. Matteo, forse arrabbiato, forse spaventato, forse tutt'e due: "Dovevi fidarti, ti avrei tenuta". Già, fidarmi. Col rischio di trascinare in acqua anche te, che pesi poi poco più di quel che peso io. E' vero, il salto va spiccato senza chiedersi come si atterrerà dall'altra parte, altrimenti non è un salto, diventa un rovinoso tonfo nell'acqua, Ma io ho il terrore, anzi so già che dall'altra perte non ricadrò in piedi. E' l'ennesima dimostrazione di come il minimo intoppo sia sufficiente a farmi perdere il controllo. E non mi spiego come mi riesca, in alcune situazioni di certo più rischiose, di manterere una calma glaciale, e poi in altre come questa, a dire poco ridicole, di sbandare, terrorizzarmi, scoppiare in lacrime come i bambini capricciosi. Non sarei davvero il cliente ideale per una guida alpina...
Matteo mi calca sulla testa la pila frontale. Cammino di buon passo; finché sono in marcia, non patisco il freddo ai piedi fradici. ben presto si fa buio; lui mi segue e si fa bastare il cono di luce che spunta dalla mia fronte: incredibile, io che stento a trovare la traccia così. Scruto con ansia le luci di Lerca; non riesco a capire quanto manchi ancora. E' il latrato dei cani che mi dà sollievo: forse manca poco, forse ci siamo. Il sentiero si tuffa giù per una ripida rampa: pochi minuti e siamo di ritorno all'immenso cantiere. Quel che avevo trovato così odioso all'andata, per un attimo mi apre adesso il cuore; ritrovo l'allegria che avevo smarrito nel torrente. Ora che è buio, sono felice di tornare nel bozzolo di lamiera della mia macchinina, ideale propaggine di casa, con la soddisfazione di quarantacinque km e 2.200 m di dislivello in salita. Quel che mi spiace è che ci tornerò da sola, perché Matteo stasera torna a casa, a Genova. All'incrocio con l'Aurelia, è fortissima la tentazione di girare a sinistra, seguire il suo furgone, accompagnarlo a casa o almeno ancora per un pezzo. Ma è ora di tornare con i piedi, finalmente asciutti, per terra. Sia pure a malincuore, giro a destra: è quella la direzione della realtà, e dalla realtà ci si può ogni tanto nascondere per un poco... Non per sempre.
La prima luce del mattino ci accoglie già prima di Savona: "In una giornata così, può darsi che si veda la Corsica", sentenzia Matteo. Tappa in autogrill appena prima di uscire al casello di Arenzano: son quasi le otto, ormai è chiaro; una lingua di nuvole si avvicina dal mare; nuvole rosse come il fuoco, la stessa luce che infiamma la superficie dell'acqua, la costa, le montagne. Quando esco, Matteo mi trascina a guardare il mare: io resto sbigottita dai colori, ma lui, che è uomo pragmatico e geografo, mi mostra una sagoma che emerge dall'acqua. Sembra vicinissima, a pochi km dalla costa: ecco, aveva ragione; quella non può essere altro che la Corsica. Vedo così quest'isola per la prima volta: tempo fa, s'era pensato di andarci, portando la bici.... Ma poi non se n'è fatto nulla; almeno, non per me che, quando viaggio, preferisco poggiare il prezioso posteriore sul sedile dell'auto. Detesto dipendere da mezzi che non posso guidare io!
Parcheggiamo a Lerca, la Opel accanto al furgone di Matteo, che è qui da ieri. Già: il tapino, sfumati i due giorni da trascorrere in Costa Azzurra per colpa del mio incidente, ieri mattina è partito da casa mia, ha portato il furgone qui con sopra la bici ed è tornato a casa, sempre la mia, in bici. Giusto quei centotrenta km per gradire, con quel vento da uragano che soffiava in collina ed in pianura, una faticaccia improba. Dio fa gli asini e poi li accoppia, disse un giorno qualcuno...
Il freddo si fa sentire, anche se siamo al mare. Il pieno sole inganna, ma la pozza al centro dello spiazzo è gelata. Ben imbottiti, ci avviamo di buon passo lungo la strada principale del paese: il primo incontro della giornata è un cagnetto ispido, col pelo a ciuffi dritti, marrone, ed occhi e tartufo dello stesso colore. Lo prendo un po' in giro, s'offende, abbaia indignato. E poi un micio, nero, pasciuto, impassibile sullo zerbino davanti all'ingresso di casa. Un saggio: vive e lascia vivere. Risaliamo tra giardini, siepi e piante rampicanti sui reticoli; il sole si alza, ma un sottile strato di nuvole è già arrivato a velarne il calore. Nuvole alte, uno strato sottile, che non toglie nulla alla limpidezza dell'aria: non appena gli ostacoli lasciano spazio alla vista, si distinguono nitidi particolari lontanissimi. L'asfalto ci accompagna per un breve tratto, tra case nascoste da alberi e siepi, che si intuiscono solo dalle cancellate d'ingresso. Ci assale un ferocissimo cagnetto, di quelli piccoli e pelosi che somigliano ad uno strofinaccio da pavimento. La padrona, sconsolata: "Ho anche un dobermann, ma non è feroce come questo...".
Il passo un po' fiacco, e certo il panorama qui non incoraggia: attraversiamo l'orrendo cantiere, un po' più abominevole ogni volta che passo di qui. Un insulto alla montagna, al buon gusto, a qualsiasi minimo senso estetico. Attendo di vedere, la prossima volta, lo scempio completo di colori da pugno nello stomaco. A Matteo, più pragmatico, non sfugge la carcassa di una gru, divelta forse dal vento dei giorni scorsi. Poi, finalmente, ci lasciamo alle spalle la mostruosità ed imbocchiamo un sentiero. Una bella salita, lunga ed impegnativa, almeno per il mio stato di oggi, un po' larvale. E' pur vero che son passate meno di quarantott'ore dal mio volo parabolico prima sul cofano di un'auto e poi a terra... Ma non credo sia una buona scusa. Povero Matteo: dopo avergli fatto saltare i due giorni di vacanza in terra francese, ora lo costringo anche a far la muta, silente balia ad un rottame ambulante.
Un breve tratto di discesa ci porta nel paesino di Sciarborasca, accolti dai cani che girano liberi anche fuori dai cortili delle loro case e da un intenso profumo di pane che sfugge ai vetri appannati della panetteria. Della fatica per ora non ci accorgiamo, intenti a disquisire sulle teorie di alimentazione nell'ultramaratona, scovate in un libro che entrambi abbiamo letto recentemente. Teorie che, com'è ovvio, respingiamo entrambi con fermezza: sostengono che, in una corsa da 100 km, sia opportuno evitare di ingurgitare cibi solidi, per non sottrarre sangue ai muscoli... Ma per favore! Poi la pendenza s'impenna e ci mette a tacere; abbandoniamo un'altra volta l'asfalto per inerpicarci su un ripido sentiero.
Il bosco, i pini si fanno sempre più radi, poi in fretta scompaiono. Davanti agli occhi la parte alta della valle, pelata come una zucca. Niente alberi, solo erba e qualche minuscolo nevaietto. "E' spoglio così per sua natura, questo posto, o è opera degli incendi?". No, probabilmente è solo il vento. Ho solo i guantini da bici, salgo con le dita scoperte che, passo dopo passo, sono sempre più gelide ed insensibili. Che imbecille... E dire che li ho lasciati a casa volontariamente, i guanti lunghi! Proprio non pensavo potessero servire. Invece servono, eccome: mi trovo sul sentiero a schivare i rivoli d'acqua ghiacciati; ogni cascatella è oggi una custodia di ghiaccio per i fili d'erba. Il terreno crepita, gelato anch'esso, sotto le scarpe. Guardando il mare, la Corsica si vede ancora, nitida: anzi, le isole che si vedono son due; nella mia somma ignoranza, non saprei dare nome alla seconda. Mi soccorre Matteo: si tratta probabilmente di Capraia. Ok, Capraia, venduto.
Un salto di roccia nasconde una stalattite anomala: è storta, formata nel senso del vento, sembra la fotografia di un nastro di stoffa steso ad asciugare ed agitato da una corrente d'aria. Non posso farmi mancare una foto: ne approfitto anche per attingere alla busta di frutta secca, e naturalmente per condividerla con il compare, che sempre esige congruo tributo su qualsiasi genere alimentare che ci si porti dietro. Poi riprende la salita: ma il cielo ormai è vicino; a meno di sorprese, oltre la spalla d'erba, poco sopra di noi, la prima salita dovrebbe essere conclusa. Infatti, spunta una casermetta in pietra, con tanto di rudimentale recinto in legno; forse comincio a raccapezzarmi... A furia di passare e ripassare di qui, ho imparato che questa è l'Alta Via dei Monti Liguri. C'è gente a passeggio, in una giornata così rigida; "Si arriva in auto a Prariondo", osserva Matteo: ah... Ecco il perché.
Lo sterrato dell'Alta Via è tutto una lastra di ghiaccio, che quasi ci si potrebbe pattinare. Anche da quassù, splendida vista sul mare, sulle isole, sulla costa ed i monti imbiancati verso La Spezia, ma le mani sono gelate e fanno male da piangere. Provo a scuoterle, a batterle, a strofinarle, come si legge nei libri di alpinismo; rifiuto però ostinatamente l'offerta dei guanti del mio compare. Non sia mai... Matteo s'improvvisa chirurgo, tenta di risistemare alla bell'e meglio il cerottone che si è staccato dal mio mento: niente da fare, non tiene più. Pace: vorrà dire che, da questo momento, offrirò a chi m'incontra l'inquietante spettacolo dei miei tre punti ben in vista. Un lavoretto di punto croce niente male.
Un po' di slalom tra le pozze ghiacciate, in un ambiente che sembra irreale, immobile. Passo Prato Ferretto: indugiamo un istante, poi il capo spedizione ordina di andar giù, dritto, lungo un sentiero che inizia con alcuni gradini di terra trattenuta da assi di legno. Scendo più malferma che mai, con la paura di scivolare sul ghiaccio che si aggiunge a quella di inciampare, e le mani gelide ed insensibili che fanno poca presa sui bastoncini. Picchio le punte sulle pozze solidificate: resta appena un segno, come quello che lascia la pallottola sui vetri antiproiettile. Dev'essere parecchio sotto zero la temperatura, oggi...
Raggiungiamo una fontana, Fonte Spinsu: un solo zampillo d'acqua e, tutt'intorno, ghiaccio in forme arrotondate, simili a bolle che scintillano alla fioca luce del sole; fili d'erba e rami paralizzati nella loro prigione di cristallo. "Risaliamo subito di qua", ordina Matteo, indicando un sentiero sulla sinistra. Agli ordini. Però, non è possibile che il clima ordinario, da queste parti, sia quello che ci accoglie oggi. Tutto qui intorno è verde, sa di caldo; ci sono persino i fiori. Le temperature siberiane degli ultimi giorni devono essere per forza un'eccezione.
La nostra meta, adesso, è il Monte Argentea. Nome che io ho sempre pensato si pronunciasse con l'accento sulla prima e: invece, a giudicare da ciò che dicono gli autoctoni, si pronuncia "Argentéa". Chissà perché, da cosa deriva? Segue un lunghissimo sentiero in falsopiano, che attraversa numerose lingue di pietraia. Orrenda, per me, la pietraia; uno dei tanti terreni su cui mi sento più che mai precaria e malferma. Tendo ad avanzare a tre, quattro zampe; non mi fido delle pietre che illudono con sicuro appoggio e poi si muovono malandrine sotto il piede. A volte mi chiedo, davvero, che c'entro io con la montagna, io che non ho alcun equilibrio ed ho terrore di tutto, anche della mia ombra. Matteo, paziente, di tanto in tanto si gira ed aspetta.
Raggiungiamo una radura, in un momento in cui il sole fa sentire più forte la sua confortevole presenza. Monte Argentea, o.15 h, recita un cartello: lo seguo. Sgranocchiando cioccolato bianco con mandorle e miele, si arriva ad un rifugio, una costruzione in pietra dall'aspetto modernissimo, con tanto di pannelli solari e webcam. Davanti a noi, una punta tozza: seguiamo il sentiero, aggiriamo la vetta, fino ad arrivare a metterle le suole in testa: Matteo molto prima di me, che sul sentiero appena un po' più stretto incespico e rallento ancor di più. Vista spettacolare, da quassù, sia su Savona che su Genova; disteranno almeno trenta km, credo, ma sembrano vicinissime. Si vede persino l'isolotto di Bergeggi!
Un attimo di pausa alimentare per Matteo, di fotografia irriverente per me: prendo la buccia di banana e rifaccio il look alla madonnina di vetta, che assume così un aspetto decisamente hippy. Il tempo di una foto e rimuovo la creazione... Sarebbe forte la tentazione di lasciarla lì, ad esprimere disprezzo verso chi si sente per forza in dovere di piazzare croci e madonne in cima ad ogni montagna; però, osserva giustamente Matteo, non servirebbe: la prima folata di vento porterebbe via la buccia.
