venerdì 6 settembre 2013

1 settembre 2013 - TOUR MONVISO TRAIL

Solo io posso esser capace di cotanta idiozia. Imbecille, imbecille, imbecille: imbecille al cubo. Solo io posso dare appuntamento all'uomo più bello e fascinoso che si sia mai visto sulla faccia della Terra, in una città, ad un indirizzo e ad un'ora che ho deciso io stessa, e riuscire a non trovarlo. Solo io posso mettermi a girare in auto come una trottola alle quattro del mattino, senza capir più nulla, in preda al panico, in un paese che conosco come le mie tasche, mentre il tapino continua a ripetermi al telefono che lui è proprio lì dove gli ho detto di trovarsi... Che per giunta è l'indirizzo di casa di mia sorella! Solo io posso perdere del tutto il lume della ragione, lasciarmi assalire dal terrore di non arrivare in tempo alla partenza della gara – fissata due ore e mezza dopo, in un luogo raggiungibile da qui in mezz'ora – e concludere desolata al telefono "meglio che ci troviamo là", dove "là" sta per Crissolo... Tra il buio e le lacrime di rabbia e vergogna che cerco invano di ricacciare indietro, guidare fin lassù diventa un'ardua impresa. Fa brutti scherzi la tensione pre gara: beh, forse, ad essere del tutto sincera, non è tutta colpa della gara... In ogni caso, lo è in buona parte. Sono giorni che penso a questo trail ed alla possibilità di provare ad affrontarlo, per una volta, in modo un po' più deciso del mio solito. Però, cavolo... Manco la mia fosse una lotta per il podio! Ad andar bene, la mia vittoria sarà riuscire a rientrare entro il tempo massimo...

Il meraviglioso è già arrivato. Vorrei potermi seppellire sotto una tonnellata di terra, per non dire altro... Sono un'incommensurabile idiota. Lo so da tempo, di essere un'incommensurabile idiota, solo che ogni tanto cerco di dimenticarmene... Ma poi capita qualcosa che mi riporta brutalmente alla consapevolezza. Quasi non oso scendere, è lui che si avvicina alla mia auto e cautamente bussa, con la faccia di uno che ha il dubbio di avere a che fare con un pazzo alla Jack Lo Squartatore, con sembianze femminili però. Rassegnati, Gian. Anzi, rassegnati, Gianca, così almeno evitiamo confusioni, visto che è un Gian pure lui. Non hai difesa... Tantovale che ti accetti per quel che sei. Un'idiota. In fondo lui è un animo buono, non te lo fa neanche pesare.

Sono le cinque o poco più, si parte tra due ore. Le volontarie sono già ai posti di combattimento per distribuire i pacchi gara: pettorale, chip ed un'infinità di cose buone, dalle merendine al succo di frutta alla confettura... E, luce dei miei occhi, una bellissima maglia tecnica da indossare alla pelle, di quelle che non restano bagnate, una meraviglia. Caffè e quattro parole, mentre in piazzetta, al buio, fervono i preparativi per il via. Ma io qui non resisto, preferisco la solitudine: rintanarmi in auto e cercare un recupero di sonno che tanto non arriverà; controllare mille volte il marsupio e l'equipaggiamento. Per oggi, visto che 43 km sono una distanza abbastanza contenuta, ho deciso di "osare": niente zainetto, solo il bel marsupio che ho ricevuto nel pacco gara del Tartufo Trail, niente bastoncini e niente borraccia. La mancanza d'acqua al seguito non mi preoccupa, sia perché di solito bevo pochissimo, sia perché lungo l'itinerario si trova acqua quasi ovunque. Rinunciare ai bastoncini invece è un azzardo.

Il brulichìo di atleti ed accompagnatori cresce e, con esso, la mia agitazione. In auto non resisto più: prendo il marsupio, mi lego le scarpe, esco. Decido per una cioccolata, ancora: peccato che il portafoglio sia rimasto in auto... Altra corsa, vai, torna; meno male che Crissolo è un paesetto grande un pugno e le distanze sono minime... La barista deve aver avuto più o meno la stessa impressione di me del pover'uomo bellissimo.

Finalmente arrivo alla partenza, intruppata tra decine di altri corridori. Ne conosco tanti e quasi non ne riconosco nessuno, per la tensione che mi annienta anche quel poco di vista da miope. Beh no, il bellissimo lo riconosco, meno male che decide prudentemente di allontanarsi... Ci manca anche che mi si surriscaldi l'ormone, già peraltro discretamente agitato, e sono a posto. Capace che percorro il giro al contrario. L'attesa per la partenza mi sembra eterna...

Il via esorcizza tutte le mie paure. Parto di corsa, sì, proprio così. Non l'ho mai fatto, anzi, me ne sono sempre ben guardata... E invece oggi parto di corsa. Supero il bivio con la strada asfaltata di Pian del Re e seguo la massa su per il sentiero che si stacca sulla sinistra, oltre il ponte. Saliscendi in mezzo al bosco, sentiero ora strettissimo ora quasi una strada; foglie verdi, acqua ovunque, intorno ancora tanto fiato per chiacchierare. Il fiato è corto, ma non come pensavo. Calma. Ce la faccio: non devo esagerare; correre sì, ma senza strafare; piano, regolare, un po' più lenta di quel che mi sento. Piano, concentrata, non inciampo. Brevi discese, strappi in salita: un percorso nervoso ed irregolare che ci porta a sbucare a Pian della Regina, proprio di fronte alla Baita della Polenta. Un pastore ci osserva, evidentemente perplesso per i nostri visi stravolti: in un bel piemontese di montagna, osserva "Ma, se andassero un po' più piano, faticherebbero meno...". Come dargli torto?

Un bicchiere di the e si riparte, destinazione Pian del Re. Accendo il lettore Mp3, cuffie nelle orecchie. Si comincia con le note di Cher. Il sentiero sale blando fino al pianoro; non ci sono più alberi intorno, solo prato, rocce e tane di marmotta. Poi s'inerpica tra rocce e pietrisco per superare il salto della cascata: tornantini stretti e strappi secchi. Sono ancora in mezzo alla massa: mi compiaccio, di norma a quest'ora sarei già rotolata in ultima posizione o quasi... Altro ristoro idrico, altri due bicchieri di the al rifugio: altra partenza, guai a perdere tempo. Arrivo di corsa al sentiero che sale al Colle Traversette: dobbiamo percorrerne un buon tratto, prima di imboccare a sinistra la traccia per il Rifugio Giacoletti. Calma Gian che scoppi... Calma che scoppi... Ma stavolta non ce la faccio. Mi prendo una lepre di riferimento, la inseguo, ne scelgo un'altra ed inseguo ancora... Ci sono un bel sole ed il Monviso sopra la mia testa, ma io non ho ancora alzato gli occhi da terra.

Il primo bivio è il nostro. Ci ritroviamo su per una vera salita da capre: prima sentiero stretto e molto ripido, poi sentiero ancor più ripido, dove usare le mani, dove salire facendo un passo avanti e due indietro. Salgo bene, supero gente, mi gaso a dismisura: va a finire che prima o poi scoppio... La salita non molla, supera una balza dopo l'altra; ci vuole un bel po' perché il colle si individui contro il cielo, là dove sventolano le bandierine del rifugio, ed un altro bel po' per arrivarci. Nonostante manchi l'aiuto dei bastoncini, per ora le gambe sono ben reattive. Ma sarò capace di correre in discesa? Quello non l'ho proprio mai mai fatto...

Al ristoro del Rifugio Giacoletti, breve pausa a base di pane, marmellata, formaggio e barrette Kinder, un orribile misto che a me però sembra manna dal cielo. Alzo il volume della musica e mi fiondo in discesa: il minimo che possa aspettarmi è di sfasciarmi la faccia al primo salto... Invece no: riesco a correre, a saltare, ad appoggiare sicura, e pazienza se mostro la leggiadria di un cinghiale intasato. Mi lascio persino qualche avversario indietro. La conosco, questa discesa, so che non è uno scherzo. Eppure in breve arrivo in vista del primo lago e poi del secondo: non so mai quale dei due sia il Fiorenza... Breve risalita e ancora giù, a valanga; sono ancora in piedi e non me ne capacito... Merito delle scarpe, questo è poco ma sicuro... Ma non solo!

A ruota di alcuni colleghi, mi ritrovo sul sentiero che sale al Rifugio Quintino Sella. Si torna a lottare contro la gravità, eppure oggi mi sembra tutto troppo facile... Prendo il mio passo, mani dietro la schiena e su, un piede avanti all'altro, poco poco ma inesorabilmente. Gentilissimi, gli escursionisti si fanno sempre da parte, salutano, incitano. Risaliamo la pietraia: anche da qui, la vista sul Monviso sarebbe uno spettacolo... Se solo si alzassero gli occhi da terra. Un'altra volta, magari, adesso bisogna andare. Inseguo Domenico, già sorpassato in discesa, che mi ha appena risorpassata: è un onore riuscire a restare nei paraggi di un personaggio che corre la maratona in tre ore ed un quarto... Per adesso, è lui il mio riferimento.

Anche la pietraia... Mai affrontata così. Di solito è il mio spauracchio. Ma non oggi. Scollino in vista del lago: sul tratto in piano e leggera discesa, metto le ali ai piedi. Lo so, son sicura che, non appena le gambe cominceranno ad accusare la stanchezza, ruzzolerò per terra. Ma Gian, non fasciarti la testa prima d'essertela rotta... Provaci! Alla peggio, poi, scoppi...

Al Quintino Sella, ottimo ristoro e tanta gente venuta fin su a vedere la gara. Mi strafogo di barrette Kinder e bicchieri di sali, tutta contenta d'essere ancora in buona posizione, che per me significa non proprio ultima e reietta. Pochi istanti e via: da qui al Passo San Chiaffredo, è corribile. E questa volta devo correre. Mi fiondo, infatti: non mi capacito di quanto le gambe siano sciolte ed ubbidienti, oggi. Che sia l'effetto degli ormoni in circolo? Ma allora devo prenotare l'assistenza del bellissimo a tutte le gare possibili ed immaginabili future... Devo ordinargli di piazzarsi ignudo nei punti strategici dove per me è più probabile andare in crisi!

Un salto dopo l'altro, in lontananza torno a vedere Domenico, che però ha una falcata assassina. Lo inseguo, ma senza riuscire ad accorciare la distanza. In compenso, come previsto, arriva il primo capitombolo. Meno male che la salita riprende, almeno un po', fino al Passo Gallarino: la testa comincia a girare... Devo dare il tempo alla pappatoria di entrare in circolo. Brividi: sarà stanchezza o il freddo quassù? Siamo quasi a quota 2.800 m dopotutto. Il sole comincia a velarsi, qualche nuvola qua e là. Quanta gente a fare assistenza ai corridori: nugoli di angeli custodi dappertutto! Mi salutano al Passo Gallarino. Via, di corsa verso il Passo San Chiaffredo: è proprio lì, nel tratto in piano che scorre accanto al laghetto, che riesco finalmente a raggiungere il buon Domenico. Mi sento un po' carogna: questa volta sono io a sfruttare l'altrui difficoltà in discesa... Ma io oggi ho nelle vene un doping tutto naturale e potentissimo. Mai e poi mai mi sarei sognata di affrontare la discesa dal Passo San Chiaffredo verso la Val Varaita così. Di corsa! C'è da dire che un gran vantaggio arriva, inaspettatamente, dalla mancanza dei bastoncini... E soprattutto dello zaino. Il senso di libertà di movimento, quando ho la schiena libera da pesi, per me è impagabile. Basta anche uno zainetto piccolino e leggero a darmi fastidio...