Scendiamo lungo un sentierino prima ripido, poi via via più comodo: itinerario che ci proietta in un attimo dalla luminosa vista sul mare ad un vallone scuro, tetro, dove colori dominanti sono il marrone ed il nero. Un sentiero che sembra non avere fine, che corre tra rocce aguzze, quasi lame precipitate dal cielo e conficcate nel terreno, e muretti a secco costruiti proprio a reggere il passaggio. Scende dolcemente, poi spiana, scende ancora; camminiamo e camminiamo, ma non ne vediamo la fine. Dall'Argentea si vedeva la Gava, ed è lì che dobbiamo andare a finire; la nostra marcia sembra però interminabile. Oggi poi io sono più goffa ed impacciata del solito, se possibile; il buon Matteo zampetta di sasso in sasso, io devo misurare ogni appoggio, puntare i bastoncini e sperare che l'appiglio tenga. Non sarei in grado di camminare in montagna senza il prezioso sostegno dei bastoncini. Non è proprio come avere due gambe in più, ma quasi. Anche qui, ghiaccio e pietra scivolosa; dietro ogni costone, ancora sentiero, ancora un altro costone. La luce del primo pomeriggio pare quella del giorno che già muore; sembra già tardissimo quando sbuchiamo sulla strada sterrata che conduce alla Gava. "Qui si potrebbe correre", sbeffeggia Matteo: vai, vai, se ci tieni. Per quanto mi riguarda, è già tanto se oggi mi trascino.
La temperatura è mutevole, o forse lo è la mia sensazione: in certi punti, vorrei quasi levarmi la giacca; in altri, brividi di freddo mi assalgono la schiena. Per quel che ne so, dovremmo tornare nei paraggi di una delle località che abbiamo già attraversato qualche ora fa; in direzione del Monte Rama, se ho ben capito, anche se quassù faccio ancora fatica ad orientarmi. Nella zona del Passo Gava, c'è un laghetto artificiale con una cascata: lo spettacolo che ci offre vale, da solo, la fatica del viaggio. Ai piedi della cascata, due alberelli sono completamente ricoperti di ghiaccio, dalla radice alla punta di ciascun ramo: sembrano creazioni di cristallo Svarowsky. Rimango a bocca aperta, mi avvicino per fotografarli; non avevo mai visto nulla del genere, soprattutto, non in Liguria, in faccia al mare! Oggi invece mi sono già imbattuta persino in alcune cascate di ghiaccio in miniatura...
Il tempo, o meglio le ore di luce, stringono. Se Matteo teme di dover fare un breve tratto dell'ultima discesa al buio, significa che, come minimo, ci toccherà farci largo per l'intera discesa nel cuore della tenebra della notte, e non è che la faccenda mi riempa di gioia. Lui fa i conti, sempre, su se stesso; mai una volta che si ricordi che, quando ci sono io, i tempi vanno dilatati a dismisura, almeno raddoppiati.
Man mano che ci arrampichiamo, il vento rinforza e gela la faccia. Altro che togliere la giacca, tiro su la cerniera tutto quel che si può. I denti rotti dolgono al contatto con l'aria fredda. Mi arrampico alla bell'e meglio, calpestando terra pallida e gelata, ghiaccio, persino neve; ritrovo gli alberi cresciuti con le fronde nella direzione del vento, quasi fossero stati tagliati a metà nel senso verticale. E, in cima, alla fine della salita, altri pini marittimi rimasti bassi, tozzi, oppure piegati dal vento fin quasi a strapparne le radici dal suolo. Curioso che questi alberi crescano sul crinale più esposto, mentre giù, sul pendio, non c'è traccia di altro che di erba.
Con le ombre già lunghissime, benché non siano ancora le quattro del pomeriggio, cominciamo la lunghissima discesa verso Lerca. Lunghissima e travagliata. "Un'ora e un quarto", sentenzia Matteo. Uhm. Ormai ho imparato a non dargli retta quasi mai, e soprattutto quando esprime pronostici sui tempi. "Vuoi che non ci basti un'ora e un quarto, per scendere di mille metri?". Ecco, se fossi un uomo, porterei immediatamente la mano a luogo innominabile. Va bé dai, tre ore e sarà fatta. Se solo potessi chiedere l'arrivo in salita... Le discese finali sono interminabili, ancora peggio tollerate di tutte le altre. E poi il sole è ormai basso; la temperatura scenderà in fretta. Percorriamo un tratto di sentiero scosceso, un salto che ci riporta al bivio con l'altro sentiero già battuto all'andata: quello che ci ha condotti all'Argentea. Realizzo a malincuore che toccherà attraversare un'altra volta, a ritroso, le pietraie, e stavolta con l'affanno della sera che incalza. A pensarci bene, poi, il buio non dovrebbe rappresentare quel gran problema: abbiamo entrambi una luce nello zaino. Vero, ma farà freddo, e poi abbiamo già avuto, oggi, un incontro, per fortuna non troppo ravvicinato, con i cinghiali. Non vorrei fare il bis!
Cammina e cammina, sempre in piano o poco altro: eccolo, il motivo per cui ci vuole un sacco di tempo per scendere di mille metri. Elementare, Watson: se tocca percorrere un sacco di strada in cui non si perde quota, la faccenda diventa lunga assai. Raggiungiamo però finalmente la Fonte Spinsu, dove il ghiaccio si è ritirato appena un poco rispetto a questa mattina. Ma non c'è tempo per contemplarne la bellezza. Giù lungo il sentiero che ci porterà a Lerca: "Guarda, il paese è già laggiù, si vede benissimo", dice Matteo. E sai che sollievo: si vedeva benissimo anche la Corsica, stamattina, ma da qui a là ci sono duecento km! No, la marcia si preannuncia ancora lunga; non solo per la distanza in sé, ma anche perché il sentiero è ricoperto, per lunghi tratti, di un soffice strato di foglie secche. Il piede affonda e non sempre trova appoggio saldo; talvolta è una buca, o una pietra che si sposta e rotola via. La scarpa fende le foglie come una barca sulla superficie del mare, ma i miei passi sono lenti, guardinghi. Già su terreno facile, inciampo con tale facilità che qui devo stare con quattro occhi ben aperti. Lerca appare, poi sparisce dietro il costone della montagna; le sue luci già accese e vivide nell'aria cristallina. Un tornante via l'altro, ci rituffiamo in mezzo al bosco; una sola esitazione, il rumore di frasche e pietre smosse: sono di certo cinghiali, che allontaniamo a colpi di pietre sbattute l'una contro l'altra.
Poi accade... L'imponderabile. Il sentiero attraversa un corso d'acqua che probabilmente, in tempi normali, non è altro che uno dei tanti rivoli in cui si buttano senza cura le suole per passare di là. Solo che, è chiaro, oggi non appartiene ai "tempi normali" e quello che ci troviamo di fronte non è un rivolo, ma un vero e proprio torrente. Matteo individua immediatamente un passaggio tra le rocce, poco più a valle del sentiero: due salti agili ed è dall'altra parte. Io no. Una cosa del genere non la posso nemmeno pensare. Guardo una roccia, l'altra e l'altra ancora. Mi vedo saltare, atterrare, scivolare sulla pietra bagnata e cadere malamente in acqua, chissà come. Provo a seguire l'itinerario di Matteo, solo usando tutti gli appoggi che ho; mani, piedi ed anche il posteriore. Mi ritrovo seduta su una roccia; Matteo fa il possibile per farmi scendere lungo uno scalino: cerca di rassicurarmi, offre l'appoggio delle sue mani, ma il mio piede non arriva al fondo, ed io non riesco a fidarmi di far peso su di lui. Per me è già panico: interminabili minuti di trattativa, alla fine scendo quello scalino, ma la roccia successiva è troppo lontana; mi trovo bloccata su un isolotto di pietra, una situazione grottesca, perché davvero basterebbe un salto, ma io non posso, non ce la farei mai. Il mio povero compagno di viaggio le prova tutte, per rassicurarmi, ma io sono già oltre: non è più il misero neurone che controlla la situazione, è il terrore. Guardo la roccia su cui dovrei arrivare, guardo l'acqua: non mi sembra poi così alta... Prendo la drestica decisione, ci salto dentro; per un attimo mi manca il fiato, l'acqua è gelida. A mollo fino alle ginocchia, tento di spostarmi verso la meta ideale. Ma non ho tenuto conto di quanto forte possa essere la corrente di un torrente, anche se mi ci sono immersa solo così; trascina via le gambe. Tento di muovere un passo, ma per il piede non c'è più sostegno: il fondo scende, troppo rischioso; precipitosamente torno in retromarcia alla roccia di partenza. Matteo fa il possibile per aiutarmi, ma ormai io non lo seguo più: mi arrampico, maldestra, sulla stessa sponda del torrente da cui son partita; risalgo un po' più in alto, dove passa il sentiero. Bagnata per bagnata, lo supero così: ancora a mollo, fino alle ginocchia; il contraccolpo della corrente mi fa vacillare, ma c'è un tronco incastrato, col ghiaccio sui rami. Mi ci attacco con la disperazione delle formiche che, da piccola, salvavo con gli stecchini quando le trovavo galleggianti nell'acqua della vasca per l'irrigazione dell'orto: così, mani ben salde ed avvinghiate al tronco, mi tiro avanti, due passi e sono salva. Con le scarpe, le calze ed i pantaloni zuppi, ma salva.
Sui dieci minuti che seguono, cala un gelido silenzio. Matteo, forse arrabbiato, forse spaventato, forse tutt'e due: "Dovevi fidarti, ti avrei tenuta". Già, fidarmi. Col rischio di trascinare in acqua anche te, che pesi poi poco più di quel che peso io. E' vero, il salto va spiccato senza chiedersi come si atterrerà dall'altra parte, altrimenti non è un salto, diventa un rovinoso tonfo nell'acqua, Ma io ho il terrore, anzi so già che dall'altra perte non ricadrò in piedi. E' l'ennesima dimostrazione di come il minimo intoppo sia sufficiente a farmi perdere il controllo. E non mi spiego come mi riesca, in alcune situazioni di certo più rischiose, di manterere una calma glaciale, e poi in altre come questa, a dire poco ridicole, di sbandare, terrorizzarmi, scoppiare in lacrime come i bambini capricciosi. Non sarei davvero il cliente ideale per una guida alpina...
Matteo mi calca sulla testa la pila frontale. Cammino di buon passo; finché sono in marcia, non patisco il freddo ai piedi fradici. ben presto si fa buio; lui mi segue e si fa bastare il cono di luce che spunta dalla mia fronte: incredibile, io che stento a trovare la traccia così. Scruto con ansia le luci di Lerca; non riesco a capire quanto manchi ancora. E' il latrato dei cani che mi dà sollievo: forse manca poco, forse ci siamo. Il sentiero si tuffa giù per una ripida rampa: pochi minuti e siamo di ritorno all'immenso cantiere. Quel che avevo trovato così odioso all'andata, per un attimo mi apre adesso il cuore; ritrovo l'allegria che avevo smarrito nel torrente. Ora che è buio, sono felice di tornare nel bozzolo di lamiera della mia macchinina, ideale propaggine di casa, con la soddisfazione di quarantacinque km e 2.200 m di dislivello in salita. Quel che mi spiace è che ci tornerò da sola, perché Matteo stasera torna a casa, a Genova. All'incrocio con l'Aurelia, è fortissima la tentazione di girare a sinistra, seguire il suo furgone, accompagnarlo a casa o almeno ancora per un pezzo. Ma è ora di tornare con i piedi, finalmente asciutti, per terra. Sia pure a malincuore, giro a destra: è quella la direzione della realtà, e dalla realtà ci si può ogni tanto nascondere per un poco... Non per sempre.
giovedì 31 dicembre 2009
31 dicembre 2009 - Da Ceva a Savona di corsa, via Giovetti e Melogno
Sono trascorsi poco più di dieci giorni dalla mattana che mi ha portata, di corsa, da Ceva fino a Genova: e rieccomi un'altra volta qui, ancora a Ceva. La solita voce metallica del casello dell'autostrada, che mi saluta: "Arrivederci". Rispondo sempre, per educazione; si sa mai che il marchingegno si offenda e mi abbassi la sbarra sulla capote, per dispetto. Chissà poi perché al casello, sostantivo di genere maschile, è stata affibbiata una voce di donna, per giunta anche antipatica?
Son le cinque e trentacinque quando parcheggio l'auto nello spiazzo accanto all'ospedale. Questa volta non mi accoglie la neve, ma un cielo stellato che più limpido non si può; la temperatura è di ben nove gradi più alta rispetto a due sabati fa: -1°C, in luogo dei terribili -10 che quasi avevano fatto vacillare i miei propositi corsaioli. Quasi. La volta scorsa è stata davvero un'avventura: ottanta km di corsa a piedi, in autonomia, erano una distanza su cui davvero non avrei potuto fare pronostici. Ce la faccio, non ce la faccio, fin dove ce la faccio, e come? Tante preoccupazioni per nulla, perché poi quegli ottanta km, ottantaquattro per la precisione, son passati, uno dopo l'altro, con tanta fatica, ma conquistati. Con il ricordo, ancora fresco e bellissimo, di quell'esperienza, oggi parto un po' più tranquilla e cosciente di ciò che sto per fare.
Il rito è sempre lo stesso. Uccidere lo sbadiglio e, con esso, la tentazione di appoggiare la testa al sedile e riprendere il letargo interrotto con la sveglia alle tre e mezza. Controllare che nello zaino ci siano il telo termico, gli indumenti di ricambio per quando avrò finito la corsa, la giacca impermeabile, il portafoglio, la farmacia, la luce e la pappatoria. Indossare tutti gli strati di vestiario, le bande rifrangenti, le scarpe. Già, le fedelissime Nike. Qualcuno potrebbe pensare, a questo punto, che io abbia lo sponsor... Magari! Non ce l'ho; ho donato personalmente un quarto di fegato per comprare questo paio di calzature, ma non smetto più di pensare che ne è valsa la pena. Da qualche giorno, l'osso alla base del "mignolo", se così si può dire, del piede destro fa le bizze, è gonfio e duole al contatto con qualsiasi scarpa: le mie Nike però sono talmente morbide che sembra di indossare non una scarpa, bensì una calza. Infatti, mi basta muovere due passi per tirare un sospiro di sollievo: oggi il callo non sarà un problema. Non resta che mettere la chiave della Opel al sicuro. Poi, si parte.
La mia meta è, anche oggi, il mare. E' un'idea che mi affascina: partire da un luogo gelido e ben poco ospitale, nella stagione invernale, per raggiungere, dopo lunga marcia, altri lidi ben più accoglienti. E' quasi facile pensare di sobbarcarsi una faticaccia improba, se sai che alla fine sarai premiato dal tepore del sole, o ne hai almeno la speranza. Io credo nelle previsioni del tempo! L'intenzione è di raggiungere Finale passando dal Colle dei Giovetti e dal Colle del Melogno; una volta a Finale, se sarò in grado, vorrei tentare di correre almeno fino a Savona. Oltre, chissà: non appena Matteo avrà chiuso il negozio, con un po' di anticipo visto il giorno di vigilia, salterà sul furgone e mi raccatterà, arrivando da Genova, per poi riaccompagnarmi a Ceva e tenermi compagnia nel favoloso cenone di Capodanno a base di tortelli pronti, pane e formaggio. Conto su dieci, undici ore di tempo, suppergiù: vediamo quanta strada riesco a mettere sotto le suole.
Così meditando, mi avvio di corsa lungo la direzione di Ormea. Sono le sei meno un quarto: avrò davanti a me un paio d'ore di buio. Si fa per dire: quasi non mi accorgo di essermi lasciata alle spalle le luci della città e quelle del casello della Torino Savona; in mezzo ad un cielo limpidissimo brilla una luna tonda, o quasi, accecante come un faro da stadio. Un sorriso a trentadue denti, la cartolina di una bellissima cascina costruita un po' più in alto, sulla collina, la facciata bianca e squadrata che riverbera la luce della luna, è l'inizio della mia avventura. Mi costringo, fin da subito, ad un costante esercizio di pazienza. La strada è lunga, lo zaino pesante. Non posso permettermi di correre così come mi sentirei di fare. Dagli esperti di corsa, o sedicenti tali, ne ho sentite e lette di tutti i colori: bisogna fare passi brevi, per ridurre il salto e così il peso sul ginocchio; no, invece la corsa con il passo breve non va bene, perché allunga il contatto del piede col terreno; insomma, chi più ne ha più ne metta. Quale fondamento scientifico abbiano queste e mille altre affermazioni perentorie, lo ignoro; sarà qualunquismo, ma alla fine, secondo me, la ricetta è una sola: lasciare che le gambe vadano come vogliono, finché ne hanno, e non pensarci più. Solo, tirare il freno, non esagerare con l'entusiasmo, perché il minimo spreco di energie, su queste distanze, si paga caro. Pensare a tappe: davanti a me non ci sono gli ottantacinque km fino a Savona; per ora, ci sono i dodici della prima tappa, fino a Bagnasco.
Risalgo di buon passo lo stradone di fondovalle. La luna distingue i profili della montagna, nero contro nero, e il grigio della neve che ricopre i pendii: qui s'è fermata, ben più che in pianura. I rami spogli degli alberi sono prigionieri di un'immobilità quasi irreale; non un fruscìo di vento, solo il rumore lontano del fiume che scorre giù, al fondo del vallone. Corro lungo il guard rail, cerco le forme delle costellazioni: ne saprò riconoscere, sì e no, due o tre. Mi distrae un semaforo che impone il senso unico alternato, l'unico intoppo in questo tratto di strada larga e, già a quest'ora, parecchio frequentata. Mi conforta il pensiero che sia mercoledì mattina: è improbabile che si tratti di traffico di nottambuli da festa, assonnati o, peggio, ubriachi o strafatti; spero che i volanti siano saldamente in mano a gente che va a lavorare, o magari a sciare, insomma, che qualche ora di sonno alle spalle ce l'ha. Avevo anche considerato l'idea di partire da Bagnasco, anziché da Ceva, in modo da evitare il tratto di stradone: però, così facendo, avrei forse rischiato l'incontro ravvicinato con qualche bestio, che so, cinghiali, o anche solo cani di cascina, poco propensi a lasciarmi proseguire. Simili incontri, preferisco gestirli alla luce del sole! La strada tra Ceva ed Ormea, nelle primissime ore del mattino, non è poi così frequentata. Infatti, percorro i primi km in tutta tranquillità; ascolto i rumori della notte che sembra ancora fonda, anche se sta per finire. Le scarpe pestano ogni tanto un po' di neve, che cede, non è ghiacciata. In mezzo agli alberi, s'intuisce una casa qua e là, dal quadratino di luce gialla. Accendo il faretto che porto in mano solo quando sento avvicinarsi un'auto alle spalle: sono già visibile come un albero di Natale, in tema con il periodo, ma meglio abbondare. Vedermi, mi vedono eccome; non c'è un'auto che non rallenti, incrociandomi o passandomi accanto. Sono lunghi rettilinei, curve appena accennate; accanto a me corrono i binari della ferrovia.
A Nucetto, i primi cenni di vita: un bar illuminato, una tazza sul bancone attraverso i vetri appannati. A ben pensarci, non sarebbe affatto male un cappuccino caldo... Ma è troppo presto per pensare alle pause. Finestre che s'accendono, camini che fumano. Se fosse estate, forse potrei sentire il tintinnio delle posate della colazione, ma ora no, è tutto sprangato. Auto ancora abbandonate nei cortili, scintillanti di gelo: tra poco, qualcuno abbatterà santi e madonne per scongelare il parabrezza. Ancora una stazione di servizio, voci dal bar; un passaggio a livello, una strada che s'arrampica chissà dove. La linea bianca a bordo strada è la mia guida; il sale scricchiola sotto le suole.
All'ultimo accenno di curva, poco prima di Bagnasco, alla mia sinistra una striscia di azzurro rompe il nero uniforme del cielo. Mi si allarga il cuore: è sempre una sensazione stupenda, di sollievo e di gioia, quando mi accorgo che arriva il giorno. Benché io provi spesso ad affrontarlo, a rubargli un po' di spazio e di vita, il buio non è il mio elemento; insinua ansia, tensione, forse per i suoi rumori di cui non puoi vedere la fonte... O forse perché non ha rumori, e tu infossi la testa tra le spalle e ti aspetti che qualsiasi cosa ti cada addosso da un attimo all'altro. Quella striscia di azzurro mi toglie un vero macigno dallo zaino. Bagnasco;: tutti i cani del paese abbaiano all'unisono, furiosi, corrono all'impazzata su e giù per i cortili. Noto ora per la prima volta, passando tra le case, un paio di dipinti sui muri, dedicati al paese del "Bal do Sabre"; immagino si tratti di una danza, a giudicare dalle immagini, ma mi riprometto di documentarmi, quando sarò a casa.
Ecco, i primi dodici km sono andati. Obiettivo della seconda tappa, il Colle dei Giovetti, tra nove km. Mi lascio alle spalle le case di Bagnasco; passo sullo stretto ponte sotto cui scorre una corrente impetuosa; intravedo la ruota di un mulino, chissà se è tuttora funzionante. Sembra incredibile: basta cambiare mezzo di locomozione e, d'improvviso, luoghi che hai già attraversato più e più volte, in bici o in auto, diventano strade, boschi, paesi e montagne sconosciuti. Il viaggio a piedi, anche se di corsa, è eterno, vero. Però regala scorci e particolari che altrimenti vanno persi.
E' giunto ora il momento forse meno poetico, ma certo più impellente dell'intera giornata: la ricerca del luogo più idoneo per una sosta tecnica. Urge approfittare degli ultimi scampoli di buio. Un tratturo alla mia sinistra sembra fare al caso mio... Sono questi i momenti in cui occorre decidere senza esitazione ed agire senza indugio. Mi ci fiondo: com'è ovvio, in quel preciso istante, tutti il traffico a motore dell'intera Valle Tanaro, alta, bassa e media, si concentra lungo la strada dei Giovetti. Così, brache in mano, caracollo un po' più in là, dietro ai pioppi ed ai cespugli, nella speranza che i cani che sento latrare in lontananza non decidano di avvicinarsi e far colazione con il mio fondoschiena. Rischierebbero come minimo un'impennata del colesterolo, povere bestie.
Si sa che, quando ci si libera di un peso, la vita torna a sorridere. Riprendo a correre: poche centinaia di metri ed attraverso l'ultima frazione prima del colle, l'abitato di Massimino; perlomeno, l'ultima frazione visibile dalla strada principale. Ovunque, cataste di legno, composte con precisione da geometra; cataste di tronchi o di ceppi già squadrati, a forma di parallelepipedo o con la punta, a triangolo; profumo di legno fresco di accetta, profumo di legno bruciato nel camino. Neve, tanta neve per terra, anche se già da qualche giorno non ne cade più; neve spostata, accumulata e sporca. La salita vera comincia qui, con il primo tornante che avvolge il cortile di una casa. Il cielo è quasi chiaro, coperto di nubi che prima non c'erano; soffice coltre rosa, sembra quasi voglia far neve, davvero. Una luce fioca rischiara le cime degli alberi imbiancati, ma non arriverà qui, su questo lato della valle, che tra qualche ora. Man mano che corro e salgo, posso però vedere le cime dall'altro lato, quelle che godono dei raggi diretti del sole e s'illuminano man mano, dall'alto verso il basso. Al km 4, brilla l'acqua di una bella fontana: sembra quasi irreale imbattersi in uno zampillo così vivace, qui dove l'acqua sembra esistere solo in forma solida, immobile fotografia di ghiaccio e neve.
Scende di gran carriera il camion che sparge il sale; una cascata di granelli che schizzano giù dal cassone, rimbalzano, ricadono sull'asfalto e sulle mie scarpe. Sale e fanghiglia umida rendono la strada quasi più scivolosa dello stesso ghiaccio. La corsa adesso si fa più affannata: è salita, e si sente. Ma ormai conosco il mio cuoricino. Sulle prime rampe, e per un bel po' di tempo, soffre, il poveretto; come sempre, ha bisogno di una prima salita, lunga, e poi di una discesa, per riprendersi. Patisce, tossisce, sembra non volerne sapere di accelerare il battito. Sulla prima salita della giornata, se ascoltassi lui, ogni volta direi che non è aria, che è il caso di mollare tutto e tornare in branda, che non ce la farò mai ad arrivare in cima, né tantomeno a proseguire. Ho imparato a convivere con questa sensazione. Cerco di non curarmene e corro, anche se la mia corsa, in salita, è una forma di movimento che dà un vantaggio minimo, in termini di velocità, rispetto alla camminata, ma in compenso causa uno spreco ignobile di energie.
Grandi cartelli quadrati indicano i km percorsi da Bagnasco. Quando arrivo a quota cinque, cedo alla tentazione: da questo momento in poi, alternerò tratti al passo e tratti di corsa, per risparmiare un po' le gambe in vista della lunghissima sfacchinata. Il passo è una sorta di marcia affrettata e maldestra, un'empirica ricerca del migliore compromesso tra la lunghezza del passo, la rapidità del gesto e l'affaticamento dei muscoli. E poi dicono che io mi alleno alla carlona... Non è vero, io conduco veri e propri esperimenti scientifici! Che poi non capisca un accidente di quel che vien fuori da questi esperimenti, è un'altra storia... Languo alla vista delle cime illuminate dal sole: sono sempre le altre, mai questa! La vallata è inondata di rosa e di foschia sottile, che sfuma i contorni degli alberi e delle case. Taglio le curve, le percorro tutte nell'interno, fidandomi forse un po' troppo dell'assenza di traffico a quest'ora mattutina; meno male che il rombo del camion spargisale si sente da lontano: eccolo, il novello Schumacher dei pesi massimi che torna su. Approfitto di lui, e degli altri veicoli che incontro, per riprendere il trotto, quasi a voler salvare la reputazione di fronte a chi mi incontra quassù: come se a qualcuno dei viandanti potesse cambiare qualcosa, se io corro o cammino... Correndo e camminando, costringo le gambe a quei cambi di ritmo che tanto detesto, ma a cui mi devo abituare, sognando la Nove Colli Running. Attingo ad un paio di quadretti della mia riserva di cioccolato: una tavoletta da un etto, cioccolato bianco con mandorle e miele. Oltre a questo, ho un sacchetto da due etti e mezzo di frutta secca ed un paio di gelatine di frutta.
Non mi serve il cartello del km 8, per sapere che sono ormai in cima. La conosco bene, questa strada. C'è un edificio, non so se un ristorante o un albergo, con un'insegna consunta,. "Belvedere": non ho mai capito se sia ancora in attività, ma qui intorno non ho mai visto movimento. E poi, il profumo: corro per un tratto in mezzo ad una fittissima pineta, che riempe le narici del caratteristico profumo, quello buono e forte dell'essenza che mia mamma, quand'ero piccola, metteva in boccetta negli armadi per profumare maglioni e pantaloni. Se penso ai cassetti di casa mia, stipati di roba buttata lì a casaccio, altro che profumo... E' già tanto che non ci nidifichino i pipistrelli!
Inizia ora la lunga discesa verso Calizzano. Dovrebbero essere all'incirca dieci, undici km, ma solo sette o otto di vera discesa. Giù per i tornanti, anche qui tagliando le curve, ma con un po' di cautela in più, perché qualche auto, adesso, passa. Si allargano i raggi del sole: ma, sotto di me, la piana è già nascosta sotto una spessa coltre di nebbia, che sembra di veder le nuvole dall'aereo, anche se io sull'aereo non sono mai salita. Corro e richiudo la cerniera, perché la discesa fa spendere meno fatica, anche se alle gambe fa male come e più della salita; mi infilo le cuffie nelle orecchie e do libero sfogo alla musica del lettore Mp3. Mi guardo intorno, mi guardo i piedi; anche il granello di sale ha la sua minuscola ombra .