Sono davvero tanti gli escursionisti che salgono di qua. Mi sembra, ogni tanto, di fender la folla. Raggiungo altri tre corridori un po' più impacciati, passo oltre, entro nel bosco, giù a perdifiato tra sassi e radici. Continuo a non credere a me stessa. Sono allibita e felice... Ma durerà?

A Plan Meyer, altro capannello di assistenti in giubba rossa. Qui si abbandona il sentiero che scende in Val Varaita e si imbocca quello che raggiunge il Rifugio Bagnur. Lo aggredisco con molta baldanza: il minimo che mi possa succedere, di conseguenza, è di appoggiare incautamente il piede su una roccia viscida, superando un torrente, e di rovinare pesantemente al suolo, picchiando proprio l'anca destra sulla pietra. Per qualche istante, non vedo e non capisco più nulla: il dolore è violentissimo, da piangere. Poi, pian piano e bestemmiando in ogni lingua nota e sconosciuta, mi rimetto in piedi: ma ci vuole ancora un po', prima di potermi raddrizzare del tutto e poter ripartire...

Il dolore è forte ma, con il movimento, pian piano si attenua un po'. Brucia, anche: si vede che mi son portata via un po' di pelle. Non voglio neanche saperlo. Zoppicon zoppiconi, riprendo la corsa, un po' più incerta e preoccupata: mi sento fiacca, adesso, forse per lo spavento, forse per la fame o per entrambe le ragioni. Questo bosco, che poi è il meraviglioso bosco dell'Alevè, non finisce più e mi mette l'angoscia... Corro con meno convinzione; quasi patisco la breve risalita nel fitto del bosco. Per fortuna, il Rifugio Bagnour appare come un miraggio: desideratissimo, il ristoro.

Dalle parole di uno dei volontari, capisco che ho impiegato cinque ore e mezza ad arrivare fin qui: ed io che temevo di sforare il cancello delle sette ore... Mi concedo qualche minuto di tregua, pane, marmellata, acqua e sali: riparto, in effetti, piena come un uovo. Meno male che la salita comincia subito: novecento metri di dislivello, stavolta del tutto sconosciuti. Il Passo Calatà è ignoto: so solo che mi riporterà sul Passo Gallarino. Pare, a detta di molti, che toccherà spargere lacrime & sangue per arrivare lassù... Non riesco a rendermi ben conto di come sto. Affronto con cautela i primi passi: le gambe mi sembrano un po' tese e stanche. Passo regolare, ma già sufficiente a riacchiappare qualche avversario. E, di conseguenza, a gasarmi per bene.

Si sale per un po' in mezzo al bosco, tra pietroni e radici che impediscono di prendere una falcata regolare. Poi la quota spazza via gli alberi: resta un bel sentiero che sale su fino ad un pianoro. Superata quella balza, sollevo lo sguardo e... Davanti, un'altissima parete scura, un'infinita pietraia. Lassù... Ma dove? Mamma mia... Non ci riesco, sono stanca... E più lo penso, più mi metto a correre. Gli applausi di un gruppo di escursionisti appollaiati su una collinetta fanno l'effetto di un fiammifero su una tanica di benzina. Di qui, la salita si fa quanto più possibile cattiva: si sale sulle pietre, spesso tocca aiutarsi con le mani per restare in equilibrio, e poi su per la pietraia, il fiato sempre più corto, il petto che fa male, i muscoli che urlano. Non voglio mollare. "Ma tu sei Giancarla? Vai Giancarlaaaa", un urlo che mi dà la scossa, ancora su per la pietraia ormai ripidissima, e qui sì che vorrei i bastoncini... Com'è nera questa parete; forse è l'effetto della nebbia che incombe appena più in alto dei duemilanovecento metri del colle. Un altro volontario di guardia: "Un quarto d'ora e sei su", come, un quarto d'ora, io non ce la faccio più già adesso... Ancora pietre, ancora sforzo, mani sulle ginocchia, dai Gian forza... Non mollare... Il gruppo di volontari lassù sul colle, sempre più vicini, dai che ormai è fatta...

Scollino in un'atmosfera da film horror, una sterminata pietraia nera, la nebbia grigia, il vento freddo. Paesaggio che stride con i sorrisi e le urla entusiaste di chi veglia su di noi, quassù. Il primo tratto di discesa, beh... Sfido chiunque, a correrlo. Non c'è nemmeno un sentiero, solo una fila di bandierine da seguire alla bell'e meglio. Poi, pian piano, la faccenda migliora, anche se un paio di voli rischio di concedermeli. Altri volontari, sul pianoro: un bicchiere d'acqua, graditissimo, anche se adesso qui fa quasi freddo. Via, di corsa, lungo un sentiero finalmente bello e praticabile che, con impercettibile salita, mi riporta al Passo Gallarino senza che io quasi me ne accorga. Ha avuto coraggio, colui che ha deciso di inserire il Passo Calatà nel percorso: guai se lì fosse calata la nebbia... Hai voglia a metter bandierine: si sarebbe trovata gente sparsa per tutta la pietraia! Per fortuna, è andata bene ed è stato un fantastico colpo d'occhio.

Ali ai piedi, Gian, ormai è fatta o quasi. La salita è quasi tutta alle spalle. Il lettore Mp3 suona "The Final Countdown", mai colonna sonora fu più azzeccata. Devi proprio solo sbrigarti: possibilmente, senza schiantarti al suolo proprio adesso... Chissà, magari la meraviglia in forma di masculo è ancora a Crissolo... Chissà da quanto tempo è già arrivato, chissà se avrà pazienza.

Il sentiero verso il Rifugio Alpetto è bello, agevole, senza pendenze impossibili. Solo in qualche tratto, il pietrisco diventa insidioso. Il rumore della cascata, quando ci arrivo di fianco, è tale da coprire quasi il volume della musica nelle orecchie. Al bivio per il Quintino Sella, "cinque minuti", mi dicono: beh, forse un po' di più... Ma, curva dopo curva, alla fine anche l'Alpetto compare. Ultimo ristoro: ancora barrette Kinder, le adoro, e persino un pezzo di anguria. Un paio di minuti, non di più. Il cielo è plumbeo, le frange delle nuvole arrivano fin quasi a lambire la mia strada, ma che importa? Otto chilometri, tutta discesa, sostiene il volontario. Al che, mi metto una mano sui gioielli di famiglia, metaforicamente s'intende: quando sento dire "tutta discesa", minimo minimo c'è ancora una parete da superare con una scalata di settimo grado...

Corro lungo il torrente, sul pianoro; un po' di saliscendi e poi una splendida picchiata giù per un sentiero che scende addossato alla parete nera. Sarà questa, immagino, la Rocca Negra che non conoscevo. Nelle orecchie gli Stadio, "Un disperato bisogno d'amore". E poi... Un lunghissimo, interminabile traverso in leggera salita – altro che tutta discesa – taglia il pendio erboso, in certi punti anche parecchio ripido in caso di inopportuno volo. E poi ancora chilometri di prato da attraversare, correndo lungo il filo che delimita il confine per il pascolo dei bovini. Un tratto che, in altri tempi ed in altre circostanze, mi avrebbe gettato nel più nero sconforto per la monotonia e la difficoltà, così vicina alla fine della gara... Non oggi, sembra che le gambe non vogliano più rassegnarmi al passo. Sembra che oggi le gambe non siano le mie. Raggiungo ancora, inaudito, qualche concorrente; riesco a non farmi staccare dagli altri – pochi, inaudito – che ancora mi raggiungono. In vista di Serre Uberto dall'altra parte della valle, passiamo accanto ad un alpeggio; ancora prato, rognosissimo, tutto buche e sassi insidiosi sotto l'erba: calma Gian, mantieni il controllo... Prima o poi finirà, deve per forza finire! Infatti, finalmente, curva secca a sinistra e ci si butta nel bosco. Finalmente si perde quota. Accelero ancora, incurante delle raccomandazioni di cautela per il fondo scivoloso nel sottobosco; le voci di Crissolo: incontro ancora qualche escursionista, poi finalmente i primi tetti, l'asfalto, il ponte... Gli ultimi metri nel centro di Crissolo, l'arrivo. Confusa e contentissima, nove ore e dieci per 43 km e poco più di 3.000 m di dislivello, lungo un percorso parecchio rognoso; un'eternità, in assoluto, ma un tempo più che lusinghiero per me. Percorso splendido, tra l'altro, meglio ancora del tradizionale giro del Monviso.

Accolgo con molta gratitudine la confezione di Estathe: sono talmente suonata che quasi non riesco ad infilar la cannuccia... Poi mi avvio, un po' stordita, verso l'auto, parcheggiata proprio lì vicino. Talmente stordita che solo quando ci arrivo, mi ricordo di spegnere il lettore Mp3. Nessuna traccia della meraviglia in giro... Beh, sarà già partito. Mando un messaggio: "So che non ci credi, ma sono già qui". Incredibile dictu, è ancora nei paraggi: sta a magnà, tanto per cambiare...

Il mio desiderio più forte, in questo momento, è la doccia. Di mangiare non se ne parla. Le docce sono messe a disposizione dall'albergo sulla piazzetta: fantastico, troppo gentili! Un po' di coda e poi il meritatissimo, questa volta sì meritatissimo, scroscio d'acqua bollente sulla pelle... Somma goduria, levo via un chilo buono di polvere. Quando scendo, il portatore sano di quasi offensiva bellezza è lì al tavolino, davanti ad un bicchiere di Coca Cola: ma sì... Concediamoci ancora quei dieci minuti di contemplazione. Evidentemente deve aver deciso che non sono pericolosa, nonostante la performance psicopatica di questa mattina. Non adesso, di sicuro... Mi gira troppo la testa per essere minacciosa; ci vuole il soccorso di un caffé con lo zucchero. Mi gira per colpa della gara, intendiamoci, anche se, davanti a questo personaggino qui, qualunque fanciulla rischia qualcosa di simile alla sindrome di Stendhal... In trentadue anni di poco onorata esistenza, un simile esemplare di masculo non l'avevo ancora mai veduto, parola mia. Non me lo sarei certo dimenticato, altrimenti.
Se poi proprio mi concentro ed immagino di avere davanti un mostro inguardabile, riesco persino a passare oltre ed a concentrarmi su quel che dice: è anche simpatico, il marrano! Sette ore e mezza per lui.. Porcaccia miseria. Inarrivabile. Gnocco e pure forte, ha tutte le fortune.

OK Gian, è ora di tornare con i piedi per terra. E il deretano in pianura, a Carmagnola. Quei dieci minuti di tentativi per far partire la Zafira, che oppone strenua resistenza all'avviamento... Malgrado i commenti scettici dei viandanti, il rottamone ce la fa. Si parte: almeno fino a Paesana dovrei arrivare, è tutta discesa. Arrivo invece fino a casa, sia pure combattendo con il mal di testa, i morti di sonno al volante delle utilitarie ed il caos carmagnolese per la Fiera del Peperone. Mi restano un livido enorme, nero, sull'anca destra, e lo stupore per aver corso così come ho corso. Tra due settimane, tocca alla Valle Maira Skymarathon: e se provassi a fare il bis? Per la gara di oggi, il premio per il vincitore era il barattolone da cinque chili di Nutella, ma l'ho saputo soltanto dopo... Se il 15 settembre sarà in palio lo stesso premio, allora lotterò per la vittoria!




giovedì 15 agosto 2013

10 agosto 2013 - LOMBARDA, BONETTE, MADDALENA IN COMPAGNIA

Vorrei porgere di persona i miei complimenti a colui che ha progettato l'autostrada per Cuneo, perché un giro più arzigogolato di questo sarebbe stato ben difficile da concepire. Il buon Walter è scusato, è forestiero, non è pratico della strada statale... Ed io non oso troppo insistere, ma in questo caso la strada statale sarebbe senz'altro più rapida, pur con tutti i limiti di velocità. Carmagnola, Marene, Fossano, Cuneo, voilà, altro che questi mille rovelli di curve e controcurve e svincoli che ci portano a casa del diavolo! Mi ci vuole un bel po' per raccapezzarmi e capire dov'è che siamo sbucati... In pieno centro a Borgo San Dalmazzo: geniale, non c'è che dire! Malimortacci...