Un abbaio perentorio mi riporta alla realtà: uno, due, tre, addirittura quattro abbai con voci diverse, quattro cagnotti che spuntano fuori dalla boscaglia, dietro un guard rail. Mi si lanciano contro: mi fermo, ma solo per un attimo, solo il tempo di capire dai loro occhioni buoni che non hanno intenzioni bellicose, tutt'altro. Tendo loro le mani: il primo ad avvicinarsi è il più piccolino, di corpo e credo anche di età; un botolino a pelo raso, fulvo, il musetto aguzzo, il tartufo curioso che esplora le mie dita e trasmette alla coda un segnale di fiducia. Riprendo a correre, mi fermo ancora, torno a tendere le mani; non ci vuole molto perché altre due bestiole cedano alla tentazione di una carezza. Dispenso coccole su musi e teste; corro in compagnia, due mi precedono, due mi seguono, di tanto in tanto si fermano, non li sento più, poi rotolano oltre i miei piedi a valanga, saltellanti, giocherelloni. Alla fine capitola anche l'ultimo, forse il più anziano, un bel cagnone di taglia media, dal pelo nero e grigio e dalla folta coda ritta come un vessillo. Coccole anche per lui. Chissà da dove spuntano? Una casa ed un padrone li hanno di sicuro; tre di loro portano un collare e tutti sono belli, non certo denutriti, ben curati. Mi chiedo solo perché un padrone così premuroso lasci i suoi animali liberi su una strada che non sarà forse di grande passaggio, ma è comunque frequentata dalle auto.
Scendo l'ultimo tornante prima dell'abitato di Caragna: un uomo si affaccia al cancello di un cortile. I cagnotti sono rimasti su, prima del tornante: ad un richiamo, schizzano giù tutti e quattro, tagliando per il prato e gettandosi festosi addosso a quello che individuo come il padrone. "Le hanno dato fastidio?", mi domanda preoccupato. "Ci mancherebbe altro... Io adoro i cani!", rispondo. E, alla dolcezza con cui la mano dell'uomo accarezza il pelo delle sue bestiole, un papà orgoglioso, mi rimangio il rimprovero per averle lasciate incustodite.
L'abitato è immerso nell'ombra, derubato della luce del sole dalle nuvole che aleggiano a mezz'aria. Anche qui, grigio e neve sporca; un'anziana si affaccia sulla soglia di casa, ramazza un po' di strada davanti al gradino, per togliere immondizia che solo lei vede; la scopa non porta via nulla... Mi sono spesso domandata a cosa servissero le mezze porticine che, in certi luoghi, sono poste davanti alle porte vere e proprie d'ingresso dalla strada alle case, solo adesso, con la neve, lo immagino: sono forse una protezione in più dagli schizzi, dal fango, dall'acqua che si sollevano dall'asfalto quando passa un'auto? O dalla stessa neve? case dal sapore antico, ingressi a volta nei cortili; microscopiche aiuole addosso alle pareti, in cui langue una rosa sfiorita e gelata dall'inverno; orti in cui tutte le verdure prendono l'unico colore del gelo. Poi la campagna brinata, un lungo tratto di strada in piano, si passa su un torrente di poca acqua e ghiaccio, e un rudere di muri su cui campeggia un cartello. Vietato entrare. Ma entrare dove? Di questo edificio è rimasta a malapena la facciata; non ci si può entrare, non c'è alcun luogo in cui entrare; al massimo si può passare oltre la porta e ritrovarsi allo stesso modo fuori.
Il freddo qui è pungente, carico di umidità. Chissà se, e quando, il sole riuscirà a penetrare fra le nuvole basse. Percorro il rettilineo che precede l'abitato di Calizzano: si scivola persino sui giunti metallidi del ponte, tocca passarci con cautela. Supero il distributore, i palazzi della via; la splendida pineta sulla destra, tronchi dritti come fusi e, sotto le chiome, solo prato, lindo, pettinato e scuro, perché gli aghi son troppo fitti perché la luce vi possa passare. Ancora, i cartelli che segnaono i km percorsi da Bagnasco. Siamo a venti: al ventottesimo sarò in cima al Colle del Melogno. Per ora, si corre: la pendenza è minima, anche se basta già a mandare il cuore in affanno. Uno spartineve parcheggiato a bordo strada, munito di catene. L'abitato di Frassino: qualcuno è intento a spalar via neve dal cortile. Percepisco a distanza il profumo del pane: proviene da una botteguccia, piccola ma invitante; "Torte verdi, torte dolci, pane, pizza", recita il cartellone all'ingresso: una tentazione unica per la mia fame che già ora, troppo presto, è prepotente. Tentazione che respingo a fatica. Un anziano infagottato procede a passi lenti e prudenti lungo la strada scivolosa; anche le griglie dei cortili disegnano merletti bianchi di neve.
Anche qui, quando la salita si fa seria, preferisco alternare passo e corsa. Ne approfitto per attingere al sacchetto di frutta secca; l'importante è non fermarsi. Procedo un po' a marcia da bersagliere e un po' di corsa, quando la pendenza diminuisce appena, sulla strada sempre umida, talvolta invasa da una lingua di neve crostosa. Più salgo, più è ghiaccio: fili d'erba imprigionati in un sarcofago trasparente e scintillante; ghiaccio che riveste i muretti e le pietre, come il cioccolato che cola sul bordo della Torta Sacher. Non resisto alla tentazione: attraverso apposta la strada, stacco un pezzo di stalattite, da mordere a mò di ghiacciolo. Non è acqua che disseta, sembra quasi di non aver bevuto nulla. Le auto scendono caute sull'asfalto viscido; in lontananza, il rumore di una motosega che pian piano si avvicina: oltre una curva, un uomo è intento a tagliare ciocchi da un tronco e caricarli sull'Ape. Scorrono veloci i chilometri: ancora un po' di frutta secca, un paio di messaggi per rassicurare mamma e per comunicare a Matteo la mia posizione. "Sono abbastanza lenta", gli scrivo; almeno, questa è la mia impressione. Poi scorgo il muraglione dei Forti: ecco, un'altra tappa è passata, conclusa. Lo spiazzo sul colle è un acquitrino, ghiaccio e neve in via di scioglimento, fango, ombra e freddo; il camino della locanda è un pennacchio imperioso di fumo. Non posso sentirlo, ma lo immagino, il profumo dei primi piatti che circolano lì dentro. Ci sono già stata, qualche volta, ma solo per un fugace panino. Quassù d'inverno fa sempre un freddo assassino; per fortuna, a piedi lo si patisce un po' meno. E poi, oltrepassato il forte attraverso l'imponente porta di pietra, colonizzata anch'essa da vegetazione e colate di ghiaccio, sembra di ritrovarsi all'improvviso in un altro mondo. Pochi passi e si vede il mare, pochi metri ed è luce più calda, limpida, gialla. Anche se oggi c'è foschia verso il fondovalle, e nuvole spesse color cemento, spinte dal vento, che sembrano voler passare proprio dal bivio con la direzione di Pian dei Corsi. Avrei voluto scendere proprio da lì, da Pian dei Corsi; però, avvicinandomi dall'alto, mi rendo ben conto che quel versante della montagna è avvolto dalle nuvole e spazzato dal vento. No, è escluso: io ho voglia di tepore, di sole, per quanto possibile.
Appena prima del bivio, dal cortiletto di una casa affittacamere si affaccia, grintoso, un volpino: dietro di lui, a superba difesa, un maestoso San Bernardo, che con il suo abbaio grave ed imperioso conferisce credibilità al lungo, squillante, querulo discorso del suo minuscolo collega. Mi inchiodo; il bestione si avvicina, annusa la mano che gli porgo, scodinzola; poi, soddisfatto, se ne torna pigramente a sdraiarsi contro il muro di pietra, che restituisce un po' di calore dei pallidi raggi di sole.
Procedo lungo la strada principale: come piano B, scenderò verso Eze e Calice, per raggiungere Finale da lì. La discesa è lunga, interminabile: vorrei approfittarne per riposare un po', mentre le gambe continuano a correre, ma mi accorgo d'essere sempre più insofferente. Provo a distrarmi con il paesaggio: le cisterne di raccolta dell'acqua, in cui si specchiano il cielo e le nuvole; il mare laggiù in fondo, grigio come gli sbuffi di nebbia sospesi quassù; fiori, alberi carichi di cachi, arance, limoni; gruppi di case, profumi di pietanza. Intuisco sul pendio della montagna serpentine di strade, forse sterrate. Incontro un ciclista in mountain bike ed un arzillo signore dalla chioma d'argento, in maglietta e pantaloncini da mare, che sale spedito con gli skiroll. Ancora un po' di frutta secca, poi tento la strada della radio; ma quassù le stazioni che riesco a captare sono ben poche: così, alterno senza problemi i ritmi da discoteca di Radio M2O alla musica classica trasmessa dalla Rai. E mi godo il tepore del sole, un po' abbacchiato ma pur sempre gradevole, e mi riempo gli occhi dei colori che, sul versante opposto, non si faranno vedere fino a primavera. Le gambe, per ora, reggono bene.
La deviazione per Calice Ligure arriva dopo un'eternità. Non ne potevo più di quella discesa così monotona. Si scende ancora, ma per una strada secondaria. Un paio di tornanti mi ripiombano nel fitto umido della boscaglia; attraverso l'abitato di Eze, nell'ora deserta del pranzo. Mi tormenta la sete: la borraccia è vuota; punto con concupiscenza le arance ed i cachi che pendono dai rami: sono lì, quasi a mia disposizione... Molti non saranno raccolti, cadranno a terra e marciranno lì. Eppure non me la sento di allungare la mano. Ma il succo di un'arancia sarebbe il piacere più semplice e gradito, in questo momento d'improvvisa difficoltà.
Orti, giardini e fiori coltivati sui gradini strappati alla montagna e sorretti dai muretti a secco; ulivi e frutteti. Fa caldo ormai: per quanto mi spiaccia fermarmi, qui sotto, a Calice, tra pochi tornanti, è necessario che io vada a caccia di una fontanella e che mi levi di dosso qualche strato di troppo. Ormai sono al mare. Lo sento e lo respiro a pieni polmoni. Al paesino di Calice arrivo poco dopo, nei paraggi di un complesso immobiliare, nuovo ed orrendo, che ribattezzo immediatamente "casa della Barbie", viste le agghiaccianti tinte pastello. Uno dei tanti abominii di qualche fantasioso architetto che vuole lasciare il segno: e bisognerebbe lasciarlo su di lui, il segno... Il segno di un ferro da stiro abbattuto sul suo cranio! L'aborto edilizio ha però un vantaggio: offre una fontanella. Mi fermo un attimo, levo la giacca, riempo la borraccia e bevo come se non bevessi da dieci anni; ingollo un fruttino, poi ributto tutto alla rinfusa nello zaino, che ora diventa definitivamente un macigno. Due giovanii fidanzati portano a spasso un cuccioletto nero, una mamma rimprovera il figlio che vuol fare qualcosa che la farà stare in pensiero due giorni. E che mai sarà?
Riparto verso Finale, lungo un tratto di strada in leggera discesa, un po' troppo caotico per i miei gusti. Corro tra capannoni, magazzini ed il viadotto dell'autostrada sopra la testa; case abbarbicate tra la strada ed il torrente, numeri civici in ceramica, motorini e motocarrozzette che sfrecciano ovunque. Inutile cercar di guadagnare il marciapiede, tanto finisce subito. In dubbio se passare a Finalborgo, decido di non abbandonare la via vecchia per la nuova; mi ritrovo ad una rotonda familiare, nei pressi del casello dell'autostrada; ormai in pieno caos marittimo, m'infilo in Finale da lì. E cerco di approssimare una stima dei km percorsi finora: potrebbero essere cinquantacinque o sessanta, chissà. Non so nemmeno di preciso che ora sia: di certo è primo pomeriggio. Attraversare l'abitato mi dà angoscia e tensione: correre da un marciapiede all'altro, tra le auto ed i semafori, nel centro del paese, è rischioso ed odioso; mettere un piede in fallo, storcersi malamente, è un attimo. E poi, anche qui, devo resistere alla tentazione delle pizze all taglio. Slalom tra auto, motorini, scalini d'ingresso: finalmente tutto sparisce, arrivo al lungomare. Mi viene in mente un solo aggettivo, anche se è banale: bellissimo! Il cielo qui è tutt'altro che terso, anzi; è nuvoloso, grigio, soprattutto verso Savona. E il mare sembra arrabbiato: onde lunghe, schiumose, quasi minacciose per me che sono abituata alla placida immobile campagna piemontese. Tira un vento che scompiglia le palme, ma qualche raggio di sole qua e là buca la coltre di nubi. La temperatura, ora che ci faccio caso, è confortevole: un termometro segna nientemeno che sedici gradi. Il lettore Mp3 finisce in tasca: qualcuno dovrebbe provvedere a mettere il silenziatore al mare, altrimenti non si sente nulla!
La tensione si allenta, ora che posso correre sulla passeggiata. In spiaggia una fila di orme; attendo l'onda che le raggiungerà per cancellarle. Arriva, prima che io passi oltre la galleria. Qui la passeggiata aggira l'ostacolo e si protende a picco sul mare: mi arrivano in testa gli schizzi di un'onda malandrina, un po' più alta delle altre. Strilli e schiamazzi di un paio di turiste un po' avanti con l'età biologica, ma evidentemente un po'indietro con quella cerebrale: una signora dall'aspetto elegante, seduta sulla panchina con un libro in mano, le squadra con una muta occhiata che vale più di mille parole. Sapesse, signora, quanto sono d'accordo con Lei!
Poco fa ho dato un'occhiata al cartello che indicava le distanze: le cifre le ho già scordate, ma, se non altro, adesso so che troverò prima Noli e poi Spotorno. Avrò percorso l'autostrada un'infinità di volte, ma non ho mai mandato a memoria l'ordine dei paesi della costa; è proprio vero che la mente incamera le informazioni solo quando ne ha utilità. Questo è il caso: dopo sessanta e più chilometri di corsa, sapere a che punto si è rispetto alla meta diventa, a dire poco, vitale. Anche se, tutto sommato, non posso certo dire d'essere distrutta. Sono solo un po' tormentata dalla fame. Varigotti: significa che sono vicina al punto forse più suggestivo dell'intero viaggio. Infatti, già dall'abitato, vedo il lungo rettilineo che passa accanto ad un imponente anfiteatro di roccia bianchissima; a piedi, posso godermi lo spettacolo in tutta la sua bellezza, sperando che altrettanto non decida di fare qualche automobilista: altrimenti. la mia sindone resterà nei secoli spiaccicata sul parapetto di pietra. Oltre il parapetto, giù, si sentono gli schiaffi delle onde sulla parete di roccia, tonfi sordi che quasi fatico ad attribuire all'acqua del mare. Le onde sono davvero rabbiose, come il vento. Mi sorpassano due ciclisti, si lanciano baldanzosi in salita; uno schiaffo invisibile li ricaccia giù in sella, ferma la loro corsa, tra un attimo investirà anche me. E' la prima volta che penso alla pioggia, oggi. Naso all'insù, il sole è sparito: sulla mia testa, una cappa di nuvole alte, scure, sempre più scure, curioso contrasto con il bianco delle pareti a picco, e poi il sibilo del vento. I gabbiani non se ne curano: un esemplare, grosso, bello cicciuto, se ne sta sul parapetto, fissa il mare; si getta giù, in volo, solo quando gli arrivo ad un metro di distanza, e non pare spaventato. Altri due sono appollaiati, irriverenti, sulle reti che riparano la strada dal crollo di sassi. In questo tratto, alcuni semafori bloccano, all'occorrenza, la circolazione, in caso di pericolo di frana: pericolo più che reale, a quanto sembra; ricordo che, tempo fa, l'Aurelia è rimasta a lungo interrotta proprio per porre rimedio ai danni di una frana. Strillano, i pennuti. Un pescatore s'è arrampicato su uno scoglio, in posizione quanto mai precaria: spero per lui che sappia nuotare, e che, indossando gli scarponi, ci riesca, alla bisogna!
Si vede, in lontananza, l'isola di Bergeggi, grigia com'è grigio tutto, ora. Nei tratti da cui si vede la spiaggia, le onde fanno il ricciolo, il cavallone in miniatura; le maniche a vento, tese come se fossero inamidate. A Noli, ben pochi sono i coraggiosi che azzardano quattro passi, intabarrati in cappotti e cappucci. La temperatura in sé sarebbe ancora mite, ma l'aria che sferza la pelle fa venire qualche dubbio anche a me: sarà il caso di rimettere la giacca? Per ora, mi limito ad una velocissima sosta per bere alla fontana. La pancia brontola, reclama le sue spettanze; il guaio, caro il mio stomaco, è che di spettanze ne restano poche; tocca tirare la cinghia. Da Noli a Spotorno è quasi un attimo, uno schiaffo per gli occhi; spiccano solo le brutture, i palazzoni orrendi costruiti senza alcun gusto, addossati alla montagna che sembra quasi scavata per far loro posto. La passeggiata, con la luce del pomeriggio che sembra già quella della sera inoltrata; niente acqua dal cielo, per ora, ma chissà se tiene. Sono io, che non tengo più: a questo punto la fame si fa davvero prepotente. E le gambe sono stanche, che a me piaccia o no. Mi rassegno a percorrere duecento metri al passo, attingendo a piene mani alla busta della frutta secca; anziché passare nel centro di Spotorno, resto sulla strada di circonvallazione: sempre meglio la compagnia delle auto, che quella della folla. Stanchezza. Chissà quanto potrei correre ancora? Stanchezza è una condizione molto lontana dallo sfinimento; è quel momento in cui, si dice, la testa si sostituisce alle estremità inferiori e ti porta oltre le loro possibilità. Mah. Questi gloriosi proclami mi lasciano qualche perplessità. Sono io la prima ad amare le faticacce senza fine, ma, quando non ce n'è più, non ce n'è più; puoi avere una volontà di acciaio, di diamante, ma se le gambe ti mollano sei spacciato, punto. E se invece riesci ancora a trascinarti avanti, è perché forse avevi sopravvalutato la crisi. E' pur vero che le crisi arrivano e se ne vanno, questo l'ho già provato sulla mia pelle più di una volta; si passa con una facilità incredibile dalla sensazione di morte imminente a quella di "il mondo è mio!". Però arriva, prima o poi, quel confine oltre il quale non si può andare.
Non è ancora il mio caso, almeno fino all'isolotto di Bergeggi. Qui la marcia è ancora piacevole; il vento non molla, ma io mi sono imbozzolata nella giacca, ho indossato guanti e berretto, insomma sono ben protetta. Grotta di Bergeggi: chissà se interessa a Matteo... Già, lui, oltre a praticare la superficie terrestre a piedi e su due ruote, pratica anche gli anfratti infernali. La speleologia è uno sport da squilibrati, sostiene un amico; in effetti, sono d'accordo: la sola idea di tumularmi, mia sponte, in un cunicolo profondo chissà quanto, senza luce, senza spazio, magari anche senz'aria – a me l'aria manca già in una stanza chiusa ed affollata – sembra una pura e semplice follia, un atto di masochismo. Vero, Matteo non ha l'aspetto né l'atteggiamento di uno squilibrato; però, si sa che i peggiori pazzi criminali, nella vita di ogni giorno, di solito appaiono gli ideali vicini della porta accanto...
Le ciminiere di Vado Ligure mi dicono che potrei essere in dirittura d'arrivo. Forse. Difficile stabilire qual è la fine, se non sai con precisione quale sarà la tua meta. So che oggi Matteo è in negozio, ma non ho la più pallida idea dell'ora a cui chiuderà. E' il 31, ma, per quel che ne so io, potrebbe anche aver deciso di aprire con l'orario normale, quindi fino alle sette e mezza. A Porto Vado, le raffiche di vento sono violente e dirette in faccia: un ostacolo non tanto per la corsa, quanto per il respiro. Già in condizioni normali, alla visita medica sportiva, la mia spirometria restituisce puntualmente risultati poco confortanti. Mi concedo qualche decina di metri al passo e scrivo un messaggio via telefonino a Matteo per chiedergli un'idea dei suoi orari. Saranno quasi le quattro, ma questo posto spettrale sembra l'anticamera dell'apocalisse: le nuvole sono compatte, pesanti, sempre più scure, sembra vogliano piombare e schiacciare la terra da un attimo all'altro; tutt'intorno, le strutture del porto, i container rugginosi, fumo, rumore di metallo, di motori. Angosciante. E non sarà meglio per un bel po': dopo Vado c'è Savona, da attraversare tutta, da parte a parte. Mi intestardisco a correre ancora, un po' sul marciapiede, un po' sulla strada, tra sciami di passeggiatori festivi, ragazzini sui pattini, madame con le borse della spesa, e più di una volta rischio d'inciampare. Poi, proprio sotto il cartello con la scritta nera in campo bianco, "Savona", getto la spugna e mi metto a camminare. Il frastuono di clacson e voci è assordante; me ne isolo, tanto che quasi non lo sento più. Savona è la città natale di mio padre; ma, sarà perché non ho mai conosciuto i miei nonni paterni né alcun componente della famiglia, sarà perché il rapporto con il genitore non è certo idilliaco, non mi ci sento in alcun modo legata. La trovo orrenda ed invivibile, proprio come qualsiasi altra città, di pianura e di mare, turistica o anonima, calda o gelida che sia.
Da un cortile spunta il muso di un bel cane: razza indefinibile, corporatura alta e snella, pelo corto, bianco, a chiazze nere. Sembra spaesato; mi si avvicina timoroso. Gli porgo la mano; lo segue un altro cane, che ha qualcosa del pastore tedesco, anche lui timido, incerto. Sta proprio sul binario di scorrimento del cancello automatico, che all'improvviso comincia a chiudersi. Si chiude pian piano ma inesorabilmente: sembra che non ci sia alcun dispositivo di sicurezza che individua la presenza del cane. A poco più di un metro dalla chiusura, la bestiola volta il muso verso la pesante plancia di metallo che sta per colpirlo, si rattrappisce ma non si muove: mi sveglio dalla mia immobile sorpresa, butto un braccio nello spazio che resta, dall'alto verso il basso. Per fortuna, il cancello non s'è accorto del cane, ma si accorge di me; si arresta, torna indietro. Ricaccio i cani all'interno del cortile, con voce e maniere brusche, non certo per far loro paura, ma solo per allontanarli dal pericolo; poi riprendo la mia marcia, con il cuore in gola per la tensione.
La risposta di Matteo arriva con un po' di ritardo: del resto, l'immaginavo; già a mezzogiorno mi aveva detto di avere il negozio pieno di gente. Buon per lui. "Mando via gli ultimi clienti e parto; sono a Savona alle 17.30". Ossignùr! Ma io non voglio mica mandarlo in rovina! Il cliente non si caccia via, mai... Io posso andare ancora avanti, indefinitamente; ci s'incontrerà in un punto qualsiasi tra Savona e Genova. Povero Matteo, lo costringo troppo spesso a fare i salti mortali; un giorno o l'altro, mi manderèà al diavolo. Però il suo messaggio mi riporta il buon umore, anzi direi l'euforia. Sono contenta di vederlo, e poi so che lui apprezza queste mattane, ha la pazienza di sentirmi sfogare, lasciarmele raccontare, insomma si lascia investire da quella specie di esaltazione che mi invade dopo ogni impresa un po' folle, senza cercare di sottrarsi; ha la pazienza di un santo.
Seguo la strada principale, le indicazioni per Genova; di lì a poco, mi ritrovo alla Fortezza. Traffico, luci natalizie, frotte di persone dal passo affrettato, cariche di borse, pacchi, pacchettini; gli ultimi preparativi per il cenone di Capodanno. E il mio, di cenone, come sarà? Forse una pasta, o i tortelli, forse yogurt, di certo pane e formaggio, e poi un po' di frutta. Magari una latta di legumi, se mi va. Per fortuna, Matteo è di bocca buona; se avesse qualche pretesa culinaria, del resto, avrebbe smesso di frequentare casa mia da un po'... Io odio star seduta a tavola più del minimo indispensabile; anzi, se non ho ospiti, i miei pasti li consumo non a tavola ma davanti al computer. Non m'interessano i piatti elaborati, né i cibi che si digeriscono in una settimana; se ho voglia di vera goduria alimentare, mi basta tuffare il cucchiaio nella Nutella. Passo oltre il porto: qualcuno s'accorge di me, mi squadra con aria interrogativa. Tre uomini di mezz'età si affollano intorno ad una barca: uno di loro, quello col petto più gonfio e la coda da pavone, dev'essere il proprietario... Tè, furbacchione, occhio al redditometro!
Oltre il faro, riprendo a correre. Si fa sera, ormai. Matteo uscirà al casello di Albisola, mi farà uno squillo in quel momento. Infatti, lo squillo arriva, poco prima della galleria, ora che il vento sembra essersi placato. Le gambe son tornate alla corsa senza battere ciglio; quasi quasi, varrebbe la pena di andare ancora oltre... Ma gli occhi scrutano con ansia ogni sagoma di veicolo che s'avvicina. Il furgone bianco infine compare, puntualissimo, s'accosta pian piano. Attraverso di corsa l'Aurelia, lo raggiungo. Salgo e... Non c'è che dire, Matteo sa sempre come arrivare al cuore di una donna. Magari passando per lo stomaco: mi porge un meraviglioso pandolce genovese, un delizioso agglomerato di canditi, uvetta e pinoli con il peso specifico della ghisa. Con la fame che ho patito in tutto il giorno, e ottantasette km mal contati di marcia, non avrei potuto sognare di meglio. Qualche esitazione, più che altro per pura formalità, e poi, poste le gambe a riposo, metto in moto le mascelle. Sono convinta che, se i duecento km della Nove Colli Running dovessi correrli con le ganasce, conquisterei il record del mondo!
Son le cinque e trentacinque quando parcheggio l'auto nello spiazzo accanto all'ospedale. Questa volta non mi accoglie la neve, ma un cielo stellato che più limpido non si può; la temperatura è di ben nove gradi più alta rispetto a due sabati fa: -1°C, in luogo dei terribili -10 che quasi avevano fatto vacillare i miei propositi corsaioli. Quasi. La volta scorsa è stata davvero un'avventura: ottanta km di corsa a piedi, in autonomia, erano una distanza su cui davvero non avrei potuto fare pronostici. Ce la faccio, non ce la faccio, fin dove ce la faccio, e come? Tante preoccupazioni per nulla, perché poi quegli ottanta km, ottantaquattro per la precisione, son passati, uno dopo l'altro, con tanta fatica, ma conquistati. Con il ricordo, ancora fresco e bellissimo, di quell'esperienza, oggi parto un po' più tranquilla e cosciente di ciò che sto per fare.