Per fortuna, si preannuncia una giornata splendida, con un cielo blu da far dimenticare i disguidi automobilistici. Il tempo di un caffé a Demonte e si riparte: il punto di partenza per oggi è Vinadio, sulla piazza "dei camper". Saremo in tre: Walter, Alessandro ed io, l'Armata Brancaleone all'assalto del mitico giro dei tre colli. Gruppo perfettamente omogeneo, direi: Alessandro dotato di bici da corsa d'ordinanza e fisico tiratissimo, senza un filo di grasso, il polpaccio tutto un muscolo guizzante; Walter ed io in mountain bike, sia pure con assetto stradale, e fisico... Ehm diciamo diversamente asciutto. Beninteso, i muscoli guizzanti li abbiamo pure noi, solo che li teniamo adeguatamente al sicuro sotto un morbido strato isolante. Però una cosa l'abbiamo in comune, tutti e tre: sfoggiamo orgogliosamente la divisa bianca, nera ed arancio del Team Nordovest.

Sbrigati i preparativi, l'Armata Brancaleone si mette in marcia in direzione del bivio per il Colle della Lombarda: trascinata dall'entusiasmo, per poco non mi faccio stirare da un autoarticolato già al primo colpo di pedale. Breve tratto di illusoria discesa, che sarà un calvario in risalita alla fine della giornata, e poi subito a sinistra: via dal traffico dei camion che affollano la Valle Stura, ma in compenso tormentati dal traffico di auto e moto di turisti, pellegrini e compagnia cantante. Attacchiamo la salita, 21 km per 1.400 m di dislivello, entusiasti e baldanzosi, ben sapendo che solo uno di noi potrà permettersi entusiasmo e baldanza anche dopo i primi due chilometri. Abbiamo ancora il fiato per chiacchierare tra noi e salutare a gran voce chi sale a piedi, trascinandoci nel contempo su per il primo "scalino" a tornanti oltre l'abitato, per il tratto lungo il torrente, per la risalita verso le baracche diroccate. Per me il tornante è sempre un toccasana: anche dal punto di vista psicologico, una salita a tornanti è mille volte più domestica di una lunga rampa, a parità di dislivello. L'ombra scura copre ancora buona parte delle montagne intorno; solo le cime brillano di una luce viva ed intensa. L'aria è ancora fredda, troppo per levare via il gilet. E' Walter, alias il President, a dettare il ritmo su questa prima ascesa: devo dire che faccio una certa fatica a stargli dietro. Mi tocca spendere parecchio tempo in piedi sui pedali, almeno finché mi ostino a non voler usare la coroncina anteriore più piccola, ma ho come la sensazione che pagherò la mia audacia.

Il tratto centrale in falsopiano offre a tutti l'occasione di rifiatare. Ci si scruta a vicenda: Alessandro probabilmente preoccupato per la possibile prematura dipartita dei suoi compagni di viaggio, causa fatica e stenti; Walter ed io impegnati a non cedere l'uno all'altra la posizione di coda nella carovana. La maglia nera è sempre stato un titolo ambitissimo tra noi paracarri DOCG!

Oltre il bivio per il Santuario di Sant'Anna, possiamo sperare di esserci liberati di una bella fetta del traffico d'auto, anche se i viandanti a motore non mancano nemmeno quassù. Le forze per menar la lingua ci sono ancora. Mi stupisco di come Alessandro riesca a resistere a quest'andatura da bradipo stanco, lui che è capace di concludere una Nove Colli in poco più di sette ore... Eppure non si allontana di un metro e riesce persino a mascherare il disgusto!

Finalmente, usciti dal bosco, ci ritroviamo con un po' di sole e tepore sulla schiena. L'ambiente è da cartolina: prati, laghetti, cielo terso, nemmeno un batuffolo di nuvola. Gli ultimi cinque km concedono un po' di respiro ma infliggono anche qualche rampetta traditrice... Proprio su una di queste, il President fa un allungo e si invola verso il colle. Pochi metri ed Alessandro ed io scopriamo il motivo: Walter ha immolato i suoi polpacci per arrivare prima, afferrare la macchina fotografica e scattare un'istantanea ai suoi due compagni di viaggio. Quasi quasi c'era da inscenare uno scambio di borraccia in stile Coppi & Bartali...

Approfitto dell'appetito dei due colleghi per portarmi avanti con il lavoro in discesa. Lenta come sono, se non mi avvantaggio un po', rischio di costringere i tapini ad un'attesa eterna giù ad Isola: beh, eterna ma neanche troppo, da quando viaggio in MTB. In effetti la discesa in Francia per la strada della Lombarda, con il potente mezzo ed i freni a disco, è divertente persino per me: strada larghissima, asfalto impeccabile, tornanti ampi. Il tratto verso il fondovalle è un imbuto ancora tutto in ombra e ben poco confortevole quanto a temperatura...

Ad Isola, tappa obbligata per svestizione e pieno alle borracce, nonché la mia immancabile visita all'adorato "wc public". Poi mi tocca affrontare l'incubo: quella decina di km o poco più verso St Etienne... Odiosissimo tratto con leggeri saliscendi dove io di solito mi pianto come un paracarro. Infatti, i miei due compari si avviano con cautela... Ma io resto subito parecchio indietro. E che barba. Le gambe, in pianura o simile, non girano, non ne vogliono sapere. Io sbuffo, impreco in silenzio, ma non c'è verso. Quando i colleghi si accorgono del vuoto alle loro spalle, passano in modalità di marcia "carro funebre" e mi permettono di riavvicinarmi.

Nei pressi di St Etienne, suggerisco di imboccare la strada sulla destra, dotata di pista ciclabile, abbandonando la principale, perché "c'è meno traffico": infatti, l'unica auto che incontriamo è quella che invade la pista e per un pelo non ci fa volare tutti e tre per aria come birilli, scatenando le sacrosante ire del President. Appena oltre il paese, poi, inizia la lunghissima ascesa alla Bonette. 25 km, circa: blandi, all'inizio, poi sempre più severi, complice la quota. Si arriverà a superare quota 2.800 m. Il caldo ora è adorabile: per alcuni senz'altro una temperatura da forno; per me, freddolosa inguaribile, si sta appena appena bene.

Procediamo più o meno insieme, a parte qualche inevitabile distacco mai comunque eccessivo. Il President accusa un po' di malessere, dovuto, dice lui, alla pressione: preferisco tenerlo d'occhio, questo soggetto pericoloso; sarebbe capace di arrivare lassù anche se gli piombasse un meteorite sul cranio, tosto com'è... Se lo si aspetta, almeno non c'è il rischio che si affanni per andar più forte di quanto si senta. Bivio per St Dalmas Le Selvage: la tentazione è di girare di lì... Anche per quella via si arriva alla Bonette, ma gli ultimi km sono su strada sterrata. Per oggi no, restiamo sul classico. I tornanti, un po' d'ombra, il pianoro con il rifugio e poche case; ancora un paio di km e siamo a Bousieyas, con una bella fontana in pietra a disposizione. Nel frattempo, ci sorpassano alla spicciolata altri compagni di squadra, partiti parecchio più tardi di noi da Vinadio e che faranno lì ritorno molto prima di noi: tempo di un saluto e sono già lontani. C'è chi può. Anche Alessandro potrebbe, probabilmente più di tutti, ma sceglie di restare con il President e con me. Secondo me c'è un secondo fine nel suo gesto altruistico: gli ho accennato di un'eccellente boulangerie a Jausiers... E' costretto ad aspettarmi, se vuole che lo conduca in tale luogo di perdizione.

Ancora quattordici km, anche se la vetta ormai si vede. Saliamo con calma, in pieno sole, un po' di vento che rinforza man mano che prendiamo quota. Walter appena dietro, controllato a vista: brontola di non essere in forma, ma non molla una pedalata. Io "me la tiro" tornando indietro, ogni tanto, per controllare che sia tutto ok... In effetti però, quassù, le gambe sono davvero in condizione eccellente. Riesco persino a tirare un rapporto molto più duro della norma, per questa pendenza, per rallentare quanto basta da adattarmi all'andatura del President. Mi sento un po' in colpa: probabilmente, buona parte della sua fatica è data dalla scelta della MTB in luogo della bici da corsa... Scelta che non avrebbe mai fatto se non per solidarietà nei miei confronti!

Gli ultimi sette km, oltre le baracche di Camp des Fourches, sono per lui un bel calvario. Il testone quasi non si lamenta, ma la sua fatica è evidente. Confesso di essere parecchio preoccupata: se dovesse capitare qualcosa di storto quassù... Ok, so bene che sto esagerando; la cotta sulla salita della Bonette è la norma, anzi ciò che è fuori del normale è giungere in cima indenni. Però... Conto i chilometri, i metri, le pedalate. Dai che ce la fai... Dai che manca poco... Pochissimo, infatti. Raggiungo il colle, dove Alessandro, che si è portato avanti quel tanto che gli è bastato per fare il "tour" della cima, siede in paziente attesa. Walter è subito dietro. Non sono un medico, ma, nella mia ignoranza, credo che, se il problema è la pressione alta, sia opportuno andare giù prima che subito... Quindi, bando al giro della cima: se avessi un po' più di confidenza, gli darei una pedatona nel didietro e lo scaraventerei direttamente a Jausiers, ovvio a fin di bene. Con più diplomazia, invece, mi limito a sollecitare una rapida partenza. Alessandro non se lo fa ripetere due volte; il richiamo dello stomaco è ormai fortissimo. Giù, in discesa: qui sono io che, come al solito, mi faccio attendere. La bontà di Walter è tale da impedirgli di insultarmi pesantemente ad ogni curva... Che ci posso fare? La MTB ha già migliorato moltissimo la mia sensazione di stabilità e la mia velocità in discesa, ma le curve ed io non abbiamo proprio un buon rapporto. Un amico, tempo fa, mi sgridava perché "faccio le curve quadre" e non aveva affatto torto!

Se posso trovare un difetto alla MTB, è il senso di formicolio alle mani nelle lunghe discese. Infatti arrivo alle porte di Jausiers con le dita addormentate. Fontana, pieno alle borracce, poi finalmente l'agognata meta: la boulangerie. Soddisfazione per tutti: anch'io ne approfitto per prendere due pezzetti di croccante alle mandorle. Uno è immediatamente fagocitato, l'altro servirà da colazione domani. Il President mi sembra in buone condizioni... Ormai il più è fatto. Ogni volta che percorro questo itinerario, quando raggiungo Jausiers mi sembra di aver concluso la fatica. C'è ancora la Maddalena, ma non è salita tale da impensierire. 16 km per 700 m di dislivello.

Ancora in sella: qualche km lungo il torrente Ubaye, superiamo La Condamine e finalmente diamo l'assalto all'ultima ascesa. Sarebbe vietatissimo salire in bici dal versante francese, così come minacciano parecchi cartelli, per via di una vecchia frana che ogni tanto dà segni di vita e movimento. Ma noi, da buoni italiani, non ci siamo e se ci siamo dormiamo... Alessandro ed io approfittiamo di una sosta ai box del President per prendere un po' di vantaggio; tanto ormai io sono così gasata che farò inversione al primo abitato, Meyronnes, per tornare a controllare che sia tutto ok. Sulla Maddalena, persino io posso permettermi gli scatti. Lascio andare Alessandro, recupero Walter, tira e molla fino a Larche: sulle nostre teste, un cielo ancora sfacciatamente terso; la valle prende i colori della sera. Anche se non ho idea di che ora sia... Ho perso la nozione del tempo.