Il rito è sempre lo stesso. Uccidere lo sbadiglio e, con esso, la tentazione di appoggiare la testa al sedile e riprendere il letargo interrotto con la sveglia alle tre e mezza. Controllare che nello zaino ci siano il telo termico, gli indumenti di ricambio per quando avrò finito la corsa, la giacca impermeabile, il portafoglio, la farmacia, la luce e la pappatoria. Indossare tutti gli strati di vestiario, le bande rifrangenti, le scarpe. Già, le fedelissime Nike. Qualcuno potrebbe pensare, a questo punto, che io abbia lo sponsor... Magari! Non ce l'ho; ho donato personalmente un quarto di fegato per comprare questo paio di calzature, ma non smetto più di pensare che ne è valsa la pena. Da qualche giorno, l'osso alla base del "mignolo", se così si può dire, del piede destro fa le bizze, è gonfio e duole al contatto con qualsiasi scarpa: le mie Nike però sono talmente morbide che sembra di indossare non una scarpa, bensì una calza. Infatti, mi basta muovere due passi per tirare un sospiro di sollievo: oggi il callo non sarà un problema. Non resta che mettere la chiave della Opel al sicuro. Poi, si parte.
La mia meta è, anche oggi, il mare. E' un'idea che mi affascina: partire da un luogo gelido e ben poco ospitale, nella stagione invernale, per raggiungere, dopo lunga marcia, altri lidi ben più accoglienti. E' quasi facile pensare di sobbarcarsi una faticaccia improba, se sai che alla fine sarai premiato dal tepore del sole, o ne hai almeno la speranza. Io credo nelle previsioni del tempo! L'intenzione è di raggiungere Finale passando dal Colle dei Giovetti e dal Colle del Melogno; una volta a Finale, se sarò in grado, vorrei tentare di correre almeno fino a Savona. Oltre, chissà: non appena Matteo avrà chiuso il negozio, con un po' di anticipo visto il giorno di vigilia, salterà sul furgone e mi raccatterà, arrivando da Genova, per poi riaccompagnarmi a Ceva e tenermi compagnia nel favoloso cenone di Capodanno a base di tortelli pronti, pane e formaggio. Conto su dieci, undici ore di tempo, suppergiù: vediamo quanta strada riesco a mettere sotto le suole.
Così meditando, mi avvio di corsa lungo la direzione di Ormea. Sono le sei meno un quarto: avrò davanti a me un paio d'ore di buio. Si fa per dire: quasi non mi accorgo di essermi lasciata alle spalle le luci della città e quelle del casello della Torino Savona; in mezzo ad un cielo limpidissimo brilla una luna tonda, o quasi, accecante come un faro da stadio. Un sorriso a trentadue denti, la cartolina di una bellissima cascina costruita un po' più in alto, sulla collina, la facciata bianca e squadrata che riverbera la luce della luna, è l'inizio della mia avventura. Mi costringo, fin da subito, ad un costante esercizio di pazienza. La strada è lunga, lo zaino pesante. Non posso permettermi di correre così come mi sentirei di fare. Dagli esperti di corsa, o sedicenti tali, ne ho sentite e lette di tutti i colori: bisogna fare passi brevi, per ridurre il salto e così il peso sul ginocchio; no, invece la corsa con il passo breve non va bene, perché allunga il contatto del piede col terreno; insomma, chi più ne ha più ne metta. Quale fondamento scientifico abbiano queste e mille altre affermazioni perentorie, lo ignoro; sarà qualunquismo, ma alla fine, secondo me, la ricetta è una sola: lasciare che le gambe vadano come vogliono, finché ne hanno, e non pensarci più. Solo, tirare il freno, non esagerare con l'entusiasmo, perché il minimo spreco di energie, su queste distanze, si paga caro. Pensare a tappe: davanti a me non ci sono gli ottantacinque km fino a Savona; per ora, ci sono i dodici della prima tappa, fino a Bagnasco.
Risalgo di buon passo lo stradone di fondovalle. La luna distingue i profili della montagna, nero contro nero, e il grigio della neve che ricopre i pendii: qui s'è fermata, ben più che in pianura. I rami spogli degli alberi sono prigionieri di un'immobilità quasi irreale; non un fruscìo di vento, solo il rumore lontano del fiume che scorre giù, al fondo del vallone. Corro lungo il guard rail, cerco le forme delle costellazioni: ne saprò riconoscere, sì e no, due o tre. Mi distrae un semaforo che impone il senso unico alternato, l'unico intoppo in questo tratto di strada larga e, già a quest'ora, parecchio frequentata. Mi conforta il pensiero che sia mercoledì mattina: è improbabile che si tratti di traffico di nottambuli da festa, assonnati o, peggio, ubriachi o strafatti; spero che i volanti siano saldamente in mano a gente che va a lavorare, o magari a sciare, insomma, che qualche ora di sonno alle spalle ce l'ha. Avevo anche considerato l'idea di partire da Bagnasco, anziché da Ceva, in modo da evitare il tratto di stradone: però, così facendo, avrei forse rischiato l'incontro ravvicinato con qualche bestio, che so, cinghiali, o anche solo cani di cascina, poco propensi a lasciarmi proseguire. Simili incontri, preferisco gestirli alla luce del sole! La strada tra Ceva ed Ormea, nelle primissime ore del mattino, non è poi così frequentata. Infatti, percorro i primi km in tutta tranquillità; ascolto i rumori della notte che sembra ancora fonda, anche se sta per finire. Le scarpe pestano ogni tanto un po' di neve, che cede, non è ghiacciata. In mezzo agli alberi, s'intuisce una casa qua e là, dal quadratino di luce gialla. Accendo il faretto che porto in mano solo quando sento avvicinarsi un'auto alle spalle: sono già visibile come un albero di Natale, in tema con il periodo, ma meglio abbondare. Vedermi, mi vedono eccome; non c'è un'auto che non rallenti, incrociandomi o passandomi accanto. Sono lunghi rettilinei, curve appena accennate; accanto a me corrono i binari della ferrovia.
A Nucetto, i primi cenni di vita: un bar illuminato, una tazza sul bancone attraverso i vetri appannati. A ben pensarci, non sarebbe affatto male un cappuccino caldo... Ma è troppo presto per pensare alle pause. Finestre che s'accendono, camini che fumano. Se fosse estate, forse potrei sentire il tintinnio delle posate della colazione, ma ora no, è tutto sprangato. Auto ancora abbandonate nei cortili, scintillanti di gelo: tra poco, qualcuno abbatterà santi e madonne per scongelare il parabrezza. Ancora una stazione di servizio, voci dal bar; un passaggio a livello, una strada che s'arrampica chissà dove. La linea bianca a bordo strada è la mia guida; il sale scricchiola sotto le suole.
All'ultimo accenno di curva, poco prima di Bagnasco, alla mia sinistra una striscia di azzurro rompe il nero uniforme del cielo. Mi si allarga il cuore: è sempre una sensazione stupenda, di sollievo e di gioia, quando mi accorgo che arriva il giorno. Benché io provi spesso ad affrontarlo, a rubargli un po' di spazio e di vita, il buio non è il mio elemento; insinua ansia, tensione, forse per i suoi rumori di cui non puoi vedere la fonte... O forse perché non ha rumori, e tu infossi la testa tra le spalle e ti aspetti che qualsiasi cosa ti cada addosso da un attimo all'altro. Quella striscia di azzurro mi toglie un vero macigno dallo zaino. Bagnasco;: tutti i cani del paese abbaiano all'unisono, furiosi, corrono all'impazzata su e giù per i cortili. Noto ora per la prima volta, passando tra le case, un paio di dipinti sui muri, dedicati al paese del "Bal do Sabre"; immagino si tratti di una danza, a giudicare dalle immagini, ma mi riprometto di documentarmi, quando sarò a casa.
Ecco, i primi dodici km sono andati. Obiettivo della seconda tappa, il Colle dei Giovetti, tra nove km. Mi lascio alle spalle le case di Bagnasco; passo sullo stretto ponte sotto cui scorre una corrente impetuosa; intravedo la ruota di un mulino, chissà se è tuttora funzionante. Sembra incredibile: basta cambiare mezzo di locomozione e, d'improvviso, luoghi che hai già attraversato più e più volte, in bici o in auto, diventano strade, boschi, paesi e montagne sconosciuti. Il viaggio a piedi, anche se di corsa, è eterno, vero. Però regala scorci e particolari che altrimenti vanno persi.
E' giunto ora il momento forse meno poetico, ma certo più impellente dell'intera giornata: la ricerca del luogo più idoneo per una sosta tecnica. Urge approfittare degli ultimi scampoli di buio. Un tratturo alla mia sinistra sembra fare al caso mio... Sono questi i momenti in cui occorre decidere senza esitazione ed agire senza indugio. Mi ci fiondo: com'è ovvio, in quel preciso istante, tutti il traffico a motore dell'intera Valle Tanaro, alta, bassa e media, si concentra lungo la strada dei Giovetti. Così, brache in mano, caracollo un po' più in là, dietro ai pioppi ed ai cespugli, nella speranza che i cani che sento latrare in lontananza non decidano di avvicinarsi e far colazione con il mio fondoschiena. Rischierebbero come minimo un'impennata del colesterolo, povere bestie.
Si sa che, quando ci si libera di un peso, la vita torna a sorridere. Riprendo a correre: poche centinaia di metri ed attraverso l'ultima frazione prima del colle, l'abitato di Massimino; perlomeno, l'ultima frazione visibile dalla strada principale. Ovunque, cataste di legno, composte con precisione da geometra; cataste di tronchi o di ceppi già squadrati, a forma di parallelepipedo o con la punta, a triangolo; profumo di legno fresco di accetta, profumo di legno bruciato nel camino. Neve, tanta neve per terra, anche se già da qualche giorno non ne cade più; neve spostata, accumulata e sporca. La salita vera comincia qui, con il primo tornante che avvolge il cortile di una casa. Il cielo è quasi chiaro, coperto di nubi che prima non c'erano; soffice coltre rosa, sembra quasi voglia far neve, davvero. Una luce fioca rischiara le cime degli alberi imbiancati, ma non arriverà qui, su questo lato della valle, che tra qualche ora. Man mano che corro e salgo, posso però vedere le cime dall'altro lato, quelle che godono dei raggi diretti del sole e s'illuminano man mano, dall'alto verso il basso. Al km 4, brilla l'acqua di una bella fontana: sembra quasi irreale imbattersi in uno zampillo così vivace, qui dove l'acqua sembra esistere solo in forma solida, immobile fotografia di ghiaccio e neve.
Scende di gran carriera il camion che sparge il sale; una cascata di granelli che schizzano giù dal cassone, rimbalzano, ricadono sull'asfalto e sulle mie scarpe. Sale e fanghiglia umida rendono la strada quasi più scivolosa dello stesso ghiaccio. La corsa adesso si fa più affannata: è salita, e si sente. Ma ormai conosco il mio cuoricino. Sulle prime rampe, e per un bel po' di tempo, soffre, il poveretto; come sempre, ha bisogno di una prima salita, lunga, e poi di una discesa, per riprendersi. Patisce, tossisce, sembra non volerne sapere di accelerare il battito. Sulla prima salita della giornata, se ascoltassi lui, ogni volta direi che non è aria, che è il caso di mollare tutto e tornare in branda, che non ce la farò mai ad arrivare in cima, né tantomeno a proseguire. Ho imparato a convivere con questa sensazione. Cerco di non curarmene e corro, anche se la mia corsa, in salita, è una forma di movimento che dà un vantaggio minimo, in termini di velocità, rispetto alla camminata, ma in compenso causa uno spreco ignobile di energie.
Grandi cartelli quadrati indicano i km percorsi da Bagnasco. Quando arrivo a quota cinque, cedo alla tentazione: da questo momento in poi, alternerò tratti al passo e tratti di corsa, per risparmiare un po' le gambe in vista della lunghissima sfacchinata. Il passo è una sorta di marcia affrettata e maldestra, un'empirica ricerca del migliore compromesso tra la lunghezza del passo, la rapidità del gesto e l'affaticamento dei muscoli. E poi dicono che io mi alleno alla carlona... Non è vero, io conduco veri e propri esperimenti scientifici! Che poi non capisca un accidente di quel che vien fuori da questi esperimenti, è un'altra storia... Languo alla vista delle cime illuminate dal sole: sono sempre le altre, mai questa! La vallata è inondata di rosa e di foschia sottile, che sfuma i contorni degli alberi e delle case. Taglio le curve, le percorro tutte nell'interno, fidandomi forse un po' troppo dell'assenza di traffico a quest'ora mattutina; meno male che il rombo del camion spargisale si sente da lontano: eccolo, il novello Schumacher dei pesi massimi che torna su. Approfitto di lui, e degli altri veicoli che incontro, per riprendere il trotto, quasi a voler salvare la reputazione di fronte a chi mi incontra quassù: come se a qualcuno dei viandanti potesse cambiare qualcosa, se io corro o cammino... Correndo e camminando, costringo le gambe a quei cambi di ritmo che tanto detesto, ma a cui mi devo abituare, sognando la Nove Colli Running. Attingo ad un paio di quadretti della mia riserva di cioccolato: una tavoletta da un etto, cioccolato bianco con mandorle e miele. Oltre a questo, ho un sacchetto da due etti e mezzo di frutta secca ed un paio di gelatine di frutta.