Da Larche, mi lancio baldanzosa in una progressione che vorrebbe coprire tutti e cinque i km mancanti al colle; in effetti, sputando i bronchi, per i primi tre pedalo davvero spedita... Poi, un muro di vento, improvviso, insormontabile ed ovviamente contrario. Congelamento istantaneo e sforzi improvvisamente vani: non si procede, o meglio, si va avanti a velocità di lumaca. Non c'è speranza che la sua violenza si attenui, prima del colle: anzi, sarà vento contrario fino a Vinadio... Le auto degli escursionisti se ne vanno alla spicciolata, le ombre si allungano, il verde dell'erba è più intenso. Con immane fatica raggiungo il colle e levo le ragnatele di dosso al povero Alessandro, seduto in paziente attesa. Lo invito ad andar giù, prendere l'auto e partire, lui che "tiene famiglia" e rischia di fare davvero tardi stasera. Ma, da quel signore che è, il compare rifiuta. Mi vesto, torno indietro per un breve tratto finché non incontro Walter: 'rcamiseria... Io ho sputato l'anima per arrivare su il più in fretta possibile e lui, bel bello, è già qui!

Tappa al bar lungo il lago; il President agogna una bottiglia d'acqua frizzante. Lo capisco, è cosa che capita spesso anche a me, sia pure non oggi. Attendo fuori, godendomi lo spettacolo del luccichio sulla superficie del lago appena increspato e degli ultimi caldi raggi di sole. Si riparte: via il pianoro, poi giù per i tornanti fino ad Argentera. Il traffico di auto e moto è sostenuto, ma al semaforo rosso in paese si fermano tutti. Io, manco a dirlo, passo... Ho perso i due compari e devo sbrigarmi!
Il pianoro appena prima del Villaggio Primavera è un calvario, con il vento contrario ed i merenderos che sciamano lungo la strada. Poi la pendenza torna favorevole: la galleria, le Barricate meravigliose al tramonto, Pietraporzio, Sambuco. Faccio del mio meglio per mantenere un ritmo appena decente, anche quando la strada risale un po' o viaggia in piano oltre il bivio per le Terme di Vinadio: tutto ciò mi costa una gran fatica... Ma i miei compagni hanno misericordia ed evitano di infliggermi l'umiliazione di un sorpasso col sorriso sulle labbra. Grazie... Ne sarei psicologicamente distrutta.

L'ultima asperità della giornata è la risalita a Vinadio: breve, dolce, ma non per chi ha già nelle gambe quasi 160 km e 4.000 m di dislivello in salita. Superato anche quest'ultimo scoglio, la nostra avventura si conclude al parcheggio, dove l'auto di Walter, per fortuna, c'è ancora. Ci si saluta, ci si dà appuntamento alla prossima mattana; si fa il possibile per rendersi vagamente presentabili e poi via. Sono le sette e mezza, cavoli, non mi ero resa conto che fosse così tardi, ma non importa. Vorrà dire che, per questa sera, le tre belve che mi attendono a casa dovranno tenersi il languorino per qualche ora in più.



domenica 30 giugno 2013

29 giugno 2013 - LES FONDUS DE L'UBAYE

Proprio il periodo ideale, climaticamente parlando, per dimenticare a casa il sacco a pelo. Benché sia fine giugno, l'estate non ha la minima intenzione di farsi viva: fa un freddo ignobile in pianura... Figuriamoci in mezzo ai monti. Come mio solito, preparando il bagaglio, ho poi cacciato con ignominia l'unica idea intelligente che si fosse affacciata al nulla eterno della mia scatola cranica: portarmi dietro la vecchia tuta da sci imbottita. Almeno per i momenti di vita "borghese" giù dalla bici. Ma ormai so che è più forte di me; non riuscirò mai a mettere in borsa quel che davvero serve per la trasferta del momento. La valigia ed io viviamo su mondi paralleli.

Pantaloni corti e sandaletti. Ci saranno dieci gradi stasera qui a Barcellonette. Parcheggio la Zafira alla bell'e meglio, in pieno stile italiano, in divieto, poi raggiungo Matteo nel salone in cui è in corso la presentazione della randonnée di domani. Il locale è già gremito di ciclisti: occhio e croce, direi che Matteo ed io siamo gli unici italiani. Una pingue fanciulla declama con innata allegria gli ultimi dettagli e le raccomandazioni sul percorso della manifestazione, che si perdono nell'eco del capannone; poco male, di francese capisco poco... E poi so già quel che serve. La rando prevede la possibilità di scalare uno o più colli, a seconda del percorso scelto. A noi toccherà la versione "cinque colli": nell'ordine, Vars, St Anne La Condamine, Bonette, Cayolle, Allos. Un po' più di duecento km, occhio e croce. Ci sarebbe anche la versione "sette colli", che prevede di proseguire in direzione del lago di Serre Ponçon ed aggiungere le salite del Col St Jean e del Col de Pontis: però... Però in mezzo ci sono troppi km di falsopiano, da percorrere in discesa prima ed in salita poi. Io odio tutto quel che è pianura e falsopiano. La coscienza ciclistica mi impedisce di rinunciare già a priori al percorso più lungo possibile, quindi quello da sette colli: non mi resta che sperare di essere abbastanza lenta da "sforare" il cancello orario tra il quinto ed il sesto colle. Così non sarei io a rinunciare, ma il fato avverso a costringermi alla resa.

Mi distrae un cagnolino che fa di tutto per conquistarsi un briciolo di attenzione e due coccole. Occhio e croce, direi che all'altro capo del guinzaglio c'è la consorte di qualche ciclista, annoiata e ben poco entusiasta della situazione. A momenti perdo Matteo che va di filato al tavolo delle iscrizioni. Numero di pettorale, carta di viaggio, abbiamo tutto; non ci resta che ricacciarci fuori, con somma goduria delle mie gambe nude. Il palco su cui l'organizzazione ha sistemato i tavoli ed i computer per le operazioni burocratiche è parecchio più in alto del resto della sala: mi soffermo un momento a guardare la folla di atleti... Era tanto, troppo tempo che non assaporavo l'emozione dei momenti pre – gara, anche se questa in realtà non è una gara, non è – o non dovrebbe essere – competitiva. E' un'emozione che mi mancava moltissimo e che, purtroppo, mancherà ancora... Per il momento, devo dire grazie a Matteo che mi ha coinvolta.

Alcuni ciclisti si accalcano al bancone delle cibarie; molti sciamano fuori, noi compresi. Adesso si tratta di andare a caccia di un campeggio, se non altro per avere a disposizione doccia e bagno civili. Sono terrorizzata al solo pensiero: fa un freddo inimmaginabile... Gira e rigira, non c'è più traccia del campeggio vicino al centro del paese. Ci rassegnamo a rivolgerci ad un'altra struttura poco distante: ci arriviamo pochi minuti oltre l'orario di chiusura. Non ci resta che osare: Matteo suona il campanello dell'abitazione del gestore, che si trova sopra la reception. Esce un energumeno che pare la controfigura di O.J. Simpson, dai modi tutto fuorché cortesi, scocciatissimo per il disturbo fuori orario. Poco male: abbiamo ottenuto la nostra piazzola.

Contengo a stento il disappunto e la sofferenza di aggirarmi per il campeggio con questo abbigliamento stile Rimini ad agosto: del resto, con chi potrei prendermela se non con me stessa? Si consuma una frugale cena a pane e formaggio: Matteo, come sempre, ha anche un'abbondante dotazione di pasta e si dedica alla "haute cuisine"... Ma io sono già distratta: ho scoperto che il campeggio è dotato di calcio balilla, con tanto di pallina! Suo malgrado, Matteo è costretto ad abbandonare i fornelli per concedermi una partita, una seconda partita e la "bella"... Finché anche l'ultimo barlume di luce del sole sparisce e la pallina diventa invisibile. Non mi pare in effetti il caso di continuare alla luce delle pile frontali: OJ Simpson e gli altri campeggiatori potrebbero spazientirsi... Non vola una mosca.

Io mi rifugio in auto e non mi muovo più. Poco male se il mio compare ha montato la tenda: schiatterò di freddo stanotte, lo so già, ma continuo comunque a preferire la struttura protettiva metallica dell'auto a quella inconsistente della tenda. E poi il sedile è mille volte più comodo del materassino.

Nella notte, mi sveglio un'infinità di volte, mezza congelata. Ho indossato tutto quel che avevo, felpa, giacca, ma non basta... Ogni volta è ancora buio pesto. La partenza è prevista per le cinque e mezza, la sveglia un'oretta prima. Più o meno in contemporanea con il trillo del mio telefonino, il fantasma di Matteo esce dalla tenda e s'infila sul sedile passeggero: a quanto pare, la sua nottata, pure con il sacco a pelo, non è stata molto più confortevole della mia...
Ci vuole tutto il coraggio di cui disponiamo ed anche di più, per scendere dall'auto e trascinarsi verso i bagni, l'unico luogo un po' meno gelido per cambiarsi e vestirsi da bici. La stellata meravigliosa sopra le nostre teste sembra quasi prenderci in giro. Colazione per me quasi inesistente; il mio compare trangugia quella schifezza di pasta che credo abbia ormai la consistenza del Vinavil. Rapido controllo della bici e del bagaglio; si parte, disgraziatamente in discesa: poche centinaia di metri, ma è già un trauma.

A Barcellonette, nello stesso salone in cui è avvenuta la presentazione della prova, fervono i preparativi per il via. C'è persino la possibilità di bere un the o un caffè quasi caldi, lasciando da parte il gusto. Siamo imbacuccati come tanti omini Michelin... Le nostre bici sono rimaste fuori, ma non credo corrano alcun rischio: se proprio qualche malintenzionato volesse colpire, c'è l'imbarazzo della scelta tra bici che valgono uno sproposito.
Ad occhio, direi che sono l'unica concorrente dotata di mountain bike, sia pure in versione stradale con i copertoncini slick. Ci sono un paio di bici "ibride"; gli altri sono tutti puristi della bici da corsa.

Ci raccogliamo tutti nello slargo accanto al salone, dove è in corso una punzonatura parecchio disordinata. Altrettanto approssimativo è l'ordine di via: in un modo o nell'altro, comunque, siamo in marcia. In fondo al gruppo, inutile dirlo: pochi km di pianura e mi han già superata quasi tutti. Si viaggia in direzione di Jausiers: la temperatura alla partenza è esattamente di 1°C, a detta del termometro di Matteo e della sensazione delle mie mani. Terribile... Posso solo sperare che presto faccia capolino un po' di sole, anche se ho poca fiducia: le montagne tutt'intorno terranno lontana la luce ancora per un bel po'.

Mentre io litigo con il cambio – la catena non vuol saperne di stare sulla corona anteriore più grande – scorriamo lungo il torrente Ubaye alla luce delle frontali che non serve quasi più. Ombra, silenzio, si sente solo il ronzio delle ruote, quelle poche che sono ancora a portata del mio orecchio. Qualcuno osserva perplesso la mia bici, scettico sulla buona riuscita dell'impresa. Non preoccupatevi, gente: se solo sopravvivo al congelamento, ce la faccio...

Jausiers, La Condamine, bivio per il Vars. Finalmente un po' di salita, anche se molto blanda, per i primi km. Tutto tace per la strada, nei cortili delle poche abitazioni. Il cielo prende un po' di colore, ma già le prime scie di nuvole fanno capolino. Chissà perché, non mi aspetto nulla di buono. Meglio comunque, superate le prime due gallerie, fermarsi a levare uno strato di abiti, per evitare di ritrovarsi fradici in discesa. Finalmente, dopo il bivio per St Paul, la salita diventa degna di questo nome: si va su a strappi irregolari fino al ponticello del minuscolo abitato a cinque km dalla vetta; da lì in poi, la pendenza diventa severa ma regolare. Il sole è un'illusione: il cielo si vela sempre più. Primo, secondo, terzo tornante, molto distanti l'uno dall'altro. Pedalo con prudenza: so benissimo che le mie forze sono davvero limitate... L'ultima uscita seria in bici risale a fine maggio e non è comunque paragonabile all'itinerario di oggi. Matteo si allontana solo nell'ultimo km: non appena arrivo in cima anch'io, si prodiga per sistemarmi il cambio riottoso, mentre io trangugio un caffè orribile ma, se non altro, caldo. Grazie ai volontari che attendono quassù, ci possiamo permettere anche questo lusso! Mi avvio in discesa con l'animo di un condannato al patibolo; non oso immaginare il gelo... I ciclisti rimasti dietro di me, che ancora salgono, sono davvero pochi; alcuni di loro mi sorpassano prima che io arrivi in fondo.

Archiviato l'inospitale Col de Vars, ripercorriamo a ritroso un tratto di strada lungo l'Ubaye, fino a La Condamine. Da qui, imbocchiamo la breve ma "robusta" ascesa verso St Anne La Condamine, in corrispondenza degli impianti da sci: parecchi tornanti e rampe con pendenza sostenuta. Una marea di colleghi sta già scendendo. La temperatura è salita di pochissimi gradi... Cinque o sei km dopo, arriviamo al banchetto del punto di controllo. Davvero non invidio questi tapini costretti a restare qui, immobili, al freddo e al gelo... Stanno peggio di me, poco ma sicuro.

Altra discesa, ostica non solo per il freddo ma anche per il pessimo stato dell'asfalto. Siamo dinuovo a La Condamine: ancora una volta sulla strada di fondovalle, veleggiamo verso Jausiers. Qui il primo vero punto di ristoro, con succhi di frutta, frutta secca varia, pane, affettati. Ovvio, questi ultimi non fanno per me... Finisco per mangiarmi il pane asciutto, visto che non c'è formaggio e che i dolci, a lungo andare, nauseano. Riparto infatti con due o tre fette di pane in mano: impiegherò parecchi km della salita per finirli, perché non è così semplice masticare qualcosa di tanto asciutto in salita. Matteo prolunga ancora la sua accanita opera di saccheggio della tavola imbandita: prima o poi arriverà...

Affronto la Bonette con un certo timore reverenziale. E' vero che conosco questa salita come le mie tasche, ma forse è proprio per questo che la temo... So benissimo di non essere allenata a sufficienza per il percorso di oggi. Un po' di sole, troppa grazia, mi incoraggia, ma cerco di essere prudente, prudentissima. Anni di bici da queste parti hanno fatto sì che ormai io conosca ogni metro di questo asfalto, dalla prima parte in mezzo alle case, al tratto di tornanti con vista su Jausiers e Barcellonette, al passaggio a quota 2000 m con il rifugio "Halte 2000". Qui, altri tornanti tra i laghetti, qualche breve tratto in piano per rifiatare. Tanta neve imbianca ancora i pendii delle montagne intorno. Infine, l'ultimissimo tratto oltre le casermette militari, quando la Bonette ormai si vede ma è ancora molto lontana. E la coltellata finale nelle gambe, il giro della cima. Ciclisti di ogni ordine e grado affollano la salita, oltre a quelli che partecipano al brevetto; purtroppo, non manca nemmeno il traffico di altro genere, auto e moto a profusione. Bellissimo quassù... Mangio un boccone, mi godo i pochi istanti, un bicchiere di Coca Cola. Bisogna scendere. Fan quasi tenerezza le Ferrari riunite per il raduno proprio quassù: i proprietari, griffati e decappottati, stanno visibilmente schiattando di freddo...

Si torna giù a Jausiers, ventidue km di una discesa interminabile, molto più penosi che nell'altro senso. Le mani, anche se protette dai guanti, sono paonazze e rigide. Tocca poi fare i salti mortali per evitare le auto e le moto dalla guida un po' troppo sportiva. E' ormai primo pomeriggio: saranno all'incirca le 14 quando raggiungiamo Jausiers. Si torna a Barcellonette, ancora senza sole o quasi. Ci siamo meritati una sosta un po' più lunga al ristoro: un buon piatto con un'insalata di pasta, un paio di uova sode, un po' di Coca. Ci attendono il Col de la Cayolle ed il Col d'Allos. Ecco, ho sempre accuratamente evitato di scalare la Cayolle da questo versante: dal bivio son quasi trenta km, in buona parte di falsopiano, non finisce mai. Ma oggi s'ha da fare, quindi via, gambe e ruote in spalla. Si riparte: breve tratto nella periferia di Barcellonette, lungo i campeggi, e poi al bivio si va a sinistra. Non mi è ben chiaro il senso del punto di ristoro piazzato qui, a pochissima distanza da Barcellonette dove ci siamo appena rimpinzati come otri... Ma Matteo lo afferra molto meglio di me e spazzola anche qui tutto lo spazzolabile.

La strada corre lungo il torrente, attraversa le belle "gorges", ma impiega un'eternità a guadagnare quel po' di quota. Tra le curve strette e cieche, bisogna prestare molta attenzione, perché ormai la maggior parte dei colleghi di corsa sta arrivando in discesa. Tengo d'occhio il cielo che, verso la testa della valle, è sempre più grigio; sguardo di penosa ansia ai parabrezza delle auto che scendono, per capire se lassù piove. La valle si apre e rivela una fetta di cielo ancor meno incoraggiante; appena prima del ponte che segna l'ultimo cambio di versante e l'inizio del tratto di salita un po' più decisa, ecco le prime gocce. Faccio finta di non sentirle, ma se n'è accorto anche Matteo... Il freddo si fa pungente; tira vento di fronte e porta via il mio già misero coraggio. Lassù è nero... Gelido e nero. Possibile che io abbia sempre questo terrore del freddo e della pioggia? Rabbrividisco man mano che il vento rinforza. A me la scena pare apocalittica... No no, se le cose si mettono così, io non vado più sul Col d'Allos. Mi dispiace ma quando è troppo è troppo. Poi verrà buio lassù...

Matteo si porta avanti con il lavoro; raggiunge il colle un po' prima di me. Lo trovo seminascosto nel furgoncino dei volontari, in cima al colle, dove c'è solo più un goccio di the caldo. Sono in preda allo sconforto: timbro il cartellino, mi vesto come posso, riparto sotto la pioggia, con la paura di quel che sta per succedere, meteorologicamente parlando. Siamo pur sempre sopra quota 2000, stanchi... E piove.

La pioggia mi accompagna per una decina di km, poi sembra voler concedere una tregua. Quel che basta per regalarmi un po' di fiducia: la discesa "finta", spesso da pedalare, fa il resto e mi infonde un po' di calore. Si torna al punto di ristoro a Uvernet: da lì, comincia l'ultima salita. Beh, formalmente potrebbe non essere l'ultima: se si riuscisse a tornare a Barcellonette entro le 22, si potrebbe proseguire aggiungendo gli altri due colli "minori". Ma, in tutta franchezza, con questo freddo, la minaccia di pioggia e sì, anche la stanchezza, non ne avrei proprio voglia. Le gambe faticano molto già sulla salita del Col d'Allos, che è tutto fuorché micidiale... 17 km, molto regolare, mai davvero ripida. Le luci della sera, le ombre sempre più lunghe. Non mi sarei mai aspettata che il sole si facesse vivo proprio adesso, appena prima del tramonto. Le nuvole si diradano, si dissolvono in un tripudio di sfumature gialle e rosa. La temperatura rimane rigida, ma a questo punto poco importa... Lungo tratto sul versante destro della montagna, poi qualche tornante che ci fa superare l'ultimo scalino. Un gregge di pecore, l'abbaiare dei cani... C'è ancora un collega con noi: siamo proprio gli ultimi. Chissà se in cima ci sarà ancora qualcuno ad attenderci.

La strada è ricoperta da uno scivolosissimo tappeto di sterco di pecore: cadere qui sarebbe una vera, imbarazzante, puzzolentissima tragedia! Osserva Matteo, in discesa sarà bene andar piano onde evitare di ritrovarsi imbrattati fin sui capelli... Povero Matteo, avrebbe potuto chiudere il giro parecchie ore prima, se solo non mi avesse fatto da fedele gregario per tutto il viaggio; avrebbe potuto aggiungere gli altri due colli senza la minima difficoltà. Invece è qui... Mi "abbandona" solo negli ultimissimi km, quando la strada si perde alla vista contro il cielo e il vento rinforza. Lo ritrovo all'ultimo punto di controllo, dove, sorpresa, ci accolgono due madame a dir poco entusiaste. Forse lo sono perché, con noi, si conclude la loro fatica... In realtà risulterebbe esserci ancora un concorrente che deve arrivare quassù, ma probabilmente è un errore... O c'è un disperso. Non c'è più traccia di altri, dopo di noi. Un caffè bello caldo; mi vesto, indosso i guanti, mi lancio verso l'ultima discesa. Incurante del tappeto di guano ovino, vado giù il più in fretta possibile per sfruttare quel poco di luce naturale che rimane: la mia vista, anche con la potente pila frontale che ho, al buio vale quasi nulla. Preferisco andar giù un po' più lercia, magari, ma più sicura. Matteo invece tiene fede alla promessa: mi preoccupo parecchio a non vederlo arrivare...

Percorriamo insieme gli ultimi km alla luce della sua pila frontale, che è davvero avveniristica. Per me, più che un "percorrere", è un trascinarmi... Sono letteralmente congelata. Altro che aggiungere due colli... A stento raggiungo Barcellonette. Al punto di controllo, il volontario ci guarda con terrore. "Vi fermate... Vero?". Lo posso capire: guai se decidessimo di proseguire... Gli toccherebbe aspettarci fino a chissà che ora, domani! No no, non c'è pericolo... Io di qua non mi schiodo più.

Ci tuffiamo entrambi al tavolo del ristoro finale: mannaggia ai Francesi, che razza di menù... La pasta col ragù per me è proibita; resta solo la zuppa di cipolle. E vada per la zuppa di cipolle, doppia dose: almeno è calda. Spazzoliamo famelici le nostre razioni, così come siamo, sporchi e sudati; accanto a noi, i fenomeni già puliti, lavati e cambiati discutono di tempi e prestazioni. Mamma mia. Io non riesco a pensare ad altro che all'agghiacciante idea di andare in campeggio, cambiarmi e lavarmi con questa temperatura... La zuppa di cipolle è rovente ma non vale a togliermi i brividi di dosso. Il brusio tutt'intorno dà alla testa. Il povero Matteo, dopo aver consumato le derrate alimentari delle prossime sei edizioni della rando, deve faticare non poco per convincermi ad alzarmi e ad uscire. Non parliamo poi del trauma di rimettere il deretano sulla sella dopo 220 km e 5.300 m di dislivello in salita, quando non sei più abituato a passare tanto tempo in sella... Quasi diciassette ore, nel mio caso. Un ciclista mi ferma appena prima di uscire; indica la mia bici, chiede se io abbia fatto tutta la strada con quella... Sì, certo. Ma per me non è affatto un problema: attrezzata così, la MTB è forse un po' meno scorrevole della bici da corsa in salita, ma dà una sicurezza impagabile in discesa, dove recupero tutto il tempo perso. Non tornerei alla bici da corsa, nonostante anni ed anni di onorata "carriera".