Non mi serve il cartello del km 8, per sapere che sono ormai in cima. La conosco bene, questa strada. C'è un edificio, non so se un ristorante o un albergo, con un'insegna consunta,. "Belvedere": non ho mai capito se sia ancora in attività, ma qui intorno non ho mai visto movimento. E poi, il profumo: corro per un tratto in mezzo ad una fittissima pineta, che riempe le narici del caratteristico profumo, quello buono e forte dell'essenza che mia mamma, quand'ero piccola, metteva in boccetta negli armadi per profumare maglioni e pantaloni. Se penso ai cassetti di casa mia, stipati di roba buttata lì a casaccio, altro che profumo... E' già tanto che non ci nidifichino i pipistrelli!
Inizia ora la lunga discesa verso Calizzano. Dovrebbero essere all'incirca dieci, undici km, ma solo sette o otto di vera discesa. Giù per i tornanti, anche qui tagliando le curve, ma con un po' di cautela in più, perché qualche auto, adesso, passa. Si allargano i raggi del sole: ma, sotto di me, la piana è già nascosta sotto una spessa coltre di nebbia, che sembra di veder le nuvole dall'aereo, anche se io sull'aereo non sono mai salita. Corro e richiudo la cerniera, perché la discesa fa spendere meno fatica, anche se alle gambe fa male come e più della salita; mi infilo le cuffie nelle orecchie e do libero sfogo alla musica del lettore Mp3. Mi guardo intorno, mi guardo i piedi; anche il granello di sale ha la sua minuscola ombra .
Un abbaio perentorio mi riporta alla realtà: uno, due, tre, addirittura quattro abbai con voci diverse, quattro cagnotti che spuntano fuori dalla boscaglia, dietro un guard rail. Mi si lanciano contro: mi fermo, ma solo per un attimo, solo il tempo di capire dai loro occhioni buoni che non hanno intenzioni bellicose, tutt'altro. Tendo loro le mani: il primo ad avvicinarsi è il più piccolino, di corpo e credo anche di età; un botolino a pelo raso, fulvo, il musetto aguzzo, il tartufo curioso che esplora le mie dita e trasmette alla coda un segnale di fiducia. Riprendo a correre, mi fermo ancora, torno a tendere le mani; non ci vuole molto perché altre due bestiole cedano alla tentazione di una carezza. Dispenso coccole su musi e teste; corro in compagnia, due mi precedono, due mi seguono, di tanto in tanto si fermano, non li sento più, poi rotolano oltre i miei piedi a valanga, saltellanti, giocherelloni. Alla fine capitola anche l'ultimo, forse il più anziano, un bel cagnone di taglia media, dal pelo nero e grigio e dalla folta coda ritta come un vessillo. Coccole anche per lui. Chissà da dove spuntano? Una casa ed un padrone li hanno di sicuro; tre di loro portano un collare e tutti sono belli, non certo denutriti, ben curati. Mi chiedo solo perché un padrone così premuroso lasci i suoi animali liberi su una strada che non sarà forse di grande passaggio, ma è comunque frequentata dalle auto.
Scendo l'ultimo tornante prima dell'abitato di Caragna: un uomo si affaccia al cancello di un cortile. I cagnotti sono rimasti su, prima del tornante: ad un richiamo, schizzano giù tutti e quattro, tagliando per il prato e gettandosi festosi addosso a quello che individuo come il padrone. "Le hanno dato fastidio?", mi domanda preoccupato. "Ci mancherebbe altro... Io adoro i cani!", rispondo. E, alla dolcezza con cui la mano dell'uomo accarezza il pelo delle sue bestiole, un papà orgoglioso, mi rimangio il rimprovero per averle lasciate incustodite.
L'abitato è immerso nell'ombra, derubato della luce del sole dalle nuvole che aleggiano a mezz'aria. Anche qui, grigio e neve sporca; un'anziana si affaccia sulla soglia di casa, ramazza un po' di strada davanti al gradino, per togliere immondizia che solo lei vede; la scopa non porta via nulla... Mi sono spesso domandata a cosa servissero le mezze porticine che, in certi luoghi, sono poste davanti alle porte vere e proprie d'ingresso dalla strada alle case, solo adesso, con la neve, lo immagino: sono forse una protezione in più dagli schizzi, dal fango, dall'acqua che si sollevano dall'asfalto quando passa un'auto? O dalla stessa neve? case dal sapore antico, ingressi a volta nei cortili; microscopiche aiuole addosso alle pareti, in cui langue una rosa sfiorita e gelata dall'inverno; orti in cui tutte le verdure prendono l'unico colore del gelo. Poi la campagna brinata, un lungo tratto di strada in piano, si passa su un torrente di poca acqua e ghiaccio, e un rudere di muri su cui campeggia un cartello. Vietato entrare. Ma entrare dove? Di questo edificio è rimasta a malapena la facciata; non ci si può entrare, non c'è alcun luogo in cui entrare; al massimo si può passare oltre la porta e ritrovarsi allo stesso modo fuori.
Il freddo qui è pungente, carico di umidità. Chissà se, e quando, il sole riuscirà a penetrare fra le nuvole basse. Percorro il rettilineo che precede l'abitato di Calizzano: si scivola persino sui giunti metallidi del ponte, tocca passarci con cautela. Supero il distributore, i palazzi della via; la splendida pineta sulla destra, tronchi dritti come fusi e, sotto le chiome, solo prato, lindo, pettinato e scuro, perché gli aghi son troppo fitti perché la luce vi possa passare. Ancora, i cartelli che segnaono i km percorsi da Bagnasco. Siamo a venti: al ventottesimo sarò in cima al Colle del Melogno. Per ora, si corre: la pendenza è minima, anche se basta già a mandare il cuore in affanno. Uno spartineve parcheggiato a bordo strada, munito di catene. L'abitato di Frassino: qualcuno è intento a spalar via neve dal cortile. Percepisco a distanza il profumo del pane: proviene da una botteguccia, piccola ma invitante; "Torte verdi, torte dolci, pane, pizza", recita il cartellone all'ingresso: una tentazione unica per la mia fame che già ora, troppo presto, è prepotente. Tentazione che respingo a fatica. Un anziano infagottato procede a passi lenti e prudenti lungo la strada scivolosa; anche le griglie dei cortili disegnano merletti bianchi di neve.
Anche qui, quando la salita si fa seria, preferisco alternare passo e corsa. Ne approfitto per attingere al sacchetto di frutta secca; l'importante è non fermarsi. Procedo un po' a marcia da bersagliere e un po' di corsa, quando la pendenza diminuisce appena, sulla strada sempre umida, talvolta invasa da una lingua di neve crostosa. Più salgo, più è ghiaccio: fili d'erba imprigionati in un sarcofago trasparente e scintillante; ghiaccio che riveste i muretti e le pietre, come il cioccolato che cola sul bordo della Torta Sacher. Non resisto alla tentazione: attraverso apposta la strada, stacco un pezzo di stalattite, da mordere a mò di ghiacciolo. Non è acqua che disseta, sembra quasi di non aver bevuto nulla. Le auto scendono caute sull'asfalto viscido; in lontananza, il rumore di una motosega che pian piano si avvicina: oltre una curva, un uomo è intento a tagliare ciocchi da un tronco e caricarli sull'Ape. Scorrono veloci i chilometri: ancora un po' di frutta secca, un paio di messaggi per rassicurare mamma e per comunicare a Matteo la mia posizione. "Sono abbastanza lenta", gli scrivo; almeno, questa è la mia impressione. Poi scorgo il muraglione dei Forti: ecco, un'altra tappa è passata, conclusa. Lo spiazzo sul colle è un acquitrino, ghiaccio e neve in via di scioglimento, fango, ombra e freddo; il camino della locanda è un pennacchio imperioso di fumo. Non posso sentirlo, ma lo immagino, il profumo dei primi piatti che circolano lì dentro. Ci sono già stata, qualche volta, ma solo per un fugace panino. Quassù d'inverno fa sempre un freddo assassino; per fortuna, a piedi lo si patisce un po' meno. E poi, oltrepassato il forte attraverso l'imponente porta di pietra, colonizzata anch'essa da vegetazione e colate di ghiaccio, sembra di ritrovarsi all'improvviso in un altro mondo. Pochi passi e si vede il mare, pochi metri ed è luce più calda, limpida, gialla. Anche se oggi c'è foschia verso il fondovalle, e nuvole spesse color cemento, spinte dal vento, che sembrano voler passare proprio dal bivio con la direzione di Pian dei Corsi. Avrei voluto scendere proprio da lì, da Pian dei Corsi; però, avvicinandomi dall'alto, mi rendo ben conto che quel versante della montagna è avvolto dalle nuvole e spazzato dal vento. No, è escluso: io ho voglia di tepore, di sole, per quanto possibile.
Appena prima del bivio, dal cortiletto di una casa affittacamere si affaccia, grintoso, un volpino: dietro di lui, a superba difesa, un maestoso San Bernardo, che con il suo abbaio grave ed imperioso conferisce credibilità al lungo, squillante, querulo discorso del suo minuscolo collega. Mi inchiodo; il bestione si avvicina, annusa la mano che gli porgo, scodinzola; poi, soddisfatto, se ne torna pigramente a sdraiarsi contro il muro di pietra, che restituisce un po' di calore dei pallidi raggi di sole.
Procedo lungo la strada principale: come piano B, scenderò verso Eze e Calice, per raggiungere Finale da lì. La discesa è lunga, interminabile: vorrei approfittarne per riposare un po', mentre le gambe continuano a correre, ma mi accorgo d'essere sempre più insofferente. Provo a distrarmi con il paesaggio: le cisterne di raccolta dell'acqua, in cui si specchiano il cielo e le nuvole; il mare laggiù in fondo, grigio come gli sbuffi di nebbia sospesi quassù; fiori, alberi carichi di cachi, arance, limoni; gruppi di case, profumi di pietanza. Intuisco sul pendio della montagna serpentine di strade, forse sterrate. Incontro un ciclista in mountain bike ed un arzillo signore dalla chioma d'argento, in maglietta e pantaloncini da mare, che sale spedito con gli skiroll. Ancora un po' di frutta secca, poi tento la strada della radio; ma quassù le stazioni che riesco a captare sono ben poche: così, alterno senza problemi i ritmi da discoteca di Radio M2O alla musica classica trasmessa dalla Rai. E mi godo il tepore del sole, un po' abbacchiato ma pur sempre gradevole, e mi riempo gli occhi dei colori che, sul versante opposto, non si faranno vedere fino a primavera. Le gambe, per ora, reggono bene.
La deviazione per Calice Ligure arriva dopo un'eternità. Non ne potevo più di quella discesa così monotona. Si scende ancora, ma per una strada secondaria. Un paio di tornanti mi ripiombano nel fitto umido della boscaglia; attraverso l'abitato di Eze, nell'ora deserta del pranzo. Mi tormenta la sete: la borraccia è vuota; punto con concupiscenza le arance ed i cachi che pendono dai rami: sono lì, quasi a mia disposizione... Molti non saranno raccolti, cadranno a terra e marciranno lì. Eppure non me la sento di allungare la mano. Ma il succo di un'arancia sarebbe il piacere più semplice e gradito, in questo momento d'improvvisa difficoltà.
Orti, giardini e fiori coltivati sui gradini strappati alla montagna e sorretti dai muretti a secco; ulivi e frutteti. Fa caldo ormai: per quanto mi spiaccia fermarmi, qui sotto, a Calice, tra pochi tornanti, è necessario che io vada a caccia di una fontanella e che mi levi di dosso qualche strato di troppo. Ormai sono al mare. Lo sento e lo respiro a pieni polmoni. Al paesino di Calice arrivo poco dopo, nei paraggi di un complesso immobiliare, nuovo ed orrendo, che ribattezzo immediatamente "casa della Barbie", viste le agghiaccianti tinte pastello. Uno dei tanti abominii di qualche fantasioso architetto che vuole lasciare il segno: e bisognerebbe lasciarlo su di lui, il segno... Il segno di un ferro da stiro abbattuto sul suo cranio! L'aborto edilizio ha però un vantaggio: offre una fontanella. Mi fermo un attimo, levo la giacca, riempo la borraccia e bevo come se non bevessi da dieci anni; ingollo un fruttino, poi ributto tutto alla rinfusa nello zaino, che ora diventa definitivamente un macigno. Due giovanii fidanzati portano a spasso un cuccioletto nero, una mamma rimprovera il figlio che vuol fare qualcosa che la farà stare in pensiero due giorni. E che mai sarà?
Riparto verso Finale, lungo un tratto di strada in leggera discesa, un po' troppo caotico per i miei gusti. Corro tra capannoni, magazzini ed il viadotto dell'autostrada sopra la testa; case abbarbicate tra la strada ed il torrente, numeri civici in ceramica, motorini e motocarrozzette che sfrecciano ovunque. Inutile cercar di guadagnare il marciapiede, tanto finisce subito. In dubbio se passare a Finalborgo, decido di non abbandonare la via vecchia per la nuova; mi ritrovo ad una rotonda familiare, nei pressi del casello dell'autostrada; ormai in pieno caos marittimo, m'infilo in Finale da lì. E cerco di approssimare una stima dei km percorsi finora: potrebbero essere cinquantacinque o sessanta, chissà. Non so nemmeno di preciso che ora sia: di certo è primo pomeriggio. Attraversare l'abitato mi dà angoscia e tensione: correre da un marciapiede all'altro, tra le auto ed i semafori, nel centro del paese, è rischioso ed odioso; mettere un piede in fallo, storcersi malamente, è un attimo. E poi, anche qui, devo resistere alla tentazione delle pizze all taglio. Slalom tra auto, motorini, scalini d'ingresso: finalmente tutto sparisce, arrivo al lungomare. Mi viene in mente un solo aggettivo, anche se è banale: bellissimo! Il cielo qui è tutt'altro che terso, anzi; è nuvoloso, grigio, soprattutto verso Savona. E il mare sembra arrabbiato: onde lunghe, schiumose, quasi minacciose per me che sono abituata alla placida immobile campagna piemontese. Tira un vento che scompiglia le palme, ma qualche raggio di sole qua e là buca la coltre di nubi. La temperatura, ora che ci faccio caso, è confortevole: un termometro segna nientemeno che sedici gradi. Il lettore Mp3 finisce in tasca: qualcuno dovrebbe provvedere a mettere il silenziatore al mare, altrimenti non si sente nulla!