Per fortuna, la strada per il campeggio, in discesa prima della partenza, adesso è in salita: ci si scalda un pochino. Poi raccolgo quel barlume di lucidità che mi resta per prendere dall'auto tutto quel che mi serve per la doccia ed il cambio d'abito. Ci fiondiamo nottetempo nelle docce: sarà contento il sosia di OJ Simpson, che ha casa proprio al piano di sopra, di sorbirsi il rumore del getto d'acqua. Data la temperatura confortevolissima dell'acqua e la quantità di gelo siberiano da lavare via, la nostra doccia diventa lunghissima.

Passiamo quel che resta della notte entrambi in auto, sistemati alla meno peggio con l'unico sacco a pelo di Matteo, che per fortuna si apre a libro e ci copre entrambi. In effetti, va un po' meglio della notte precedente... Al mattino, il rito dello sgombero della tenda mi ricorda ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, quanto sia più comodo dormire in auto, senza bisogno di aprire, montare, piantare picchetti, smontare, piegare,... Si riparte per l'Italia, ma non ancora per casa. Verso le nove siamo a Vinadio: giù le bici, destinazione Colle della Lombarda. Una luminosa e fredda mattina ci accompagna su per i tornanti, lungo il pianoro, passando accanto al Santuario di Sant'anna, e poi per i chilometri finali oltre al bivio. Anche oggi il sole ci inganna e si nasconde presto dietro alle nuvole: qualche goccia di pioggia, ma ormai siamo al colle; Matteo ci arriva due volte, prima da solo e poi dopo essere tornato a raccattare me. Ammetto di aver faticato molto, dopo la sfacchinata di ieri, e un po' mi dispiace... Ma è fatta; si torna giù lasciandoci la pioggia alle spalle, via in auto. Questa volta, destinazione casa.


lunedì 20 maggio 2013

18 maggio 2013 - NOVE COLLI RUNNING 2013

Quest'anno, le premesse sono davvero le peggiori possibili. Per carità, non che io sia mai partita con ambizioni di classifica: non me le posso permettere... L'unica ambizione è sempre stata quella di giungere al traguardo; ecco, è proprio questa, che oggi sarà messa in serio rischio.

Non ho l'allenamento sufficiente, non ho collezionato i lunghissimi allenamenti che avevo messo in saccoccia nelle scorse stagioni; sono parecchio a terra fisicamente, e parecchio anche moralmente, per vicissitudini varie familiari e lavorative. Mi manca quell'entusiasmo assassino degli anni scorsi, anche se ho fatto carte false per essere qui, oggi.

Vorrei dormire un po' più a lungo, ma non c'è verso; prima delle sei sono già sveglia. Provo a riaddormentarmi, accendo la radio, cerco qualche canale noioso, ma nemmeno Radio Maria basta a farmi riprendere sonno, o perlomeno a farmi svenire dal disgusto. Basta, tantovale che mi alzi. Anche stamattina fa freddino... Però il cielo è terso. In effetti, mi accorgo solo ora che il campeggio è quasi deserto: questa primavera folle non invoglia certo i turisti, nemmeno quelli abituali di ogni stagione.
Mi preparo con calma, godendomi il raggio di sole che finalmente colpisce l'auto. Le borse con i cambi d'abito e qualche derrata alimentare, da mandare lungo il percorso, sono già quasi pronte. Sarà lunga l'attesa, fino a mezzogiorno. Cincischio, provo a dormicchiare ancora un po'; sconfitta, verso le nove lascio il campeggio e mi avvio verso il centro. Approfitto per una "toccata e fuga" nella stessa panetteria di ieri sera, a caccia della colazione: immancabilmente, focaccia, più un pezzo di crostata all'albicocca. Beh, se non altro avrò tempo di digerire...

Alla partenza, davanti al Municipio, c'è giò fermento. Malgrado io preferisca restare lontana dalla confusione, oggi ho un bel po' di persone da salutare, tra corridori, assistenti e simpatizzanti. Ormai, tra pazzi furiosi ci si conosce un po' tutti. Infatti è un gran sorridere e stringere mani; va tutto bene, pur di mascherare un po' la paura. Alla tensione delle edizioni precedenti, si aggiunge quest'anno un motivo di preoccupazione in più. Se dovessi giungere al traguardo in tempo, sarei la prima donna ad aver concluso tre edizioni della Nove Colli Running, per giunta tre di fila. Per carità, non è che sia chissà quale record... Ma ci terrei molto.
Ormai il rito si ripete sempre uguale: la spunta dei nomi, uno per uno, la foto di gruppo, la corsa dell'ultimissimo secondo in bagno... Il cielo resta terso, solo qualche nuvola di passaggio; la temperatura è decisamente più bassa rispetto agli anni scorsi. Ho persino qualche dubbio a partire in canottiera... Mal che vada, nello zainetto ho il necessario.

L'attesa si conclude, finalmente, a mezzogiorno in punto. La tensione si scioglie con i primi passi... Chissà quanti passi si muovono in una corsa da 200 e rotti km?
Le gambe non fanno mistero di risentire un po' della prova di ieri in bici. Niente panico: ormai so bene che i primi venti km sono sempre un calvario. Se riesco a superarli senza cedere alla tentazione di mollare tutto e ritirarmi, sono già a buon punto...
Gli sguardi degli automobilisti incolonnati e fermi per la presenza dei corridori stanno a metà tra l'esasperato e l'incuriosito. Tra noi e le auto sciamano poi centinaia di ciclisti, già pronti per la granfondo di domani; è un tifo sfegatato, persino dai balconi delle case e dai giardini. Peccato solo per il traffico infame: alla fine, buona parte dei veicoli che ci passano accanto sono quelli dell'organizzazione, nonché degli assistenti personali di molti corridori. In effetti sì, i primi km di gara fino a Cesena sono un bel calvario.

Come sempre, commetto l'errore di lasciarmi prendere dall'entusiasmo: chiacchiera di qui, chiacchiera di là, a Cesena arrivo troppo in fretta. Meno male, però, che nei miei paraggi c'è qualcuno: altrimenti, difficilmente mi sarei accorta del cambio di percorso, che quest'anno ci porta a passare fuori dal centro storico. Continuo a seguire i miei punti di riferimento, fino ad imboccare l'ultimo caoticissimo rettilineo che termina al punto di ristoro di Settecrociari. Vado a caccia di qualcosa da bere; per costrizione, prendo anche un paio di biscotti. Non ho fame, ma è importante buttare giù qualcosa ogni tanto, perché prima o poi la pancia comincerà a ribellarsi... E a quel punto sarà opportuno aver già fatto scorta.

La mia sosta, come sempre, è brevissima. Mi lascio alle spalle un bel po' di corridori intenti ad affrontare la pasta... Io preferisco attaccare la prima salita. Di passo, ovviamente. Lo stacco tra la pianura e la collina qui è nettissimo: un attimo fa eravamo giù sul piatto, in mezzo ai vigneti... E adesso ci arrampichiamo sulla prima rampa. C'è chi insiste a correre anche in salita: sono pochi, però, quelli che se lo possono davvero permettere. Io non ho questa fortuna e non ci provo nemmeno. Ho un didietro così pesante che stroncherei i garretti senza rimedio. La voglia di scherzare e chiacchierare, qui, è ancora vivace, ma non c'è nessuno con cui io possa scambiare più di qualche veloce battuta; vanno tutti troppo forte...

Soffia un venticello poco confortevole. Razionalmente, so che il caldo eccessivo è nemico della prestazione sportiva, ma vorrei tanto i trentacinque gradi di qualche edizione fa... Il passo per ora è svelto; raggiungo il Polenta senza troppa fatica. Giù in discesa, di corsa: i polpacci avrebbero anche qualcosa da ridire... Li zittisco, penso ad altro, scruto le curve della discesa. Mi sorpassa di gran carriera una fanciulla minuta, che corre in gonnellino e saluta gentile: scoprirò poi che si tratta della vincitrice.

A Fratta, si torna per un breve tratto in pianura: qui le gambe mostrano i primi segni di difficoltà. C'è poco da fare: la mancanza di allenamento sulla distanza pesa, eccome. Qui saremo poco oltre i trenta km e già il corpaccione presenta il conto. Calma, Gian. Breve sosta al ristoro, prendo da bere ed un po' di frutta, poi via per l'interminabile tratto di falsopiano verso l'attacco della seconda salita. Correre, piano ma correre. Non posso pensare di mettermi al passo, già qui. La seconda salita incombe; con essa, il cancello orario al km 57. Bisogna passarci entro sette ore e quarantacinque minuti dal via. Io non ho idea di che ora sia, come sempre, e non lo voglio neanche sapere... Corro per quanto posso, finché la strada non prende a salire decisa; allora mi rassegno al passo spedito, con l'occhio ansioso di scorgere, dietro ogni curva, il culmine di Pieve di Rivoschio. Ma lo sento, che il mio passo è faticoso.

Al punto di ristoro, mi lasciano passare. Tutto ok, quindi: sono in tempo. Giù in discesa, sfruttando l'onda dell'entusiasmo, per quel poco che può servire. Sono scettica nei confronti di chi sostiene che conti moltissimo la testa: conta, è vero, ma se i muscoli non rispondono...

La salita del Ciola, puntualmente, è un calvario. Ormai non mi spavento nemmeno più. Si va verso sera; cala il buio, mentre l'aria si fa ancora più frizzante. E la debolezza pian piano mi assale: a nulla serve mandar giù qualcosa da mangiare, perché non c'è più nulla che vada giù. La debolezza si trasforma in nausea, fa girare la testa, a tratti mi rende persino difficile stare in piedi. Le gambe quasi si trascinano, anziché camminare come si deve. Angoscia... Calma, Gian. Ti è già successo gli anni scorsi. E' la stessa identica cosa. Stai male da cani... Ma poi passa. Fidati.

Arrivo al ristoro quasi barcollante, in cima al colle. Cerco di darmi un tono; scorro disperatamente i cibi sulla tavola, ma non ce n'è uno solo che non mi faccia rivoltare lo stomaco alla sola idea. E sì che son tutte cose che, di norma, adoro, dalla frutta secca alle uova sode, al grana... Trangugio a forza qualche nocciolina, bevo un po' d'acqua e un po' di Coca sperando nel noto potere "sgorgante" di quest'ultima... Poi via, riparto, Frontale a portata di mano, perché ormai è quasi buio: si vedono già le luci di Mercato Saraceno, ma lontanissime... Dai Gian, calma e sangue freddo. Non pensarci, vai giù. Goditi la milionata di lucciole, chissà perché così tante, solo qui. S poi son già in arrivo i ciclisti del percorso notturno...

Corro con la testa da tutt'altra parte, probabilmente nemmeno del tutto cosciente. Mi risveglio solo quando, in lontananza, intuisco dalle luci che ci sono dei corridori fermi. Vuoi vedere che... Sì, è il banchetto del ristoro "privato", quello allestito da una gentilissima famiglia che abita proprio qui... Con tanto di macchinetta del caffè, di cui approfitto volentieri. Un attimo e dinuovo in marcia, fino a Mercato Saraceno, a sconvolgere il tran tran del sabato sera nei locali. Mi lancio in un'atletica corsa attraverso la piazza, compresa la risalita per uscire dal paese; poi, quando sono certa che nessuno più mi osservi... Mi accascio al passo sulle prime rampe del Barbotto. Va meglio: almeno la nausea sembra passata. Cammino spedita, ma i muscoli non rispondono come dovrebbero. Beh Gian, di che ti stupisci? Al Barbotto, i km alle spalle saranno già ottanta...

Il freddo ghermisce le gambe, le braccia, la schiena. Un po' di stelle in cielo, ma non è del tutto sereno. Silenzio assoluto, solo le foglie mosse dal vento; non c'è altro corridore intorno, almeno finché io riesco a vedere. Alla spicciolata passano i ciclisti della notturna; ogni anno sono sempre più numerosi. La testa pesa... Il sonno, la stanchezza. Coraggio... Manca poco al grande ristoro sulla vetta. L'ultimo tornante, poi le candele che illuminano il percorso, dritti verso la cima.

Per tutti noi c'è un applauso. E quest'anno c'è anche la sorpresa: nientemeno che lo spettacolo delle danzatrici del ventre... Bravissime e molto belle, ma non le invidio, poverette, così desnude quassù! Che freddo! E poi, che diamine, perché le danzatrici e non i danzatori? Va bene che noi donne siamo una sparuta minoranza, ma che diamine, un po' di attenzione anche per noi!
Mi fiondo a caccia della borsa che ho mandato qui, alla ricerca della maglia pesante per la notte. I pantaloni restano cortissimi, in ossequio al mio esibizionismo: ci tengo a mostrare la parte migliore di me... Anche a costo di prender freddo.
Saluto l'inossidabile Luciano: sembra che ci si dia appuntamento... Come l'anno scorso, ci si ritrova proprio sul Barbotto! Poi vado a vedere se c'è qualcosa di interessante da mangiare: ci sarebbe la pasta, ma ho troppa fretta per aspettare... Di tutto il resto, non c'è quasi nulla che vada giù. Trangugio un sacco di Coca Cola, qualche popcorn, qualche patatina fritta, poi via, ancora di corsa, nel buio. Di corsa dove la strada è piana o scende, desolatamente al passo nelle infinite e penose risalite prima della vera discesa. Nelle orecchie le cuffie del lettore Mp3, come aiuto morale.

Nemmeno al punto di ristoro del km 100 c'è verso di mangiare qualcosa di solido. E sì che sul banchetto ci sono leccornie appetitose... Lascia perdere Gian, fila, sbrigati, non perdere tempo. Si scende, in un'eternità di chilometri, fino a Ponte Uso. Nonostante la maglia e la giacca, ho freddo... E nausea. Altro ristoro una decina di km dopo, proprio a Ponte Uso. Ormai mi rassegno ad andare avanti a Coca Cola. Ma sfodero un sorriso sicuro, falso come Giuda, mentre mi allontano. Destinazione la salitella di Monte Tiffi, blanda ma comunque da camminare, e alla svelta. Chissà che ora è. Chissà se sto andando meglio o peggio degli anni scorsi... Beh, questa è una domanda retorica. Peggio, mi pare ovvio. Ho le gambe in uno stato pietoso, cominciano ad irrigidirsi. Ce la devo fare...

Giù da Monte Tiffi, la salita successiva ricomincia subito. Mi perdo rimuginando di tempi, di chilometri, di colli, quando non ho alcun riferimento nemmeno circa l'ora. Buio pesto; alti corridori nelle vicinanze, ciascuno perso nella propria notturna follia. Qui sono fortunati gli "assistiti", ai quali i compagni di viaggio raccontano persino le favole pur di tenerli svegli. Noi viandanti solitari ce le dobbiamo raccontare da soli...

Dai, dai, dai, coraggio. Ascolta la musica, prendi un ritmo, pensa a quello che vuoi, basta che tu vada avanti. Il Perticara è vicino, il ristoro grande pure. Attraverso il paese sonnacchioso e deserto: sulla piazza, ferve invece l'attività dei volontari. Qualcosa qui riesco a buttare giù: un po' di brodo caldo, uno spumotto, il caffé. Non è molto, ma vediamo di farcelo bastare. Siamo a circa 115 km: appena superata la metà. Lo dice anche il boss, il buon Marione Castagnoli: le crisi vengono e passano. Già... Il problema è che per me non si tratta di crisi; è proprio la mancanza di allenamento adeguato, che mi riduce in questo stato. I muscoli delle gambe sono sempre più rigidi. Pazienza, Gian, farai quel che potrai. Intanto, vedi di non perdere tempo. Giù, in discesa. Cerco di tagliare tutte le curve per abbreviare di un infinitesimo l'agonia; alle spalle, adesso, non dovrebbero più arrivare ciclisti. Quanto alle auto, a quest'ora nulla muove. Altro banchetto del ristoro sulla sinistra; bando alle raccomandazioni, c'è la birra, faccio festa. Vero, l'alcool durante lo sforzo non è il massimo, ma due bicchieri di birra sturano lo stomaco e mettono allegria. Sperando che non mettano anche sonno. Poco più avanti, il bivio a destra; si risale tra le cascine, su e giù in un'irregolare sequenza che sfianca i garretti. Discesa fino a Secchiano, un lungo tratto su strada trafficata; comincia a fare chiaro: ma questa volta, nemmeno la luce del sole vale a rinfrancarmi un po'. Mi sa che stavolta non ce la faccio. Quanto male ad ogni passo...

Raggiungo stravolta il bivio per la settima salita. E' solo la settima ed è dannatamente lunga... A mangiare non ci provo nemmeno. Cerco almeno di bere, poi su, in salita, cincischiando con la giacca e lo zaino per capire se sia già il caso di svestirsi. Cielo velato, aria pungente. Dai Gian, trascinati su, che questa è lunga... Sono dodici km, circa, anche se la parte finale è un lunghissimo falsopiano. Provo a correre dove possibile: tentiamo il tutto per tutto.

Al punto di ristoro sul Pugliano, trovo la seconda borsa, mi cambio la maglia, mi do una pulita alla bell'e meglio. Anche chinarsi, a questo punto, è operazione ad altissimo rischio di irreversibilità. Indosso la maglietta del Team Nordovest, la mia squadra ciclistica, in omaggio ai compagni che oggi pedaleranno alla Nove Colli "classica" e magari riusciranno a vedermi nel marasma. Trangugio anche un paio di antiinfiammatori, pur sapendo bene che serviranno a poco in questo caso. Dolore forte quando riprendo la corsa, muscoli sempre più legnosi. La Rocca di San Leo vigila, immobile, ma chissà cosa pensa di tutte queste formiche multicolori che le girano intorno.
Per un inspiegabile effetto di sconvolgimento del sistema metrico decimale, i chilometri cominciano ad allungarsi man mano che il dolore aumenta. A questo punto mi riesce di corricchiare in discesa, ma già la pianura mi crea non pochi affanni. Infatti, il ponte al fondo della discesa, appena prima di arrivare in paese, è una coltellata nelle gambe, pur essendo perfettamente piatto.

Al banchetto del ristoro, come sempre mi fermo pochi istanti e non mi siedo, altrimenti chi si rialza più. Passo delle Siepi, penultima ascesa. Fervono gli ultimi preparativi per l'arrivo dei ciclisti della granfondo: gli addetti preparano i banchi dei pantagruelici ristori; tifosi e spettatori si contendono i migliori punti di osservazione. Qualcuno si accorge dei corridori, ma sono pochi in realtà i presenti al corrente dell'esistenza di una "corsa parallela" a piedi.

Monte Tiffi non ha una vera e propria "cima"; la strada ad un certo punto inverte la pendenza. Parecchi tornanti più in basso, si arriva dinuovo a Ponte Uso, punto già toccato dopo la discesa del Barbotto. Di qui, lo spettacolo è meraviglioso, soprattutto per chi ha il cuore da ciclista almeno per metà: si può ammirare un immenso serpentone colorato che scende giù dal Barbotto, proprio sulla collina di fronte, e sciama via al fondo della vallata. Sono i corridori della granfondo. A questo punto, ci si può attendere l'arrivo dei primi alle spalle, credo tra un'ora o poco più.

A Ponte Uso c'è un piccolo punto di ristoro con il furgoncino. Brevissima sosta. Chissà se dietro di me c'è ancora qualcuno dei corridori? Ben pochi, credo... Ormai chi aveva intenzione di ritirarsi l'ha già fatto da un pezzo; quelli forti sono già lontani; resta solo il gruppetto dei "barcollo ma non mollo", di cui mi onoro di far parte... E di cui spero di far parte fino a Cesenatico, anche se ho davvero poca fiducia. Non mollo, ma barcollo parecchio!

Da qui all'attacco dell'ultima salita, i chilometri sono infiniti. Li percorro, un po' al passo un po' di corsa, in un continuo tira e molla con Roldano, altro inossidabile, fedelmente assistito dalla sua Sonia in bici. Siamo entrambi al limite dell'umana sopportazione, eppure tentiamo entrambi di comportarci come se niente fosse, come se corressimo da dieci km scarsi. E secondo me ci riusciamo pure!

Il Gorolo è l'ultima delle coltellate. Meno male che nel frattempo sono arrivati i ciclisti: almeno ci si distrae un po'... E si è obbligati a prestare la massima attenzione, vista l'andatura folle dei più assatanati, anche in salita. Corro sul ciglio della strada ed anche così rischio di essere travolta. Qualcuno di loro trova persino le forze per incitare noi tapini a piedi... Passata la buriana dei primi gruppi che si contendono la testa della classifica, man mano la furia dei pedalanti si attenua; quando arrivo alle ultime rampe, c'è già qualcuno che sale un po' a zig zag. Per loro, però, è quasi finita... Al culmine della salita, e dei lunghi su e giù successivi, troveranno comunque un po' di requie in discesa. Per chi corre non è così, anzi.

Al ristoro in vetta mi fermo qualche istante di più. Sono davvero disfatta, ho un male indescrivibile alle gambe. Riparto con il cuore in fondo ai calzini: mai come adesso mi è chiaro che non ce la farò. Non ce la faccio stavolta... Mi dovrò ritirare a trenta km dalla fine. Precipito in uno sconforto infinito: voglio correre, ma le gambe non rispondono più, sono dure come i chiodi. Provo ancora e ancora; i ciclisti sorpassano, salutano, ma ho ho solo voglia di piangere. La terza Nove Colli è lì a portata di mano ed io la sto distruggendo con le mie mani... Mi rassegno al passo svelto, sperando che questo serva a dare alle gambe un po' di fiato. Risalite, ancora risalite; corro, poi torno a camminare. Trovo Walter, il presidente del Team Nordovest: un viso amico mi è immensamente d'aiuto in questo momento, anche se davvero avrei avuto tanta speranza di fare una figura migliore. Mi scatta qualche foto, mi dà appuntamento all'arrivo: già, all'arrivo... Non ci sarò, non con le mie gambe. Chilometri e chilometri di lacrime solitarie e calvario: non faccio altro che ripetermi in testa i conti dei km e delle ore che mancano, assurdi calcoli sulle medie per capire se, anche camminando, ce la posso fare... Come se non bastasse tutto il resto, ci si mettono anche i crampi. Mi tocca mettermi a saltare su un piede solo, alternativamente sulla gamba senza crampi. Non riesco proprio a gioire di tutto l'entusiasmo che i ciclisti mi urlano addosso...So solo che non ce la farò, prima o poi le gambe si bloccheranno del tutto. E non riesco a mangiare nulla ormai da troppe ore...

Il grattacielo di Cesenatico svetta all'orizzonte come un incubo. Alla fine della discesa, ancora venti infiniti km di piattissima pianura; ora che sono stravolta, patisco anche il caldo, che pure di norma amo. Ormai a correre ho rinunciato; cammino più svelta che posso. Di lì a poco compare il buon Giorgio: partito da Torino in treno, con la chiave della Zafira, è passato a prendere la mia bici e si è fiondato in soccorso. Tutto perché già ieri sera sbraitavo al telefono che non ce l'avrei fatta... Non so nemmeno io se essere contenta o arrabbiata; non riesco più a connettere. Beh, già in condizioni normali non è che io connetta granché. Ero angosciata all'idea che il mattoide arrivasse prima e risalisse la discesa del Gorolo contro il senso di marcia della granfondo: la strada non è chiusa al traffico, nemmeno a quello delle auto, ma il rischio da correre sarebbe stato alto. Qui in pianura, invece, la strada è larga. E poi la folla delle bici ormai è già più sfilacciata.