La tensione si allenta, ora che posso correre sulla passeggiata. In spiaggia una fila di orme; attendo l'onda che le raggiungerà per cancellarle. Arriva, prima che io passi oltre la galleria. Qui la passeggiata aggira l'ostacolo e si protende a picco sul mare: mi arrivano in testa gli schizzi di un'onda malandrina, un po' più alta delle altre. Strilli e schiamazzi di un paio di turiste un po' avanti con l'età biologica, ma evidentemente un po'indietro con quella cerebrale: una signora dall'aspetto elegante, seduta sulla panchina con un libro in mano, le squadra con una muta occhiata che vale più di mille parole. Sapesse, signora, quanto sono d'accordo con Lei!
Poco fa ho dato un'occhiata al cartello che indicava le distanze: le cifre le ho già scordate, ma, se non altro, adesso so che troverò prima Noli e poi Spotorno. Avrò percorso l'autostrada un'infinità di volte, ma non ho mai mandato a memoria l'ordine dei paesi della costa; è proprio vero che la mente incamera le informazioni solo quando ne ha utilità. Questo è il caso: dopo sessanta e più chilometri di corsa, sapere a che punto si è rispetto alla meta diventa, a dire poco, vitale. Anche se, tutto sommato, non posso certo dire d'essere distrutta. Sono solo un po' tormentata dalla fame. Varigotti: significa che sono vicina al punto forse più suggestivo dell'intero viaggio. Infatti, già dall'abitato, vedo il lungo rettilineo che passa accanto ad un imponente anfiteatro di roccia bianchissima; a piedi, posso godermi lo spettacolo in tutta la sua bellezza, sperando che altrettanto non decida di fare qualche automobilista: altrimenti. la mia sindone resterà nei secoli spiaccicata sul parapetto di pietra. Oltre il parapetto, giù, si sentono gli schiaffi delle onde sulla parete di roccia, tonfi sordi che quasi fatico ad attribuire all'acqua del mare. Le onde sono davvero rabbiose, come il vento. Mi sorpassano due ciclisti, si lanciano baldanzosi in salita; uno schiaffo invisibile li ricaccia giù in sella, ferma la loro corsa, tra un attimo investirà anche me. E' la prima volta che penso alla pioggia, oggi. Naso all'insù, il sole è sparito: sulla mia testa, una cappa di nuvole alte, scure, sempre più scure, curioso contrasto con il bianco delle pareti a picco, e poi il sibilo del vento. I gabbiani non se ne curano: un esemplare, grosso, bello cicciuto, se ne sta sul parapetto, fissa il mare; si getta giù, in volo, solo quando gli arrivo ad un metro di distanza, e non pare spaventato. Altri due sono appollaiati, irriverenti, sulle reti che riparano la strada dal crollo di sassi. In questo tratto, alcuni semafori bloccano, all'occorrenza, la circolazione, in caso di pericolo di frana: pericolo più che reale, a quanto sembra; ricordo che, tempo fa, l'Aurelia è rimasta a lungo interrotta proprio per porre rimedio ai danni di una frana. Strillano, i pennuti. Un pescatore s'è arrampicato su uno scoglio, in posizione quanto mai precaria: spero per lui che sappia nuotare, e che, indossando gli scarponi, ci riesca, alla bisogna!
Si vede, in lontananza, l'isola di Bergeggi, grigia com'è grigio tutto, ora. Nei tratti da cui si vede la spiaggia, le onde fanno il ricciolo, il cavallone in miniatura; le maniche a vento, tese come se fossero inamidate. A Noli, ben pochi sono i coraggiosi che azzardano quattro passi, intabarrati in cappotti e cappucci. La temperatura in sé sarebbe ancora mite, ma l'aria che sferza la pelle fa venire qualche dubbio anche a me: sarà il caso di rimettere la giacca? Per ora, mi limito ad una velocissima sosta per bere alla fontana. La pancia brontola, reclama le sue spettanze; il guaio, caro il mio stomaco, è che di spettanze ne restano poche; tocca tirare la cinghia. Da Noli a Spotorno è quasi un attimo, uno schiaffo per gli occhi; spiccano solo le brutture, i palazzoni orrendi costruiti senza alcun gusto, addossati alla montagna che sembra quasi scavata per far loro posto. La passeggiata, con la luce del pomeriggio che sembra già quella della sera inoltrata; niente acqua dal cielo, per ora, ma chissà se tiene. Sono io, che non tengo più: a questo punto la fame si fa davvero prepotente. E le gambe sono stanche, che a me piaccia o no. Mi rassegno a percorrere duecento metri al passo, attingendo a piene mani alla busta della frutta secca; anziché passare nel centro di Spotorno, resto sulla strada di circonvallazione: sempre meglio la compagnia delle auto, che quella della folla. Stanchezza. Chissà quanto potrei correre ancora? Stanchezza è una condizione molto lontana dallo sfinimento; è quel momento in cui, si dice, la testa si sostituisce alle estremità inferiori e ti porta oltre le loro possibilità. Mah. Questi gloriosi proclami mi lasciano qualche perplessità. Sono io la prima ad amare le faticacce senza fine, ma, quando non ce n'è più, non ce n'è più; puoi avere una volontà di acciaio, di diamante, ma se le gambe ti mollano sei spacciato, punto. E se invece riesci ancora a trascinarti avanti, è perché forse avevi sopravvalutato la crisi. E' pur vero che le crisi arrivano e se ne vanno, questo l'ho già provato sulla mia pelle più di una volta; si passa con una facilità incredibile dalla sensazione di morte imminente a quella di "il mondo è mio!". Però arriva, prima o poi, quel confine oltre il quale non si può andare.
Non è ancora il mio caso, almeno fino all'isolotto di Bergeggi. Qui la marcia è ancora piacevole; il vento non molla, ma io mi sono imbozzolata nella giacca, ho indossato guanti e berretto, insomma sono ben protetta. Grotta di Bergeggi: chissà se interessa a Matteo... Già, lui, oltre a praticare la superficie terrestre a piedi e su due ruote, pratica anche gli anfratti infernali. La speleologia è uno sport da squilibrati, sostiene un amico; in effetti, sono d'accordo: la sola idea di tumularmi, mia sponte, in un cunicolo profondo chissà quanto, senza luce, senza spazio, magari anche senz'aria – a me l'aria manca già in una stanza chiusa ed affollata – sembra una pura e semplice follia, un atto di masochismo. Vero, Matteo non ha l'aspetto né l'atteggiamento di uno squilibrato; però, si sa che i peggiori pazzi criminali, nella vita di ogni giorno, di solito appaiono gli ideali vicini della porta accanto...
Le ciminiere di Vado Ligure mi dicono che potrei essere in dirittura d'arrivo. Forse. Difficile stabilire qual è la fine, se non sai con precisione quale sarà la tua meta. So che oggi Matteo è in negozio, ma non ho la più pallida idea dell'ora a cui chiuderà. E' il 31, ma, per quel che ne so io, potrebbe anche aver deciso di aprire con l'orario normale, quindi fino alle sette e mezza. A Porto Vado, le raffiche di vento sono violente e dirette in faccia: un ostacolo non tanto per la corsa, quanto per il respiro. Già in condizioni normali, alla visita medica sportiva, la mia spirometria restituisce puntualmente risultati poco confortanti. Mi concedo qualche decina di metri al passo e scrivo un messaggio via telefonino a Matteo per chiedergli un'idea dei suoi orari. Saranno quasi le quattro, ma questo posto spettrale sembra l'anticamera dell'apocalisse: le nuvole sono compatte, pesanti, sempre più scure, sembra vogliano piombare e schiacciare la terra da un attimo all'altro; tutt'intorno, le strutture del porto, i container rugginosi, fumo, rumore di metallo, di motori. Angosciante. E non sarà meglio per un bel po': dopo Vado c'è Savona, da attraversare tutta, da parte a parte. Mi intestardisco a correre ancora, un po' sul marciapiede, un po' sulla strada, tra sciami di passeggiatori festivi, ragazzini sui pattini, madame con le borse della spesa, e più di una volta rischio d'inciampare. Poi, proprio sotto il cartello con la scritta nera in campo bianco, "Savona", getto la spugna e mi metto a camminare. Il frastuono di clacson e voci è assordante; me ne isolo, tanto che quasi non lo sento più. Savona è la città natale di mio padre; ma, sarà perché non ho mai conosciuto i miei nonni paterni né alcun componente della famiglia, sarà perché il rapporto con il genitore non è certo idilliaco, non mi ci sento in alcun modo legata. La trovo orrenda ed invivibile, proprio come qualsiasi altra città, di pianura e di mare, turistica o anonima, calda o gelida che sia.
Da un cortile spunta il muso di un bel cane: razza indefinibile, corporatura alta e snella, pelo corto, bianco, a chiazze nere. Sembra spaesato; mi si avvicina timoroso. Gli porgo la mano; lo segue un altro cane, che ha qualcosa del pastore tedesco, anche lui timido, incerto. Sta proprio sul binario di scorrimento del cancello automatico, che all'improvviso comincia a chiudersi. Si chiude pian piano ma inesorabilmente: sembra che non ci sia alcun dispositivo di sicurezza che individua la presenza del cane. A poco più di un metro dalla chiusura, la bestiola volta il muso verso la pesante plancia di metallo che sta per colpirlo, si rattrappisce ma non si muove: mi sveglio dalla mia immobile sorpresa, butto un braccio nello spazio che resta, dall'alto verso il basso. Per fortuna, il cancello non s'è accorto del cane, ma si accorge di me; si arresta, torna indietro. Ricaccio i cani all'interno del cortile, con voce e maniere brusche, non certo per far loro paura, ma solo per allontanarli dal pericolo; poi riprendo la mia marcia, con il cuore in gola per la tensione.
La risposta di Matteo arriva con un po' di ritardo: del resto, l'immaginavo; già a mezzogiorno mi aveva detto di avere il negozio pieno di gente. Buon per lui. "Mando via gli ultimi clienti e parto; sono a Savona alle 17.30". Ossignùr! Ma io non voglio mica mandarlo in rovina! Il cliente non si caccia via, mai... Io posso andare ancora avanti, indefinitamente; ci s'incontrerà in un punto qualsiasi tra Savona e Genova. Povero Matteo, lo costringo troppo spesso a fare i salti mortali; un giorno o l'altro, mi manderèà al diavolo. Però il suo messaggio mi riporta il buon umore, anzi direi l'euforia. Sono contenta di vederlo, e poi so che lui apprezza queste mattane, ha la pazienza di sentirmi sfogare, lasciarmele raccontare, insomma si lascia investire da quella specie di esaltazione che mi invade dopo ogni impresa un po' folle, senza cercare di sottrarsi; ha la pazienza di un santo.
Seguo la strada principale, le indicazioni per Genova; di lì a poco, mi ritrovo alla Fortezza. Traffico, luci natalizie, frotte di persone dal passo affrettato, cariche di borse, pacchi, pacchettini; gli ultimi preparativi per il cenone di Capodanno. E il mio, di cenone, come sarà? Forse una pasta, o i tortelli, forse yogurt, di certo pane e formaggio, e poi un po' di frutta. Magari una latta di legumi, se mi va. Per fortuna, Matteo è di bocca buona; se avesse qualche pretesa culinaria, del resto, avrebbe smesso di frequentare casa mia da un po'... Io odio star seduta a tavola più del minimo indispensabile; anzi, se non ho ospiti, i miei pasti li consumo non a tavola ma davanti al computer. Non m'interessano i piatti elaborati, né i cibi che si digeriscono in una settimana; se ho voglia di vera goduria alimentare, mi basta tuffare il cucchiaio nella Nutella. Passo oltre il porto: qualcuno s'accorge di me, mi squadra con aria interrogativa. Tre uomini di mezz'età si affollano intorno ad una barca: uno di loro, quello col petto più gonfio e la coda da pavone, dev'essere il proprietario... Tè, furbacchione, occhio al redditometro!
Oltre il faro, riprendo a correre. Si fa sera, ormai. Matteo uscirà al casello di Albisola, mi farà uno squillo in quel momento. Infatti, lo squillo arriva, poco prima della galleria, ora che il vento sembra essersi placato. Le gambe son tornate alla corsa senza battere ciglio; quasi quasi, varrebbe la pena di andare ancora oltre... Ma gli occhi scrutano con ansia ogni sagoma di veicolo che s'avvicina. Il furgone bianco infine compare, puntualissimo, s'accosta pian piano. Attraverso di corsa l'Aurelia, lo raggiungo. Salgo e... Non c'è che dire, Matteo sa sempre come arrivare al cuore di una donna. Magari passando per lo stomaco: mi porge un meraviglioso pandolce genovese, un delizioso agglomerato di canditi, uvetta e pinoli con il peso specifico della ghisa. Con la fame che ho patito in tutto il giorno, e ottantasette km mal contati di marcia, non avrei potuto sognare di meglio. Qualche esitazione, più che altro per pura formalità, e poi, poste le gambe a riposo, metto in moto le mascelle. Sono convinta che, se i duecento km della Nove Colli Running dovessi correrli con le ganasce, conquisterei il record del mondo!
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