Sotto una cappa di calura, approfitto volentieri della bottiglietta di Coca che Giorgio estrae dallo zaino. Di mangiar la banana, invece, non c'è verso: il primo boccone va giù a forza, il secondo nisba. La focaccia non la tocco nemmeno. La compagnia mi è preziosa per sfogarmi, anche se il malcapitato finisce per fare da parafulmine. A furia di ripetermi che ce la farò, rischia davvero di essere catapultato in cima al grattacielo... Quando sono arrabbiata, ho un modo curioso di dimostrare gratitudine verso chi mi sta aiutando.

Quindici km, dieci km... Sei km. Che disastro, che disfatta. Avrei voluto arrivare correndo a braccia alzate... Invece nisba. Pian piano mi convinco che ce la farò: km mancanti e tempo, se la matematica non mente... Avviso Walter che non mi aspetti, sto strisciando come una serpe, ma lui è irremovibile. Meno cinque, meno quattro... E' vero, sarà un arrivo ben poco glorioso, ma cavoli, son pur sempre 202 km camminati tutti sulle mie suole. Le suole delle Hoka, tra l'altro: esperimento perfetto. Giorgio fa del suo meglio per farmi chiacchierare e per ignorare le mie rispostacce. Il mio umore migliora davvero solo in vista degli ultimi cavalcavia... Puro dolore nelle salite e nelle discese. L'ultimo curvone, finalmente la zona del traguardo: ancora qualche giro, qualche svolta e poi... Il rettilineo finale, la folla ai lati che incita come se fossi la vincitrice, lo speaker che annuncia il mio nome... Seconda donna, nientemeno. A correre non riesco proprio più, nemmeno per finta, per onorare la linea del traguardo. Ma almeno adesso riesco a sorridere... Questa volta è stata dura davvero. C'è mancato poco che saltassi per aria... E invece è fatta. E' finita, conquistata! Il prezzo pagato per tutto questo non conta già più... E' troppo bello ricevere i saluti di tanti che sono rimasti apposta per aspettarmi, Michele, Best, Walter... E mi spiace non riuscire a connettere quel tanto che basta a ringraziarli come si deve. Sono troppo confusa.

In attesa di ricevere il mio trofeo, mi accascio sotto un gazebo, in cui vegetano già altri compari di corsa e volti noti. Man mano che la tensione si attenua, faccio più fatica a restare in piedi; mi accascio per terra, con la testa appoggiata alla sedia. Resto così per una mezz'ora, prima di rimettermi in marcia per la più devastante fatica della giornata. L'auto è a qualche km da qui, in pieno centro, e com'è ovvio ci si deve tornare a piedi.

domenica 19 maggio 2013

17 maggio 2013 - LA NOVE COLLI IN BICI... PRIMA DELLA NOVE COLLI A PIEDI

L'anno scorso, qualche mente folle aveva partorito l'idea della doppia Nove Colli: in aggiunta alla Nove Colli a piedi, il sabato e la domenica, una banda di sinistrati, di cui mi onoro di aver fatto parte, ha completato anche la Nove Colli in bici il venerdì. Giusto per mettere le gambe nelle migliori condizioni per la corsa. Quest'anno, l'iniziativa non è stata riproposta... Ma a me la doppietta del 2012 è rimasta impressa come un faticosissimo ma splendido ricordo. Non mi va di rassegnarmi all'idea di rinunciare. Beh, in fondo non c'è problema più semplice da risolvere: vado a Cesenatico giovedì sera, parto venerdì mattina presto in bici... E me la pedalo per conto mio. Per la corsa, sabato e domenica, qualcosa mi inventerò. E sì che quest'anno non ho allenamento decente né per l'una né per l'altra delle due discipline: colpa di vicissitudini varie familiari e lavorative, senza contare l'arrivo del piccolo Pablo, il mio cagnotto paraplegico. Non ho alcuna certezza di riuscire nell'intento, anzi... Ma ci voglio provare.

Il giovedì sera, disgrazia vuole che mi tocchi un'assemblea di condominio, a cui partecipo non come amministratore, una volta tanto, ma come delegata. Per quanto io faccia il possibile per uscire presto, rientro comunque a casa alle dieci: tempo di sistemare la bici in auto e caricare i bagagli, va a finire che mi metto in viaggio mezz'ora dopo. La Zafirona mi porta spedita fin dopo Bologna: qui, però, è bene fermarsi per la notte, quel poco di notte che mi resta da dormire, visto che ho stabilito di partire in bici alle 6 o anche prima. Comodissimo, l'autogrill, per le toilette al mattino e per il caffé; la colazione me la son portata da casa, come tutti gli altri pasti, così come prevede il manuale del perfetto viaggiatore tirchio.

L'indomani, venerdì, sono puntualissima sulla mia tabella di marcia: a Cesenatico, parcheggio di fronte alla Coop, sono le sei del mattino quando salto in sella. Avrei preferito viaggiare con la MTB, attrezzata con copertoncini da strada, ma poi ho optato per la bici da corsa: siccome sabato e domenica la bici dovrà restare incustodita in auto, preferisco non rischiare. Potrei sopravvivere forse al furto della bici da corsa ma non a quello dell'altra bellissima bici.

La temperatura è tutt'altro che tiepida; il cielo bigio non promette nulla di buono. La primavera, quest'anno, latita. Indosso una maglia con le maniche lunghe sotto la maglietta da bici con le tasche; pantaloni 3/4, scarpe in goretex. Il bello di usare pedali "da bici da passeggio", oltre al resto, è che si possono indossare le scarpe da corsa in montagna impermeabili... Oggi mi sa che ne avrò bisogno.
Mi avvio per il primo, lungo tratto di pianura, circa 20 km, prima di arrivare alle colline. Interminabile in bici: mi domando come io abbia potuto percorrerlo a piedi e come farò domani... Traffico, incroci, rotonde, caos, anche in centro a Cesena, dove si stanno disponendo i banchi del mercato. Puntualmente, come sempre a Cesena, sbaglio strada: vado però a finire su una strada che corre proprio ai piedi delle colline; a rigor di logica, proseguendo verso sinistra rispetto alla mia direzione di viaggio in città, dovrei intercettare il percorso giusto della manifestazione. Infatti è proprio così: raggiungo l'incrocio di Settecrociari, svolto a destra per la prima salita, il Polenta. Ormai potrei davvero disegnarle, queste salite, andando a memoria. Ne ricordo ogni metro. Parola d'ordine, oggi, è "prudenza": non importa quale sia la pendenza, io ingrano il rapporto più agile di cui dispongo e vado su così. E guai ad alzarsi sui pedali, guai a forzare minimamente. Ogni guizzo di fantasia di oggi sarà amarissimamente pagato domani...

Sette, otto chilometri di salita blanda per raggiungere il Polenta, là dove, nella gara in bici che si correrà domenica, la maggior parte degli innumerevoli ciclisti – qualcosa come 14.000, mi risulta – sarà costretta a metter piede a terra per l'ingorgo. Sì, in effetti la Nove Colli ormai è declinata in parecchie forme: la classica granfondo ciclistica, che si correrà domenica; la corsa a piedi, che partirà domani a mezzogiorno per concludersi domenica entro le 18; infine la Nove Colli ciclistica notturna, in versione non competitiva, con partenza il sabato sera alle 18.

Il verde intorno è rigoglioso, ma oggi manca la luce; freddo alle mani in discesa. Da Fratta, tocca sorbirsi un tratto di falsopiano abbastanza lungo e noioso prima di raggiungere la seconda, vera salita, quella di Pieve di Rivoschio. Cadono le prime gocce: cominciamo bene... Per fortuna, Giove Pluvio non è ancora così convinto del da farsi. Lungo la seconda salita, affrontata con la stessa cautela maniacale della prima, le gocce si diradano e cessano. Ogni tanto si apre qualche raro sprazzo di azzurro, ma è un attimo. Poco male, io "studio" la strada per domani, come se ne avessi bisogno. A Pieve, brevissima sosta per riempire la borraccia; altra fredda discesa. Ed io che speravo di venir qui sulla Riviera Adriatica, o almeno nei paraggi, e sollazzarmi con un clima un po' meno odioso del prolungato freddo carmagnolese... Ho fatto male i miei conti.

Terza salita, il Ciola; quella che puntualmente, nella gara a piedi, mi infligge la crisi di sconforto. Durante la corsa, ci si arriva all'imbrunire, se si è lenti come me. Una decina di km di discesa, fino a Mercato Saraceno: il Barbotto mi attende. Ed è un guaio, perché qui, per quanto si possa scegliere un rapporto agile, non c'è santo che tenga... Le rampe cattive ci sono, tocca affrontarle. Il cartello al bivio, che descrive le caratteristiche della salita, non lascia speranze. Antopatico, il Barbotto; è vero, la salita propriamente detta è breve, solo quattro km, ma il tratto che segue, prima della discesa a Ponte Uso, è una sequenza di venti km di continue risalite, neanche poi così blande. Tocca cambiare ritmo di continuo ed io non sono certo un asso nei rilanci...

Dal bivio, una decina di km di vera discesa fino a Ponte Uso. Qui, a destra e poi ancora a destra oltre il ponte: quinto colle, Monte Tiffi, davvero brevissimo. Il sesto è il Perticara, già più lungo ed impegnativo: ricomincia a piovere. Ci ha provato un po' di volte, finora, ma questa volta sembra una cosa seria. Metti la giacca, leva la giacca... E basta!

La salita al Pugliano è la mia preferita: lunga, ma mi porta in vista della zona più bella dell'intero percorso, con la Rocca di San Leo che domina parte della salita e l'intera discesa, fin giù all'abitato di Secchiano. Ci si fa, di fatto, il giro intorno: peccato solo per il fondo stradale disastrato per buona parte della discesa. Meglio che io badi a dove metto le ruote, anche perché comincio a percepire un certo qual dolore al soprasella... Meno male che domani almeno quella parte non mi servirà!

Penultima salita, il Passo delle Siepi: poco più di un dosso, direi. Mi ha sempre dato quest'impressione, anche nella corsa. La tragedia è la discesa, però: lunga, quasi sei km, e con l'angoscia del cancello orario in fondo... Oggi però non c'è alcuna barriera. Solo quella del vento contrario nel noiosissimo tratto di falsopiano, quasi venti km, da Ponte Uso all'attacco dell'ultima salita.

Anche il Gorolo non risparmia i garretti. Salita breve, ma con le rampe più severe dell'intero percorso. Mi tocca rassegnarmi al fatto che i muscoli delle gambe restino indolenziti. La discesa successiva, anche qui, per parecchi km è un inganno: tocca risalire di continuo. Il cielo su Cesenatico è plumbeo; il blu del grattacielo si distingue appena... Ma qui non piove più. Con santa pazienza, mi sorbisco gli interminabili km di pianura finali, soprattutto gli ultimi cattivissimi cavalcavia, fino a ritrovare la Zafirona in paziente attesa. Ancora una tappa in panetteria, per procurarmi due tranci di focaccia per la cena; poi via al Campeggio Zadina, già collaudato. Non me la sono nemmeno portata, la tenda; dormo in auto... Quel che conta è avere a disposizione servizi e docce. Ah, dimenticavo, non ho male alle gambe, non ho le gambe stanche, no no. Me ne devo convincere, perché domani a mezzogiorno si ricomincia il giro... Ma stavolta di corsa a piedi.